PA - PE
PAESTUM
Nome della colonia romana sulla costa a Sud di Salerno nota e celebrata nel ‘700 per i suoi famosi templi dorici.Tracce neolitiche e dell’età del bronzo testimoniano la presenza dell’uomo nella zona sin da età antichissima, ma solo nel VI° s.a,C., la località divenne stabile residenza di una colonia commerciale greca di nome Posidonia. Occupata dai Lucani, la località divenne colonia romana nel 273 a.C., e conobbe notevole splendore. Successivamente i fiumi che avevano reso fertile la zona si impaludarono favorendo la malaria. Nell’anno 877 d.C.,fu distrutta dai Saraceni.
La città elevata su un banco roccioso che l’ha preservata dalle numerose scosse sismiche della zona, è cinta da mura d’epoche diverse in forma di pentagono irregolare. I suoi famosi tre templi dorici in pietra locale, costituiscono dei capisaldi per la conoscenza dell’architettura greca, fra la metà del VI° e la metà del V° s.a.C. Il più antico, la cosiddetta ”Basilica”, databile intorno al 550 a.C., è dorico con influenze ioniche nella decorazione e doveva essere sacro a Hera, come anche il cosiddetto “tempio di Nettuno” creduto di Posidone, dio eponimo della città che è il più tardo dei tre, del 460 a.C., circa, anch’esso dorico. Un Athénaion, (sacro ad Atena) doveva essere il “cosidetto“ tempio di Cerere del 510 c/ca, dorico, ma già più slanciato della possente basilica. Nel Foro, subito dopo la fondazione della colonia romana, fu eretto un tempio italico su un edificio precedente a gradoni, completato solo in età sillana (I s.a.C.). Non certo paragonabili a quelli architettonici sono i resti scultorei, in genere terrecotte votive. Un’importante scuola di ceramica si svolse dal VI° s.a.C., in poi. Le pitture di tombe lucane nel IV° s. a.C., con scene della vita del defunto, mostrano nella ricchezza e vivacità della policromia, collegamenti con la contemporanea arte italica, piittosto che con quella greca, la quale invece, unico esempio noto di pittura greca, di età classica è documentata nelle cinque lastre affrescate della“Tomba del Tuffatore”, la cui scoperta avvenuta nel 1968 costituisce una dei maggiori avvenimenti recenti. Intorno al tempio di Cerere, trasformato in chiesa, vi fu un piccolo abitato costruito con i resti di edifici classici.
PAFIA
Epiteto di Venere
PAFO
1.) PAFO
Re o regina di Cipro (le fonti sono incerte al riguardo); fu figlio (o figlia) di Pigmalione e di Galatea e padre (o madre) di Cinira, che in suo onore fondò l'omonima città.
Galatea fu resa viva da Afrodite per esaudire la preghiera di Pigmalione che si era innamorato della statua che aveva scolpito lui stesso. La storia è narrata da Ovidio (Le metamorfosi, X° 243) e, poi, con qualche variante dallo scrittore cristiano Arnobio (Adversus nationes, VI°, 22).
2.) PAFO
Città sulla costa occidentale dell'isola di Cipro, fondata, secondo la leggenda, da Cinira. Era sede di uno dei principali culti della dea Afrodite che era approdata su quelle rive subito dopo la nascita dai flutti marini. Per questo la dea era anche detta Pafia.
PAIONIOS
di Mende
Scultore greco della metà del V° s.a.C., uno dei pochi artisti di cui si conservi un’opera originale, la Nike (La Vittoria) di Olimpia. Si tratta della statua dei Messeni e dei Naupatti dedicata a Zeus Olympios probabilmente nel 425 a.C. La figura ci à giunta mutila, ed è stata ricostruita come una figura femminile alata nell’atto di giungere sulla terra tenendo allargato nelle braccia un ampio mantello. Il contrasto tra il pannello sottile e trasparente delle vesti aderenti al corpo e l’ombra del mantello è caratteristico del trattamento delle vesti in questo periodo. Alcuni studiosi hanno riconosciuto la mano di Paionios anche in alcune “Nikai” nella balaustra del tempio di Atena , Nike
e nel frontone occidentale del Partenone.
(Vedi NIKE)
PALE
Pale era una oscura divinità rustica della mitologia romana, protettrice degli allevatori e del bestiame. Scarne le informazione che ci sono giunte, tanto che a volte era identificato come dio maschile, altre volte quale dea e talora persino come una coppia di dèi (il latino "pales" può essere variamente interpretato, singolare o plurale). Venerata con gli epiteti di "montana", in quanto foriera di pascoli abbondanti sulle alture, e "pastoria", a causa del mestiere generalmente esercitato dai suoi devoti, insieme a Giunone stornava infezioni e assalti di animali feroci dal bestiame grosso e minuto; secondo la testimonianza di Tibullo, i fedeli collocavano sotto gli alberi la sua immagine rozzamente scolpita nel legno.
Il 21 aprile era celebrata in suo onore la festa di purificazione delle greggi, i Palilia (o Parilia): compiuto il sacrificio rituale, si accendevano mucchi di paglia o di fieno disposti in file e vi si conducevano attraverso i capi d'allevamento, seguiti dai pastori stessi, che procedevano saltando; in seguito alla cerimonia si sovrappose quella per il Natale di Roma.
Nel 267 a.C. il console Marco Atilio Regolo consacrò un tempio proprio a Pale, dea dei pastori per propiziarsi il successo sui Salentini.
- Note aggiuntive da Wikipedia
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Pale o Pales è un'antica divinità della mitologia romana, protettrice della natura, degli allevatori e del bestiame. Il culto si perde nella notte dei tempi e la divinità, un tempo femminile fu trasformata in maschile, oppure in una coppia di Dei.
Nel 267 a.c. il console Marco Atilio Regolo consacrò un tempio proprio a Pale, per assicurarsi il successo nella battaglia coi Salentini. Questo dimostra che un tempo Pales era anche Dea della guerra, Dea triplice come tutte le antiche Dee, che presiedevano alla nascita proteggendo le partorienti, donne o animali, alla crescita e quindi al nutrimento, degli uomini e degli animali, quindi dei campi e della pastorizia, e della morte e quindi della guerra. La Santissima Trinità anticamente era questa, ereditata poi dalla religione cattolica in un "mistero" che prevede un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo in cui manca totalmente il femminile.
Anche nella religione Romana la triade divenne maschile, rimaneggiata poi dal culto sabino di Numa Pompilio che ne fece un Dio e due Dee: Giove, Giunone e Minerva. Nelle religioni arcaiche la Dea, sempre Vergine, partoriva un maschio da sola, maschio che cresceva, veniva ucciso, resuscitava e si accoppiava con lei regnando unitamente alla Dea.
Si pensa che il tempio e il culto di Pales fosse localizzato sul Palatino, ma essendo stato dedicato a una vittoria sul nemico, potrebbe essere stato collocato sulla strada della trionfale processione, sul Campo Marzio o sul colle Aventino.
Qualcuno fa derivare il termine Palatino da Pales, ma non se ne hanno le prove. Si pensa anche che la parola pallido (pallidus) derivi da lei, come immagine della antica Dea Bianca, la portatrice del chiarore lunare, nel suo aspetto notturno ed infero di Dea Luna.
PALINURO
Nome del timoniere di Enea e del promontorio tra i golfi di Salerno e di Policastro dove lasciò la vita, secondo la leggenda riportata da Virgilio nell’Eneide. Nel Poema Palinuro appare subito senza colpe, o in un'alta innocenza, da Troia, durante tutta la lunghissima navigazione, sempre è stato vigilante, mai ha ceduto alla stanchezza, nè di giorno, nè di notte. In questo episodio la figura dell'umile Palinuro, diventa eroica; nella notte placida egli lotta contro una forza sovrumana, e soccombe senza colpe.
- Note - Eneide libro V:
-
"…L’umida notte aveva già corso metà del suo
itinerario celeste, ed i naviganti
distesi sotto i remi, sopra le dure panche,
già rilassavano i corpi nella placida quiete;
quando il leggero Sonno sceso dagli astri altissimi,
disperse l’ombra e mosse l’aria nera, cercando
te Palinuro incolpevole, portandoti sogni ben tristi.
Il dio sedè sulla poppa, somigliava nel volto
a Forbante, ti disse: Palinuro di Iaso,
se la flotta nel vento va avanti da sé,
e spirano brevi le brezze, è l’ora del sonno.
China la testa, ruba gli occhi stanchi al lavoro.
Prenderò un poco il tuo posto; lo veglierò per te.
E a lui levando appena gli occhi stanchi parlò
Palinuro: Mi chiedi di non badare al volto
del placido mare, e ai flutti tranquilli?
Mi chiedi di confidargli Enea? Il cielo sereno
e l’infido vento troppe volte mi hanno tradito.
Restava fermo al timone, attento al percorso degli astri,
ma il dio sulle tempie gli scuote un ramo bagnato nel Lete,
carico del sonno potente dello Stige;
a lui che invano rilutta, chiude gli occhi smarriti.
Appena il sonno improvviso gli sciolse le membra
gli fu sopra e lo buttò a capofitto nel mare
con un pezzo divelto di murata e il timone
e un grido inutile d’aiuto ai compagni
quindi volando leggero se ne tornò nell’aria. "
Note - In realtà il nome palinuro significa ”dove il vento gira” e per la facilità in cui in quel luogo avvenivano i naufragi è nato il mito della morte dell’eroe.
- Note aggiuntive da Wikipedia
- Il mito
L'episodio relativo a Palinuro viene descritto alla fine del Libro V° dell'Eneide, nel quale Virgilio individua il punto preciso della vicenda: uno scoglio, riconducibile al tratto di costa campano del Mar Tirreno, dinanzi all'omonimo capo, tra il golfo di Policastro e l'insenatura di Pisciotta, nella subregione attualmente chiamata Cilento.
Naufrago dopo aver invocato invano i propri compagni, rimane per tre giorni in balia del Noto fino all'approdo sulle spiagge d'Italia, dove troverà ad attenderlo non la salvezza ma una fine crudele: catturato dalla gente indigena, viene ucciso e il suo corpo abbandonato in mare.
Veniva così soddisfatta la richiesta di Nettuno, dio del mare, che nel momento stesso in cui accordava a Venere il proprio aiuto per condurre in salvo la flotta di Enea sulle coste campane, aveva preteso per sé in cambio una vittima:
« Unum pro multis dabitur caput.
Una sola vittima per la salvezza di molti »
(Eneide, V° 365), -
Palinuro, nel successivo Libro VI°, vagando tra le anime degli insepolti, sarà protagonista di un triste incontro con Enea, disceso nel regno di Ade in compagnia della Sibilla Cumana.
In quell'occasione supplicherà il suo condottiero di dargli sepoltura, esortandolo a cercare il suo corpo tra i flutti degli approdi velini.
« Aut tu mihi terram inice, namque potes, portusque require Velinos. »
(Eneide, VI°, 365)
Sarà la Sibilla a dovergli rivelare che il suo cadavere non verrà mai ritrovato: la sacerdotessa tuttavia mitiga l'amarezza del nocchiero predicendogli che, perseguitati da eventi prodigiosi, i suoi assassini erigeranno un cenotafio da dedicare a lui e da onorare con offerte. Quel luogo avrebbe per sempre portato il nome Palinuro.
Curiosità
Palinuro è menzionato nell'Utopia di Sir Thomas More come un esempio di viaggiatore distratto. Il riferimento non è del tutto corretto, giacché Palinuro coscienziosamente si rifiutò di lasciare il timone al dio Sonno apparsogli sotto mentite spoglie, sostenendo che, anche se il mare era calmo, non poteva rischiare di venir meno ai suoi doveri. Il dio era stato costretto a usare la magia per fare addormentare Palinuro.
Palinuro è lo pseudonimo scelto da Cyril Connolly per firmare il suo libro The Unquiet Grave: a Word Cycle (La tomba inquieta: un ciclo di parole), e usato per riferirsi a lui in modo sprezzante da Alaric Jacob in Scene da un vita borghese (Scenes from a Bourgeois Life).
Palinuro viene anche menzionato dal protagonista del racconto La Tomba (The Tomb) di Howard Phillips Lovecraft.
A Palinuro è stato dedicato uno dei crateri di Dione.
PALLADE
MINERVA
-
Altro nome della dea greca dalla fulva chioma. Atena; dèa delle arti consolatrici della vita, e maestra degli ingegni
(Vedi ATENA)
- Note aggiuntive da Wikipedia
- Pallade Atena (Pallas Athene) è un dipinto di Gustav Klimt (75 × 75 cm) realizzato nel 1898 e situato nel Wien Museum (Vienna).
L'opera venne mostrata durante la seconda Secessione viennese del 1898, dove fu fortemente criticata dal pubblico. Nonostante ciò, venne difesa ed elogiata da Ludwig Hevesi che dichiarò: « ... quanto è bella!... la striscia color oro, tagliando il pallore della carnagione è una soluzione artistica notevole... Klimt... ha creato la sua Pallas chiaramente pensando alla donna tipica della Secessione. O almeno immaginando una dea o demonessa secessionista... »
Pallade Atena raffigura il busto frontale dell'omonima divinità, qui indossante un elmo con paranaso ed un'armatura a scaglie su cui è ritratto il volto della gorgone Medusa. Il soggetto è ripreso mentre regge la lancia con la mano sinistra e una piccola Nike con la destra. I colori spaziano dall'oro dell'armatura (sfumata inoltre di viola e azzurro), ai toni scuri dello sfondo, mentre il contrasto cromatico fra il volto pallido e l'elmo, scurito da chiazze d'ombra, è molto fine. L'opera, che esprime rigidità e cupezza, sembra concentrarsi sul volto vagamente androgino della dea, reso inquietante dai suoi occhi grigi e fissi. La cornice venne realizzata, su progetto di Klimt, dal fratello Georg.
La Medusa sul pettorale di Atena e le decorazioni sullo sfondo vennero ripresi rispettivamente da una metopa e da antichi vasi greci a figure nere, mentre la sua posa è ispirata a quella del soggetto ritratto in Pallade Atena di Franz von Stuck (ca. 1898). Il modello della Nike sorretta dalla dea venne più tardi riutilizzato in altre opere del pittore, quali Nuda Veritas (1898).
2.) Pallade, nella mitologia greca, era la libica compagna di giochi di Atena, figlia di Tritone il dio fiume.
Si racconta che, ancora fanciulla, Atena uccise incidentalmente la sua amica Pallade (che considerava come una sorella), mentre era impegnata con lei in un combattimento di allenamento, armate di lancia e di scudo. In segno di lutto, Atena aggiunse il nome di Pallade al proprio.
Il racconto che invece ci tramanda lo Pseudo-Apollodoro è una tarda versione. Egli ci dice che Atena, nata da Zeus e allevata da Tritone, uccise la figlia di questi, la sua sorellastra Pallade, poiché le fu ordinato da Zeus, che durante lo scontro, intenzionalmente distrasse la ragazza.
3.) Pallade,-Astronomia; è nome di uno degli asteroidi (visibile).
PALLADIO
Il Palladio (dal greco Παλλάδιον) è un simulacro che, secondo le credenze dell'antichità, aveva il potere di difendere un'intera città.
Il più famoso era custodito nella città di Troia, a cui garantiva l'immunità: infatti, la città fu distrutta solo dopo che Ulisse riuscì a rubare il Palladio. Un altro talismano famoso, anch'esso chiamato Palladio, era custodito nell'antica città di Roma, ove giunse portato da Enea.
Il primo Palladio
Era una statua di legno (più precisamente uno xoanon), senza gambe, alta tre cubiti, che ritraeva Pallade, altro nome della dea Atena, reggente una lancia nella mano destra e una rocca e un fuso nella sinistra; il suo petto era coperto dall'egida.
Atena, uccidendo per sbaglio la compagna di giochi Pallade, come segno di lutto assunse ella stessa il nome di Pallade e fece costruire questa immagine, ponendola sull'Olimpo a fianco del trono di Zeus.
Il Palladio a Troia
Odisseo e Diomede sottraggono il Palladio. Oinochoe apula da Reggio Calabria (360-350 a.C.). Museo del Louvre
Elettra, la nonna di Ilo, il fondatore di Troia, venne violentata da Zeus, e le capitò di sporcare del sangue vaginale il simulacro della vergine Pallade. Atena, infuriata, scaraventò Elettra e il Palladio sulla Terra.
Ilo aveva chiesto un segno a Zeus, mentre marcava i confini della città, e lo ottenne. Apollo Sminteo consigliò a Ilo:
« Abbi cura della dea che cadde dal cielo e avrai così cura della tua città, poiché la forza e il potere accompagnano la dea, dovunque essa vada »
Alcuni dicono che il tempio di Atena fosse già in costruzione, quando l'immagine cadde dal cielo.
Altri dicono ancora che fu Elettra stessa a donare il Palladio a Dardano.
Si dice che, nell'occorrenza di un incendio, Ilo si tuffò tra le fiamme per recuperare il Palladio, ma Atena, infuriata che un mortale si avvicinasse incauto al suo simulacro, accecò Ilo. Questi, tuttavia, riuscì a placare la dea e riottenne la vista.
Secondo la leggenda, durante la guerra di Troia, gli achei seppero da Eleno, figlio di Priamo, che la città non sarebbe stata conquistata fin tanto che il Palladio si trovasse in città.
Ulisse e Diomede si travestirono da mendicanti ed entrarono nella città, presero l'immagine della dea e, scavalcando le mura, la portarono nel loro accampamento: questa avventura viene menzionata come una delle cause della sconfitta troiana.
Il Palladio ad Atene
Placcheta rinascimentale (dall'antico), Diomede col Palladio
Pallade Atena era anche patrona della città di Atene. Gli ateniesi raccontavano che Pallante, un eroe che volle ambire al trono di Atene, ebbe una figlia, tale Crise, che sposò Dardano, considerato il capostipite dei troiani. Ma era solo una propaganda politica: in tal modo si faceva di Troia e dello stretto dei Dardanelli proprietà achea.
Si racconta inoltre che Crise portò con sé, nel viaggio dalla Grecia a Troia, i suoi idoli e numi tutelari, tra i quali il Palladio. Ma i miti principali non fanno di Crise la sposa di Dardano.
Questo comunque descrive come le due città avessero un culto comune: ad Atene i figli di Pallante eran detti Pallantidi ed erano cinquanta, così come cinquanta erano i figli di Priamo. Ciò potrebbe significare che in entrambe le città esistevano dei collegi di cinquanta sacerdoti che officiavano il culto alla dea Atena.
Il Palladio di Roma
Colonna di Costantino I° a Costantinopoli.
Secondo la tradizione di Arctino di Mileto, citato da Dionigi, invece, Ulisse e Diomede non rubarono il vero Palladio poiché Enea portò con sé la statua in Italia [senza fonte], che venne più tardi trasferita nel tempio di Vesta nel foro romano.
La tradizione Latina voleva invece che Diomede riconsegnasse il simulacro a Enea, in Calabria (Apulia) o a Laurento (secondo Varrone e altri) .
Virgilio non si è invece mai espresso chiaramente sul Palladio, benché ne attribuisse il furto all'impius Diomede.
Su alcune monete dell'epoca di Cesare, Enea viene rappresentato con il padre Anchise sulle spalle e il Palladio nella mano destra.
Durante il regno dell'imperatore Eliogabalo (218-222), che era il gran sacerdote della divinità solare siriana El-Gabal, il Palladio venne portato coi più importanti oggetti sacri della Religione romana nel tempio di questa divinità a Roma, l'Elagabalium, in modo che solo questo dio venisse adorato.[1]
Durante il tardo impero una tradizione bizantina affermava che il Palladio venne trasferito da Roma a Costantinopoli da Costantino I e seppellito sotto la Colonna di Costantino.[2]
Altri sostengono che il Palladio sia stato distrutto dalle ultime Vestali nel 394 per evitarne la profanazione.
Palladio nelle altre città
Secondo alcune versioni della leggenda, esistevano due Palladio, uno troiano e uno ateniese, ricavato dalle ossa di Pelope. Altri dicono vi fossero tanti palladi: una volta capite le potenzialità dell'amuleto, è molto probabile che questo oggetto (o questi oggetti) venisse rubato e mutilato.
Oppure erano dei palta, ossia "cosa caduta dal cielo". Infatti i palta dovevano essere sempre esposti alla volta celeste: così la sacra pietra di termine a Roma stava sotto un'apertura del tetto nel tempio di Giove, e un'identica apertura era stata praticata nel tempio di Zeus a Troia.
Comunque, per estensione con il termine Palladio si iniziò a indicare statue o altri oggetti o edifici, la cui presenza faceva da "amuleto" nella protezione della città.
Uno dei palladi più famosi, oltre quello romano, era quello di Napoli, che nel medioevo si credeva costruito da Virgilio-mago e nascosto sottoterra. Esso era una riproduzione in miniatura della città contenuta in una bottiglia vitrea dal collo finissimo, che la protesse da sciagure e invasioni, finché non fu trovato e distrutto da Corrado di Querfurt, cancelliere dell'imperatore Arrigo VI e mandato a conquistare il Regno delle Due Sicilie.
Un altro "palladio" conosciuto è la Statua di Marte di Firenze, presunta vestigia della Florentia romana citata da Dante Alighieri, che venne travolta da un'inondazione dell'Arno nel 1333; da alcuni ciò fu interpretato come un oscuro presagio della peste nera (1348).
Nella Divina Commedia
Il palladio di Troia è inoltre citato da Dante Alighieri nella Divina Commedia, nel XXVI° canto dell'Inferno, a proposito di Diomede, che sconta la sua pena insieme ad Ulisse nell'ottava bolgia, in cui sono i consiglieri fraudolenti
PALLANTE
1.) PALLANTE
Figlio di Crio e di Euribia, titano, fratello di Astreo e di Perseo. Da lui e da Stige nacquero Zelo, Nike, Cratos e Bia.
2.) PALLANTE
Figlio di Pandione, fratello di Egeo, padre di cinquanta figli, i Pallantidi, e di una figlia, Aricia, che sposò Ippolito.
3.) PALLANTE
Figlio di Evandro, aiutò Enea nella guerra contro le popolazioni italiche, e morì in duello ucciso da Turno. Enea lo vendicò sgozzando sul suo rogo funebre otto giovani prigionieri italici e uccidendo Turno nel duello finale.
4.) PALLANTE
Gigante alato dall'aspetto di un caprone, figlio di Gea e del Tartaro; secondo la tradizione venne ucciso da Atena che si prese sia la sua pelle che il suo nome.
5.) PALLANTE
Re d'Arcadia, figlio di Licaone e antenato di Evandro, che, secondo la tradizione, sarebbe stato figlio di Egeo e sarebbe emigrato in Arcadia dopo essere stato cacciato da Atene dal fratello. In Arcadia avrebbe fondato la città di Pallanteo, da dove si sarebbe mosso Evandro per la colonizzazione del Lazio.
