CA
CABIRI
Kabeiroi
Divinità pre-elleniche venerate nelle isole Egee, nell’Asia Minore, Macedonia, Tebe, e, in età repubblicana anche a Roma. Impersonavano le forze misteriose della natura; di probabile origine fenicia. Derivante dal termine semitico di ”kabirin” che significa ”potenti”, probabilmente importate in Grecia dalla Fenicia, dove i Cabiri costituivano un gruppo di otto divinità. Erano variamente collegati col culto di una grande divinità femminile (la Gran de Madre, detta anche Cibele, o Rea, o Demetra). Sono rilevabili due centri culturali dei Cabiri, in Beozia, e in un gruppo di isole dell’Egeo settentrionale. Lemno, Imbro, Taso e Samotracia. Il loro culto assunse la forma tipica dei misteri, ossia di quei culti a cui potevano accostarsi solo gli iniziati. Famosissimi furono i misteri cabirici di Samotracia, dov’erano detti Grandi Dèi, appellativo che è inteso più che come titolo di grandezza, come nome di categoria per distinguere i Cabiri dai veri e propri dèi. In realtà il mistero che li circondava era l'impossibilita di definirli plasticamente, così com’erano definite le varie figure divine dei Greci antichi (non si può neppure dire se fossero concepiti giovani, vecchi, o in quale numero), molti li fanno apparire come una speciale categoria di dèi. Si ritiene che i loro culti fossero di origine traco-frigia.
CADMO
Cadmo (in greco antico: Κάδμος, Kádmos)[1] è una figura della mitologia greca, figlio di Agenore, re di Tiro, e di Telefassa, nonché fratello di Europa. È considerato il fondatore della città greca di Tebe.
Mito
Quando la sorella Europa venne rapita da Zeus, il padre Agenore lo inviò coi fratelli Fenice e Cilice, alla sua ricerca, ordinando di non tornare prima d'averla trovata.
Cadmo iniziò recandosi presso l'oracolo di Delfi per avere consiglio. L'oracolo gli suggerì di interrompere la ricerca, poiché sarebbe stato il fondatore di una nuova città. Avrebbe dovuto seguire una vacca e, quand'essa si fosse fermata, lì edificare la città.
Di lì a poco Cadmo e i suoi compagni incrociarono una vacca diretta a oriente e la seguirono. L'animale si fermò solo al centro della Beozia: qui Cadmo decise di edificare la città. Nel frattempo volle sacrificare la vacca alla dea Atena, ma nel mentre i suoi compagni stavano per attingere l'acqua d'una sorgente lì vicina, il drago che la custodiva li attaccò.
Cadmo accorse e riuscì a uccidere il mostro, ma i suoi compagni erano tutti morti. Rimasto da solo, Cadmo decise di portare a termine comunque il sacrificio. Atena, per riconoscenza, gli comparve e gli suggerì di seminare i denti del drago. Cadmo lo fece e d'un tratto da ogni dente spuntò un uomo armato (gli sparti).
Hendrick Goltzius, Cadmo uccide il drago, circa XVII secolo
Cadmo lanciò astutamente dei sassi tra di loro che, credendosi assaliti, si scagliarono l'uno contro l'altro. Ne sopravvissero solo cinque, che aiutarono Cadmo a costruire la "Cadmea", la rocca della nuova città di Tebe.
Cadmo sposò Armonia, figlia di Ares e Afrodite, e al matrimonio fu presente l'intero Olimpo.
Dall'unione tra Cadmo e Armonia nacquero quattro bambine: Ino, Agave, Autonoe e Semele. Una di loro, Agave, sposò Echione (uno degli sparti) e il loro figlio, Penteo, in seguito ereditò il regno del nonno Cadmo. Ebbe anche un figlio, Polidoro, da cui discendono i Labdacidi (Labdaco, Laio e Edipo).
In vecchiaia Cadmo e Armonia, quando Dioniso distrusse la casa reale (vedi Menadi), furono esiliati in Illiria dove furono trasformati in serpenti[2].
Curiosità
Al suo nome è in qualche modo collegata l'origine di un'antica espressione proverbiale: vittoria cadmea.
Cadmo è anche il nome di un famoso boia al tempo di Orazio (Satire 1, 6, verso 39)
Nell'Universo fumettistico della DC Comics esiste un progetto che porta il nome di Cadmo: il Progetto Cadmus. Il nome deriva dal personaggio di Cadmo, in quanto negli stabilimenti del Progetto vi si creano dei cloni umani geneticamente modificati con DNA alieno per poterne sviluppare i poteri metaumani
CADUCEO
Con tale nome è intesa la verga d’ulivo del dio Mercurio (Hermes dei greci), che, araldo degli dei (suo attributo), viene effigiato tenente in mano con due serpi attorcigliate in atto di baciarsi; simbolo di pace. Insegna araldica propria e delle farmacie. Vocabolo dal latino caduceum o caduceus, di probabile origine orientale, a cui si ascrivevano molteplici valori: dalla fecondità, alla fertilità, e alla medicina.
CALAMIDE
Scultore greco del V°s.a.C. Forse di origine attica, è uno dei più famosi artisti anteriori a Fidia; egli segnò il passaggio fra l’ultima fase dello stile cosidetto severo, e la piena classicità delle sculture del Partenone, in Atene. L’attività, soprattutto di bronzista, si pone infatti fra il 480 e il 450 a.C.; purtroppo nessuna delle sue opere ci è giunta, e, come per molti artisti dell’antichità, gli vengono attribuite diverse copie dell’età romana. L’opera sua più famosa, l’Afrodite Samosata (salvatrice) molto ammirata anche dallo scrittore greco Luciano di Samosata che consigliava Pantea, amica dell’imperatore Lucio Vero, di drappeggiarsi al modo di questa statua. Le 24 copie romane fino ad oggi rinvenute d’una statua detta di Aspasia, sembrano invece essere copie dell’Afrodite di Samosata.
CALCANTE
Indovino greco, figlio di Testore, partecipò alla guerra di Troia e fu celebrato da Omero nell’Iliade. La leggenda lo vuole ordinatore del sacrificio di Ifigenia in Aulite, e nel poema omerico appare come sacerdote-indovino, cui ricorrevano i capi dell’armata greca nei momenti critici, poich’ egli, che conosceva il presente, il passato e il futuro, poteva dire quale dio fosse causa della crisi, quale colpa fosse stata commessa contro di lui, e in quale modo potesse essere espiata. Le tipiche funzioni del sacerdote indovino greco erano così definite dall’azione mitica di Calcante. Un mito curioso, narrava la fine di Calcante, che, sconfitto dall’indovino Mopso in una gara di enigmi, morì di dolore.