(da: ilcrepuscolo.altervista.org)
PAMFILIA
La Panfilia era una piccola regione storico-geografica costiera dell'Asia Minore, confinante a ovest con la Licia e a nord-nord est con la Galazia e bagnata dal Mediterraneo orientale. Le coste panfilie erano prospicienti all'isola di Cipro.
(da: ilcrepuscolo.altervista.org)
PAMFILO
Secondo Igino era uno degli Egiziadi, uccisi dalle mogli e cugine Danaidi su ordine di Danao. Sua sposa era Demofile.
(da: ilcrepuscolo.altervista.org)
PAMFO
Vedi dalle Grazie la parte finale delle note.
PANAINOS
Nome di un pittore e forse due del V s.a.C., messo in relazione dagli autori antichi con Fidia. Riconoscendo in lui il fratello di Fidia gli si attribuiscono le pitture della Stoà Poikile in Atene che celebravano la vittoria di Milziade e avrebbe anche collaborato alla fidiaca statua crisoelefantina di Zeus in Olimpia, decorando il ricco vestito e le traverse poste tra le gambe del trono per impedire la circolazione dei visitatori. Degli altri quadri di Panainos ad Olimpia, di cui Strabone dice che erano numerosi e meravigliosi, non sappiamo nulla, come d’altra parte è perduta tutta la sua pittura.
PAN
o PANE
Nella mitologia greca, figlio di Ermete e della ninfa Driope, dio delle montagne, degli armenti, dei boschi e dei pastori, era raffigurato con corna, barba e piedi caprini, in atto di suonare la zampogna, di cui era considerato l’inventore. Gli era sacra soprattutto l’ora infocata del mezzogiorno, durante la quale egli atterriva i pastori con la sua voce (timore panico). Poichè in greco il suo nome vuol dir “tutto”, se ne fece più tardi un dio dell’universo. Il suo culto ebbe origine in Arcadia, ed il suo campo d’azione il mondo selvaggio dei pastori ed era affine a quello di Ermete, di cui era detto figlio. Più dèmone che dio, aveva una figura animalesca (cornuto e con i piedi caprini iconografia che passerà al cristianesimo per rappresentare il diavolo) e, per attributi il flauto, e il bastone dei pastori, nonché un ramo e una corona di pino. Lo si riteneva pericoloso, specie nelle ore meridiane, e a lui si faceva risalire quello stato di terrore paralizzante che dal suo nome fu detto appunto, ”panico”. I romani lo identificarono con il loro dio Fauno
.
(Vedi FAUNO)
PANDIONE
- Pandione I
- Pandione II
Pandione o Pandione I (per distinguerlo dal nipote di Filomela, Pandione II; in greco antico: Πανδίων, Pandíon) è una figura della mitologia greca, re di Atene figlio di Erittonio e di Prassitea. Combatté contro Tebe.
Dal matrimonio con Zeusippe, sorella di Prassitea, ebbe quattro figli: Procne, Filomela, Bute ed Eretteo.
Morì di dolore per le disgrazie delle sue figlie, le quali, come racconta Ovidio nelle Metamorfosi, vennero trasformate dagli dei in usignolo Filomela, in rondine Procne che aveva ucciso il figlio Iti avuto da Tereo e in upupa quest'ultimo che aveva abusato di Filomela.
A Pandione venne dedicato un recinto sacro sull'Acropoli di Atene, il santuario di Pandion.
fu un re mitologico di Atene, figlio di Cecrope II, sposò Pylia figlia del re di Megara, ebbe almeno quattro figli tra cui Egeo il suo erede al trono che fu il padre di Teseo. Alcuni studiosi ritengono che Pandione II più di altri re mitologici fu una figura inventata allo scopo di colmare un'importante lacuna cronologica.
PANDORA
La prima donna mortale, secondo la mitologia greca, dotata di ogni pregio. Ebbe dagli dèi ogni specie di doni e da Giove un vaso chiuso (vaso di Pandora). Apertolo per curiosità, ne uscirono tutti i mali, che da allora infestano la terra. Rimase nel vaso la sola speranza che era al fondo. Rifiutata come moglie dal saggio Prometeo, si sposò con Epimeteo.
Secondo altra versione: donna che Efesto (Vulcano) avrebbe creato per volere di Zeus. Andata sposa ad Esimete fratello di Prometeo, aprì il vaso per curiosità e i mali si sparsero sulla terra. I mortali divennero così perversi che Giove si decise a sterminarli con il diluvio.
Altra versione ancora narra che quale prima donna mortale, fu plasmata da Efesto (come raccontato da Esiodo), su ordine di Zeus, che voleva con lei punire l’umanità, dopo che Prometeo gli aveva sottratto il fuoco, per darlo agli uomini. Venne data in sposa ad Epimeteo, fratello di Prometeo. Ogni dio fece un dono a Pandora, donde il suo nome, che significa ”tutti–doni”. Fu provvista di un vaso contenente tutti i mali, o, secon do altra versione, tutti i beni. Per sconsiderata curiosità, aprì il vaso e tutti i mali si diffusero tra gli uomini, o, secondo l’altra versione, tutti i beni fuggirono via, perduti per sempre.
PANEZIO
Filosofo greco (Rodi 185 – Atene circa 110 a.C). Fu scolaro ad Atene degli stoici, Diogene di Babilonia, e Antipatro di Tarso ed in seguito si trasferì a Roma, ove fu accolto nella cerchia di Scipione Emiliano e di Lelio di cui faceva già parte Polibio, il grande storico. Panezio è tradizionalmente considerato il fondatore dello “stoicismo di mezzo” e il suo pensiero è caratteristico per la ripresa dei motivi platonici e aristotelici, di cui si cerca la conciliazione con le dottrine stoiche, mitigate nel loro rigorismo. Con l’esaltazione e la giustificazione provvidenziale del dominio di Roma, divenne l’ideologo del circolo dei Scipioni.
PANTHEON
Il Pantheon (dal greco: παν, pan, "tutti" e θεων, theon, "dèi") indica sia un edificio di culto, come un tempio, dedicato letteralmente "a tutte le divinità", sia l'insieme degli dèi di una specifica religione politeista.
Termine derivato da una parola greca significante “tutti gli dèi“, che indicò nella Roma augustea il noto tempio dedicato a tutte le divinità. Il termine è passato nell’uso tecnico a designare il complesso degli dèi di una religione politeistica messi l’uno con l’altro in una relazione funzionale e gerarchica. Le varie divinità, aventi ciascuna un proprio campo d’azione, debbono agire armonicamente così come armonica si presenta la realtà religiosamente organizzata; il pantheon realizza questa armonia presentandosi come un consesso i cui membri si mòderano a vicenda e nell’insieme sono moderati da un dio sovrano che si erge a guida e a giudice delle loro contese. Il pantheon, come società divina si articola al modo di una società umana, mentre nella coscienza religiosa appare il modello a cui la società umana deve adeguarsi.
(da wikipedia)
PARCHE
Nome latino con cui furono chiamate le Moire greche, le tre dèe preposte ai destini degli uomini. Sia il termine greco che il latino indicano sostanzialmente “la parte” assegnata a ciascuno, nella sua vita mortale. Erano tre: Cloto (filatrice); Lachesi (distributrice); Atropo (recideva; colei che non si può stornare), ed erano figlie di Zeus e della Notte o, secondo altra versione, di Zeus e Themis (giusto ordine). Altra versione le vuole figlie del Caos, e, quali divinità infernali si rappresentavano zoppe, vecchie e laide, presiedenti al destino degli uomini. Erano quindi preposte alla nascita, alla vita, e alla morte del genere umano. In Roma erano anche chiamate: Moira, Nona, Decima. Una nota immagine mitica le raffigura nell’atto di filare, di reggere e di troncare simbolicamente il filo della vita umana. Il mondo latino non tributava loro nessun culto particolare.
PARIDE
Figlio di Priamo, re di Troia. Esposto dai genitori sul monte Ida, perché una profezia lo indicava come causa della rovina di Troia, venne raccolto ed allevato da pastori. Giovinetto, mentre era intento a pascolare le pecore, venne scelto come arbitro delle dèe, Era, Atena e Afrodite, a giudicare quale delle tre fosse la più bella. Quale premio, gli promisero in cambio la donna più bella del mondo. Riconosciuto da Priamo e reintegrato nel suo regno, rapì Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, considerata la donna più bella del mondo,e la portò a Troia, realizzando così la promessa di Afrodite. I Greci per vendicare Menelao, distrussero Troia realizzando la funesta profezia che incombeva su Priamo. Prima di questo tragico esito, Paride ebbe modo di uccidere Achille, campione degli eroi Greci.
PARO
Isola delle Cicladi, arida col miglior porto dell’arcipelago, celebre che in essa ebbe i natali il grande Milziade, e nel marmo bianchissimo che possiede, che un tempo sotto lo scalpello di Fidia, di Prassitele, prendeva divine forme trasformandosi in statue meravigliose; alcune delle quali fanno il più bell’ornamento dei nostri musei ed attestano la meravigliosa perfezione dell’arte greca antica.
PARMENIDE
Filosofo greco nato ad Elea in Lucania. Il cronografo Apollonio pone la sua “acmè” (il quarantesimo anno) nel 504–500 a.C., ma su ciò sono stati sollevati dubbi. Quasi nulla sappiamo della sua vita; forse fu legislatore della sua città. La tradizione lo vuole discepolo di Senofane di Colofonie, ma la critica moderna non ne ha prestato molta fede, arrivando anzi talvolta a rovesciare questo rapporto di scuola. In complesso la critica moderna ha posto le basi per un’adeguata comprensione, quando ne ha ricostruito la genesi in quell’arcaica mentalità (di cui è partecipe anche Eraclito, il filosofo del “divenire” che la tradizione costantemente oppone a Parmenide il filosofo “dell’essere” ), la quale ignorando ancora ogni distinzione metafisica logica e di linguaggio è spontaneamente orientata verso un’immediata corrispondenza tra questi tre piani cioè; l’oggetto, il pensiero che lo conosce e il linguaggio che lo esprime. Si comprende quindi come la filosofia di Parmenide parte dalla polemica del modo di pensare di quelli uomini “dalla doppia testa” per i quali ”essere” e “non essere” è la stessa cosa (l’allusione ad Erodoto è trasparente); il mondo, quale ci appare, è infatti composto da una molteplicità di cose, ciascuna delle quali ”è” se stessa, e nello stesso tempo “non è”. Tale contraddizione, evidente sul piano linguistico, vale immediatamente per Parmenide anche sul piano logico - ontologico; la molteplicità delle cose visibili,non è reale (appunto perché mescolanza di “essere” e “non essere”, ma solo parvenza e opinione. E poiché è impossibile sia dire che pensare contemporaneamente, l’ “essere”e il “non essere”non resta che una sola “via di ricerca”, quella che dice soltanto “è”. Verace e reale è soltanto quella realtà che può essere espressa solamente dalla parola “è”, senza alcuna predicazione, giacchè ogni predicato determinando in un certo modo quella realtà, e contemporaneamente escludendo ogni altra determinazione, introdurrebbe la contraddizione di “essere” e “non essere”. Questo è il senso della formula che tradizionalmente viene attribuita a Parmenide, per cui :“l’esse re", è, il "non essere", "non e”(che altrimenti si ridurrebbe ad una vuota tautologia). Il mondo delle molteplici cose visibili, (da cui tuttavia Parmenide non riesce mai a distogliere lo sguardo e l’interesse, come mostra quando sappiano delle sue indagini biogenetiche), veniva così condannato, come mondo dell’opinione, di fronte al mondo della verttà esaurito di quell’unico ”è” che "non è" visibile, ma in cui si manifesta tutta la sua potenza la logica della parola, in quanto simbolo dell’istanza logico - linguistica. Nasce di qui un dualismo, tra logica della visione e logica della parola, che avrà una storia millenaria e che fa di Parmenide “venerato e terribile” (come lo chiama Platone), il padre della metafisica classica. Da questo principio discendono poi tutti gli altri aspetti del pensiero parmenideo; alcuni rigorosamente dedotti,( come p.es. la caratteristica esclusione del passato e del futuro dalla vera realtà, essendo entrambi negazione di quel presente che è espresso dall’ “è”), mentre altri, avviando la progressiva entificazione e oggettivazione dell’ “è” logico - linguistico e riconducendolo, per certi aspetti, nell’ambito della logica della visione, aprono la via alla riflessione dei due discepoli di Parmenide; Zanone e Melisso.
PARNASO
o PARNASSO
Massiccio montuoso (2473 mt) della Grecia centrale, tra la Focide e la Beozia. Luogo di antica sacralità; era considerato il centro o l’ombelico della Terra, noto per un culto Dionisiaco e per dimora delle Muse.
PARO
Isola delle Cicladi meridionali divisa dall’isola di Nasso da un canale di circa 5 km di larghezza. Abitata sin dal periodo preistorico, conobbe una notevole civiltà che si riconnette al tipo della cultura cicladica. Dopo un periodo di decadenza durato dal XVII° al XIV° s.a.C., riacquistò grande importanza divenendo famosa soprattutto per la ricchezza di marmo, esportato in tutto il mondo greco. Ebbe una fiorente scuola di scultura, che alla metà del VI s.a.C., raggiunse il massimo splendore con la produzione di numerose statue di ”kouròi”(giovani uomini) e “kòrai” (giovani donne), affini per lo stile alle sculture dell’Asia Minore. Anche nel secolo successivo la scuola fu fiorente ed è attribuita ad essa la paternità della Nike (vittoria) di Paro, oggi conservata nel Museo locale insieme ad altre sculture e ad alcune iscrizioni in cui è menzionato il poeta nativo, Archilao.
PARRASIO
Pittore greco attivo fra il 440 e il 380 a,C., nativo probabilmente di Efeso, ma cittadino di Atene dove visse a lungo.Tra le sue opere più famose i disegni per lo scudo di Atena Pròmachos di Fidia, eseguiti su metallo dal toreuta Mys. la rappresentazione del multiforme Demos (popolo) di Atene, un autoritratto nelle vesti di Hermes firmato con uno pseudonimo per sfuggire all’accusa di empietà e varie scene da collegarsi al ciclo omerico ed altri quadri di genere. In gara con Zeusi, dipinse una tenda che l’altro pittore tentò di sollevare; testimonianza della sua abilità tecnica. Da quello che ci dice Plinio, sulla linea di contorno delle figure, ove faceva immaginare uno sfondo, possiamo dedurre che si occupò del volune e del rilievo, problemi che per la scultura si porrò Skopas. Un’ eco prezioso della sua pittura, completamente perduta è nelle “lekitos” (vasi funerari) e del pittore di Achille, del pittore del Tumolo e di quello del Lamento.
PARTENOPE
La sirena Parthenope
Le poche notizie che ci sono giunte al riguardo concernono soltanto una corsa con le fiaccole che ogni anno si compiva in suo onore (le cosiddette Lampadedromie); tuttavia il nome di quella che pare fosse la più bella sirena del golfo, sepolta secondo la leggenda sempre nelle vicinanze di Napoli, rimane oggi utilizzato per definire la regione napoletana. Pare che la sirena in questione sia morta nel luogo in cui oggi sorge Castel dell'Ovo e proprio lì sia stata sepolta una dei patroni di Napoli, santa Patrizia.
Molte sono le leggende che la riguardano: secondo alcune, morì dopo un rifiuto da parte di Ulisse; altre raccontano, invece, che Parthenope ebbe una storia con un uomo greco e con questi fuggì su un'isola del tutto sconosciuta. Secondo un'altra leggenda, invece, gli Argonauti passarono per l'isola dove viveva la sirena e Orfeo, che anche prese parte alla spedizione, suonò la cetra; Parthenope morirà quindi suicida, affogandosi in mare.
Da fonti leggendarie e definibili antropologiche, sembra che proprio da queste due figure nasca la città di Napoli.
A Napoli la sirena Parthenope era venerata come dea protettrice; per esempio, Virgilio utilizzerà il suo nome in senso poetico.[3] Anche Napoleone utilizzerà questo toponimo quando fondò la Repubblica Parthenopea, altrimenti detta Repubblica Napoletana del 1799 (del resto, ancora oggi in tedesco si ricorda questa repubblica come Parthenopäische Republik).
- Una buona descrizione di Parthenope è offerta da Matilde Serao:
- « Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene (…) quando vediamo comparire un'ombra bianca allacciata ad un'altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull'arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d'amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale …è l'amore. »
PARTENOPEO
Partenopeo (in greco classico: Παρθενοπαίος) è un personaggio della mitologia greca. Figlio di Melanione e di Atalanta, o secondo altri di Meleagro e della stessa Atalanta, deve il suo nome al lungo periodo di verginità osservato dalla madre (parthenos significa vergine in greco).
Il mito
Partenopeo partecipò, come eroe più giovane, alla spedizione dei Sette contro Tebe organizzata da Adrasto. Artemide, divinità cui il giovane era particolarmente attaccato, gli donò delle frecce infallibili e lo unse di ambrosia per preservarlo in vita il più a lungo possibile. Afrodite, protettrice dei Tebani, si infuriò per la strage compiuta da Partenopeo e pregò Ares di allontanare Artemide, che lo proteggeva, dal campo. Artemide, consapevole di quanto sarebbe avvenuto, assunse l'aspetto di Dorceo, vecchio guerriero molto caro a Partenopeo, e cercò di convincerlo a tornare a casa. Anche Anfione, che pur combatteva nel campo nemico, lo esortò ad abbandonare la battaglia, ma fu tutto inutile. Il giovane eroe fu ucciso da Dioreo (secondo alcune versioni l'assassino sarebbe stato Periclimeno). La sua morte venne vendicata dal figlio Promaco (uno degli Epigoni), avuto dalle nozze con la ninfa Climene.
Enea, sceso vivo nell'Ade con l'aiuto della Sibilla, vide Partenopeo insieme a molti altri nella zona riservata agli eroi.
PASIFAE
Moglie del mitico re cretese Minosse. Il mito più diffuso narra della sua innaturale passione amorosa per un toro inviato da Posidone (forse il dio stesso in forma di toro), al quale si unì, ponendosi in una finta vacca, costruita da Dedalo. Dall’unione nacque il Minotauro, uomo mostruoso dalla testa taurina
(Vedi MINOTAURO).
PATRASSO
(Patre - Pàtrai)
Città della Grecia meridionale, capoluogo della provincia di Acaia che si estende a comprendere tutta l’intero settore settentrionale del Peloponneso. Situata sul golfo omonimo del Mar Ionio, a 189 km. a Ovest di Atene, è una delle città più popolose della Grecia e uno dei centri economici più attivi. Di origini antichissime, fiorì come centro commerciale nei secoli anteriori alla nascita di Cristo e ancor più in epoca romana quando Augusto vi fondò la colonia militare “Aroe Patrensis”. Fu uno dei primi centri di diffusione del cristianesimo, e vi avrebbe trovato il martirio e la morte l’Apostolo S.Andrea. Del suo passato conserva ben poco; i resti del Odeon (considerato da Pausania uno dei più belli della Grecia), l’acquedotto romano e il Kastro, una cittadella veneziana e turca posta ove sorgeva l’Acropoli.
PATROCLO
Eroe Omerico, compagno di Achille nella guerra di Troia. Quando questi, irato con Agamennone, si apparta dal combattimento, anche Patroclo si ritira dalla lotta; torna poi a combattere rivestito delle armi di Achille, per respingere l’assalto di Ettore, che l’uccide. Achille vendica la morte dell’amico Patroclo, uccidendo a sua volta -l’eroe Troiano.
PAUSANIA
1.) PAUSANIA
Nome di due sovrani di Sparta, della famiglia reale degli Agiadi. Il primo, figlio di Cleombroto, non fu re, ma reggente,in qualità di tutore di Plistarco, il giovanissimo figlio di Leonida. Nel 479 a.C., comandò l’esercito greco nella vittoriosa battaglia di Platea contro i Persiani, e due anni più tardi al comando della flotta confederata ellenica, occupò parte di Cipro e conquistò Bisanzio. Richiamato in patria per essersi messo in relazione con Serse, re dei Persiani (col segreto proposito di conquistarsi un regno suo proprio) e processato, venne assolto. Processato e assolto una seconda volta per lo stesso motivo, rinnovò i suoi legami con la Persia, e nel 468 a.C., fu murato vivo nel tempio di Atena, ove si era rifugiato per sfuggire l’ordine d’arresto.
2.) PAUSANIA
figlio di Plistoanatte, nato forse nel 445 a.C., fu re nominale dal 444 sotto la tutela dello zio Cleomene. e re effettivo dal 409. Inviato in Attica per sostenere i Trenta Tiranni minacciati da Trasibulo, in assenza di Lisandro, consentì e forse favorì segretamente il successo del primo e la restaurazione della democrazia ad Atene, per cui venne processato e poi assolto con parità di voti. Ancora nel 395 durante la guerra contro Tebe, suscitò il malcontento degli Spartani per non aver soccorso tempestivamente Lisandro, che cadde nella battaglia di Aliarto, in cui per la prima volta l’esercito spartano veniva sconfitto. Accusatro e processato una seconda volta, andò in esilio a Tegea, dove visse fino al 389 circa.
3.) PAUSANIA
Scrittore greco del II° s.d.C. Autore di una descrizione o “Periegesi della Grecia“ in 10 libri, attingendo notizie da varie narrazioni e testi letterari, immagina di percorrere dal Pireo un viaggio a varie tappe, di cui Atene, Olimpia e Delfi sono le più importanti. Mediocre giudice delle opere artistiche,e mediocre scrittore, resta però un’insostituibile fonte d’informazioni.
PAVESE
Il palvese, o più raramente pavese, era il nome con cui è chiamata un'arma difensiva che rassomigliava a un grande scudo rettangolare, e che per il suo peso, era portato da un soldato, chiamato palvesaro o pavesaro. Questi quasi sempre accompagnava i balestrieri e poneva nel combattimento il palvese con il lato inferiore a terra innanzi a essi, facendo in modo che l'intero corpo rimanesse riparato contro il nemico. Adempivano allo stesso compito del mantelletto.
Il suo nome deriva dalla città di Pavia, ove sarebbe stato inventato, o, più precisamente, ne sarebbe stato ripristinato l'uso, poiché questa arma difensiva è antichissima, con alcune rappresentazioni visibili già nei monumenti egiziani.
Nel Medio Evo erano elencati con le munizioni di guerra tenute dai municipii e si chiamavano anche tavolacci e targoni.
In origine i palvesi erano di legno, molto pesanti, con copertura esterna di tela, gesso, e anche in metallo mentre internamente erano foderati di pelle. Qualche volta avevano una feritoia, oppure erano accoppiati a cerniera.
Generalmente erano alti poco più di un metro e larghi la metà e pesavano intorno ai dieci chilogrammi.
Spesso sui pavesi era raffigurato l'emblema della città di appartenenza o il santo protettore.
Il pavese fu utilizzato nelle tecniche di guerra nel medioevo, in particolare da arcieri e balestrieri durante gli assedi. Tale tipo di difesa era particolarmente utile quando l'arciere o balestriere ricaricava l'arma, situazione che lo rendeva più esposto agli attacchi degli assediati: il pavese offriva, in questo momento, una copertura quasi completa del corpo.
Tale scudo fu utilizzato fino al XV°-XVI° secolo.
Scudo. (Iliade)
PEANA
Componimento lirico della letteratura greca, derivato da un originario canto ad Apollo Paieon (guaritore). Il peana venne poi usato non solo come inno di ringraziamento dalle malattie, ma anche per sottolineare l’esito vittorioso di una guerra, secondo un’ideologia che assimilava la lotta contro il male, al combattimento. Veniva eseguito da un coro di uomini accompagnato dalla lira sacra ad Apollo.
Veniva intonato dagli spartani quando muovevano all'attacco del nemico: il ritmo del canto aveva lo scopo di mantenere l'ordine della formazione e di infondere terrore nell'avversario, che sentiva il loro avvicinarsi dal canto che si faceva via via più forte. Con il tempo si estese ad altre divinità, tra cui Artemide.
Il termine deriva dal latino paeāna, che a sua volta viene dal greco paián–anôs, che significa "colui che guarisce", epiteto di Apollo.
PEGASO
Cavallo alato, nato dal sangue della Medusa, quando Pèrseo le mozzò la testa. Donato a Bellerofonte che con Esso, compì le sue mitiche gesta. Da un suo calcio, sgorgò la fonte sull’Elicona, detta appunto Ippocrene (del cavallo). Secondo la mitologia greca, era figlio di Medusa, la Gorgone, famosa in gioventù per la bellezza, per i lunghi capelli fluenti e per i molti pretendenti, tra i quali Posidone (dio del mare e dei cavalli). I due, si amarono nel tempio di Atena, che,per l’oltraggio subito la trasformò in un mostro; i suoi lunghi capelli divennero serpenti e lo sguardo pietrificante. Secondo un’altra versione, quando Perseo, dotato di specchio magico, riuscì a decapitare la Medusa, dalla testa balzarono fuori due gemelli; uno equino e l’altro umano: Pegaso e Crisaore, che, secondo alcune versioni, altri non sarebbe che Bellerofonte. La Medusa quindi avrebbe dato alla luce due figli di Posidone, uno mortale, Bellerofonte e l’altro Pegaso immortale, questi, sensibile alla musica e al canto, con un colpo di zoccolo fece scaturire, sul monte Elicona, la fonte Ippocrene le cui acque donavano l’estro della poesia. Grazie alla dea Atena, il cavallo alato venne provvisto di un morso d’oro e cavalcato da Bellerofonte che in suo onore inscenò con Pegaso una danza di guerra. Egli (Bellerofonte) decide di volare sull’Olimpo per interrogare gli dei, ma Pegaso lo disarciona in maniera rovinosa, continuando da solo la sua alata ascesa all’Olimpo, ove venne accolto nelle scuderie celesti. Da quel giorno porta in sella Eos (l’Aurora) che precede il carro del Sole e nei momenti di libertà reca a Zeus il fulmine di guerra.
(Vedi PERSEO)
PELAGO
o Pelasgo
Re d’Argo
(Vedi ESCHILO)
Pelasgo, capostipite dei Pelasgi, è figlio di Zeus e Niobe e padre di Licaone o figlio di Poseidone e di Larissa e padre di Emone.
Fu re di Argo al tempo in cui vi giunse Danao con le sue figlie.
Proprio in relazione a questo episodio, Pelasgo è protagonista di una tragedia di Eschilo, Le Supplici, che erano, appunto, le cinquanta figlie di Danao che, per evitare di andare in spose ai figli del re d'Egitto, chiedono al re di Argo asilo e protezione.
Pelasgo appare nella tragedia combattuto tra la decisione di difendere le giovani costringendo la sua città ad una guerra con gli Egizi, oppure ignorare le loro suppliche e rendersi colpevole di matrimoni incestuosi, sottoponendosi alla vendetta di Zeus. Decide di rimettere la questione alla decisione del popolo, che sceglie di accogliere le giovani.
Insegnò agli uomini a fabbricare capanne, a nutrirsi di ghiande e a coprirsi con pelli di suino.
È denominato anche Gelanore
PELIDE
Discendenti di Peleo, padre di Achille e Pirro, detti fatali perchè riserbati dal fato all' ultima rovina della città di Troia.
PELEO
Padre di Achille e fratello di Telamonio (padre di Aiace)
PELIA
Figlio di Posidone, avendo usurpato al fratellastro Egone il regno di Iolco, ordinò al nipote Giasone di andare alla conquista del Vello d’oro; è ucciso dalle figlie (Peliadi), a ciò spinte dalle arti di Medea.
PELIO
Monte della Grecia (1618 m.) in Tessaglia a Sud est dell’Olimpo, e del l’Ossa. Secondo la mitologia i Giganti cercarono di scalare il cielo sovrapponendo il Pèlio all’Ossa. Era abitato dai centauri e dette il legname per la costruzione della nave e sulla sua vetta si venerava Seuca Acteo.
PELLA
Re della Tessaglia, regione storica della Grecia centro-orientale, fra il Pindo a Ovest; l’Olimpo a Nord, l’Ossa e il Pelio ad est; in gran parte piana e dal clima continentale. Note - Antica città della Macedonia, già capitale del Regno macedonee, città natale di Alessandro Magno. Anticamente collegata al mare, distante allora circa 20 km., attraverso il fiume Ludio e il lago omonimo. Raggiunse una discreta importanza, ma dopo la conquista romana del 168 a.c., la città decadde, sebbene il suo ricordo si conservasse sino al X° s.d.C. Mentre non sono stati ancora messi in luce edifici pubblici o sacri importanti, al centro della città si sono trovate splendide case a due piani, con interessantissimi mosaici, in ciottoli naturali, nei quali il contorno delle figure è indicato da una striscia di terracotta o piombo, databile alla fine del IV° s.a.C.
PELOPE
Figlio di Tantalo e di Clizia; re di Frigia e padre di Niobe (moglie di Angione). Eroe (eponimo) del Peloponneso. Il padre offrì agli dèi in banchetto Pelope bambino fatto a pezzi, ma gli dèi lo ricomposero, tranne una spalla mangiata da Demetra; sostituita con una d’avorio, ridandogli la vita. Per sposare Ippodamia, dovette vincere in una gara di cavalli il dio padre Enomao. Ma Pelope gli sabotò il carro, di modo che l’asse si ruppe durante la gara ed egli perì nella caduta. Secondo alcuni mitografi le Olimpiadi sarebbero state istituite in onore di Pelope ed è anche creduto capostipite dei Pelosi (Pelopesi), che diedero nome al Peloponneso (già Morea), dalla cui stirpe nacquero Menelao e Agamennone. Altra versione del suo mito vuole che il padre Tantalo lo desse in pasto agli dèi, ma il dio Ermete lo richiamò in vita. Con l’aiuto di Mirtilo, auriga di Enomao, vince questi nella gara del cocchio e ne ottiene in moglie la figlia Ippodomia; quando Mirtilo, gli insidia la moglie, Pèlope lo uccide, ma prima è da lui maledetto. Da ciò, le sventure che colpiscono i suoi figli Atreo e Tieste. e gli altri Pelopidi; Agamennone e Menelao, figli di Atreo, ed Egisto figlio di Tieste.
STORIA
- Frigi, è antica popolazione, probabilmente di origine europea, proveniente dalla Macedonia o dalla Tracia. Nella seconda metà del secondo millennio a.C., giunsero nell’Asia Minore, sovrapponendosi agli Ittiti, e costituendo un regno indipendente, che da loro prese il nome di Frigia. Benchè il regno avesse all’inizio una notevole estensione, andando dal fiume Halys all’Egeo, non as sunse mai un ruolo di reale importanza nel quadro politico del Mediterraneo orientale, pur tenendosi in stretto contatto con le poleis greche, e con i mesapotamici regni. La capitale del regno era Gordio, sulla riva destra del fiume Angario e i re, prendevano alternativamente il nome della città e quello di Mida. Nel corso dei secoli l’estensione del regno venne in varie riprese riducendosi al territorio corrispondente approssimativamente all’attuale Frigia, fino a perdere qualsiasi contatto con il mare. All’inizio del VII° s.a.C, fu travolta da un’invasione di Cimmeri, che posero termine alla sua indipendenza. In seguito, fino alla metà del VI° s.a.C, fu dominata dai Lidi, e nel 546 a.C,, soggetta all’impero persiano, finchè nel 333 a.C., fu conquistata da Alessandro Magno. I Frigi ricordati nei poemi omerici per l’attività agricola e per l’allevamtento del bestiame, erano particolarmente famosi per la produzione delle lane, e per l’assiduo sfruttamento delle miniere d’oro; ciò che diede origine probabilmente alla leggenda sulla favolosa ricchezza del loro re Mida. Poco si sa, almeno sino al VI s.a.C.,della loro civiltà. L’arte frigia, di cui restano scarse testimonianze in alcuni monumenti sepolcrali, sembra tipicamente ittita in origine, quindi profondamente influenzata dall’arte cretese, e infine da quella greca. La religione pare, fosse sostanzialmente quella naturalistica; le deità più venerate furono Cibele e Attis, i cui culti orgiastici si diffusero poi ampiamente in Grecia e a Roma.
PELOPIDA
Uomo politico e generale tebano (420 circa – 364 a.C.). Ostile all’egemonia spartana fuggi in Atene, quando gli Spartani instaurarono il governo oligarchico di Leonziade, divenendo in breve il capo dei fuoriusciti tebani. Nel 379 riuscì con abile e audace mossa ad abbattere il regime aristocratico e a cacciare gli Spartani, quindi assieme ad Epaminonda riorganizzò l’esercito tebano,battè gli Spartani a Leuttra nel 371 e inpose la supremazia beotica su tutta la Grecia. Dopo aver combatturo nell’Arcadia, nella Messenia, nella Tessaglia e nella Macedonia, ed aver assoggettato quest’ultima alla supremazia tebana fu nel 368 catturato a tradimento da Alessandro di Fere. Liberato l’anno successivo grazie agli sforzi di Epaminonda, fu inviato alla corte del re persiano Artaserse II°, che lo accolse con grandi onori, e rinnovò il contratto di amicizia con Tebe contro gli Ateniesi e gli Spartani.Tornato in patria cadde a Cinocefale nel 364 combattendo contro Alessandro di Fere. Lasua morte provocò a Tebe una perdita molto più consistente del successo conseguito da Pelopida nel suo ultimo combattimento.
PELOPONNESO
(in passato anche Morea)
Regione peninsulare della Grecia meridionale, divisa nelle provincie di Argolide, Corinzia, Arcadia, Elide, Laconia, Messenia, corrispondenti nelle loro grandi linee alle omonime regioni storiche. Con una superfice di circa 21500 kmq, è collegata con la parte continentale mediante l’istmo di Corinto, tagliato dal canale omonimo, e si spinge nel Mediterraneo, separando il Mar Egeo dal Mar Ionio. Ha forma tozza ma ravvivata da alcune penisole minori montuose, terminanti nei capi Sparthì. Malia (Maleas), Matapàn (Yainaron), e Gallo (Akritas). Lungo le sue coste si aprono i golfi di Patrasso, Corinto, Egina, Nauplia, Laconia, Messenia, Arcadia. I monti principali sono quelli dell’Argolide, della Messenia, e il Taigeto. I fiumi più importanti sono: l’Eurotas e il Pamisos che confluiscono rispettivamente nei golfi di Laconia e di Messenia, il Peneo e l’Alfeo tributari del Mar Ionio. Le città più importanti sono: Corinto, sul canale omonimo, Patrasso e Algion porto sul Golfo di Corinto nell’Acaia, Pireo, capoluogo del l’Elide, situato non lontano dalla sponda del Mar Ionio, Tripoli capoluogo dell’Arcadia, Kalamata, centro portuale della Messenia, situato sul golfo omonimo, ai piedi del Taigeto e Sparta in Laconia.
UNO SGUARDO AL PASSATO DEL PELOPONNESO
E’la più lunga e sanguinosa guerra combattuta tra gli Stati greci nell’antichità (431– 404 a.C.), vide schierate l’una contro l’altra le due maggiori città della Grecia antica. Atene e Sparta, affiancate dalle rispettive leghe, la delio - attica e la peloponnesiaca. Il motivo occasionale fu l’intervento di Atene governata da Pericle nelle vicende di Concita e Corinto, con l’assedio di Potidea e l’esclusione dei Megaresi dai mercati dell’Attica.
Ma le cause profonde devono ritrovarsi nelle rivalità tra le due città, soprattutto nella politica panellenica perseguita da Pericle. La guerra si divide in tre periodi o fasi: in una prima fase dal 431 al 421 a.C., detta anche archidamica, dal nome del re spartano Archidamo che invase l’Attica; le due parti si fronteggiarono senza che nessuna delle due riportasse decisivi successi sull’altra. Si concluse con la pace detta di Nicia nel 421 a.C. Nel 418 la guerra si riaccese e si ebbe subito a Mantinea un notevole successo degli Spartani su l’esercito degli Ateniesi e loro alleati Argivi. Poi le operazioni ristagnarono in Grecia, mentre gli Ateniesi si avventuravano in una disastrosa spedizione in Sicilia (415-413 a.C.), che decise le sorti del conflitto.
Nel 413 con la conquista degli Spartani della fortezza di Decelea nell’Attica, divampò il terzo periodo della guerra, detto appunto e fu combattuta principalmente sul mare. Gli Ateniesi riportarono un notevole successo a Mileto, ad Abido e soprattutto a Cizico nel 410, e ancora, dopo uno scontro sfavorevole a Nozio nel 407, una grande vittoria ad Arginuse nel 408. Nel 405 non poterono opporsi a Lisandro che, presa e devastata Lampsaco, inflisse loro in una battaglia presso i fiumicelli di Egospotami, sull’Ellesponto, una sconfitta irreparabile. e, poco dopo, occupata Egina, Atene stessa assediata nell’aprile - maggio del 404 dovette arrendersi al vincitore che le impose il regime oligarchico dei Trenta Tiranni.
(Vedi Grecia).
PENATI
Divinità domestiche degli antichi Romani, protettrici della famiglia (seguivano le migrazioni). Ogni famiglia aveva i propri penati che si trasmettevano in eredità con i beni patrimoniali. Il nome è collegato al ”penus” (o penetral), termine che indicava la parte più intima della casa e la dispensa dove si conservavano i cibi. Si sacrificava ai Penati sia occasionalmente che giornal mente. Vi erano anche Penati pubblici dello Stato romano, che si facevano risalire a Troia; una continuità culturale di carattere classico o gentilizio che gli Dei patri protegevano la città I consoli nell’assumere o nel deporre la carica dovevano celebrare un sacrificio a Lavinio, in onore dei Penati pubblici, quasi che, questa città latina, costituisse la loro sede d’origine. Osservano i commentatori che veramente i Penati migravano assieme cogli abitatori, a differen za dei Lari che rimanevano là dove avevano preso dimora; e i Penati morti per la patria erano detti Dèi. (Numi.)
PENELOPE
Figlia di Icaro e moglie di Ulisse; gli si mantenne fedele nonostante l’assenza ventennale, resistendo alle lusinghe dei Proci; da ultimo, mossa alle strette, promette di scegliersi un marito quando avesse finito di tessere una tela, ma di notte sfaceva costantemente, quanto aveva tessuto durante il giorno.
PENEO
Dio fluviale, (di Tessaglia), è nella mitologia greca, padre delle ninfe Cirene e Dafne.
PENTESILLEA
Pentesilea (in greco antico: Πενθεσίλεια, Penthesíleia; in latino: Penthesilea), con le possibili varianti di Pantasilea e Pentasilea, è una figura della mitologia greca, figlia di Ares e di Otrera, e sorella di Ippolita, Antiope e Melanippa.
Fu regina delle Amazzoni, il popolo di donne guerriere abitanti della Scizia e dell'odierno Ponto, antica regione dell'Asia Minore.
Prode eroina e fanciulla bellissima, fu chiamata da Priamo nel decimo anno del conflitto troiano, a seguito della morte di Ettore, per respingere le file achee.
Pentesilea portò scompiglio tra le orde nemiche, risollevando momentaneamente le sorti dei Troiani, ma fu colpita a morte da Achille.
Secondo una variante del mito, quando Pentesilea si scontrò con Achille, ebbe la meglio e lo uccise con la sua lancia, ma Teti, la madre dell'eroe, supplicò Zeus di fare un prodigio sul cadavere del figlio e il padre degli dei gli ridiede la vita.
Mito
Fu una prode guerriera, figlia di Otrera e di Ares, e alla nascita fu istruita dall'Amazzone Cleta. Presto si macchiò di un grave delitto, uccidendo al banchetto nuziale di Teseo e Fedra la sorella Ippolita, Glauce o Melanippa, saettata da una freccia, nel corso della rissa che seguì alle nozze del re ateniese. Oppure pensò di colpire un cervo in una battuta di caccia e, invece, colse per errore la sorella con una lancia. Pentesilea si rabbuiò e invocò per se stessa la morte, o perlomeno una gloriosa che riparasse al misfatto. Si racconta che Pentesilea avesse inventato l'ascia da guerra e l'alabarda.
La regina scelse dodici bellissime vergini e cercò rifugio a Troia per farsi purificare da Priamo, fuggendo alle spietate Erinni della sorella, adirate per il suo inaudito crimine. Condannata da Afrodite ad essere violentata da tutti gli uomini che la vedevano si celò alla vista coprendosi con una splendida armatura e, distinguendosi per la sua audacia, divenne regina delle Amazzoni. La condanna degli dei la accompagnò fin dopo la morte poiché Achille, dopo averla uccisa, la spogliò delle armi com'era prassi dei vincitori, e, sfilatole l'elmo e vedendo il volto, la cui bellezza nemmeno la morte era riuscita ad intaccare, non poté fare a meno di desiderarla nonostante l'Ade l'avesse già chiamata a sé. Posseduto da Eros, l'eroe ne violò le spoglie in un atto di necrofilia. Quando in seguito chiese dei volontari per seppellire il cadavere della regina, Tersite, il più brutto dei guerrieri greci chiamati a raccolta intorno a Troia e spettatore dell'abuso del giovane eroe sulle spoglie della regina, dopo aver cavato gli occhi di Pentesilea fuori dalle orbite con la punta della lancia, accusò il figlio di Peleo di sozza perversione contro natura. Achille si avventò contro di lui e vibrò a Tersite un pugno con una forza tale da spaccargli tutti i denti e da far ruzzolare la sua anima giù nel Tartaro.
Questo crimine suscitò la grande indignazione dei Greci e Diomede, che era cugino di Tersite e voleva vendicarsi dell'empietà di Achille, per disprezzo all'eroe trascinò via il corpo di Pentesilea e lo gettò nello Scamandro come pasto per i pesci del fiume.
Imprese in guerra
Duello a cavallo tra Achille e Pentesilea in un'anfora attica a figure nere del 520 a.C. circa nello Staatliche Antikensammlungen a Monaco di Baviera.
In battaglia si distinse abbattendo numerosi guerrieri achei, quali Molione, Persinoo, Eilisso, Antiteo, Lerno e il valoroso figlio di Aimone, Ippalmo. Uccise infine anche Elasippo.
Di fronte alla morte di Clonia, sua fedele compagna, uccisa dall'eroe Podarce, fratello di Protesilao, la regina delle Amazzoni si abbatté sull'assassino e lo uccise con un colpo di lancia.
Secondo alcune tradizioni, Pentesilea uccise anche Macaone, il medico acheo, che secondo altri fu ucciso da Euripilo.
C'è chi racconta che nel corso del corpo a corpo con Achille, un giovane guerriero greco chiamato Calcone che si era invaghito della regina si fosse interposto tra l'eroe e l'eroina, facendo scudo a quest'ultima con il proprio corpo e subendo il colpo mortale dell'eroe al posto suo.
Pentesilea venne ben presto uccisa da Achille[2] che, colpito dal suo coraggio, fece restituire il suo corpo ai Troiani affinché le dessero una onorevole sepoltura. Secondo un'altra versione Achille si innamorò di Pentesilea nel momento in cui la uccise.
C'è chi sostiene che gli amori dell'eroe con la regina siano stati consumati prima del loro corpo a corpo e che da questo amplesso sia stato generato Caistro.
- Nemici uccisi da Pentesilea
- Una volta giunta a Troia, Pentesilea uccise numerosi guerrieri achei, dei quali solo due erano capitani. Quinto Smirneo non precisa se l'Amazzone riuscì a uccidere Podarce, ma riferisce solamente che riuscì a ferirlo con un colpo di lancia alla coscia.
- Antiteo, guerriero acheo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 228.) Eilisso, guerriero acheo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 228.) Elasippo, guerriero acheo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 230.) Ippalmo, guerriero acheo, figlio di Emone. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 229.) Lerno, guerriero acheo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 228.) Macaone, medico greco, figlio del dio Asclepio. (Pseudo-Apollodoro, Epitome, libro V, 1.) Molione, guerriero acheo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 227.) Persinoo, guerriero acheo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, verso 227.) Podarce, capitano greco di Filache, figlio di Ificlo. (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro I, versi 223 ss.)
- Le Amazzoni di Pentesilea
-
Clonia, uccisa da Podarce.
Derinoe, uccisa da Aiace d'Oileo.
Evandra, uccisa da Merione.
Antadra, uccisa da Achille.
Bremusa, uccisa da Idomeneo.
Ippotoe, uccisa da Achille.
Armotoe, uccisa da Achille.
Alcibia, uccisa da Diomede
Derimacheia, uccisa da Diomede
Antibrote, uccisa da Achille.
Termodossa, uccisa da Merione.
Cleta, fuggita in Italia dopo la sua morte.
Citazioni post-classiche
È citata da Dante Alighieri nel Limbo dei grandi spiriti del passato accanto ad un'altra vergine-guerriera come Camilla (Inf. IV°, v. 124).
Boccaccio narra un mito alquanto originale di Pentesilea nel XXX° capitolo del De mulieribus claris. L'Amazzone era una bellissima vergine guerriera che amava rivestirsi di un'armatura, lanciarsi al galoppo sul suo cavallo e celare i suoi capelli biondi con un elmo. Sentì presto parlare di Ettore e s'infiammò d'amore per l'eroe al solo racconto delle sue imprese. Volendo lasciare un erede al suo trono, raccolse un gran numero di compagne e si lanciò con coraggio in battaglia contro i Greci. Cercò e colse l'attenzione di Ettore intrattenendolo con i suoi eccidi, ma presto perse in guerra quasi la totalità delle sue milizie e fu colpita a morte sotto gli occhi dell'amato, senza riuscire a coronare il suo sogno d'amore.