CALIDARIO
Stanza del bagno caldo nelle antiche terme (calidàrium)
CALIDONE
- Calidone
- Calidone o Calidonio
Nella mitologia greca, Calidone era il nome di uno dei figli di Etolo e di Pronoe, fratello di Pleurone.
Dal suo nome si deve la città di Calidone, in Etolia. Calidone conobbe la figlia di Amitaone, tale Eolia e i due si sposarono. Da tale unione nacquero due figli che si chiamarono Epicasta e Protogenia. La stirpe si diffuse grazie ad Ares, il dio della guerra figlio di Zeus, che si accoppiò con Protogenia portando alla nascita di Ossilo. Epicasta generò invece due semplici umani, Portaone e Demonice da Agenore, figlio di Pleurone.
Nella mitologia greca, il cinghiale di Calidone o calidonio è un cinghiale di straordinaria possanza che compare in diversi miti come antagonista di grandi eroi. Era detto essere figlio della scrofa di Crommio. Fu mandato da Ares, per gelosia, a uccidere Adone quando costui si innamorò di Afrodite.
La fiera trovò la morte nella caccia calidonia, una battuta di caccia al cinghiale organizzata dal re Oineo di Calidone. Il cinghiale era stato inviato da Artemide a distruggere i campi di Calidone perché Oineo era venuto meno nelle offerte votive succedute all'eccellente raccolto calidonio trascurando la dea. Per liberarsi della belva, Oineo organizzò una caccia in cui chiese la partecipazione di quasi tutti gli eroi del mito greco; tra gli altri, Castore e Polluce, i Cureti, Ida e Linceo, Admeto e Atalanta.
Secondo Omero gli eroi che hanno partecipato provenivano da tutta la Grecia[1]. Bacchilide li ha definiti "I migliori fra tutti i Greci"[2].
(da wikipedia)
CALIPSO
(gr. nasconditrice, da calupto, nascondere). Ninfa nota soprattutto per l’episodio riferito da Omero nell’ Odissea, in cui si narra che trattenne sette anni il nàufrago Ulisse nella sua remota isola di Ogigia, di cui era regina, finchè gli dèi gli ingiunsero di lasciarlo libero di tornare in patria.
CALLIMACO
Poeta greco (n. Cirene 315 a.C. circa – m. Alessandria circa 245). E’ il massimo rappresentante della poesia ellenistica. Maestro di scuola, entrò alla corte Alessandrina e celebrò Tolomeo Filadelfo, Arsinoe,Tolomeo Evèrgete e Berenice (famosa la sua “Chioma di Berenice”, tradotta da Catullo). Lavorò nel Museo e nella Biblioteca di Alessandria e si affermò decisamente su tenaci rivali (soprattutto Apollonio Rodio), con i quali polemizzò con asprezza. Al poema epico di stampo omerico, contrappose l’epilio (piccolo epos); alla mole, la brevità (grosso libro-grosso guaio) perse, seguendo un’arte impegnata nel cesello formale e, nei contenuti, un’erudizione riposta, uno sfoggio di spunti inediti, e di riferimenti allusivi. Conscio della novità delle sue posizioni (odio l’usata poesia), paragonò il suo canto alieno da pathos e da ogni rimbombo, al frignire della cicala, o al limpido stillicidio di un’acqua sacra, in confronto dei ragli d’asino o delle fangose fiumane degli avversari. Una certa angustia sentimentale si avverte nel gelo delle sue creazioni stilisticamente irreprensibili; d’altra parte la ricerca dell’essenzialità lo portò a forme quasi ermetiche. Ma Callimaco è un modello di moralità letteraria ed è capostipite di una lunga tradizione poetica. Di lui restano frammenti di un poema elegiaco in 4 libri: Le Cause (Aitia); un libro di Giambi: dell’epilio Ecale e sono interamente noti 6 inni (il più celebre è “Ai lavacri di Pallade", e circa 60 Epigrammi). Importanti suoi studi filologici sono purtroppo andati perduti.
- Note
- Callimaco alla madre di Tiresia che si duole dell'accecamento del figlio e supplica di farne emenda, Pallade risponde che non ella accecò il figlio di lei, ne si diletta di accecare i garzoni, ma è legge di Saturno che chi mira alcuno dei Numi senza consenso, colui debba pagare il fio con dolorosa pena.
Antonio Conti, il cui ingegno e i cui studi tanto apprezzati dal Foscolo, così traduce il passo di Callimaco:
- Tiresia a cui già cominciava il mento ad annerir, solo co' cani il sacro loco scorreva. Sitibondo al sommo, al rivo della fonte egli pervenne, ed infelice non volendo vide ciò che lecito a lui non era.
- Pallade gli fa manifesta la sventura.
- Così gli disse, e notte al garzoncello oppresse: muto ristette; che il dolor si stese insino alle ginocchia, ed impedita restò la voce dalla mente vuota. Cariclo, la madre si lamenta con Pallade e commisera il figlio; - Vedesti Minerva, ma non vedrai più un'altra volta il Sole! O me misera, o monte, o non più mai da vederti Elicona…
- Non è dolce a Minerva strappar gli occhi a' fanciulli; Ma così di Saturno hanno prescritto le leggi. Chi rimira alcun de' Numi, se Dio stesso nol vuole, uopo è che paghi la meritata pena, e questo, o donna divina, e irrevocabile decreto e delle Parche lo portar gli strami, quando tu partoristi il caro figlio.
CALLINO
Poeta elegiaco greco. Il più antico che si conosca; nato e vissuto a Efeso nel VII s.a.C., in un periodo d’invasioni barbariche dell’ Asia Minore. Dell’unico frammento di qualche ampiezza a noi noto, esorta i concittadini a combattere disprezzando la vita e cercando la gloria. Il tono è oratorio e sentenzioso e la lingua e lo stile sono quelli omerici.
- Esortazione al valore di Callino
-
«Fino a quando ve ne starete oziosi?
avrete una buona volta un'animo forte o giovani?
E non provate vergogna dei vicini standovene così smodatamente rilassati?