Essa è conosciuta anche nella letteratura spagnola (citata per esempio nel poema epico catalano del Tirant lo Blanc di Joanot Martorell, pubblicato nel 1490). Il mito fu riproposto anche in una tragedia di Heinrich von Kleist (1808).
È citata nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (Libro Terzo, Canto I°, ottava 28), dove viene detto che alla morte di Ettore entrò in possesso della sua spada, quella che sarà poi chiamata Durindana.
È citata anche ne La città delle Dame di Christine de Pizan.
Citata da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso (Canto XXVI°, ottava 81) riferito allo scontro tra Marfisa e Rodomonte. Venne citata anche da Shakespeare nella terza scena de La dodicesima notte in merito all'astuzia della domestica Maria nell'ideare il complotto ai danni del maggiordomo Malvolio.
Al mito di Pentesilea è ispirata l'opera lirica di Othmar Schoeck Penthesilea, op. 39, composta nel 1923-1925 su libretto di Heinrich von Kleist.
Pentesilea è anche il nome di una delle "Città Invisibili" di Italo Calvino.
(da Wikipedia)
PEONIO
Scultore greco di Mende, (V° s.a.C.) autore della decorazione scultoria del tempio di Zeus di Olimpia e della Vittoria volante anche di Olimpia.
PEPLO
Il velo protettivo delle Grazie va significato di come le violenti passioni avrebbero distrutto le più miti ispirazioni delle deità dagli assalti dell'Amore che governa questo globo impetuosamente e da tiranno. È sì trasparente quel velo che non pur non asconde, ma neanche adombra le bellssime forme; e a guisa di amuleto invisibile le difende dal fuoco delle passioni divoratrici. Di questo velo fu per avventura creduto che altro non fosse che un simbolo di modestia; ma se si consideri in che modo è descritto, ci è mestieri supporre che nella sua allegoria avvolgeasi un senso più astruso e molteplice. Il velo è opera di molte dèe cui dirige Pallade. Le fila dell'ordito son tratte dai raggi del sole e acconce al telaio dalle Ore: una porzione dello stame interminabile, (quello di che il destino fila la vita degli dèi, e che trasparente e flessibile come l'aria, ha di più lo splendore e la durezza del diamante) è messo sulla spola dalle Parche. Psiche siede silenziosa, compresa dalla memoria della lunga serie dei suoi affanni, e tesse; mentre Tersicore le si volge intorno al telaio, danzando per divertirla e animarla a finir l'opera. Iride dà i colori e Flora li moltiplica in mille varietà di tinte e di figure, di che eseguire il ricamo, che Erato le detta cantando al suono della lira di Talia.
PERACHORA
Villaggio greco a 20 km.a Nord di Corinto, Gli scavi hanno messo in luce presso il mare due templi, uno di Hera Akraia e l’altro di Hera Limèneia, un centro abitato del VII° s.a.C., l’agorà e un portico. La costruzione del più antico tempio risale al IX° s.a.C.,e quello del secondo al VII° s.a.C. L’importanza di Perakora deriva dai depositi di oggetti votivi trovati presso i suoi templi, fondamentali per la conoscenza della ceramica corinzia, ma anche testimoniano la provenienza dei doni da ogni parte della Grecia e delle isole, mentre i buccheri più che della presenza sono la prova di intensi scambi commerciali con gli etruschi
PERDICCA
Generale macedone (n. ? - m. 321 a.C.). Di famiglia principesca, si mise al servizio del re Filippo e quindi del suo successore Alessandro Magno il quale gli affidò il comando di un reggimento. Nel 335 fu gravemente ferito mentre guidava il reparto in un’azione risolutiva.contro Tebe. Divenuto luogotenente del re, sostituì Efestione e fu in pratica, anche se non ebbe il titolo ufficiale, primo ministro (chiliarco). Sembra certo che Alessandro morendo (323), gli affidò il sigillo reale, simbolo del supremo potere; in effetti assunse la direzione degli affari del regno. La designazione dell’esercito invece, sembra dubbia, perché, pur riconoscendogli quel titolo di chiliarco che gli spettava, nominò Cratero reggente per il figlio minore e Antipatro governatore generale con pieni poteri per i territori europei. Di qui la lotta per primeggiare; da prima, contenuta e poi esplosa in guerra aperta quando ai dissidenti Cratero e Antipatro, si aggiunse Antigono e infine, anche Lisimaco e Tolomeo. Perdicca postosi a capo dell’esercito, mosse contro l’Egitto mentre il suo luogotenente Eumene batteva Cratero che perdeva la vita in battaglia. Ma mentre le sue truppe duramente contrastate tentavano di attraversare il Nilo, fu ucciso da un ufficiale nella sua stessa tenda. Vano fu il tentativo del fratello Asceta di proseguire la lotta contro i satrapi ribelli; messo alle strette, si suicidò.
PERGAMO
1.) PERGAMO Nipote di Achille
Secondo il suo mito è il fondatore della città che porta il suo nome in Asia Minore.
2.) PERGAMO Antica città greca
dell’Asia Minore presso l’attuale Bergama a 80 km. a Nord di Smirne (Turchia). Posta alla sommità di una collina si sviluppò attorno a una fortezza, dalla quale prese il nome. Secondo la leggenda fu fondata dall’eroe eponimo Pergamo, nipote di Achille, abitata da stirpi arcadiche pervenne ad una vita autonoma nel III° s.a.C., quando Filitero, impadronitosi del tesoro della corona di Alessandro Magno, lasciatogli in custodia da Lisimaco, luogotenente del grande condottiero, fondò un regno che ebbe riconoscimento dal Selgiuchidi di Siria, e diede inizio alla dinastia degli Attalidi. Il regno ebbe vita di 150 anni, dal 283 al 133 a.C., durante i quali ingrandì il suo territorio, aumentò il prestigio e fece della capitale, una città di grande splendore. Gli Attalidi combatterono contro i Galati invasori e si allearono molto presto con Roma,
scambiandosi un reciproco aiuto per la difesa e l’espansione delle rispettive influenze. Attalo III morendo senza eredi nel 133 a,C., lasciò il popolo romano erede del regno, che comprendeva ormai: Lidia, Caria, Panfilia, Pisidia, Chersoneso tracio, Frigia, di cui Roma costituì la provincia d’Asia con centro Pergamo. Decaduta dalla sua floridezza economica, fu annessa all’impero d’Oriente (IV s.) e in seguito, conquistata dagli Arabi (VIII° sec.), poi dai Franchi (XIII° sec.), ed infine dai Turchi Seleucidi (XIV° sec.)
ARCHEOLOGIA
Grandiosi scavi furono compiuti alla fine dell’ 800 da studiosi tedeschi, che portarono a Berlino le sculture del Grande Altare. La città ellenistica con triplice cinta di mura comprendeva l’agorà ed edifici privati, la fontana, i ginnasi e i santuari di Demetra ed Hera, mentre sull’acropoli propriamente detta la reggia, le caserme, gli arsenali nella parte Ovest e le terrazze del teatro, del recinto di Atena, del Grande Altare, e del Traianum ad Est, in basso infine, si estese la città imperiale romana. Il Grande Altare insieme a numerose opere di scultura facenti parte di due donari celebrativi della vittoria sui Galati, a noi giunti in copie, testimonia di una grande scuola scultorea del medio ellenismo, voluta dagli Attalidi, per rivaleggiare con lo splendore di Atene. Era dedicato a Zeus Soter (Salvatore), e ad Atema Nikephòros (portatrice di vittoria) e fu costruito fra il 181 e il 156 a.C.
Si eleva su un alto zoccolo con una scalinata sul lato Ovest. In alto, circondato da un portico ionico era l’altare vero e proprio; tutto intorno correva all’esterno il grande fregio della Gigantomachia, mentre il “fregio piccolo” di Telfo correva sotto il portico. Il grande fregio è opera di circa 10 - 12 artisti, ma frutto della concezione di uno solo. Il fregio di Telfo è il primo esempio di “narrazione continua” (cioè della figura dell’ eroe che si ripete nelle varie avventure in un quadro unico, senza suddivisioni), tanto usata nei bassorilievi storici romani. La tendenza pittorica di questo fregio è evidente anche nella rappresentazione illusiva dello spazio con le figure di proporzioni degradanti, secondo i vari piani. Altre opere plastiche sono il cosidetto ”piccolo donario” di cui sappiamo che esisteva una copia in Atene, da un originale bronzeo che rappresentava diversi combattimenti tra Greci e Persiani, tra Greci e Amazzoni ecc., forse dagli stessi autori del “grande fregio”. Nel santuario di Atena dovevano esserci altre statue di cui sono copie il “Gallo morente” dei Musei Capitolini in Roma, e il cosiddetto -“Arriere Peto ” del Museo Nazionale Romano. Questi gruppi riassumono il gusto pergameneo del “pathos scopadeo”, dagli effetti chiaro scuri tendenti all’enfasi e al barocco.
PERIBEA
Moglie legittima di Telamone.
PERICLE
Uomo politico ateniese (495 o 493 – 429 a.C.), figlio di Santippo, il principale artefice della vittoriosa battaglia di Micale sui Persiani (479) e di Agariste della illustre famiglia degli Alcmeonidi. Educato da Anassagora, Zenone e Protagora, entrò nella politica attiva verso i trent’anni e, dopo la condanna all’esilio dell’aristocratico Cimone e la morte del democratico Efialte (451 a.C.), si trovò alla guida dello Stato ateniese. Da allora, e per più di trent’anni esercitò in Atene il potere quasi assoluto fondato sempre sulla libera rielezione annuale nel consiglio degli strateghi, ove, col fascino della sua eloquenza e col prestigio personale, benché risevato e schivo da chiassose manifestazioni di popolarità, seppe farsi rinnovare ininterrottamente il mandato sino alla morte, con una sola eccezione nel 430. I cardini della sua politica furono l’incremento della potenza e del prestigio di Atene, l’indebolimento di Sparta e il proseguimento della lotta contro la Persia, per il definitivo trionfo della civiltà greca su quella asiatica. A questo scopo strinse alleanze con Megara e combattè contro Corinto, Egina e Sparta, finchè con la vittoria di Enofila raggiunse un durevole predominio sulla Grecia centrale. Nello stesso tempo, temendo la rottura con Sparta e l’assalto di quest’ultima, fece condurre a termine la costruzione delle “mura lunghe” e intensificò il programma delle costruzioni navali, che dovevano dargli le condizioni necessarie per il proseguo della guerra ai persiani,ma col proposito di estendere l’impero ateniese per il proseguo della guerra ai persiani, ma col proposito di estendere l’impero ateniese.
La posizione dominante di Atene nella lega, fu anche formalmente dichiarata nel 454 quando il tesoro federale venne trasferito da Delo ad Atene, dove fu largamente impiegato per la costruzione di opere pubbliche e di grandiosi monumenti, fra i quali il Partenone e i propilei dell’Acropoli. Le proteste degli alleati, come nel 440 quelle di Samo, furono duramente represse. Fallì invece clamorosamente il disegno di fornire aiuti all’Egitto insorto contro i Persiani (458–452a.C.) e solo qualche successo ottenuto da Cimone, ritornato dall’esilio, permise che la pace conclusa nel 448 (pace di Callia), fosse abbastanza favorevole ai Greci. Senonchè l’insofferen za degli alleati - satelliti della lega attica per il predoinio ateniese, la rivalità di Sparta e l’opposizione interna ai suoi metodi, formalmente democratici ma sostanzialmente tirannici, indebolirono la sua posizione all’interno. Per uscire dall’impasse fu detto, ch’egli avrebbe provocato la guerra del Peloponneso. In realtà, rendendosi conto dell’inevitabilità dello scontro con Sparta, egli deve averla solo accelerata perchè scoppiasse nel momento che a lui sembrava più vantaggioso per Atene. Gli avvenimenti presero una piega non favorevole, accentuando il malcontento popolare, che portò nel 430 alla sua caduta. La terribile pestilenza di quell’anno aggravò la situazione e l’anno dopo fu richiamato al potere ma morì poco dopo e di peste, lasciando Atene impegnata nella guerra che l’avrebbe condotta alla fatale rovina. Questo gravissimo errore finale non può cancellare la profonda influenza della sua personalità nella storia di Atene che per una fortunata coincidenza vide fiorire nello stesso tempo i migliori ingegni che l’ abbiano illustrata, da Eschilo a Sofocle, a Euripide, da Erodoto a Fidia, da Lisia a Ippocrate, da Aristofane ad Apollodoro, a Socrate.
La sua politica di progresso civile, di incoraggiamento delle arti e della cultura, se non determinò. certo agevolò notevolmente questa fioritura. A buon diritto quindi il suo fu chiamato il secolo di Pericle.
DISCORSO DI PERICLE AGLI ATENIESI (461)
"Qui ad Atene noi facciamo così; qui il nostro governo favorisce i molti piuttosto che i pochi e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così: qui le leggi assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso, a preferenza di altri, è chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così: la libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana, noi non siamo sospettosi uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo, se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi proprio di vivere come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così; ci è stato insegnao di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnaTo anche di rispettare le leggi, e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così; un uomo che non si interessa allo Stato, noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile, e benché siano in pochi a dar vita ad una politica, ben tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade, e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in sé stesso, la prontezza ad affrontare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo, e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così".
PERIMEDE
Perimede è un personaggio dell'Odissea (canto IX°, XI° e XII°) di Omero. Compagno di Ulisse, accompagnò il suo capitano nelle molte peripezie. Fu uno dei più fedeli compagni del re di Itaca.
Insieme a Euriloco, legò Ulisse all'albero maestro della nave quando la flotta incontrò le Sirene. Poi accompagnò Ulisse nella Terra dei Ciclopi e nell'Ade, dove sgozzò una capra in sacrificio all'indovino cieco Tiresia. Come tutti gli ultimi compagni di Ulisse, morì nel naufragio dell'ultima nave, dopo aver mangiato le vacche sacre al dio Sole.
PERITO
I pèriti sono creature immaginarie descritte da Jorge Luis Borges come abitanti di Atlantide dall'aspetto di grandi uccelli dal piumaggio verde scuro (o azzurro) con la testa di cervo. Quando si mettono alla luce del sole, però, non proiettano quella che dovrebbe essere la loro ombra, ma quella di un essere umano. Per questo motivo si pensava che i pèriti fossero le anime di uomini morti senza la protezione degli dei. Per riacquistare il favore divino uccidono un uomo ciascuno, riacquistando la propria vera ombra, e si avvoltolano nel sangue della vittima per poi fuggire in alto. A volte si nutrono di terra secca e sono soliti volare a stormi. Secondo Borges, che dedica loro una voce del suo Manuale di zoologia fantastica, avrebbero un giorno distrutto i Romani stando a un perduto oracolo della Sibilla Eritrea (non riportato nei Libri sibillini); inoltre, sempre secondo Borges, sarebbero stati descritti da un autore arabo la cui opera bruciò nell'incendio della Biblioteca di Alessandria e da "un rabbino di Fez (indubbiamente Aaron ben Chaim)", che avrebbe citato il primo in un documento conservato all'università di Monaco e poi distrutto "in un bombardamento o per via dei nazisti". Il termine è del tutto sconosciuto nelle fonti dell'antichità classica e, sulla base delle sue caratteristiche morfologiche e tematiche, si dovrebbe concludere che, se non si tratta di un'invenzione totalmente moderna, non ha comunque un'origine più antica del periodo medievale.
PERSEFONE
o Proserpina
(Vedi Proserpina)
Nella mitologia greca, figlia di Zeus e di Demetra, regina degli inferi e dèa della vegetazione. Detta anche generalmente Kore (fanciulla). Il suo mito narra come un giorno, suo zio Ade, signore degli inferi rapitala, l’aveva fatta sua sposa nell’Averno, divenendo così regina dell’Oltretomba, ma Zeus ordinò che stesse sei mesi con la madre sulla terra, e sei mesi col marito agl’Inferi.
Secondo altra versione Demetra corrucciata per il ratto della figlia, si rifiutava di far crescere le messi, finchè Zeus ottenne l’accordo tra Demetra e Ade (come descritto sopra). Simbolo dell’alternarsi delle stagioni e del germogliare delle messi a primavera; era venerata ad Eleusi, in Sicilia, e a Roma, col nome di Proserpina.
(Vedi Plutone))
PERSEO
Eroe greco argivo, figlio di Giove e di Dànae. Il nonno Acrisio, al quale un oracolo aveva predetto la morte per mano del nipote, lo mise con la madre in un arca (o cesta), che fu data in balìa del mare. I due si salvarono approdando all’isola di Serifo, dove Perseo crebbe alla corte del re Polidette, allevato da Ditti. Per incarico del re, uccise la Medusa, aiutato nell’impresa da Ermete e da Atena, e con la testa mozza della Medusa pietrificò Polidette che insidiava sua madre. Un’altra sua mitica impresa fu la liberazione di Andromeda, figlia di Cefeo, re degli Etiopi, che era stata legata ad una roccia, ed offerta in espiazione ad un mostro mandato da Posidone per vendicare un’offesa ricevuta da Cefeo. Perseo uccise il mostro e portò con sè Andromeda. Acrisio frattanto, conosciuta l’intenzione di Perseo di tornare in patria, la città di Argo, per timore della profezia, fuggì a Larissa. Qui venne anche Perseo per partecipare ad alcuni giuochi funebri indetti per la morte del padre del re. Durante i giochi Perseo, lanciando il disco, colpì senza volerlo Acrisio, che si trovava tra gli spettatori; addolorato, diede poi sepoltura al nonno, e non osando tornare ad Argo, scambiò il suo regno con quello di Tirinto, tenuto da un suo cugino. I motivi del mito di Perseo (esilio, uccisione di mostri, liberazione di fanciulle, omicidi involontari), sono comuni a molti altri eroi greci, e riflettono in forma narrativa simboli e vicende delle iniziazioni tribali La connessione con le iniziazioni, si manifesta in particolar modo con Perseo, per i suoi rapporti con Dioniso, il dio greco tra i più legati alla sfera iniziatica. Un’oscuro mito narra com’egli uccidesse il dio, che,assunto in cielo, si sarebbe poi riappacificato con lui. Dall’unione di Perseo con Andromeda, nacque il figlio Perses, che fu considerato il capostipite degli Achmenidi, famiglia regnante in Persia. Secondo un’altra versione, fondò le città di Medea e Micene, e dopo la sua morte venne assunto in cielo fra le costellazioni. Note - Astronomia: Perseo è costellazione boreale della via Lattea, collocata tra Andromeda e Auriga, in una zona ricchissima di gruppi stellari. E’composta da 136 stelle visibili ad occhio nudo e da tre ammassi stellari, che appaiono come deboli punti luminosi. Comprende parecchie stelle doppie e multiple; la Nova 1901, che raggiunge lo splendore corrispondente alla magnitudine assoluta O ed alcune variabili, tra cui molto importante Algol (beta Persei),è una rara variabile, con un brevissimo periodo (2 giorni - 20 ore e 49 minuti), caratterizzata dalla costanza al massimo splendore (gr. tra 2 e 3), per due giorni e undici ore, dalla diminuzione della luminosità sino alla grandezza di 3,5 in circa cinque ore e dal ritorno al massimo splendore in altre cinque ore. Queste periodiche variazioni di luce, dipendono dall’occultamento dell’astro da parte di un corpo oscuro ruotante intorno ad esso, che ha permesso di determinare per la prima volta il periodo di eclisse di una stella doppia.
PETALO
Copricapo del dio Mercurio provvisto di due piccole ali, usato da greci e romani.
PI - PL
PIERIDI
Sembra che le Pieridi, abilissime nel canto, fossero le nove figlie di Pierio di Pellae e di Evippa i cui nomi fossero: Colimba, Iunce, Cencride, Cissa, Cloride, SchemaAcalantide, Nessa, Pipo, Dracontide.
Un giorno ebbero la cattiva idea di andare sul monte Elicona, per sfidarle in una gara di canto.
Calliope cantò anche per le sorelle e le Ninfee, nominate arbitri della contesa, dichiararono vincitrici le Muse.
Le Pieridi, invece di accettare umilmente la sconfitta, cominciarono ad insultare le Ninfe, tanto che le Muse,
per punirle, le trasformarono in uccelli.
Il greco Pausania afferma nei suoi scritti che le Pieridi portavano gli stessi nomi delle Muse, da qui le confusioni sui nomi e sui figli attribuiti alle Muse considerate in genere vergini.
Il culto delle muse fu assai diffuso fra i Pitagorici, prima che ad ognuna di loro fosse affidato uno specifico campo d'azione.
La filosofia pitagorica, fa delle Muse il motore dell'etere fra i pianeti: garantendo i movimenti armonici planetari esse assicurano che tutto sia pervaso da ordine, sapienza e armonia.
PIERIO
Personaggio della mitologia latina, marito della dèa Carmente e genitori di Fauno; provvisto di qualità oracolari, come si credeva che ne fosse provvisto il picchio (latino picus), l’uccello di cui portava il nome. Figlio di Saturno veniva ricordato anche come un antico re del Lazio ove un mito narrava della sua trasformazione in picchio operata dalla maga Circe, il cui amore aveva respinto.
PICO
Fonte è l'Ippocrene; ruscelletto del monte Elicona nella Beozia (Pieria).
PIGMALIONE
Mitico personaggio di origine semitica, ricordato come re di Cipro. Innamorato d’una statua femminile d’avorio, chiese ed ottenne dalla dèa Afrodite, sua madre, che divenisse una donna viva. Altra versione del suo mito lo vuole leggendario re di Cipro che, avendo scolpito una statua di donna di eccezionale bellezza, se ne innamorò e Afrodite mutò la statua in una fanciulla vivente, dalle cui nozze con Pigmalione nacque Pafo, madre a sua volta di Cinira.
Un altro Pigmalione è ricordato nell’Eneide come re di Tiro e fratello di Didone.
(Vedi Pamfo)
(Vai o ritorna a Sicheo)
PILIA
Moglie di Pandione mitico re di Atene, è madre di Filoméla.
(Vedi FILOMELA)
(Vedi PROGNE)
PIMPLEE
Le Muse, così dette dal monte Pimpla nella Macedonia, dai piedi del quale scendeva una fontana a loro sacra.
PINAKES
Nome greco che originariamente indicava le tavolette di legno usate per scrivere, che in seguito passò a designare i quadri dipinti; da questa accezione è derivato il termine pinacoteca. Su pinakes erano in genere dipinti ex voto nei santuari, nelle pareti dei templi, sugli alberi, come testimoniano le tavolette in terracotta dipinte a Locri Epizefirii. Si conservano preziosi esemplari del VI° s.a.C., rinvenuti a Pitsà in Grecia. Nel V° sec. grandi pittori come Polignoto dipingevano su tavole applicate alle pareti anche se accanto sussistevano gli affreschi, e su tavola dipingevano Zeus e Apollodoro, mentre in Atene si costruiva la prima pinacoteca. Su tavola fu la pittura del IV° s.a.C., e se il materiale deteriorabile ne spiega la perdita pressoché totale, esso permise tuttavia alle opere dei grandi maestri, di circolare diffusamente nel mondo greco e romano. Plinio afferma che la grande pittura, morta ai suoi tempi, fu tutta su tavola.
PINDARO
Poeta greco (Cinocefale, Tebe 518 a.C. - Argo 440 circa); considerato il maggiore dei lirici antichi. Spiritualmente estraneo al rivolgimento che seguì alle guerre persiane e che condusse al trionfo della democrazia, rimase ostinatamente chiuso nella contemplazione d’un passato mitico - eroico e di trascendenti verità di fede, né abbandonò mai le sue simpatie aristocratiche. Soggiornò spesso a Egina, ma ebbe modo di affermarsi soprattutto presso le corti siciliane a Siracusa con Gerone, ad Agrigento con Terone, e altrove. Trattò tutti i generi della melica corale in una copiosissima raccolta, dagli Alessandrini in 17 libri, dei quali restano i 4 più celebri, quelli degli epinici (canti per vittorie sportive); un complesso di 44 odi distinte in “Olimpiche" (14), “Pitiche” (12), ”Nemee” (11), ”Istmiche”(7). Restano inoltre circa 300 frammenti. La lingua di Pindaro è un dorico letterario non immune da mescolanze, ricco, ampio, raffinatissimo. L’assetto metrico delle odi basato più sulla partizione triadica (strofe, antistrofe, epodo). Lo schema dell’epinicio pindarico segue non senza eccezioni“attualità - mito - attualità” per cui, dall’evocazione della contingente occasione del canto (la gara, la vittoria, la festa) si passa nella sfera del mito, con un salto repentino noto come “volo pindarico”, e infine, dal mito diffusamente narrato, che è il fulcro dell’ispirazione del poeta, si ritorna all’attualità. Nello schema si innestano elementi gnomici e autobiografici disseminati senza un criterio costante. Pindaro è convinto di possedere una verità assoluta come vate e profeta ed erige il mondo esemplare della virtus (aretà) di cui è tutrice l’onnipotenza e l’onniscenza di Dio, capace di miracoli che riscattano il “sogno di un’ombra” (l’uomo) e livellano le privilegiate creature umane e la natura divina in un “fulgore” di beltà e di gloria senza tramonti. L’aretà non si impara, è un retaggio di sangue e una virtù infusa, è anche la poesia, che Pindaro considera una sapienza (sofia) ”per natura”, e che ha voce solo per gli inziati e distingue l’aquila (il poeta tebano) dai suoi rivali (forse Bacchilide e Simonide) che gracchiano come corvi in sterili voli. La poesia assicura la sopravvivenza delle gesta gloriose nella memoria dei posteri. Questa visione del mondo non può prescindere da una religione di grande purezza, per cui le figure “estetiche”degli dèi convenzionali si confondono in un sostanziale monoteismo e i miti sono depurati d’ogni elemento antropomorfo. Poichè Pindaro non è un filosofo ma un poeta, è ovvio che le idee cui abbiamo accennato non si rivelano con sistematica coerenza.
Tra le Odi di Pindaro si ricorderanno qui, l’Olimpica Ila (Ottima è l’acqua e l’oro, come fuoco ardente spicca….”) dove è diffusamente narrato il mito di Pelope; l’Olimpica. IIa, con la suggestiva rappresentazione d’un al di là orfico; l’Olimpica VII, dove l’isola di Rodi affiorante dal mare e inondata da una pioggia d’oro, è al centro d’una stupefacente rappresentazione; la Pitica I, che s’apre con un grandioso inno alla Musica, che rasserena i più e atterrisce i bruti (spettacolare è l’eruzione dell’Etna, colonna nevosa incombente sul mostro Tifeo; la Pitica IV, evocazione di eccezionale ampiezza del mito degli Argonauti; la Nemea X, ispirata al mito dei Dioscuri con accenti assieme eroici e patetici nel momento in cui Polluce rinuncia all’immortalità resuscitando il fratello in un atto d’amore. Lo stile è contrassegnato dalla concretezza; le immagini hanno una corposità che talora giunge ai limiti del barocco, la concentrazione e la densità rasentano l’ermetismo, serbando tuttavia una purissima forza di suggestione. Pindaro godette di enorme fortuna, ed ebbe imitatori e ammiratori in ogni tempo, da Orazio che lo paragonò ad un fiume travolgente e a un cigno che vola subblime a Chiabrera, ai poeti della Pléiade, e più tardi a Foscolo, Carducci ,d’Annunzio e molti altri; fu detto l'Omero italico.
PIREO
Città della Grecia situata sul Golfo di Egina a 8 Km.da Atene. della cui inurbazione fa parte e di cui è lo sbocco marittimo; oltre ad essere il massimo porto della Grecia e sede della massima parte delle industrie del paese, è strutturalmente collegato con la capitale. STORIA- Antico porto di Atene dal V° s.a.C., in sostituzione di Falero, troppo aperto e indifeso. I lavori per la sua costruzione furono seguenti alle guerre persiane, risalenti al 470 a.c.C., mentre ancora più tarda fu la costruzione delle sue "lunghe mura"; fortificazioni lunghe 9 km., che lo collegavano con Atene. Alla fine della guerra peloponnesica (403), Lisandro ne impose la distruzione ma Conone ricostruì le fortificazioni portuali e le attrezzature. e da allora fino al 322 ebbe un periodo di splendore. Presidiato da Alessandro Magno e dai suoi successori, in epoca romana divenne il porto dei conquistatori, ma non si riprese più dopo la conquista di Silla (86 a.C.)
PIRITOO
Piritoo re dei Lapiti, inseparabile amico di Teseo, uno dei cinquantacinque argonautici eroi partecipanti alla spedizione alla conquista del vello d'oro; che assieme a Teseo lottò contro i centauri che avevano tentato di rapirgli la moglie Ippodamia il giorno delle nozze; e disceso nell’Ade con Teseo per rapirvi Persefone, vi rimase incatenato.
PIRRA
Era figlia di Epimeteo (gr. che riflette dopo) e di Pandora, e moglie di Deucalione.
Quando Zeus decise di porre fine all'età dell'oro con il grande diluvio, Deucalione e Pirra furono gli unici sopravvissuti, grazie all'arca che Prometeo, padre di Deucalione, aveva suggerito al figlio di costruire. Si arenarono sul Monte Parnaso, l'unico luogo risparmiato dall'inondazione.
Dopo il diluvio, Deucalione chiese all'oracolo di Temi come ripopolare la terra. Gli fu detto di lanciare le ossa di sua madre dietro le sue spalle. Deucalione e Pirra capirono che la madre era Gea, la madre di tutti i viventi, e che le ossa erano le pietre. Lanciarono perciò sassi alle loro spalle, che presto iniziarono a cambiare forma. La loro massa aumentava, e cominciava ad emergere una forma umana. Le parti tenere ed umide divennero pelle e carne, le venature della roccia divennero vasi sanguigni, e le parti più dure divennero ossa. I sassi lanciati da Pirra divennero donne, quelli tirati da Deucalione uomini.
Deucalione e Pirra ebbero due figli, di nome Elleno e Anfizione, ed una figlia di nome Protogenia.
PIRRO
Re dell’Epiro.(319–272 a.C.; coraggioso e ambiziosissimo si battè prima contro i Macedoni, ampliando notevolmente i confini del suo regno, ma, battuto poi da Lisimaco, perdette (282) gran parte dei suoi possedimenti. Si volse allora in Italia in aiuto di Taranto contro Roma e dei Greci di Sicilia contro Cartagine. Tuttavia, dopo un brillante inizio, l’incerta fortuna lo consigliò di tornare (275) in Epiro, dove morì combattendo contro Macedoni e Spartani.
- "Difficilius ab honestate quam sol a cursu suo averti potest"-
(Eutropio, Breviario, II, 14). - E' più difficile allontanarlo dall'onestà che far retrocedere il sole nel suo cammino -
Elogio che Eutropio mette sulla bocca di Pirro all'indirizzo di Fabrizio, il grande romano che non potè vincere nè con la forza, nè coll'oro. - Del quale Dante dice: (Purg., XX 25)
- "...O buon Fabrizio,
Con povertà volesti anzi virtute
Che gran ricchezza posseder con vizio "-
PIRRONE
di Elide
Filosofo greco fondatore della scuola scettica. Nacque a Elide nel Peloponneso, tra il 365 e il 360 a.C. La tradizione vuole ch’egli fosse prima discepolo di Brisone megarico e poi di Anassarco democriteo. L’avvenimento più importante della sua vita fu il viaggio in India, al seguito della spedizione di Alessandro Magno. Ebbe così modo di conoscere la filosofia e l’ascetismo di fachiri e gimnosofisti. Ritornato in Grecia, fondò la sua scuola in Elide nel 324 a.C., ma, come Socrate non lasciò nulla di scritto. In quella fase della filosofia greca,che vede lo sviluppo delle scuole socratiche, e la nascita delle grandi scuole ellenistiche, la sua filosofia si presenta come una continuazione e una ripresa di quella fondamentale istanza socratica della critica, della necessità della ricerca, e dell’insoddisfazione di ogni dogmatismo, che sembrava essersi smarrita nelle varie scuole. Socratico è infine il disinteresse per l’indagine fisica e naturalistica, come pure il rilievo centrale che ha in lui il problema della felicità. Queste esigenze fondendosi con gli insegnamenti della sapienza indiana, lo portano ad affermare che la suprema saggezza consiste nell’afasia (silenzio) e nell’atarassia (imperturbabilità)
PISISTRATO
Tiranno ateniese (? - 600 circa - Atene 528 /527 a.C.). Si mise in luce battendo i Megaresi contro i quali Atene era da tempo in lotta. Costituì poi un partito di centro tra quello degli aristocratici (Pediaci) e quello dei democratici (Parali), le cui discordie favorirono la sua ascesa al potere. Benchè cacciato due volte dalla città nel 556 e nel 546, riuscì a riprendere e conservare il potere fino alla morte. Secondo tradizione,non smentita dalla critica, governò con moderazione e saggezza, favorendo lo sviluppo economico e culturale della città.
PITAGORA
Filosofo e matematico greco (n.585 o 565 a.C.a Samo ? – m. Metaponto 495 o 470). Costretto a lasciare la patria, forse a causa della tirannia di Policrate, si recò nella Magna Grecia e a Crotone, dove, verso il 530 fondò la sua scuola. L’attività politica che la comunità pitagorica svolgeva a favore del regime aristocratico suscitò una vivace reazionee popolare. La scuola fu incendiata e i pitagorici massacrati. E’ incerto se anche Pitagora fu ucciso in quella circostanza, poi se, riuscito a fuggire si sia rifugiato a Metaponto, morendovi poco dopo. Pitagora è non solo uno dei più grandi filosofi antichi, ma è anche fondatore di una scuola che ha avuto una storia per più di dieci secoli. Tuttavia è questa circostanza che impedisce di sapere con certezza quali dottrine spettino proprio a lui e quali ai suoi seguaci ; il rigido principio di autorità vigente nel la scuola espressa dalla formula – ipse dixit - induceva a porre sotto il prestigioso nome del fon datore anche dottrine posteriori. A ciò si aggiunge che Pitagora divenne ben presto un personaggio leggendario; figlioli Apollo o di Germes nelle sue precedenti incarnazioni (e la sua anima sarebbe stata nel corpo di Euforbo dal tempo della guerra di Troia era capace di profezie e di miracoli, era stato il solo ad udire le armonie delle sfere celesti, era sccso nell’Ade ecc. Resta comunque il fatto che autori cronologicamente a lui vicini (Senofonte, Pindaro. Erodoto ), gli vengono attribuite la dottrina della trasformazione delle anime (metamorfosi) e quella della respirazione cosmica, oltre a una vastissima sapienza in tutti i campi. La dottrina della “purifica zione” delle anime mediante la scienza (soprattutto l’aritmetica e la geometria ) e la musica spi ega l’attribuzione a Pitagora non solo di numerose scoperte in questi campi, ma anche la dottrina fondamentale della scuola, quella per cui l’essenza delle cose sta nei numeri e nel rapporti numerici.
TEOREMA DI PITAGORA
E’ la 47° proposizione del I° Libro di Euclide; essa dice che in qualunque triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa e' equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.
PITONE
Pitone è una figura della mitologia greca.
Era un drago-serpente di dimensioni impressionanti, figlio di Gea, prodotto dal fango della terra dopo il Diluvio Universale. Custodiva l'Oracolo di Delfi. Morì in seguito ad un combattimento epico contro Apollo che, per questo, si impossessò dell'oracolo e diede alla sacerdotessa il nome di "Pizia" (Pitonessa).
Tra i motivi della morte di Pitone per mano di Apollo, dobbiamo considerare anche una possibile vendetta di Apollo verso il serpente, il quale, prima della nascita del dio, aveva perseguitato Latona (Leto), madre di Apollo, fino nell'isola di Delo.
Apollo stesso a causa della sua impresa si guadagnò l'appellativo pitio, infatti tra le varie feste e celebrazioni in onore di Apollo (Apollo Carneo, le Targelie, ecc.) ricordiamo in particolare quella di Apollo Pitico.
Inoltre vi erano i famosi Giochi Pitici (Pythia) che si celebravano ogni quattro anni nella pianura Crissea presso Delfi, che consistevano in una gara musicale, a cui si aggiunsero col tempo anche gare ginniche ed equestri, e che prevedevano come premio per il vincitore una corona di alloro.
(Vedi Apollo in Mito e Leggenda)
PITTEO
Nella mitologia greca Pitteo era uno dei figli di Pelope ed Ippodamia. Salì al trono dopo Trezene nell'omonima città, e lì fece costruire il più antico tempio greco dedicato ad Apollo Tearco.
Era considerato un uomo molto saggio, infatti troviamo in Euripide il raccondo di come riuscì ad interpretare un oscuro responso che l'Oracolo Pizia comunicò a Egeo: l'oracolo prevedeva un futuro da eroe per il figlio Il significato di quella profezia fu presa in seria considerazione da Pitteo e pare che decise di stordirlo con l'alcol per farlo unire con la figlia Etra, la quale la stessa notte si unì al Dio del Mare Poseidone.
Da quell'unione nacque Teseo, il futuro re di Atene. Pitteo quindi tenne con sé il nipote e lo educò fino all'età di 16 anni, avvicinandolo alla Ginnastica e alla Musica.
Quando Teseo crebbe, ebbe un figlio dall'amazzone Antiope chiamato Ippolito, che mandò a vivere con Pitteo. Egli lo riconobbe come figlio e di conseguenza come erede al trono di Trezene
Il fratello di Pitteo, Atreo, ebbe tre figli di cui due furono i famosi Agamennone e Menelao.
PIZIA
(Pitonessa) Sacerdotessa dell’oracolo di Apollo a Delfi; prendeva il nome dal pitone (Python) ucciso dal dio. Dava responsi in stato di "trance" (o invasata dal dio),al di sopra di una voragine esalante vapori. Un sacerdote profeta rendeva in versi all’interrogante le parole della Pizia pressocchè inintelligibili. Era scelta tra le vergini delle migliori famiglie; in origine dava i suoi oracoli una volta all’anno,nel mese di febbraio (Bysios), ma, gradualmente aumentando il numero dei richiedenti, rimase a dare i suoi responsi tutto l’anno, ed in certe circostanze c’erano anche due e più Pizie che si davano il cambio.
PLATEA
Città greca della Beozia, ai confini con l’Attica, presso cui fu conbattuta la battaglia conclusiva delle guerre persiane. Fedelissima ad Atene, la città fu saccheggiata nel 480 a.C., dai Persiani, e nel 427, dopo la sua distruzione ad opera dei Tebani, i suoi cittadini si rifugiarono ad Atene. Ritornati in patria, furono nuovamente scacciati dai Tebani dal 378 al 338 a.C., anno in cui Filippo (e poi Alessandro) cominciò a ricostruire splendidamente la città. Oltre a scarsi avanzi preistorici, si sono conservate le mura del V° s.a.C., quelle successive e le fondazioni del tempio di Hera, Abbiamo inoltre i resti di un caratteristico edificio il “Katagògion”, una specie di albergo con stanze distribuite ai lati di una corte quadrangolare, mentre del tempio di Atena Areia, edificato per celebrare la vittoria sui Persiani e ornato da una statua crisoelefantina di Fidia, e di pitture di Polignoto, non si sono trovate tracce. Più numerosi sono invece i resti dell’età romana.
PLATONE
Filosofo greco nato ad Atene (o Egina) nel 427 o 428 a.C., e morto ad Atene nel 348 o 347). La tradizione vuole che il suo nome fosse Aristocle, come il nonno. e che più tardi fosse chiamato “Platone” per l’ampiezza delle spalle. Cresciuto in una delle più nobili famiglie di Atene, ebbe un’educazione completa. Dionigi gli fu maestro di lettura e di scrittura, Aristone argivo di ginnastica, Dracone di musica, pittura e poesia completarono questa educazione. Terminato il periodo di efebia, ascoltò le lezioni dell’eracliteo Cratilo, e l’interesse per questa disciplina divenne totale ed esclusivo, in conseguenza dell’incontro che il ventenne Platone ebbe con So crate; da allora la sua vita prese un’indirizzo del tutto nuovo, e la personalità, non meno che la filosofia di Socrate.costituirono il centro costante di riferimento dei suoi interessi. Fu vicino a Socrate fino alla morte di questi nel 399 a.C., e sono anni di grande turba mento politico per Atene. L’esito disastroso della guerra del Peloponneso, la cadutta del regime democratico, il governo dei "Trenta Tiranni", la restaurazione democratica e infine la condanna a morte di Socrate, sono tutti avvenimenti che lasciarono un’orma profonda nel suo animo, tanto ch’egli stesso rievocandoli nella VII° lettera (autentica secondo la maggioranza degli studiosi), attribuisce ad essi le sue disillusioni politiche e la nascita della connvinzione che il solo Stato giusto poteva essere quello in cui filosofi potessero detenere il potere politico. Subito dopo la morte di Socrate, si recò con altri socratici a Megara presso Euclide, ma ritornò ben presto in Atene. Qui, dopo qualche tempo intraprese una serie di viaggi, il primo dei quali in Egitto, dove avrebbe appreso la geometria e l’astronomia, e a Cirene dove avrebbe stretto rapporti con il matematico Teodoro. Di qui si recò nella Magna Grecia,forse per conoscere meglio le dottrine di quelle comunità pitagoriche. che prime, sembrava avessero attuato il connubio; filosofia e potere politico. Certo è che strinse amichevoli rapporti con Archita di Taranto, passando poi in Sicilia alla corte del tiranno Dionisio il Vecchio di Siracusa. Il tentativo che fece di persuadere Dionisio alle sue idee politiche fallì completamente, ma in Siracusa trovò un discepolo convinto in Dione, cognato di Dionisio. Cio provocò la gelosia di Dionisio, sì ché i rapporti tra il fiolofo e il tiranno finirono per guastarsi completamente. Imbarcato su una nave spartana, fu condotto a Egina, allora alleata di Sparta contro Atene: era per ciò prigioniero di guerra e poteva essere condannato anche a morte, ma gli Eginesi si contentarono di venderlo come schiavo.
Potè fortunosamente ritornare ad Atene dove nel 387 circa. fondò la sua scuola, "l’Accademia” dedicandovisi completamente per circa un ventennio. E’questo il periodo della sua piena maturità, periodo in cui scrisse le sue opere più importanti e famose. Nel 367 succedeva a Dionisio il Vecchio, il figlio Dionisio il Giovane, e rinasceva in lui la speranza di poter vedere realizzati i suoi ideali politici. Avvenne così, che anche per l’opera di persuasione di Dione. fu invitato a Siracusa. Ma le riforme che il filosofo andava elaborando, (e che confluirono poi nelle - Leggi-) suscitarono una crescente opposizione interna, che fece mutare l’atteggiamento di Dionisio il Giovane. In seguito a ciò Dione fu esiliato e Platone poco dopo, non senza aver corso qualche serio pericolo per la sua vita, ottenne di poter tornare ad Atene con la promessa che sarebbe stato chiamato di nuovo insieme a Dione. L’invito giuse infatti nel 361, ma solo per Platone, che era aumentata nel frattempo l’ostilità di Dionisio per Dione. Platone affrontò per la terza volta il viaggio che, com’era prevedibile ebbe un effetto ancora più disastroso dei precedenti. Dione non fu richiamato e il ritorno di Platone ad Atene sarebbe stato compromesso, se non fosse fermamente intervenuto in suo favore l’amico suo Archita di Taranto. La delusione fu per lui così,completa e definitiva; Dione moriva in combattimento nel 354, e pochi anni appresso anche Platone, dopo aver passato gli ultimi anni in Atene completamente dedito alla ricerca e alla scuola. La tradizione vuole che la morte lo ghermisse mentre era intento a dare forma definitiva alle sue “Leggi ”.
LE OPERE
Gli scritti di Platone a noi pervenuti comprendono: ”l’Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 13 lettere; in tutto 36 titoli che Trasilo. nel l’età di Tiberio, ordinò in nove tetralogie, rispettate molto spesso anche dagli editori moderni. L’eccezionale bellezza letteraria e una tradizione ordinata ci hanno consevato (caso rarissimo tra i filosofi antichi) tutto quanto Platone destinò alla pubblicazione. Il problema è tuttavia il sapere se gli scritti ordinati in tetralogie sono effettivamente autentici; c’è stato un mommento nella critica ottocentesca in cui, sulla base di pretese incongruenze tra i dialoghi, si è negata l’autenticità di quasi tre quarti di questi. Tuttavia il problema sembra oggi risolto nel senso di un larghissimo riconoscimento di autenticità; qualche dubbio è rimasto, con fondamento a proposito dell’Alcibiade II°. degli Amanti, del Clitofonte, del Minosse, del Teage, dell’Epaminonda, ora concordemente attribuito al discepolo, Filippo di Opunte, l’editore delle “Leggi” e di qualche lettera. A questo risultato si è giunti attraverso l’accertamento della cronologia dei dialoghi ottenuta prevalentemente in base a criteri linguistici, stilistici, storici ecc.. Si è visto allora che le pretese incongruenze tra i Dialoghi, altro non sono che formulazioni diverse di un pensiero in sviluppo, e non già contraddizioni in un sistema filosofico statico ed immutabile. I Dialoghi di Platone sono così stati suddivisi in tre grandi gruppi:
1.) - Dialoghi giovanili socratici: Apologia, Critone, Protagora, Alcibiade I°, Ipparco, Ippia Minore, Liside, Carmide, Lachete, Eutifrone, Ippia Maggiore.