Sembra che voi vi troviate in un periodo di pace,ed invece la guerra pervade tutta la terra ed ognuno morendo, per l'ultima volta scagli un giavellotto ed infatti è onorevole e glorioso per un uomo combattere per la terra (patria), per i figli e la legittima moglie contro i nemici; ma ognuno avanzi diritto brandendo alta la spada e rannicchiato col forte petto (cuore) sotto lo scudo, non appena i guerrieri (la guerra) vengano alla mischia infatti non è possibile in alcun modo che un uomo sfugga alla morte (senza dubbio) voluta dal destino, neppure se la stirpe sia di progenitori immortali spesso torna a casa essendo sfuggito alla carneficina ed il frastuono dei giavellotti, ma in casa lo coglie il destino di morte, ma l'uno in ogni caso non è caro nè desiderabile per la patria l'altro lo compiange il piccolo ed il grande;
se per caso subisca qualcosa, infatti in tutto il popolo c'è rimpianto dell'uomo dal cuore forte quando muore, finchè vive è degno di semidei infatti lo vedono davanti ai loro occhi come un baluardo infatti pur essendo solo compie imprese degne di molti.»
(da:Skuola.it)
CALLIOPE
(gr. bella voce)
La prima delle nove Muse, figlia di Zeus e di Mnemosine, fu a sua volta madre di Orfeo e di Lino. La tradizione greca le attribuiva la protezione della poesia epica e dell’eloquenza
(Vedi Muse)
(Ritorna a Lino)
CALLIROE
(gr. dalla bella corrente)
Nome di una Oceanina e di una fonte presso l’Acropoli di Atene.
CALLISTO
Eroina della mitologia greca, figlia di Licaone, re d’Arcadia; giovane fanciulla ancella di Artemide nella caccia. Amata da Zeus, ebbe da questi il figlio Arcade; ma Giunone gelosa la cambiò in orsa. Salvata dalla dèa Artemide, assieme al figlio, Zeus la assunse in cielo tra gli astri, trasformata nell’ Orsa Maggiore, e il figlio Arcade ne divenne il custode .
CAMENA
(al plurale Camène.)
Dèe italiche delle sorgenti e delle acque, identificate con le Muse dei Greci.
Le Camène (in latino Camēnae o Casmēnae o Carmēnae) erano, nella religione romana, divinità arcaiche delle sorgenti (ninfe).
Le Camene note - o forse solo i loro appellativi - sono quattro:
Egeria,
Carmenta,
Antevorta
e Postvorta ..
(da Wikipedia)
CAMENESA
Moglie di Giano e madre di Tiberino, dio del fiume Tevere.
CAMILLA
Camilla è un personaggio dell'Eneide di Virgilio, figlia di Casmilla e di Metabo, tiranno di Privernum, una delle città dei Volsci.
Quando il padre viene cacciato dalla sua città a causa del duro governo, porta con sé Camilla ancora in fasce (della madre di Camilla non si sa più nulla, forse è morta nel dare la figlia alla luce). Durante la fuga, inseguito da bande di concittadini, giunge sulla riva del fiume Amaseno che per le piogge abbondanti si era gonfiato al punto da non poter essere guadato. Metabo avvolge la piccola con la corteccia di un albero, la lega alla sua lancia e la getta sull'altra riva del fiume. Raggiunto dai suoi avversari, si tuffa in acqua e attraversa il fiume a nuoto. La leggenda narra che Camilla sia arrivata sull'altra sponda del fiume sana e salva perché il padre la consacrò alla dea Diana (da questa consacrazione le sarebbe derivato il nome Camilla).
La bambina cresce con il padre nei boschi, tra animali selvaggi e pastori, nutrita di latte di cavalle selvagge. Appena comincia a muovere i primi passi, Metabo le dona arco e frecce e le insegna ad usarli. Camilla non indossa vestiti, ma solo pelle di tigre. La ragazza impara ad usare anche il giavellotto e la fionda, ha un fisico perfetto: così veloce da superare il vento nella sua mascolinità, ma al tempo stesso donna di grande bellezza.
Camilla sembra provare amore solo per le armi dopo aver giurato verginità eterna come la dea alla quale il padre l'aveva affidata quando era ancora bambina.
Camilla guida una schiera di cavalieri volsci e un'armata di fanti con armature di bronzo. Al suo seguito ha anche delle donne guerriere, tra cui la fedele Acca. Non sa filare e non conosce i lavori femminili, ma è abituata a sopportare fin da ragazza i duri scontri ed è velocissima nella corsa, tanto da superare i venti. La ammirano le madri e tutta la gioventù riversata dalle case e dai campi mentre avanza in corteo alla testa della sua schiera: un regale mantello le vela le spalle, un diadema d'oro le orna la chioma, porta con disinvoltura la faretra licia e, come pastorale, un'asta di mirto, sormontata da una punta.
Quando Enea giunge nel Lazio per scontrarsi con i Rutuli, Camilla soccorre Turno alla testa della cavalleria dei Volsci e di uno stuolo di fanti. La sua figura incute spavento e la sua baldanza è senza pari. Turno, però, pur ammirando il nobile gesto ed il coraggio di Camilla, decide che la sua alleata affronti solo la pericolosa cavalleria tirrenica, riservando per sé il compito di contrastare e battere Enea.
Gli atti di valore di Camilla non si contano: fa strage di nemici, si lancia in ogni mischia, insegue e colpisce a morte ogni avversario che vede, affronta ogni pericolo. Solo non si accorge del giovane etrusco Arunte che la segue nella battaglia per cercare di sorprenderla. Camilla crea lo scompiglio nei pur forti Etruschi e mette in fuga le schiere nemiche al punto che deve intervenire il re Tarconte per fermare i suoi ormai in rotta. Arunte coglie l'occasione: l'eroina, avida di ricca preda, scorge il frigio Cloreo, che in patria era sacerdote di Cibele; questi sfoggia una panoplia abbagliante di oro e porpora, coperto da una clamide color del croco mentre scaglia frecce dalle retrovie col suo arco cretese. Camilla si mette al suo inseguimento e dimentica tutto il resto. Allora il giovane etrusco, non visto dall'eroina, le scaglia contro una freccia che Apollo guida e che la ferisce a morte, trafiggendola al seno. Accorrono le sue compagne per soccorrerla: Camilla si strappa la freccia, ma la punta resta incastrata tra le costole. Camilla si sente venir meno, cade e affida ad Acca, la sua compagna più fedele, un ultimo messaggio per informare Turno. Alla morte di Camilla, Arrunte timoroso cerca di fuggire, ma sarà ucciso da una freccia di Opi, ninfa del seguito di Diana, per volere della dea stessa.
La morte della vergine Camilla è il preludio della sconfitta dei Rutuli e degli italici tutti che si erano stanziati nell'Italia meridionale.
Camilla è un personaggio puramente mitologico e le sue vicende vengono narrate nel libro XI dell'Eneide.
Dante nel canto I, v.107 dell'Inferno, la fa menzionare[1] da Virgilio, insieme ad altri personaggi del poema, nello specifico Eurialo, Turno e Niso, nel suo secondo monologo, dove spiega a Dante il percorso che dovrà seguire. Camilla appare inoltre in persona[2] accanto alla regina delle Amazzoni Pentesilea nel canto IV, v. 124, nel nobile castello degli Spiriti Magni. Boccaccio cita Camilla nel suo libro "De mulieribus claris".
CANDIA
(Iràklion - Heràkkleion)
Città della Grecia, situata sulla sponda settentrionale dell’isola di Creta. Di antichissima origine, era probabilmente il porto di Cnosso. Conquistata dai Veneziani nel 1240; estesero il suo nome a tutta l’isola. In seguito, dopo un’assedio durato vent’anni (1649-69) passò sotto la dominazione turca. Vanta insigni edifici, tra i quali,il palazzo della Dimarkhia, la Chiesa Ortodossa di San Tito del XVI sec, e la secentesca fontana Morosini. Oltre al Museo Storico di eccezionale interesse, per lo studio della civiltà cretese-micenea è è il Museo Archeologico in cui sono raccolti tutti i reperti scavati in Creta. (Vedi Cnosso)
CANEFORA
Fanciulla ateniese, che durante le feste in onore di Pallade, portava sul capo un canestro con le offerte per la dèa.
CAPANEO
Eroe della mitologia greca, uno dei sette re che parteciparono a l’assedio di Tebe; violento e bestemmiatore.
CAPPADOCIA
Regione storica della Turchia centrale. Situata al centro dell'altopiano anatolico, priva di sbocco al mare, limitata al Nord dai rilievi del Ponto, a Sud dalle catene dell’Antitauro e dal Tauro di Cilicia, a Est dall’Armenia, e da Ovest dalla Licaonia; ha confini del tutto convenzionali. Morfologicamente elevata, vi si innalzano vari gruppi montuosi che raggiugono la massima altezza col Monte Argeo (Erciyas) di 3916 mt. Attraversata da Nord-Est a Sud-Ovest dal corso del fiume Kizilirmak. Il suo nome deriva dall’antico persiano Katpatuca che significa paese dei Tuka. Nel periodo preistorico fu abitata da una popolazione anatolica. Nel III° millennio a.C. colonizzata dagli Assiri che vi esercitarono una notevole influenza culturale; testimoni le numerose iscrizioni cuneiformi rinvenute negli scavi. All’inizio del II° millennio, trovarono stanza nella Cappadocia gli Ittiti che fondarono un impero protrattosi fino al 1200 a.C. In seguito (VI° s.a.C.), la regione fu annessa al regno di Lidia e quindi a l’impero persiano. Dopo aver costituito un regno autonomo, protetto dai Romani, nel 17 d.C., divenne provincia romana. La storia e le sorti della Cappadocia si identificarono con quelle dell’impero bizantino, e, a partire dal secolo XIII°, con quelle del l’Asia Minore Turca.
CAPI
- Capi (fondatore di Capua)
- Capi o Capys
- Capi Il troiano
- Capi
Capi (in greco antico: Κάπυς, Kápys) è un personaggio della mitologia greca, re di Dardania nell’Iliade e nell’Eneide e padre di Anchise[1].
Capi era figlio di Assaraco e Ieromnene (figlia di Simoenta) e marito di Temiste (sorella di Laomedonte), a loro volta figli di Euridice e di Ilio (il fondatore della città di Troia).
Capi era quindi il nonno dell'eroe troiano Enea[1].
È uno dei probabili fondatori della città campana di Capua.
è, secondo la mitologia romana, il settimo dei mitici re albani o re di Alba Longa. Sempre secondo questa, egli sarebbe figlio di Atys e padre di Capeto ed inoltre avrebbe regnato sul trono di Alba Longa per 28 anni,[1] probabilmente dal 965 a.C. al 937 a.C..
Fu inoltre lui, o un altro Capys (secondo la mitologia antica, anch'egli come Enea proveniente da Troia), a fondare la città di Capua (il cui territorio ora corrisponde ai comuni casertani di Santa Maria Capua Vetere, San Prisco e Curti), ricca e fiorente città della pianura campana, la cui sorte si decise nel corso della seconda guerra punica, quando decise di schierarsi contro Roma, al fianco di Annibale, che porterà alla perdita della sua indipendenza.
Nella mitologia greca, Capys (Greco: Κάπυς) fu il nome attribuito ad altri individui:
che avvertì di non introdurre il cavallo di Troia in città.
Un discendente di Enea e Re di Albalonga.
Secondo le fonti Romane, in lingua etrusca la parola "Capys" significava 'sparviero' o 'falco' (o forse 'aquila' o 'avvoltoio').
(da wikipedia)
CARIA
Regione storica della Turchia Sud occidentale. Posta tra il fiume Meandro (Menderes) a Nord, il Mar Egeo a Ovest, il Mediterraneo a Sud, e la catena del Tauro Occidentale a Est. Ha coste alte o frastagliate, tranne che nella parte alluvionale in corrispondenza della foce del fiume Meandro. All’interno si innalza una serie irregolare di rilievi montuosi (Honaz 2571 mt. Sandras 2294 m), intagliati da profondi solchi vallivi. La regione fu abitata sin da tempi antichissimi dai Cari, popolo pre-ellenico dal quale trasse il nome. Subì poi diverse dominazioni; dei Lidi, Persiani e Greci dal 129 a.C., e fece parte della provincia romana d’Asia. Dopo la caduta dell’Im pero romano fu successivamente soggetta ad Arabi, Bizantini e Turchi, seguendo le sorti dell’Impero Ottomano, quindi della repubblica turca. Numerose città stanno a dimostrare con le loro imponenti rovine la passata grandezza della regione. Tra le più note: Cnido e Alicarnasso, quest’ultima situata presso l’odierno centro di Budrum.
(da Wikipedia)
CARIATIDE
Statua raffigurante una donna che sostiene colonne, pilastri, o mensole; in particolare di costruzioni, come tempietti, portali, balconi, cornicioni,ecc. Il termine deriva dall’opinione di Vitruvio che gli architetti greci avevano ritratto schiave della Caria in atto di sorreggere trabeazioni di pubblici uffici. Talvolta in luogo della figura intera, v'è un alto o bassorilievo, oppure un semplice busto, terminante in erma. Talvolta alla figura femminile se ne sostituisce una maschile, ma in questo caso a rigore, si dovrebbe usare il termine di Atlante o Telamone (famosissimi quelli di Agrigento). Un particolare tipo di cariatide è la canefora, che rappresenta una fanciulla con un cesto sul capo in funzione di capitello (letteralmente canefora vuol dire portatrice di cesta). Questa figura è presente in tutti i periodi storici, a cominciare dall’antichità classica greca dove eb be origine (loggetta delle Cariatidi nell'Eretteo di Atene), e da quel la romana, non solo come sostegno di piccoli sbalzi nei prospetti architettonici, ma anche, e forse più diffusamente, nell’arredamento e nei mobili. In particolar modo essa fu usata dagli artisti che vo levano richiamarsi a precedenti classici indirettamente (Rinascimento), o direttamente (Neo classicismo).