2.) - Dialoghi della maturità o costruttivi: Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo, Ione, Menesseno, Repubblica, Fedone, Convito, Fedro.
3.) - Dialoghi della vecchiaia o dialettici: Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Flebo, Timeo, Crizia, Leggi, Lettere.
Questa cronologia ha consentito di comprendere adeguatamente non solo lo sviluppo della filosofia di Platone, ma anche lo strettissimo legame tra la sua filosofia e quella forma del dialogo che non è una veste esteriore artistica, sia pure di livello altissimo, ma è l’espressione necessaria richiesta proprio dal modo in cui Platone concepisce la filosofia; essa, in questo senso, nasce dal dialogare socratico e vive nella misura in cui vive questo ideale, ma quanto più il “dialogare”si traforma in un dialogo dell’anima con se stessa o addirtitura svanisce nell’immensa visione della verità delle idee, tanto più allora, anche la forma dialogica, diventa qualcosa di pu ramente dimostrativo.
IL PENSIERO
Nei dialoghi giovanili Platone è completamente impegnato nella problematica del suo maestro, al punto che questi dialoghi sono la fonte più attendibile per conoscere la filosofia di Socrate. I grandi temi sono quelli di virtù e scienza, della determinazione di questa scienza come scienza del bene e del male in genere, della riduzione a questa virtù, - scienza in generale di tutte le vittù - scienze particolari (cioè di beni e di mali particolari), come il coraggio, la santità, l’amicizia. Anzi proprio per quest’ultimo punto spiega come mai quasi tutti i dialoghi giovanili, che trattano ciascuno di una virtù particolare, siano ”aporetici”, terminano cioè senza una soluzione positiva; il fatto è che non si può definire un bene particolare (p.es. il coraggio) o un male particolare, (per es.la paura) prescindendo dalla definizione di bene o male in generale. Platone in questo periodo si mostra seguace di tutte le tesi socratiche, tuttavia proprio dall’accettazione di queste, cominciano a nascere in Platone problemi diversi ed esigenze nuove. Innanzitutto avverte quei valori, di cui Socrate era andato in cerca per tutta la vita (bello. bene. virtù, giustizia, coraggio ecc.), non possono pretendere di avere quella stabilità e universalità che è loro richiesta, se non sono concepiti come realtà che non muta e non perisce. Sarà proprio in virtù dell’esistenza e presenza di questi valori eterni e stabili, che anche le cose sensibili potranno essere qualificate e valutate. Da questa sua esigenza, Platone ricava conseguenze che lo portano lontano dal suo maestro, in quanto realtà supreme, quei valori richiedono un sapere positivo, una scienza che supera e pone termine al perpetuo ricercare e dialogare socratico, in quanto la virtù concerne ciò che deve essere fatto (cioè il futuro), l’equazione socratica di virtù e scienza (che deve essere conoscenza di ciò che è eterno e non del solo futuro), non può essere mantenuta; essa va piuttosto intesa come dovere della parte passionale dell’anima, di adeguarsi e ubbidire alle indicazioni della parte razionale, e poichè la parte passionale può anche ribellarsi e disubbidire, ecco il male morale, che quindi non è necessariamente involontario, anche se l’ignoranza resta sempre per Platone tra le sue cause fondamentali. In dipendenza di ciò anche la tesi socratica dell’attraenza del bene, dell’identità di bene e piacevole, viene rifiutata nettamente difronte a un malvagio che ritiene il male ch'egli fa come il suo bene, e perciò piacevole. Platone torna a prospettare una visione escatolo gica; l’anima umana che è immortale godrà o soffrirà nell’oltretomba senza fallo,a seconda di come si sarà comportata in questo mondo. Ecco quindi nei grandi dialoghi della maturità, la metafisica platonica nasce dalla necessità di dare un fondamento assoluto a quel mondo morale. E a questo compito mette a frutto e fonde in una sintesi nuova e grandiosa tutta la filosofia precedente; eleatismo, eraclitismo, pitagorismo, sacratismo.
Alle esigenze eleatiche (propriamente di Melisso), soddisfa la teoria per cui vera realtà è quella che permane “eternamente identica a sé”; e questa realtà Platone chiamò eidos o idea (cioè”forma”), in quanto oggetto di una “visione” o contemplazione intellettuale. Le cose sensibili sono molteplici e particolari, divengono e periscono, non possono quindi costituire la vera realtà. Esse possono dirsi reali solo in quanto partecipano delle “idee”, sono cioè “copie”delle idee, le quali tuttavia sono “separate”dalle cose e sussistono in sé e per sé.(“mondo delle idee o iperuranico”). Da questo dualismo rigoroso consegue un altro dualismo; quello tra ”opinione”o (scienza confusa, contingente del mondo sensibile) e “scienza”; Platone distingue le scienze particolari (matematica, geometria, astronomia ecc.) alla dialettica (scienza suprema delle idee e del bene). Se il mondo sensibile non è la vera realtà, non è attraverso la scienza che l’uomo perviene alla scienza; l’esperienza sensibile è solo l’occasione grazie alla quale l’anima (che prima di unirsi al corpo aveva potuto contemplare le idee nella loro purezza “ricorda”le idee di cui si era “dimenticata” unendosi al corpo. L’anima è quindi non solo immortale ,ma eterna; il corpo per essa, è come una prigione in cui cade per colpe precedenti e da cui deve liberarsi nel modo più completo, per tornare a vivere nel mondo iperuranico (e qui è evidente l’influsso pitagorico); la vita del filsofo si configura come una“preparazione alla morte ”, come una purificazione da tutto ciò che è sensibile, cioè dall’opinione e dal piacetre.Questa esigenza mistica e ascetica tuttavia convive in Platone con l’altra tipicamente greca, eudemonistica e mondana. Così da un lato il filosofo si configura come perfetto “amante”; egli ama la sapienza perché non è già sapiente (come gli dèi) e neppure ignorante, così come eros, l’amore,è a un tempo mancanza e desiderio di soddisfazione e perciò un”intermediario”tra i due mondi. D’altro lato il filosofo si presenta come perfetto politico, in quanto egli possiede la vera scienza (la scienza del bene), l’unico che abbia titolo per comandare. Stato perfetto è quindi per Platone, quello in cui il potere è nelle mani dei filosofi e le altre due classi, quella animosa dei guerrieri e quella concupiscibile degli artigiani, contadini ecc., ubbidienti in tutto ai filosofi. E ciò che è lo Stato in grande, è, in piccolo l’anima umana, la quale sarà quindi perfetta solo quando la sua parte razionale potrà comandare quella animosa e a quella concupiscibile.
Questo grandioso sistema, in cui è parte integrante la famosa condanna dell’arte (sia perché dannosa e suscettibile di passioni, sia perché produce oggetti che sono copie di “copie”), era tutto fondato sulla dottrina della filosofia. Ma è proprio questa dottrina che Platone sottopone ad una radicale revisione e ad un profondo riesame nell’ultima parte della sua filosofia. Infatti, poteva intanto supporre una realtà strutturata sulla molteplicità delle idee, in quanto avesse superato le obiezioni eleatiche contro il molteplice e la rigida contrapposizione parmenidea, tra essere e non essere. Platone trova il principio risolutore nell’identificazione del “non essere”, con il “diverso”; ciascuna idea “è” se stessa ed “è” diversa dalle altre, e così la contrapposizione tra “l’essere “e” non essere” è dissolta. Si tratta piuttosto di vedere come le idee sono tra loro in relazione di “identità” e “diversità” e in ciò consiste appunto la dialettica, scienza suprema che riconosce la“comunanza”e la“divisione” reciproca delle idee. Ma.in tal modo, le idee disponendosi in una trama gerarchica di comprensione e di estensione, diventano “generi” e “specie” di quegli individui che sono le cose sensibili. Cosicchè si opera anche un riavvicinamento tra i due mondi (quello ideale e quello materiale), che si concreta nella cosmologia del Timeo, tutta centrata sull’idea di un Demiurgo che modella la materia ad imitazione delle idee, mentre le idee – numeri -, vengono introdotte come intermediarie (sia ontologiche che gnoseologiche) tra le idee e le cose. e questo riavvicinamento e avvisabile anche nella morale e nella politica dell’ultimo Platone, in cui è constatabile una certa rivalutazione del piacere, una mediazione più articolata tra i vari “generi” di vita e soprattutto una visione dello Stato più realistica (anche se pessimistica).
L’ultimo periodo della filosofia di Platone coincide grosso modo con il periodo in cui Aristotele fu discepolo nell’Accademia, tra il vecchio maestro e il discepolo, al di là delle tradizionali contrapposizioni, sussiste un evidente continuità di pensiero.
PLEIADI
Sette figlie di Atlante che, secondo un mito greco, furono trasformate nelle sette stelle dell’omonima costellazione, per salvarle dal cacciatore Orione. I loro nomi: Taigete, Elettra, Alcione, Sterpe, Celeno, Maia, Merope. Secondo un’altra versione, che attribuiva loro nomi diversi, erano figlie di una regina delle Amazzoni. Sei si unirono ad un dio, mentre la sola Merope sposò un mortale ed è per questo che splende meno brillante in cielo
(Vedi IADI).
I nomi delle Pleiadi: Alcione Celeno Elettra Maia Merope Sterope Taigete
PLISTENE
- Plistene figlio di Tieste detto anche Plistene II
- Plistene figlio di Atreo
- Plistene figlio di Menelao ed Elena, figlio che in seguito preferì ad Ermione, portandoselo con sé nei suoi viaggi.
- Plistene figlio di Pelope e Ippodamia
- Figlio di Menelao, secondo la leggenda post Omerica.
PLUTARCO
Scrittore greco (Chersonea,? Beozia 46 d.C. + dopo il 120 ) . Di famiglia agiata, ebbe buona cultura filosofica, scientifica, storica, letteraria. Viaggiò in Grecia, Egitto, e soggiornò qualche tempo a Roma, ma visse per lo più in patria, dove ebbe incarichi sacerdotali a Delfi. Col suo nome ci sono giunti 83 “Scritti Morali”, non tutti autentici, e 22 “Vite Parallele” ; coppie di biografie di greci e romani illustri, messi a confronto (per es.Teseo e Romolo –Temistocle e Camillo – Pericle e Fabio Massimo – Alcibiade e Coriolano - Alessandro Magno e Cesare - Demostene e Cicerone), delle quali una è andata perduta, oltre a quattro “Vite” isolate. Gli scritti morali abbracciano una quantità di argomenti; dalla metafisica alla religione, dalla storia alla politica, dall’archeologia al l’astronomia, dalla fisica alla medicina, dalla letteratura alla musica, e sono una miniera di notizie, e di citazioni letterarie.Vi traspare un pensiero filosofico sostanzialmente platonico ma con contaminazioni pitagoriche e aristoteliche. Sul piano religioso tende al sincretismo (Zeus e Apollo) e al monoteismo, non senza interessi per culti orientali, e ammette una giustizia divina e una provvidenza. Ma è sostanzialmente un moralista spicciolo, che analizza le virtù individuali, familiari e sociali, in relazione agli opposti vizi, dando precetti di buon senso e rivelando un ottimismo e una disinvolta mediocrità che sono forse, la ragione della sua vasta fortuna. Nelle “Vite”, Plutarco afferma di non voler fare una vera e propria opera storica e presenta, servendosi di fonti promiscue, una galleria di caratteri, indulgendo all’anedottica, e non perdendo di vista intenti retorici, moralistici e pedagogici. Attrsaverso notazioni minute e talvolta curiose, crea l’immagine di figure a misura umana, delle quali egli sa cogliere i tratti essenziali, e la rievocazione di situazioni gravi o drammatiche è tagliata sapientemente con un istinto quasi teatrale e con il ricorso talvolta al soprannaturale. Basta ricordare la fuga di Mario attraverso le paludi o i suoi occhi fiammeggiantti al buio della prigione che disarma il sicario inviato a sopprimerlo. O ancora la veglia notturna di Bruto e la comparsa improvvisa dello spettro di Cesare; alcuni particolari descrittivi della vita di Antonio, dove campeggia Cleopatra, il colloquio fra Coriolano e la madre. Plutarco ebbe in ogni tempo una forte presa, e i suoi personaggi divennero di volta in voltra eroi - modello: basti qui ricordare tra gli altri William Shakespeare, che attinse largamente alle “Vite”, o Vittorio Alfieri, che modellò i suoi personaggi sugli eroi plutarici.
PLUTO
Figlio di Demetria e di Iasion era considerato dall’antica mitologia greca dio della prosperità dei campi e poi della ricchezza in genere; lo stesso termine “plutor” significa ricchezza. Sovente era identificato con Plutone.
PLUTONE
o ADE
Dio dell’inferno, figlio di Saturno e di Rea, fratello di Giove e di Nettuno. Ottenuto in sorte il regno dei morti, una volta ne uscì per rapire Prosèrpina.
(Vedi ADE))
MITI E LEGGENDE
PLUTONE E CERERE - IL RATTO DI PROSERPINA
Era un mattino meraviglioso, presso la fonte Aretusa, in Sicilia. Tutti i fiori, durante la notte, s’erano aperti; tutti i fiori dell’Isola del Sole profumavano l’aria e Proserpina, la bella figlia della dèa Cerere, con una frotta di fanciulle sue amiche, ne raccoglievano a mazzi, per farne delle ghirlande. Ad un tratto, le spalle dell’Etna sussultarono, tremò la terra e si spaccò, e dalla fenditura balzarono fuori quattro cavalli. Proserpina si sentì afferrare da due robuste braccia invisibili, sollevare su un carro e trascinar giù nel profondo.
La terra s’era subito richiusa sopra di lei. Si trovò in una vasta caverna, in fondo alla voragine. Colui che l’aveva rapita si tolse dal capo un elmo nero fuligginoso che lo rendeva impenetrabile ad ogni sguardo e Prosepina indignata, poté vederlo. Era un uomo grande, immensamente triste e severo, dai capelli arruffati, con occhi piccoli rossicci, e barbaccia nerastra; bruna la pelle, una corona d’ebano in testa, con scettro e chiavi nelle mani.
- Chi sei tu? Domandò la fanciulla spaventata.
- Sono Plutone, rispose, sforzandosi di sorridere, e di addolcire la voce.
- Misericordia! Il dio dell’Inferno, uno dei figli dell’antico dio Saturno… il fratello di Giove!
Proserpina aveva ben udito parlare di lui da sua madre Cerere!
Quando Giove ebbe detronizzato Saturno, aveva tenuto per sé il dominio del l’universo, affidanto al fratello Nettuno la cura dei mari, e al fratello Plutone la sorveglianza sulle anime dei trapassati.
- Era da allora, disse mestamente Plutone, che io non risalivo più sulla superfice della terra.
- Sono risalito per la prima volta questa mattina, per te, Proserpina!
La bella figlia di Cerere, allibì.
- Noooo!!
- Non inorridire, Proserpina…non voglio farti del male.
- Del resto, vedi? Né io, né il mio regno siamo così brutti come ci dipingono.
- Né qui ci sono soltanto le anime dei malvagi.
- Non aver paura! Vieni!..Vieni!
Così detto la trasse per mano, e la fanciulla, come un’automa si lasciava condurre. Plutone, aprì con la sua chiave arrugginita, e una pesantissima porta di ferro, cigolò sinistramente sui cardini.
- Oh!.. non temere Proserpina!
- Ecco Cérbero, il mio feroce cane dalle tre teste!
- Stai giù con le zampe, animale!
- Continuamente abbaia e latra, ma morde solo chi tenta di scappare.
- Proserpina chinò il capo e non rispose.
Questo è l’erebo! Spiegava Plutone; è il regno della Morte.
- Ecco là, il mio buon vecchio Caronte, con la sua barca sempre piena d’anime; andiamo avanti, Proserpina!
- Quattro fiumi bisogna passare prima d’essere dall’altra parte, e questo, è il famoso Acheronte. Poi verrà il Flegetonte infiammato, quindi il vorticoso Cocito ed infine lo Stige, putrido e infetto.
- Ma perché ti fermi?.. Avanti!
Ecco i condannati nel Tartaro!
- C’è Sisifo, il perverso re di Corinto, l’uomo più furbo del mondo, colui che seppe ingannare e incatenare la Morte. Quando questa andò per prenderlo la rinchiuse in un sotteraneo. Fummo noi che ce n’accorgemmo, perché non calava più nessuno quaggiù dalla terra, e difatti nessun vivente più moriva. Il Mondo s’era gremito d’uomini. Allora avvertimmo Marte, il quale liberò la Vecchia. e Sisifo fu scaraventato quaggiù; ma che aveva egli inventato di nuovo?
Prima di morire aveva raccomandato alla moglie, di non mettergli in bocca la solita moneta, con cui le anime pagano quaggiù Caronte per il traghetto, e di non fargli mai i funerali. Tu sai che senza queste condizioni, Caronte non può e non vuole traghettar nessuno. Così noi dovemmo rimandar indietro Sisifo, con la promessa che ritornasse.
- Che cosa fece costui?
- Non ritornò! Dovemmo mandare a prenderlo da Mercurio.
Ma una volta quaggiù, lo condannammo a spingere per una ripida china un macigno rotondo, fino alla cima di un monte, e quando stà per arrivare, e per riposarsi, il macigno gli precipita a valle, ed egli ricomincia la sua fatica….
Così è, e così sarà sempre, eternamente, per tutti i secoli dei secoli.
- Senti? E’ ben lui che si sforza.
- E altri?
Chi c’è ancora nel Tartaro?
- Or ecco, abbiamo passato lo Stige, ultimo fiume.
- Vedi là, i Campi Elisi, dov’è la mia dimora?
E le additò un vasto panorama, tutto di colli ombrosi e di delizioni boschetti, di liete fonti e di garruli ruscelli, di prati, e di giardini smaltati di fiori e pieni d'alberi, dai frutti d’oro. Il sole splendeva, il cielo era sereno, e l’aria profumata. Le anime dei beati, ivi cantavano o danzavano, giocavano o conversavano, passeggiavano o bancheggiavano, felici e dimentichi delle tribolazioni di questo mondo, avendo bevuto l’acqua del fiume Lete, che traversa i Campi Elisi e li rende smemori d’aver vissuto un’altra vita.
Sono le anime di coloro che furono buoni, bravi, onesti e virtuosi sopra la terra.
Laggiù, in un’altra gran prateria, fiorita solo di asfodèli, si aggirano invece quelli che non furone né buoni, né cattivi, non ebbero castighi, e non meritarono neppure premi; ivi s’innalza il mio trono.
Ivi risiedono i tre giudici supremi: Minosse, che fu già re, e diede saggie leggi a Creta. Eaco, che fu anche lui nell’isola di Enone, re saggio e pio e Radamanto, fratello di Minosse.
Ebbene Proserpina, vuoi restare con me?
Cerere, sua madre, l’andava frattanto cercando affannosamente per mare e per terra, gemendo e interrogando.
- Dov’è mia figlia; avete visto mia figlia?
- L’ho vista io, le disse finalmente il Sole, al cui occhio formidabile nulla si nasconde.
- Oh! Dov’è?..dov’è?
- Nell’Averno!
- Nell’Averno? Mia figlia con Plutone?!
E corre disperata, da sua madre, Cibele, l’antica dèa della Terra.
- Oh madre Cibele!
- Sai che cosa han fatto a me che son la dèa più utile, più mite, e più buona?
- A me che non feci mai male ad alcuno, e non ebbi mai altra arma che il falcetto per tagliar le messi?
- A me che attesi sempre a coltivare i campi e trasformai gli uomini da errabondi pastori in coloni, e le loro capanne di nomadi in case civili?
- Plutone… ha rapito mia figlia! L’ha chiusa nell’Averno!
- Tu devi aiutarmi! Devi liberarla!
L’antica dèa Cibele, andò a bussare alle porte dell’Averno.
- Che cosa vuoi? Domandò Plutone.
- Restituisci Proserpina a mia figlia!
- Proserpina?... Ma è già mia sposa!
Cibele allora corre da Giove: e… o sommo Giove!
- Plutone ha rapito Proserpina! L’ha persino sposata!
- Se l’ha sposata…resterà con lui, ribattè il gran Padre Giove.
Allora Cibele, dà uno sguardo cattivo sopra tutta la terra; si chiude in sé muta, serra le labbra, stringe i denti, ed ecco s’intristiscono gli uomini, le erbe, le piante, e gli animali; marciscono sotto le zolle e imputridiscono i semi e le radici; scorrono lenti i fiumi; l’aria si fa grave, densa e caliginosa; il sole non riscalda più; s’avvizziscono i frutti e cadono le foglie; una tristezza infinita; un silenzio di morte; dovunque fame, miseria e flagelli.
Anche Giove, alfine s’impensierì!
Incaricò Mercurio di rimettere le cose a posto!
Ed egli s’intromise presso Plutone, andò da Cerere, e la convinse a cedere sua figlia per qualche tempo al terribile iddio dell’Inferno
- Per quanto tempo? Domandò Cerere.
- Quattro mesi all’anno; gli basteranno!
- Per quattro mesi…?
- Va bene! Acconsentì la dèa. E si concluse l’accordo.
E ancora addesso, in quei quattro mesi, tutto quaggiù si fa triste, grigio, freddo, e gelo.
Ed è … l’inverno.
(Ritorna a Persefone)
COME GLI ANTICHI GRECI IMMAGINAVANO I REGNI D'OLTRETOMBA
Un labirinto inestricabile di corridoi, di cunicoli, di caverne, d’antri, gallerie, grotte, spelonche e rupi inaccessibili; pozzi profondi, muraglie vertiginose, vòlte spaccate, enormi massi sospesi in bilico sui precipizi, e traballanti ponti lanciati su baratri; trabocchetti, insidie, e tranelli e urli e grida, e strilli disumani, colpi, rombi, tonfi, esplosioni misteriose, e boati; bestemmie, ingiurie, imprecazioni; un tumultuare, un minacciare, un’azzuffarsi, un ribellarsi: e fumo, e puzzo, e caldo, tutto in una luce ostile e livida, soffusa e opaca, e senza sole, come filtrata tra fitte nuvole e tra una caligine folta nell’imminenza di un temporale.
IL SUPPLIZIO DI TANTALO
- C’è anche Tantalo, quel re della Libia, che fu invitato a pranzo nell’Olimpo da Giove, e ardì rubargli l’ambrosia e il nettare!