(da wikipedia (Fotografo: Matteo Di Felice
(ritorna a Canefora)
CARITI
Nome greco delle Grazie, così come Partenie (Vergini). Ebbero luogo nella Teogonia fin dai più remoti tempi del politeismo dove appare che se le Grazie non erano tre cessavano d'essere tali. Le arti del disegno solevano comunemente presentarle come tre fanciulle ora ignude ora ombrate di un leggerissimo velo. Splendenti di puerizia, avevano volti ridenti e svelte le forme. Si atteggiavano a gruppo, come tre danzatrici, delle quali ciascuna teneva alto un braccio mentre l'altro mollemente girava intorno alla vita della sorella ch'era a destra.
CARMENTA
Carmenta , Ninfa, moglie di Pico e madre di Fauno. A lei erano dedicate le feste annuali in Roma il 10 gennaio, dette Carmentali.
CARNEADE
Filosofo Greco (n.Cirene 214 o 213 ? – m.129 o 128 a.C.). Fu inviato a Roma nel 156 con il peripatetico Critolao e lo stoico Diogene di Seleucia, per perorare la causa di Atene, multata per il saccheggio di Oropo. In tale occasione Carneade pronunciò due orazioni di cui possediamo un sunto nel III libro del ”De Repubblica” di Cicerone. D’altronde, poiché tutto il suo insegmento fu orale, conosciamo il suo pensiero solo attrraverso notizie altrui. Nella prima di queste orazioni sostenne che la giustizia esiste ”per natura”, è cioè universale, intangibile, ed eterno modello del diritto positivo; nella seconda orazione, affermò che essa è per ”convenzione”, come l’insieme di leggi volute per difendere interessi utilitaristici e di potenza; e poiché è su questa condizione della giustizia che si basa la vita politica, metteva i suoi ascoltatori romani nel dilemma: assolvere Atene o ritenere illegittimo il loro stesso impero. Queste tesi, e il successo che esse ebbero tra la gioventù romana, l’enorme diffusione e popolarità della filosofia greca che ne conseguirono, provocarono vivaci reazioni, che Catone il Censore, rigido e tenace assertore della difesa delle tradizioni romane, contro ogni influenza esterna, chiese ed ottenne che gli ambasciatori greci fossero allontanati d’autorità da Roma. Divenuto capo dell'Accademia platonica, quando in questa prevaleva l’indirizzo scetticheggiante di Arcesilao (accademia di mezzo), egli, durante tutto il periodo della carica (fino al 136 o 137 a.C.), integrò questo indirizzo con il suo probabilismo critico implacabile dello stoicismo. Impossibile per Carneade dimostrare quella corrispondenza della nostra rappresentazione della realtà esterna che gli stoici postulavano; ta le corrispondenza è invece soltanto più o meno "probabile" a seconda che la stessa rappresentazione sia più o meno in grado di “persuadercene”. Tale critica al dogmatismo degli stoicismi accompagnava ad una serie imponente di critiche alle singole verità che, con le tesi dogmatiche, gli stoici credevano di aver aquisito: critiche alla teologia stoica, e in generale,alla convinzione di poter attribuire predicati e qualifiche alla divinità, alla concezione provvidenziale del mondo, alla fede nella divinazione e sopratutto all’i dea del fato, cui Carneade opponeva la libertà del volere. Egualmente criticò il determinismo epicureo; cosicché può essere ritenuto l’espressione più rigorosa solo se, pur negativa e distruttrice delle tendenze soggettivistiche presenti nel pensiero antico.
CARONTE
Divinità infernale dei Greci, figlio dell’Erebo e della notte. Traghettava su una barca al di là dello Stige le anime dei trapassati al prezzo di un obolo (o del fiume Acheronte le anime dei trapassati dirette al Tartaro ); di qui l’uso di mettere un obolo nella bocca del morto (descritto da Dante e da Virgilio).
CARTAGINE
Fu la più fiorente e famosa colonia fenicia, nel regno della Libia, fondata dai Tirii sulla costa settentrionale dell’Africa, nei pressi dell’odierna Tunisi. Lo storico Timeo, fa risalire la data della sua fondazione all’814 a C. Secondo la leggenda, sarebbe stata Elissa (Didone) a stabilirvisi fuggendo da Tiro, per sottrarsi alla persecuzione del fratello Pigmalione, che le aveva ucciso il marito Sicherba (Sicheo), ottenendo dagli indigeni uno spazio di terra copribile con una pelle di bue. Elissa, sempre secondo leggenda, avrebbe tagliato in striscie sottilissime la pelle, ottenendo così tanto terreno da riuscire a circoscrivere uno spazio sufficiente per costruire una città fortificata. Benchè il significato del suo nome (Oart Hadasht – città nuova) lasci trapelare l’origine di causa diversa dal semplice movente commerciale, la storia di Elissa non trova alcuna conferma. La posizione geografica favorevole ai naviganti diretti in Occidente, l’esistenza di ampi e sicuri porti naturali e le fortificazioni robuste della cittadella, la famosa Birsa, (collina sulla quale salivano tre strade, fiancheggiate da case altissime) furono le cause per cui la città divenne presto un importante emporio commerciale, superando l'importanza della stessa madrepatria Tiro. Caratteristica della città fenicia era il porto artificiale distinto in un bacino rettangolare per le navi commerciali e in un bacino circolare per le navi da guerra. A partire dal VII° s.a.C., grazie a una politica oculata e scaltra e alla forza di una poderosa flotta da guerra, divenne la dominatrice del Mediterraneo Occ. Resi tributari i popoli africani confinanti, passò ad imporre la propria egemonia alle altre colonie fenicie dell’Africa (Utica, Ippona, Leptis), costringendole a formare una lega di città sotto la sua guida, ed estese il suo dominio anche sulle colonie che Tiro aveva in Spagna e le isole mediterrane. Dal VI°s.a.C., in seguito a tale espansione, venne a trovarsi in lotta, prima con i Greci e poi con Roma. Nel 540 i Focesi riuscirono a battere Cartagine ad Almeria, ma dovettero lasciare in suo posseeso la Corsica e la Sardegn; ma i contrasti si rinnovarono con i Greci di Sicilia. Il primo tentativo dei Cartaginesi di impadronisrsi della Sicilia, base commerciale e strategica di prim’ordine, risale al 480 a.C., quando, benché sconfitti presso Imera da Gelone, re di Siracusa, riuscirono a stanziarsi nella zona di Trapani e di Monte Erice. Da allora e per oltre due secoli Greci e Cartaginesi si contesero il dominio della Sicilia, senza che nessuno dei contendenti riuscisse a prevalere. I Cartaginesi si fortificarono nella parte occidentale dell’isola dove fondarono le colonie di Soluto, Mozia e Panormo (Palermo), nentrre i Greci trovarono in Siracusa la loro sicura roccaforte, che sopportò quattro lunghi ed infruttuosi assedi dei Cartaginesi. Il dominio politico e militare stabilito in Sicilia condusse a scontrasi con Roma. Nei primi contatti tra le due città, Roma aveva riconosciuto la potenza marittima di Cartagine, soprattutto nella forza commerciale, di cui la sua economia prettamente agricola e la sua influenza politica, limitata all’Italia, avevano bisogno. Ma nel secolo III°a.C., il crescere impetuoso della potenza romana, rese inevitabile la lotta per la supremazia all’interno del Mediterraneo. Nel 264 a.C., avendo come teatro di guerra la Sicilia, cominciò la prima di quelle tre guerre dette puniche che per oltre un secolo costituirono il più tremendo duello dell’antichità tra due popoli e due volontà egemoni che in esso rifulse il genio militare di due grandi cartaginesi, Amilcare e Annibale Barca, il secondo dei quali, uno dei più gran di capitani della storia militare antica. Il duello si concluse nel 146 a.C., con la sconfitta di Cartagine e il consolidamento definitivo di Roma, che non trovò più seri nemici nel cammino della sua ascesa. Rasa al suolo dai vincitori, nel 44 a.C., Cesare fece fondare nei pressi della vecchia città nemica una colonia romana "Colonia Julia Concordia Carthago", che divenne la città più ricca di industria e di coltura. Conquistata dai Vandali nel 439, passò poi sotto l’impero bizantino per opera di Belisario e nel 495 divenne possesso arabo; da allora ebbe il nuovo e definitivo declino. Numerose rovine della Cartagine fenicia e romana restano ancor’oggi nei pressi di Tunisi, Nonostante la forza militare e la genialità dei suoi condottieri, Cartagine rimase sempre una città essenzialmente dedita ai commerci. L’obiettivo di tutto il popolo fu la ricchezza e lo sfruttamento commerciale dei popoli a lei soggetti, piuttosto che la costruzione di un potente imperro su basi politiche; e tutto ciò ebbe un peso non indifferente nel determinare gli errori e le fatali incertezze della lunga guerra contro Roma. Secondo Tucidite e 250 anni dopo, secondo Polibio, Cartagine fu la città più ricca del mondo d’allora, e possiamo considerarla la maggior potenza finanziaria apparsa nell’antichità. Politicamente era ordinata come una oligarchia, in cui esercitavano il potere due suffeti o giudici, nominati annualmente e assistiti da un consiglio di 30 membri nominati a vita e un'assemblea maggiore formata da 300 senatori radunati tra le famiglie più ricche.
PRIMA GUERRA PUNICA
(Ritorna a ROMA - LE PRIME NAVI DA GUERRA ROMANE)
Narra un’antichissima leggenda che circa ottocento anni prima della nascita di Cristo, da una colonia di fenici fu fondata sulle coste africane del Mediterraneo, laddove oggi sorge la città di Tunisi, Cartagine. Sangue e temperamento semitico, i puni (che così si chiamavano anche i cartaginesi; da ciò l’origine del nome Guerre puniche), la storia ce li raffigura mercanti abilissimi, esperti navigatori, oculati nei propri interessi. Con le guerre d’espansione e con le ricchezze accumulate nei traffici e nelle scorrerie, mantenevano un’esercito mercenario. Quando Roma al declino etrusco iniziò la sua ascesa, il dominio cartaginese s’era rapidamente consolidato sull’intero bacino centro occidentale del Mediterraneo, estendendo il suo territorio su tutta la costa africana, dall’Atlantico alla Cirenaica. Essa aveva inoltre stabilito colonie in Spagna, comprese le isole oggi Baleari, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, il tutto vigilato e garantito da una potente flotta. In un primo momento quando si trattò di eliminare la rivalità etrusca, che non poche preoccupazioni dava al suo espansionismo commerciale, arrivò a stringere con Roma verso il 500 a.C., un trattato di amicizia, che ben presto l’odio e la gelosia e superiori interessi lo fecero naufragare. Realizzata rapidamente l’unione territoriale italica, Roma comprese che il suo avvenire non aveva orizzonti fin quando le vie mediterranee dei traffici erano in mano ai cartaginesi e fin quando la sua potente flotta ne aveva l’indisturbato controllo. Cartagine avvertì il pericolo, e una sorda lotta ebbe inizio. La prima guerra punica ebbe inizio nel 264 a.C. I Mamertini che avevano il controllo dello stretto di Messina, chiesero aiuto a Roma contro Gerone, re di Siracusa. Nel frattempo i Mamertini avevano cambiato opinione, e più conveniente, ricorrere a una garanzia cartaginese. Il dado era oramai tratto, Roma passa lo stretto e occupa Messina; essa ha contro non solo i cartaginesi ma anche i mamertini e i siracusani, che da nemici, divennero tra loro alleati. Messina è assediata per terra e per mare, in epici combattimenti, il blocco viene forzato e le legioni di Roma puntano decisamente contro Cartagine, alla quale si sono alleati intanto anche i greci. Nella loro irresistibile marcia ogni resistenza viene infranta e Agrigento, dopo accanita lotta cede; il che significa che i romani sono oramai nel cuore della colonia cartaginese. Il dominio punico della Sicilia vacilla.Tuttavia Roma sa che non potrà avere risultati definitivi fintanto che non potrà vincere il nemico anche sul mare. Ecco quindi correre per le città rivierasche di tutta Italia un fervore nuovo di opere marinare. Roma crea la sua potente flotta e corre il detto: ”Navigare necesse est, vivere non est necesse”. Dai rozzi scali del Tirrhenum e del’Adriaticus le prime quinqueremi e le trireme scendono in mare. In breve la flotta del nascente impero conta 120 navi, frutto di assoluto genio inventivo che portò a delle innovazioni fondamentali nella storia della marina. Tali navi furono dotate infatti dal console Caio Duilio che le comandò, di ponti di arrembaggio, cioè di ponti mobili detti "corvi", che una volta avvicinatisi alla nave avversaria venivano abbattuti sul bordo d’essa dando così la possibilità di combattere ad armi corte. Il rostro, sperone, in ferro o bronzo, installato a prua servì magnificamente alla tattica dell’urto. E’del 260 a.C., il primo