E’condannato a stare in un’acqua freschissima e pura, sotto un’albero di frutti polposi: sono mele fra le più belle, e le più appettitose. Il suo stomaco è dilaniato dalla fame, e la sua bocca arde di sete; ma ogni volta che s’appressa all’acqua e si allunga con le braccia per carpire un frutto, acqua e rami si ritirano. Così egli rimuore..,senza mai poter morire! Così è…e così, sempre sarà!
- E poi?
FLEGIAS SOTTO IL MACIGNO
- Poi c’è Flegias, il re dei Lapiti, che incendiò il tempio di Apollo a Delfo, ed è continuamente condannato a reggere un blocco di pietra, che perpetuamente grava sopra di lui, e perpetuamente minaccia di schiacciarlo se cede.
ISSIONE LEGATO ALLA RUOTA
- C’è Issione, un’altro re dei Lapiti; un temerario che osò corteggiare Giunone. Costei ne informò Giove, che formò con una nube l’esatta immagine di sua moglie e si appostò lì accanto. E quando Issione venne presso la nube, egli lo agguantò e lo scagliò quaggiù. I dèmoni l’hanno legato con una corda di serpi a una ruota rovente, che gira sempre turbinosamente nel vuoto.
LE DANAIDI
- E vi sono anche le Dànaidi, le sciagurate cinquanta figlie del re Danao d’Argo che trucidarono insieme, nella stessa notte, i cinquanta loro mariti; diciamo meglio, quarantanove, perché una, Ipermestra, fortunatamente non volle. Sono giù nel Tartaro, affaticate a riempir con quarantanove secchie una botte sfondata, che non s’è mai riempita e non si riempirà mai! Ma non parliamo più di loro. Lasciamoli tutti al tormento delle Furie (Erinni); di Megera che odia, di Aletto che s’arrabbia,e di Tisifone che si vendica. C’è laggiù anche la Nemesi, la dèa della vendetta celeste.
PO - PT
POLIBETE
Sacerdote di Cerere, dèa delle messi, che fu riconosciuto da Enea nell'Inferno, nel luogo ove abitavano i piu' rinomati guerrieri.
POLIBIO
Storico greco (Megalopoli, Arcadia 208 a.C., circa – circa + 126). Figlio di Licorta, fu coinvolto nelle vicende della Lega capeggiata da Filopomene (di cui scrisse una Vita). Nel 169, fautore d’una politica dì equilibrio fra Macedonia e Roma, tenne un atteggiamento ambiguo, e nel 168 dopo la vittoria di Emilio Paolo a Pidna, fu condotto come ostaggio a Roma, dove divenne amico e maestro di Scipione Emiliano. Al seguito di questi, vide nel 146 la distruzione di Cartagine accettando l’inutile crudeltà di Scipione. Dopo aver assistito al saccheggio di Corinto, fu incaricato d’una missione in Grecia e forse partecipò alla guerra numantina. Delle sue Storie in quaranta libri (dal 264 al 146), ci restano i primi cinque, estratti, squarci, e frammenti degli altri. Il contatto con le sfere dirigenti di Roma, gli consentì di utilizzare fonti di prima mano, che integrò con varie fonti letterarie, oltre che con la propria esperienza e competenza militare e politica. Sebbene non risultino chiari la partizione dell’opera, che fa posto ad ampi excursus (il libro VI sulla costituzione romana; il XII polemica sui criteri storiografici, ecc.), e a riepiloghi (libro XI ) si sà che volle cercar di fare una storia pragmatica, escludendo dagli accadimenti,e dalla loro rievocazione ogni elemento utopistico, romanzesco, poetico, puntando unicamente sulla creatrice attività umana, e indagando le ragioni profonde dei fatti, irridendo ogni spiegazione miracolistica e provvidenziale, riconoscendo come già Tucidite nella“Tyche”, il margine d’imprevisto che resiste all’analisi razionale. La Storia di Polibio vuole altresì essere universale, cioè abbracciare gli eventi di tutti i popoli nella loro interdipendenza, sia pure entro un arco di tempo limitato; finisce però per essere una storia di Roma dominatrice del mondo mediterraneo, che Polibio ammirò senza riserve. Nonostante la scarsità di vigore filosofico, l'incomprensione dei fattori economico sociali, e l’accentrato moralismo, sà narrare con grande precisione gli avvenimenti cui prese parte. Il suo stile appesantito da pretese retoriche, è arido e difficile; fu fonte preziosa per Diodoro Tito Livio e Plutarco.
POLIBO
Re di Corinto, alleva come un figlio Edipo raccolto sul monte Citerone, da dei pastori.
(Vedi EDIPO)
POLIBOTE
Polibote (in greco antico: Πολυβώτης, Polybótes) era nella mitologia greca il nome di uno dei Giganti nati dal sangue di Urano, caduto sulla terra quando venne mutilato dal figlio Crono, che combatterono contro gli dei dell'Olimpo nella Gigantomachia.
Polibote fu inseguito da Poseidone attraverso il mare, fino all'isola di Kos. Lì, il dio staccò un pezzo dell'isola col suo tridente e glielo scagliò addosso, seppellendolo, dando origine all'isola di Nisiro.
POLICLETO
Scultore greco, soprattutto bronzista nato ad Argo e attivo nella seconda metà del V s.a.C. E’assieme a Fidia, l’altro grande maestro dell’età classica, ed un influsso della sua personalità si può trovare anche nel fregio fidiamo del Partenone. E' autore di numerose statue bronzee di atleti giunte a noi in copia; scrisse inoltre un’opera teorica, il “Cànone”, in cui fissava le proporzioni ideali della figura umana, di cui il “Dorifero” (portatore di lancia), era l’esemplificazione plastica. Condusse la sua ricerca formale attraverso la disposizione equilibrata delle masse all’interno della fluente linea di contorno, e a tale scopo si servì di un ritmo compositivo “chiasmo” (tale definizione è legata alla forma della lettera greca), secondo cui ad un insistere della figura sulla gamba destra, corrispondeva un portare avanti la spalla sinistra e viceversa. Altre sue figure atletiche furono: Kyniskos, il Discoforo (atleta che porta il disco), e il Diadumeno (atleta vincitore che si incorona). Alla sua attività ateniese risale la statua dell’Amazzone (con la quale risulta vincitore su Fidia, Kresilas, e Phradmon), opera che pose nuovi problemi all’artista, per il soggetto femminile è il panneggio, che fu di tipo fidiano. Una delle ultime sue opere fu la statua crisoelefantina di Era argiva, alta, con la base circa di otto metri.Il suo intersse statico e volumetrico conclude una ricerca di tutta la scultura greca e prelude a nuove possibilità affrontate da Lisippo e Prassitele.
POLIDORO
L’ultimo figlio di Priamo re di Troia, e di Ecuba, che, inviato dal padre dal genero Polimnestore re di Tracia con gran quantità d'oro affinchè lo crescesse lontano dalla guerra. Avido di ricchezze fu da questi ucciso e derubato dell'oro affidatogli.
- Così Virgilio nell’Eneide (libro III 22 - 68).
- ..."La sua salma venne poi tramutata in mirto"...
- - Note - La viltà di Polimnestore è abominevole. Sta con Priamo fin che le sorti della guerra restano incerte, quando vede che i vincitori sono i greci, uccide Polidoro per dimostrare che è dalla loro parte contro i troiani, e insieme si arricchisce con l'oro dell'innocente ucciso.
POLIFEMO
Il maggiore dei Ciclopi, (detti Etnei perchè abitavano presso l'Etna) figlio di Posidone e della ninfa Toosa. Nell’Odissea viene rappresentato come un gigante monocolo, che Ulisse ubriaca e acceca con un palo rovente. E’ pastore gigantesco che rinchiuse Ulisse con i propri compagni di viaggio in una spelonca, quando sbarcarono nelle isole dei Ciclòpi e si salvò assieme ai sopravissuti accecandolo e fuggendo aggrappati alla pancia di pecore villose.
POLIMNESTORE
Re della Tracia; ospitò Polidoro, figlio di Priamo (suo genero), che l’aveva mandato con gran quantità d’oro affinché lo crescesse lontano dalla guerra, per fuggire al destino di Troia. Sicuro del successo dei Greci l’avido Polimnestore non esitò ad ucciderlo per impossessarsi dell’oro.
(Vedi ECUBA)
- - Note -
- L’episodio è narraro nel libro III dell’Eneide; la turpe iniziativa di Polimnestore è apertamente condannata; egli viola i sacri doveri dell’ospitalità, tradisce la fiducia di Priamo, rinnega i troiani.
- ..."A che cosa non spingi i cuori umani febbre dell'oro, maledetta"- Dal cuore di Virgilio che esalta la pace e la giustizia, erompe questo grido disperatto e amaro contro l'avidità di denaro, che spinge troppi uomini al male..
POLINICE
Figlio di Edipo e di Giocasta; è marito di Argia (figlia di Adrasto).
(Vedi ETEOCLE)
(Vedi ERIFILE)
POLINNIA
Una delle nove Muse; presiedeva alla poesia religiosa, alla pantomina e al canto sacro. lirica corale ; detta alata, non già perchè sia stata rappresentata con l'ale, ma perchè ispiratrice degli estri lirici, e la lirica ha trapassi, voli, si come suona il suo nome greco; molteplice canto e varietà delle forme liriche.
(Vedi MUSE).
POLIREMI
Navi dell’antichità classica, dotate di più ordine di remi. Queste unità usate principalmente per scopi militari, derivarono dalle primitive navi ad un solo ordiune di remi, quale la “pentecontoro” (lunga 30-35 mt., e larga circa 3 mt., e fornita su ciascuna fiancata di 25 remi disposti in un solo ordine), adoperata dai Greci fino al V s.a.C. La necessità di disporre di maggiore velocità, e l’impossibilità di allungare la pentecontoro, senza comprometterne la robustezza, portarono all’adozione di più ordine di remi, da due fino a cinque. Furono così realizzate le biremi, le greche triere, e le romane trireme, le quadriremi e le quinqueremi. Questo nuovo tipo di remaggio, non implicava per le biremi e le triremi che i vogatori fossero disposti su ponti diversi, I vari ordini di remi infatti sporgevano dai fianchi delle navi ad altezze poco differenti ed i singoli remi di un ordine, erano sfalsati rispetto a quelli dell’ordine contiguo, sicchè i remi potevano essere manovrati da vogatori che si trovavano su banchi convenientemente disposti su uno stesso ponte. Per le quadriremi e le quinqueremi invece è controversa la questione, se i vogatori si trovassero su un solo ponte o su due. Le più diffuse furono le triere o triremi, e le quinqueremi. Le triere che costitui vano il nerbo delle flotte greche nelle guerre persiane, e in quelle successive, furono riprodotte dai Romani nelle loro triremi; ma nelle guerre puniche, avendo i Cartaginesi navi di maggiori di mensioni, le romane trireme furono sostituite dalle quinqueremi, lunghe circa 70 metri, sulle quali erano imbarcati 300 vogatori e 120 uomini d’arme. Su queste unità Gaio Duilio fece applicare il corvo, il cui uso si dimostrò molto utile all’arembaggio. Eliminata Cartagine, la poco manegge vole quinqueremi, dal I s.a.C., non fu più costruita; la sostituirono navi più manovriere, quali per esempio la Liburnia.
POLIS
(Da cui il termine; politica). Nome che gli antichi greci davano alle città Stato. Sembra oramai accertato che le prime pòlis sorsero sulle coste dell’Asia Minore, dove, per ragioni di difesa, i coloni greci si organizzarono entro solide posizioni difensive. Dalle colonie, l’istituzione delle pòlis passò alla madrepatria, diffondendosi rapidamente. Già numerosissime in tutta la penisola greca nel VII e VI s.a. C., nel lV s. le pòlis mancavano solo in qualche piccola zona periferica o più arretrata. Di regola la pòlis costituiva una fase di ulteriore sviluppo del primitivo villaggio originario. Centro ideale ne era la fortezza, posta di solito nel punto più elevato, sede in origine del re, e rifugio della popolazione in caso di pericolo. Essa aveva il nome di acropoli (città alta); attorno a questa le abitazioni dei cittadini (poltai), i templi, la piazza per il mercato e per le assemblee pubbliche circondati e protetti da mura, costituivano la pòlis vera e propria. Nei regimi democratici, e nel V secolo si consideravano pòleis solo le città con governo democratico, fra le quali Atene era la pòlis per eccellenza.
I cittadini partecipavano tutti alla vita dello Stato, con parità di doveri e di diritti, intervenendo alle adunanze popolari, nella nomina dei magistrati, nelle discussioni sui problemi dell’amministrazione, o su quelli della politica interna ed estera, della pace e della guerra. Per contro, i cittadini erano tenuti alla difesa della città in caso di guerra, fornendo soldati e armi, e a provvedere a tutte le esigenze della pòlis, in ordine alla amministrazione, alla finanza, al culto. Questa organizzazione, che nei suoi caratteri essenziali non differiva in modo apprezzabile da città a città, fu l’ostacolo principale alla organizzazione di un’unica vasta comunità
nazionale in Grecia. La decadenza della pòlis ebbe inizio dopo la guerra del Peloponneso, tra la fine del V e l’inizio del IV s.a.C., quando cominciò ad essere sensibile il disinteresse dei greci alla vita della città e quindi apparve svigorita la città stessa. Nella seconda metà del secolo, questa doveva mostrare i primi gravi sintomi della crisi, accentrata dal fatto che le conquiste di Alessandro Magno, avevano affermato e diffuso in tutto l’Oriente mediterraneo la definitiva prevalenza dello Stato - regione, sullo Stato - città.
Nell’età ellenistica anche la Grecia dovette piegarsi alla nuova realtà storica, e si formarono unioni federali: Lega Etolica – Lega Achea, nelle quali l’antico particolarismo delle pòleis, era in gran parte superato mentre città un tempo potenti, come Atene e Sparta che ne rimasero fuori, persero ogni importanza come Stati. Poco dopo, con la conquista romana la vita delle pòleis si ridusse ad un’attività quasi esclusivamente amministrativa.
POLISSENA
Figlia di Priamo e di Ecuba, che, secondo la tarda tradizione, fu amata da Achille e, dopo la caduta di Troia, sgozzata dai Greci sul la tomba dell’eroe, la cui ombra aveva richiesto tale sacrificio.
POLISSO
Parente di Elena
(Vedi Elena))
POLLUCE
POMONA
Deità latina; presiedeva agli orti.
Pomona è la dea romana dei frutti (chiamata perciò Patrona pomorum, "signora dei frutti"), non solo di quelli che crescono sugli alberi, ma anche dell'olivo e della vite. Il nome della dea deriva chiaramente da pomum, "frutto". Ovidio la descrive con una falce nella mano destra (anziché con un giavellotto come nel caso di altre divinità.
Le era dedicato un bosco sacro denominato Pomonal, situato a sud del XII miglio della via Ostiense, nei pressi dell'attuale Castel Porziano.
Al culto della dea era preposto un flamine minore, il flamine pomonale, che nell'ordo sacerdotum era il meno importante di tutti.
Non si conoscono feste (Pomonalia) in suo onore, né dai calendari antichi giunti fino a noi, né dalle fonti letterarie classiche. Il filologo classico tedesco Georg Wissowa ha ipotizzato che la festività di Pomona fosse mobile e determinata dal momento della fruttificazione delle colture.
Secondo il poeta Ausonio, Pomona ha in tutela il mese di settembre perché è quello in cui matura la frutta.
PONTO
- Ponto
- Ponto
Regione storica dell’Asia Minore, nell’odierna Turchia; nota ai Greci come Pontos e ai Romani come Pontus. Ebbe notevole fortuna sotto la dinastia che la resse dopo lo sfacelo dell’impero di Alessandro Magno finchè, a seguito delle campagne di Pompeo, contro Mitridate (65 a.C.), e di Giulio Cesare contro Fornace (47a.C.), la regione iniziò a far parte dell’impero romano. Considerando il nucleo tradizionale limitato a Nord dal Mar Nero, dall’Armenia a Est, dalla Cappadocia a Sud, dalla Galazia a Sud - Ovest, e dalla Plafagonia ad Ovest, in epoca Augustea la regione fu divisa tra le provincie imperiali della Cappadocia e della Galazia, e in quella senatoria di Bitinia e Ponto. Con la riforma di Diocleziano, costituì assieme alla Plafagonia, alla Bitinia, alla Cappadocia, e all’Armenia Minore la Diocesi Pontica. Prevalentemente montuosa è attraversata da O.a E.dai Monti Pontici; tra i corsi d’acqua che scendono nel Mar Nero dei quali i maggiori sono lo Yesilirma e il Coruh.
(in greco Πόντος, "il Flutto") è un personaggio poco conosciuto della mitologia greca, era la personificazione maschile del mare, una divinità marina del mare primordiale. Non possiede nessuna leggenda particolare e figura soltanto nelle genealogie teogoniche e cosmogoniche. Passa per essere figlio di Gea che si autofecondò (secondo altre versioni invece fu figlio di Gea ed Etere). Unito a (Gea), generò (Nereo), Taumante, (Forco), (Ceto), ed Euribia . Gli si attribuisce anche la paternità dei Telchini, della ninfa Alia e dei pesci marini, tutti generati assieme a Talassa.
PORFIRIO
Filosofo greco (Tiro 233)234d.C. -? inizi del IV°s.). Studiò dapprima ad Alessandria, dove fu discepolo di Origene e di Cassio Longino. Nel 263 si recò a Roma dove divenne scolaro di Plotino di cui scrisse una biografia e pubblicò le opere. Il pensiero filoso fico è il riflesso di tutte le molteplici esigenze e tendenze religiose, misteriche e filosofistiche di un’età dominata dai grandi movimen ti neopitagorici e del neoplatonismo. Autrore di una ”Vita di Pitagora”, e di una interpretazione allegorica di Omero, dal titolo “Sul l’antro delle Ninfe nell’Odissea". Scrisse 15 libri “Contro i cristiani” per cui questi lo chiamarono – il nemico – . Tuttavia l’opera storica più fortunata fu “L’introduzione alle categorie di Aristotele” che, largamente commentata fino al Rinascimento, costituì il punto di avvio di una delle dispute più accese nel Medio Evo, quella intorno agli universali
PORFIRIONE
Nella mitologia greca, Porfirione era uno dei Giganti, e figlio di Urano e di Gea.
Insieme ai suoi fratelli, venne istigato dalla madre, Gea, ad attaccare Zeus e quindi tutti gli Olimpi, nel corso della Gigantomachia. Cadde trafitto, insieme al fratello mostro Tifone, sotto le frecce del dio Apollo.
La versione più comune racconta che Porfirione, uno dei Giganti più potenti della Gigantomachia, combatté con ferocia al fianco del fratello Alcioneo. Morto questo, attaccò violentemente Era, riuscendo a strangolarla, ma una freccia scagliata da Eros, lo ferì al diaframma.
Indignato, si accanì sulla dea, tentando di violentarla, ma, mentre le strappava di dosso i vestiti, Zeus irato intervenne scagliando un enorme folgore sul nemico. Colpito a morte, Porfirione indietreggiò, quando all'improvviso Eracle, alleato di Zeus, balzò su di lui finendolo con una freccia e a colpi di clava.
POSIDONE
o POSEIDONE
Dio greco che regnava sul mare. Il suo nome in ”Poseidòn”, significa probabilmente ”sposo della terra”. Figlio di Crono e di Rea, fratello di Zeus, era signore del cielo, e dell’Ade (l’oltre tomba). Il suo potere sull’elemento acquatico si estendeva anche alle acque terrestri ed era sua facoltà far scaturire sorgenti. Manifestava la sua collera con tempeste e terremoti, che provocava scotendo la terra con il tridente; suo attributo specifico. Una serie di miti in cui Posidone cerca invano di diventare dio poliade di qualche città, sembra accentuare i caratteri negativi e caotici dell’elemento marino nei confronti delle cosmiche città terrestri, economicamente fondate sull’agricoltura (attività “civile” dialetticamente contrapposta “all’incivile pesca”). Invano, secondo questi miti, disputò: *Corinto al Sole (Elio), *Egina a Zeus, *Nasso a Dioniso, *Delfi ad Apollo,*Trezene ed Atene ad Atena, *Argo ad Era. Nota è la disputa per Atene, decisa in favore di Atena, che, come prova del suo potere, aveva fatto nascere l’ulivo, mentre Posidone aveva fatto scaturire una sorgente. Ma tutte o quasi, queste città, che avevano rifiutato Posidone in realtà (come o più di tante altre), tenevano relazioni culturali col dio; evidentemente, proprio la presenza di tali culti, dava modo di esprimere l’antitesi mare - terra. Per esempio Corinto che aveva rifiutato Posidone in favore di Elio, ogni quattro anni solennemente celebrava sull’istmo i celebri grandi agoni panellenici, in onore di Posidone.
POTIDEA
Antica città greca, colonia di Corinto, nella penisola di Pallene; città tributaria della Lega delio – attica, nel 432 si ribellò ad Atene, a cui si dovette arrendersi dopo un anno di assedio, e l’episodio fu una delle cause occasionali della guerra del Peloponneso. Fu distrutta da Filippo il Macedone nel 364 a.C.
PRASSITELE
Scultore ateniese del IV s.a.C., figlio di Cefisòdoro. Fonti letterarie ci enumerano una quarantina di opere, ma conosciamo con sicurezza solo due originali usciti dalla sua bottega, cioè le lastre di Mantinea con la gara di Apollo con Tarsia e sei muse, e la base della Via dei Tripodi in Atene. Controversa è l’attribuzione dell' Hermes, dell’ Heraion di Olimpia, una figura del dio nudo che si riposa e sorregge il piccolo Dioniso. La statua, rinvenuta proprio nel luogo indicato da Pausania, presenta notevoli analogie con il tipo della plastica prassitelica, ma alcune particolarità stilistiche e la mancanza di copie hanno spinto alcuni studiosi ad attribuirla ad un artista di epoca ellenistica. Ma è soprattutto alla straordinaria quantità di copie delle opere di Prassitele che possiamo ricostruire il profilo artistico, i cànoni estetici del grande scultore ateniese e la sua fortuna nel mondo greco - romano. Il suo capolavoro è certamente rapperesentato dall’Afrodite Cnidia, di cui abbiamo 40 copie diverse. La statua per la quale posò l’ etèra Frine, processata per em pietà, difesa da Iperide, raffigura la divinità nell’atto di uscire dal bagno con un morbido modellato, ed un tenue chiaroscurio che be ne pone in risalto la bellezza e la giovinezza incontaminate della dèa. Tra le altre opere celebrate nell’antichità, bisogna ricordare il “Satiro che versa”, dai ritmi distesi e gravitanti, il “Satiro che riposa”, dalla delicata sensualità, l’Eros, dallo sguardo pervaso di una impenetrabile malinconia, e “l’Apollo sauroctono” (che caccia una lucertola), originariamente in bronzo, agile e flessuoso.