scontro tra le due flotte avversarie in cui la giovane marina di Roma ebbe il suo primo grande trionfo. Poi altri successi furono portati contro il nemico in Sardegna e in Corsica, ma ciononostante, le sorti della guerra perdurarono incerte. Guerra dura contro un nenico agguerrito, ricchissimo di mezzi che poteva agevolmente attingere ai suoi vasti possedimenti coloniali sui quali era ben saldo da secoli. Il Senato romano decise di sbarcare in Africa,e nella primavera del 256 una flotta di 330 navi fece rotta verso la costa africana trasportando gli eserciti al comando dei consoli Attilio Regolo e Manlio Vulsone. Invano la flotta cartaginese tentò di parare il colpo, ma l’urto si risolvette nelle acque di Licata (Agrigento) in una vera catastrofe per i cartaginesi. Le legioni romane poterono mettere piede in Africa, riportando in cruenti scontri, lusinghieri successi, ma inspiegabiile il Senato ritirò gran parte dell’esercito, lasciando un corpo d’occupazione di soli 15.000 uomini al comando di Attilio Regolo. Cartagine, messa dal vincitore di fronte alla necessità di firmare una pace onerosa, insorge e raccoglie quanti più uomini può e attacca disperatamente i resti dell’esercito romano. Sotto la schiacciante superiorità numerica le legioni romane furono annientate e lo stesso Attilio Regolo cadde prigioniero. E’noto l’episodio storico della lealtà di questo console romano inviato dai cartaginesi a Roma per trattare condizioni di pace, con l’impegno di far ritorno a Cartagine. In Senato, anziché parlare di pace, sostiene con grande ardore la necessità di continuare la guerra. Poi tornò alla sua priginia, ben sapendo a quale sorte sarebbe andato incontro; e venne infatti barbaramente trucidato (messo in una botte chiodata e fatto rotolare giù da un pendio). La guerra così riprese violenta e vari rovesci dovette subire l’esercito di Roma, specie per l’audacia del valoroso generale cartaginese Annibale Barca, ma ancora una volta è sul mare che si decidono le sorti del conflitto. Infatti in una grande battaglia presso le isole Egadi, la flotta punica fu distrutta e Cartagine costretta a chiedere la pace. Tutta la Sicilia rimase ai vincitori, per divenire la prima provincia romana.
SECONDA GUERRA PUNICA
(Ritorna a ROMA - LE PRIME NAVI DA GUERRA ROMANE)
Piegata la nemica africana, le legioni di Roma portarono le loro vittoriose insegne verso altri lidi e altre conquiste. Furono stroncate le scorrerie adriatiche dei corsari illirici e quelle dei galli cisalpini ch’erano ripiombati in Etruria, e il potere di Roma si estese fino ai contrafforti delle Alpi e anche Venezia e l’Istria furono assoggettate. Ma Cartagine, mal sopportando le imposte condizioni di pace, covava un sordo rancore verso la potenza di Roma, che si espandeva rapidamente, oltre che per il merito delle sue armi, in virtù delle sue leggi, che davano ai popoli un senso nuovo di giustizia. Cartagine in attesa di riaversi dal grave logorio subito nelle guerre contro Roma, per eludere i sospetti di questa, rivolse la sua attenzione verso la penisola Iberica. Grossi eserciti al comando del generale Amilcare Barca, sbarcarono in Spagna, che fu ben presto completamente assoggettata, fondando la città di Carthago Nova, ora Cartagena. Muore Amilcare Barca e il comando degli eserciti cartaginesi passa per breve tempo al genero di questi, Asdrubale, e quindi a suo figlio Annibale, che fin da ragazzo era stato educato a nutrire un odio feroce contro Roma. Il desiderio di una nuova guerra di rivincita matura rapidamente e non fu quindi difficile trovare il pretesto perché la guerra riprendesse ancora una volta tra le due potenti rivali, tanto più che l’espansione cartaginese in Spagna era riuscita a Roma assai sgradita. Siamo al 210 a.C., ed ha inizio la seconda guerra punica, la più terribile e sconvolgente guerra dell’antichità. Un geniale e grandioso piano militare concepì il ventenne Annibale, per portare la guerra sul territorio romano. Organizza un formidabile esercito di 100.000 uomini, tra fanti e cavalieri, con quaranta elefanti e marcia via terra per raggiungere e attraversare prima i Pirenei e poi le Alpi. A Roma l’ipotesi che l’esercito cartaginese potesse calare da quella parte era addirittura inimmaginabile, e pertanto furono organizzate spedizioni di uomini in Spagna; una flotta fu inviata in Sicilia, e un altro esercito al comando del generale Publio Cornelio Scipione (padre), fu mandato a Marsiglia per trattenere Annibale nell’eventualità si fosse spinto sino in quella zona. Il capitano dei cartaginesi dopo aver valicato i Pirenei, elude abilmente la vigilanza di Scipione e alla fine d’ottobre nonostante le avverse condizioni atmosferiche, valica le Alpi dal San Bernardo e cala al piano. Le indicibili sofferenze, le diserzioni e i presidi lasciati per via, avevano ridotto l’esercito a trentamila uomini, Annibale non si scoraggia per questo, e ripristina le schiere con nuove forze, specie di gente gallica cui non parea vero di potersi liberare dal dominio di Roma. La marcia verso sud a primavera riprese inesorabile mentre giorni grigi si preparavano per Roma. Sul Ticino,le legioni inviate ad ostacolare l’audace disegno di Annibale furono sconfitte e non miglior sorte toccò ad altre, in una seconda battaglia sul fiume Trebbia. A marce forzate l’esercito cartaginese attraversa l’Umbria e gli Appennini e al lago Trasimeno, in una memorabile battaglia, sconfisse le legioni del Console Caio Flaminio, rimasto ucciso con ventimila dei suoi soldati, mentre altrettanti, al comando di Gneo Servilio vengono egualmente sconfitti e in gran parte fatti prigionieri. Roma non si sgomenta. I due eventi esasperano la volontà di resistenza del popolo romano, che nella gravità dell’ora e l’odio implacabile, si accentua quale elemento indispensabile alla rivincita. La capitale dell’impero offre un superbo spettacolo di fiera consapevolezza. Il pretore Pomponio in un grande comizio, col franco linguaggio dei forti, annuncia ”in grande battaglia fummo vinti“. Il Senato nomina dittatore Fabio Massimo, con abile tattica, che gli varrà l’appellativo di “Temporeggiatore”, tiene a bada e stanca il nemico. Annibale col suo esercito avanza verso