La caratteristica di Prassitele era “la grazia”, ch’egli faceva scegliere per le sue figure ritmi di appoggio ad un sostegno laterale, con una sinuosità nuova del corpo abbandonato (ben diversa dalla statica organica di Policleto); anche il panneggio era delicato e trasparente, mentre l’occhio trasognato era definito dagli antichi ”umide”.
PREFICA
Donna che, dietro compenso, prende parte alle cerimonie funebri con canti e lamenti in onore del defunto; il costume, proprio del mondo antico, permane nel folclore di vari popoli dell'Europa attuale.
PRIAMO
Mitico re di Troia, figlio di Laomedonte, padre di cinquanta figli, quasi tutti ricordati dalla tradizione greca, tra cui Paride che, col ratto di Elena fu causa della guerra di Troia, ed Ettore, il più valente difensore della città, ucciso da Achille. Priamo unvece è ucciso da Neottolemo, il figlio di Achille durante il saccheggio della città, accanto all’ara domestica, ultima vittima, sotto gli oc chi della moglie Ecuba. A Priamo gli si attribuivano numerose spose o concubine e da giovane assistette alla prima distuzione della città; fatto schiavo e ris cattato, ricostruì Troia rendendola potente e prospera. E’ descritto come un re mite, giusto e amato dal popolo. La sua personalità ed il suo dolore sono descritti in una scena delicatissima dell’Iliade ; il riscatto dell’amato figlio Ettore, ed è rappresentato in atteggiamento di serena indulgenza anche verso i nemici.
PRIAPO
Antica divinità greca, originaria di Lampsaco in Asia Minore, è figlio di Dioniso e di Afrodite, e simbolo dell’istinto sessuale maschile. Dio dei frutti, dei giardini e dei vigneti, la sua iconografia è caratterizzata da una deformità mostruosa che, secondo il mito era stata voluta da Era in odio ad Afrodite.
PRIENE
Antica città dell’Asia Minore nella Caria, presso la foce del fiume Meandro sulle pendici del Monte Mycale. Nell’VIII° s.a.C., la città fu federata alla lega delle città ioniche., ed in seguito partecipò alle lotte contro i Persiani, che la rasero al suolo. Ricostruita, aderì alla lega delio - attica, e in età ellenistica raggiunse una notevole prosperità, fino a che non fu costretta ad assoggettarsi al dominio di Roma (133 a.C.). Fu distrutta nel XIII° secolo dai Turchi Selgiuchidi. La sua importanza archeologica è dovuta al fatto che per sfuggire alle inondazioni del fiume Meandro, fu completamente ricostruita verso la metà del IV° s.a.C., secondo i crieri urbanistici di Ippodamo di Mileto, e i suoi resti sono ben conservati, e danno una chiara idea della pianificazione di una città ellenistica. Fu costruita su quattro terrazze tagliate sul fianchi del Monte Mycale, con una pianta composta da isolati rettangolari di dimensioni rigorosamen te identiche; anche le vie principali e secondarie rispettavano al centimetro la larghezza fissata per le due categorie. L’agorà era situa ta al centro della città, più in alto il tempio di Atena Polis, celebre nel mondo antico. Altri edifici notevoli; il teatro, i ginnasi e l’ekkle siasterion (locale di riunione dell’assemblea).
PROCLO
Filosofo greco (Costantinopoli (410 - 412 d.C.– Atene 485). E’ il massimo esponente della scuola ateniese del neo - platonismo; una delle ultime grandi figure del pensiero filosofico antico. Autore di numerosi e alcuni famosissimi dialoghi di Platone (all’Alcibia de I al Parmenide, al Cratilo, al Timeo, alla Repubblica), e autore di varie opere teoriche; Elementi di teologia (da cui fu compendia to quel famoso “liber de causis” tanto importante per il pensiero medioevale), Teologia platonica e sei Inni, pervasi di un sincero fervore religioso. Infine le è attribuita anche una Crestomazia, in parte conservata dal patriarca Fozio nella sua Biblioteca e che trat tava dei vari generi letterari.
- Note
- E' stato detto l’Heghel dell’antichità per il suo sforzo poderoso di far rientrare tutta la filosofia precedente nel quadro di una sistemazione molto precisa e di una classificazione molto rigorosa di concetti. Lo schema è pur sempre quello della metafisica emanatistica di Plòtino, ma arricchito per influsso del giambico di nuove triadi e mediazioni. In generale l’essere si estrinseca in tre mo menti dialettici: il permanere in sé (nella sua perfezione), l’uscire fuori di sé (come causa effettiva delle cose), il ritornare in sé (in quanto fine ultimo a cui tutte le cose tendono). E’questo ritmo dialettico che in vari gradi del processo emanativo,spiega il formarsi e il perire di tutte le cose.
PROCNE
Uno dei figli di Erittonio, padre di Eriponte
(Vedi BUTE)
PROCUSTE
o PROCRUSTE
Mitico brigante greco, chiamato anche Damaste o Polipèmone, che infestava la strada tra Megera e Atene. Narra la leggenda che possedesse due letti; uno corto e uno lungo e su di essi poneva i suoi prigionieri; quelli bassi sul lungo e quelli alti sul corto e quindi li pareggiava alla lunghezza del letto, tirando le gambe dei bassi e tagliandole agli alti. Fu ucciso dall’eroe ateniese Teseo.
PRODICO
Prodico (in greco Πρόδικος; Ceo, 460 a.C. circa – Atene, forse 380 a.C.) è stato un filosofo e retore greco antico. Sofista tra i più celebri, viaggiò a lungo per la Grecia riscuotendo un largo successo soprattutto ad Atene, ove si recò come ambasciatore, e a Sparta.
Prodico nacque nella città di Iulide] sull'isola di Ceo, attorno al 460 a.C. Allievo di Protagora di Abdera,[1] conobbe la fama in seguito a una ambasceria ad Atene, in cui fu ammirato da importanti cittadini ateniesi, come Socrate e Senofonte. Pare infatti che in quell'occasione Prodico si distinse per eloquenza e capacità oratoria, nonostante il suo tono basso di voce rendesse difficile al suo pubblico seguirlo.
Grazie a questa fama, divenne in breve uno dei sofisti più quotati, ed ebbe vari discepoli in tutta la Grecia, tra cui il retore Isocrate, il tragediografo Euripide, e Teramene detto Coturno, politico ateniese e membro dei Quattrocento, che fu condannato a morte all'epoca dei Trenta Tiranni con l'accusa di essere un democratico.
Una tradizione tarda vuole che Prodico sia morto per aver bevuto la cicuta, condannato dalla polis ateniese con l'accusa di corrompere i giovani. Oggi questa notizia è ritenuta falsa dagli studiosi, anche se, stando a quanto testimoniato nell'Erissia, dialogo spurio talvolta attribuito a Platone, almeno in un'occasione Prodico fu realmente accusato di ciò, e per questo fu cacciato da un ginnasio.
Il pensiero di Prodico spazia dall'etica alla filosofia naturale. Di notevole interesse è però la sua teoria del linguaggio e la sua abilità nel distinguere nettamente i significati dei termini, fin nelle minime sfumature (la cosiddetta sinonimica): tale attenzione pare fu imitata anche dallo storico Tucidide
L'etica: Eracle al bivio
L'etica ricoprì un ruolo importante nel pensiero di Prodico, tanto da essere apprezzato e citato da Senofonte, Platone e Socrate (di cui talvolta viene riportato addirittura allievo). Questa sua attenzione alla sfera della morale e dell'etica mette infatti in crisi il pregiudizio che vede i sofisti come individui spregiudicati e avidi, strenui sostenitori del relativismo etico.
A dimostrazione di ciò Senofonte riporta, parafrasandola, la cosiddetta favola di Eracle al bivio, probabilmente contenuta nell'opera più famosa del sofista, intitolata Ὧραι (Stagioni). Eracle, divenuto adolescente e giunto quindi all'età in cui deve scegliere cosa fare della propria vita, se essere virtuosi o votarsi al vizio, incontra ad un bivio due donne, personificazioni della Virtù (Areté) e del Vizio (Kakía). Entrambe tengono un discorso al giovane, per indurlo a scegliere una delle due: la volontà di Eracle di seguire la Virtù è un'immagine del passaggio dell'uomo dalla sua natura originaria (physis) alla virtù «divina» (nomos), acquisibile per mezzo dell'educazione.
La religione
Prodico è anche celebre come "anticipatore" dell'evemerismo. Già il suo maestro Protagora era stato accusato di empietà, avendo assunto una posizione agnostica sugli dèi, sostenendo che di questi non si può sapere niente, né se esistano né se non esistano. Prodico invece spiegava la religione popolare sulla base della divinizzazione prima delle cose utili all'uomo e poi dei loro scopritori: in questo modo sono stati divinizzati dapprima il sole, la luna, i fiumi, e in seguito sono nate divinità come Demetra (il pane), Dioniso (il vino) ed Efesto (il fuoco e le sue potenzialità tecniche). In questo modo, a quanto affermano le testimonianze, Prodico ricollegava anche i riti misterici ai frutti dell'agricoltura.
Il linguaggio
Tuttavia, la fama di Prodico è dovuta soprattutto alla sua dottrina della sinonimica o dell'esatto significato dei nomi: tale dottrina consiste essenzialmente nell'analisi semantica dei termini sinonimi e nella determinazione del loro significato preciso e univoco. Da qui l'inesattezza della notizia antica, accettata anche da molti moderni, secondo cui Prodico sarebbe stato maestro di Socrate: ciò che a Socrate interessa, infatti, non è tanto il significato dei termini, quanto ciò che ciascuno vuole significare quando usa un determinato termine.
Sotto questa luce Prodico può essere considerato piuttosto come il predecessore della moderna filosofia analitica del linguaggio.
PROGNE
o PROCNE
Eroina greca, mitica sorella di Filoméla, trasformata in rondine come Filomèla in usignolo.
PROMETEO
ed EPIMETEO
(gr. Che riflette prima). Detto il saggio; figlio del Titano Giapeto, la cui azione, posta ai primordi dell’umanità, si esplicava in antitesi a Zeus, dando origine alla condizione esistenziale umana.
Due sono i principali episodi di questa azione: l’inganno del bue e il ratto del fuoco.
La primitiva umanità guidata da Promèteo venne a contesa con gli dèi guidati da Zeus. Promèteo sacrificò un bue e lo divise fraudolentemente in parti ineguali; da un lato le carni e dall’altro le ossa rivestite di grasso, e perciò più belle a vedersi. Fece scegliere quindi a Zeus, il quale subì l’inganno e prese per sè il grasso e le ossa. La gara è apparentemente vinta dagli uomini, che hanno ottenuto il meglio del bue, ma la vittoria sarà pagata a caro prezzo. Da quel momento gli uomini sacrificheranno agli dèi; offriranno loro le parti immangiabili della vittima, ma i mangiatori di carne diverranno per questo mortali, mentre gli dèi diverranno i soli immortali.
Il furto del fuoco, che Prometeo rubò agli dèi per darlo agli uomini, comporterà ugualmente guai alla razza umana, con dannata per questo, a vivere una triste condizione esistenziale. Promèteo stesso per questo, venne legato ad una roccia del Caucaso ed ogni giorno un avvoltoio gli divorava il fegato, che ricresceva di notte. In seguito, venne liberato da Eracle, per ordine di Zeus.
Insieme a Promèteo, operava talvolta un fratello sciocco, Epimèteo (gr.che riflette dopo), intralciando le sue imprese.
Altra versione lo vuole, figlio di Giapeto e di Clìmene, e fratello di Epimèteo. Titano, amico degli uomini, restituì loro il fuoco, tolto a Zeus, e infuse la saggezza negli uomini, plasmati allora con l’argilla. Di ciò Zeus lo punì, incatenandolo ad una rupe del Caucaso, in balia di un’aquila, che gli rodeva il fegato. Era venerato in Atene quale divinità del fuoco.
PROPERZIO
Sesto Aurelio Properzio (Assisi o Urvinum Hortense, 47 a.C. circa – Roma, dopo il 15 a.C.) è stato un poeta romano.
Nacque probabilmente ad Assisi, come da lui stesso esplicitamente dichiarato nell'elegia proemiale del IV libro e come suggeriscono recenti acquisizioni epigrafiche recanti il nome di P. Passennus Blaesus, parente di Properzio e suo conterraneo (a quanto attesta Plinio il Vecchio), e l'indicazione della tribù Sergia (Assisi era l'unico municipio umbro a essere iscritto in questa tribù). Alcuni archeologi, inoltre, sostengono di aver trovato la casa del poeta, una lussuosa villa con affreschi mitologici ed iscrizioni in greco, sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Si è anche ipotizzato che Prudenzio fosse nato a Collemancio.[1]
Dagli elementi forniti da alcuni saggi eseguiti sul posto e dalle poche iscrizioni, certamente provenienti da Collemancio, si può dedurre che ivi ebbe vita almeno sino al III sec. d. C. un municipio romano, iscritto alla tribù Stellatina, e forse un centro italico.
In seguito alla rivolta dei proprietari italici, repressa da Augusto nel 41–40 a.C., il poeta subì lutti e confische di terre. Ormai in condizioni disagiate, si trasferì a Roma, dove tentò la carriera forense e politica, ma già nel 29 a.C., con il suo primo libro delle elegie, fu inserito nei circoli mondano-letterari della capitale.
Ebbe la prima esperienza sessuale con la schiava Licinna. Questa esperienza fu travolta nel 29 a.C. dalla grande passione per Cinzia, padrona di Licinna. Tra Cinzia e Properzio ci fu una prima rottura a causa di un'infedeltà del poeta. Tuttavia, dopo qualche tempo, i due ricominciarono a frequentarsi, ma l'amore di Properzio non era a sua volta corrisposto dalla fedeltà di Cinzia: dopo cinque anni di tormenti, la rottura fu definitiva. A partire da questo momento, il poeta si dedicò a uno studio impegnativo: intendeva cantare il passato di Roma, le leggende italiche, fatti e personaggi che avevano formato lo spirito della romanità. Da alcuni riferimenti si può dedurre che morì poco dopo il 15 a.C., a circa 35 anni.
Le OPERE
Le Elegie, in quattro libri, nei quali si distribuiscono i novantadue componimenti complessivi, tutti in distici elegiaci. Molti editori suggeriscono tuttavia una scansione diversa, che determinerebbe un aumento del numero totale di componimenti.
L'avvicinamento di Properzio a Mecenate e al suo famoso circolo avvenne forse nel 28 a.C., dopo la pubblicazione del primo canzoniere. Il poeta fu amico di Virgilio e, soprattutto, di Ovidio. La sua vita fu breve (come quella di Catullo e di Tibullo). Non sono presenti nei suoi versi riferimenti cronologici posteriori al 16 a.C., data probabile della morte. Forse, Properzio è il seccatore adombrato nella IX Satira di Orazio, che pare non lo potesse soffrire.
- (Properzio; Eleg., 11)
-
"Aurea nunc vere sunt secula: plurimus auro
Venit honos; auro conciliatur amor;
Auro pulsa fides ; auro venalia iura;
Aurum lex sequitur, mox sine lege pudor".
Successo delle ELEGIE
Il successo di Properzio come poeta fu immediato e duraturo e la sua poesia ebbe un notevole influsso sulla lirica dei secoli successivi. Nel Medioevo le tracce della sua presenza sono deboli e sporadiche. Fu però rivalutato dalla poesia umanistica. Con Ariosto, Tasso, Pierre de Ronsard e, soprattutto, nel Settecento neoclassico, la poesia di Properzio conobbe più ampia diffusione e fortuna, per toccare - con Goethe - il suo punto più alto.
PROPILEO
Dal greco – propilaia (davanti alle porte). Sono nel significato più proprio gli ingressi principali ad un complesso monumentale; aforà, acropoli, santuario, ecc. Originariamente si ebbero propilei “profani”, già nel secondo strato di Troia (2400 - 2200 a.C). e nel pa lazzo di Tirinto prima dei famosi propilei di Atene, opera dell’architetto Mnesikles. I propilei di Atene, costruiti all’epoca di Pericle, sul versante O dell’Acropoli, custodenti il tesoro di Delo, consistevano principalmente di un edificio antiprostilo all’esterno con sei colonne doriche e all’interno due file di tre colonne ioniche, ai lati di due edifici simmetrici ma non uguali, di cui uno era la Pinacoteca. Sul modello degli ateniesi furono costruiti propilei in molte altre citta greche e non; Eleusi, Epidauro, Samotracia, ecc. Ultima grandiosa trasformazione nel santuario di Giove Elio politano a Baalbek con una imponente scalinata al culmine della quale si ergeva un colonnato di 12 colonne incorniciato da due torri.
PROSERPINA
Altro nome suo latino è Persefone poi identificata con Libera
PROTAGORA
Filosofo greco (Abdera 481 circa - 411 circa a.C.) Fu con Gorgia il massimo esponente della sofistica greca. Soggiornò più volte ad Atene, dove entrò in rapporti molto stretti con tutte le personalità più in vista (da Euripide a Callia), e soprattutto con Pericle che nel 444 gli affidò l’incarico di redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi. Nel moto di reazione antidemocratica che portò al governo oligarchico dei quattrocento nel 411, fu coinvolto in un’accusa di empietà; sarebbe poi morto in mare, mentre cer cava di sfuggire alla condanna. Conosciamo molti titoli dei suoi scritti; “Sugli dèi” – “Verità e discorsi demolitori”–“Antilogie”, ecc. purtroppo per intero perduti, salvo due frammenti concordemente considerati come il manifesto del soggettivismo e del relativismo sofistico. “Di tutte le cose è misura l’uomo”, intendendo con ciò, che vero è per ciascuno, tutto ciò che tale gli sembri. Tutte le opi nioni sono quindi vere, anche quelle tra di loro contradditorie, e una distinzione tra esse, impossibile sul piano gnoseologico, ma re peribile solo sul piano della loro funzionalità e utilità pratica; tutte le opinioni sono egualmente vere, però alcune sono più utili e gio vevoli e altre meno. Ed è qui che si inserisce il magistero del sofista e di Protagora in particolare (che si presenta espressamente co me maestro di virtù politica), il cui compito è quello di far risaltare l’utilità o meno di alcune opinioni. Strumenti di quest’opera di “persuasione”sono, la retorica e la l’oratoria; tanto quella che si esercita con lunghi discorsi, quanto quella che si attua in un breve domandare e in un breve rispondere.
PROTEO
Figlio di Nettuno e della Ninfa Fenice, è custode dei greggi marini, specie delle foche Era presago del futuro, che non rivelava se non costretto ; in tal caso assumeva innumerevoli forme. Altra versione del suo mito lo vuole figlio dell’Oceano e di Teti, custode del gregge di Nettuno.
(Vedi ARISTEO)
PROTESILAO
Protesilao (o Iolao) è una figura della mitologia greca, figlio di Ificlo e di Astioche. Principe di Tessaglia, era uno dei capi achei che accompagnarono gli eserciti di Agamennone e Menelao nella guerra di Troia. Fu il primo guerriero acheo a balzare sul suolo troiano, morendo eroicamente, dopo aver compiuto una grande strage, per mano di Ettore. La sua morte non è raccontata nell'Iliade, nel quale è solo citata, ma è riferita da svariati autori greci e latini.
Protesilao era uno dei pretendenti di Elena. Protesilao era innamorato della bella Laodamia, figlia di Acasto (re di Iolco).
(Vedi LAODAMIA)
PROTOGENE
Pittore greco del IV° s.a.C. Visse e operò a Rodi e ad Atene, dove divenne il più noto rivale di Apelle. Fu, fino ai cinquant’anni pit tore di navi, poi si dedicò alla pittura prevalentemente di soggetto mitologico. Lavorò alla corte di Alessandro Magno e, se non co nobbe personalmente Prassitle e Lisimaco. certamente fu influenzato dalle loro opere. Fece il ritratto di Antigono e anche delle scul ture. Di un suo quadro, il ritratto di Ialino, Plinio riferisce che lo ridipinse quattro volte; una sull’altra per garantirgli la durata; ma questo sarebbe un’assurdo tecnico; in realtà le quattro mani provano l’incontentabilità dell’artista. Fu un abilissimo disegnattore, virtuoso e accuratissimo nei dettagli formali. Scrisse anche voluminose opere teoriche sulla sua arte.
PSICHE
Protagonista di una lunga favola narrata distesamente da Apuleio. Psiche (anima), si unisce a Eros (Amore), che si accoppia a lei al buio, per non svelare la propria identità. Una notte Psiche accende un lume provocando l’ira di Eros il quale la caccia di casa. Afrodite, madre di Eros, la perseguita, ma alla fine, dopo molte avventure, avviene la riconciliazione, e Psiche sarà per sempre la sposa di Eros. Secondo altra versione la bellissima fanciulla sposò Cupido, il quale non le rivelò l’es sere suo e pose a patto che non cercasse di conoscerlo mai.Venuta meno a questo patto, Cupido fuggì e Psiche dopo lunghi e dolorosi travagli sopportati per amore di lui resa immortale fu ammessa nell’Olimpo.
PSICOPOMPO
Nella mitologia e in religione, lo psicopompo è una figura (in genere una divinità) che svolge la funzione di accompagnare le anime dei morti nell'oltretomba. La parola "psicopompo" deriva dal greco ψυχοπομπóς, da psyche (anima) e pompós (colui che manda). La figura dello psicopompo è una figura centrale di molte mitologie e religioni antiche, e trova anche corrispondenze nelle religioni monoteistiche (talvolta per integrazione di miti antecedenti; si pensi per esempio al Caronte dantesco). Sovente è in coppia con un'altra divinità maggiore creatrice del mondo nella misura in cui lo psicopompo è un'entità neutrale, un messaggero dell'aldilà, una sorta di demone tra il mondo sensibile ed il mondo sovrasensibile. Lo psicopompo non è quindi una divinità in senso proprio, poiché non giudica gli uomini ma si limita a traghettarli nel mondo ultraterreno. Data l'importanza della riformulazione della morte come passaggio (trasformazione) nelle religioni e nelle mitologie, non stupisce che lo psicopompo sia in genere una figura di rilievo (nelle religioni politeistiche si tratta quasi sempre di una figura importante del relativo pantheon). Nel culto Vudù, esso è rappresentato dalla figura del Baron Samedi, divinità creata durante la deportazione degli schiavi africani nelle americhe. Avevano l'attributo di psicopompo Ermes presso gli antichi Greci, Osiride presso gli Egizi, Charun presso gli Etruschi, Lúg presso i Celti, Odino presso i Germani.
PTELARO
Re dei Tafi, Ucciso da Anfitrione che sposata Alcmena, partì contro i Tafi,
NOTE
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