Roma, sperando nella defezione delle città italiche, ma trova accanita opposizione a Spoleto e a Narni. Egli è quasi alle porte della città ma non l’attacca, sa Roma formidabilmente fortificata e un sacro rispetto forse lo trattiene. Dirige verso le Puglie dove l’esercito avrebbe potuto riposare, accampandosi a Viburnum (l’odierna Bovino), presso Foggia. La tattica di Fabio Massimo, consistente nell’evitare scontri diretti, logorando il nemico in piccole scaramucce, non piacque ai romani che volevano una guerra breve e decisiva. Allo scadere della sua dittatura non fu confermato dal Senato e nominati consoli Lucio Paolo Emilio e Marco Terenzio Marrone. Con loro le legioni che furono portate a otto e forti di 80.000 fanti e 6000 cavalli partono per la Puglia. Annibale scelse il suo campo di battaglia sulle rive dell’Ofanto presso il villaggio di Canne, dove i consoli romani lo raggiunsero. Varrone varcò l’Ofanto e si presentò davanti ad Annibale. Egli comandava l’ala sinistra formata dalla cavalleria alleata, mentre Paolo Emilio comandava l’ala destra, formata dalla cavalleria romana. La fanteria era al comando di Gneo Servilio, scampato al disastro del Lago Trasimeno. L’esercito di Annibale numericamente metà di quello romano, era formato alle ali da cavalieri numidi a destra, cavalleria di galli e di iberici a sinistra, mentre Annibale e il fratello Magone comandavano il grosso del centro. La cavalleria romana, sebbene inferiore di numero, attacca la cartaginese, ma il suo eroismo è inutile. Le legioni romane del centro urtano contro quelle cartaginesi e le vincono, ma, portatesi troppo in avanti vengono accerchiate dalla cavalleria punica e in una spaventosa carneficina, letteralmente disfatte. Degli 86.000 soldati solo 19.000 riescono a sottrarsi al massacro e fra questi molti ufficiali superiori; il console Paolo Emilio, un proconsole e 80 senatori. Non sopportando l’onta del disastro il console Paolo Emilio preferì farsi uccidere. Fra i comandanti di legione e precisamente della seconda, c’era un giovane di 19 anni, Publio Cornelio Scipione, in seguito detto l’Africano, che s’era battuto con indomito coraggio, infliggendo al nemico gravi perdite. Sebbene ferito riordina il resto dell’esercito, e ne prende il comando. Si presenta quindi ad alcuni fuoriusciti che vorrebbrero abbandonare la lotta e arrendersi. Minaccia di passarli per le armi, poi li galvanizza fino al punto da farli passare sotto le sue insegne. Dopo la schiacciante vittoria, Annibale non credette opportuno assaltare Roma, e si ritirò a Capua che gli aveva aperto le porte. A Roma la notizia della catastrofe di Canne, getta gli animi nella costernazione. E’ un’attimo solo di smarrimento che prende il popolo sotto il cocente dolore della sconfitta, ma il Senato per dar prova della propria salda compattezza, che sola poteva superare la crisi, andò incontro al console sconfitto che tornava da Canne e lo ringraziarono di non aver disperato della Patria. Il grido di rivincita sul nemico Annibale, partendo dal Senato e per le vie e piazze di Roma rimbalza poi per le campagne e per le città; elettrizza gli animi in una gara di sacrificio e di abnegazione che non avrà riscontri uguali più mai. Chi ha oro, dà oro, chi un’arma la offre se non è valido alla lotta, chi ha un moggio di grano, sa dove portarlo. Dai diciassette anni in su è un entusiastico fervore volontaristico, mentre a Roma le donne si coalizzano per la resistenza interna. Il popolo dei campi è più d’ogni altro mobilitato, perché dalle sementi, orgoglioso germogli il grano. E’ il fierissimo animo della gente italica che anche nei momenti più difficili e drammatici della sua storia sa ritrovare vigore in se stessa. Si riordinano le legioni, la guerra riprende con rinnovato furore, e questa volta sarà la buona ai quattro punti cardinali. I resti di Canne vengono spediti in Sicilia a combattere i cartaginesi con la proibizione di ritornare a Roma fintantoché Annibale calcherà il suolo italico. Il comando di tutti gli eserciti viene nuovamente affidato al cauto Fabio Massimo. Siracusa, ribellatasi a Roma, viene domata dal console Claudio Martello, e nella battaglia che seguì all’assedio trovò la morte anche il grande matematico Archimede. Capua che aveva compiutamente ospitato Annibale fu riconquistata ed esemplarmente punita. E così viene il bello. Le campagne di Spagna non erano state favorevoli ai romani. e a mutare le sorti, il Senato elegge al comando di quegli eserciti il giovane Publio Cornelio Scipione (figlio) che conta appena ventiquattro anni. Egli salpa per la penisola iberica con diecimila legionari e trenta quinqueremi Il suo primo obiettivo è Cartago Nova E’ qui che bisogna infliggere il primo colpo, a questo importantissimo porto fortificato, base terrestre e navale, magazzino di viveri, d’armi, di macchine ecc.; il cuore stesso della vasta colonia che bisogna far cessare di battere. Lo storico Tito Livio narra che fu tanto grande il bottino che la stessa presa di Cartagine fu a confronto ben poca cosa. Secondo una tradizione di nobiltà mai smentita, Scipione libera gli ostaggi e ordina che le donne non vengano assolutamente molestate e lui stesso rifiuta una bella ragazza che gli hanno portata riconsegnandola ai parenti. A tale liberalità, molti dei capi, già avversari vengono ad offrirgli i propri servigi e il loro aiuto. Così il Condottiero romano può più agevolmente marciare contro Asdrubale attendato a Baecula, e sconfiggerlo clamorosamente senza poter impedire tuttavia che col resto del suo esercito varcasse le Alpi per correre in aiuto del fratello Annibale. I Cartaginesi abbandonano così definitivamente la Spagna, che resta sotto il dominio assoluto di Roma.
LA BATTAGLIA DI ZAMA
(Ritorna a ROMA - LE PRIME NAVI DA GUERRA ROMANE)
L’esercito di Asdrubale, giunto in Italia, scende lungo l’Adriatico fino al Metauro. Invano Annibale gli muove incontro per ricongiungersi a lui poiché i romani, con abilissima manovra, frustrano il loro disegno, battendo Asdrubale che cade in combattimento. Le sorti della guerra che si combatte oramai da ambo le parti all’ultimo sangue, non c’è dubbio che si volge in favore di Roma; tuttavia Annibale è sempre in Italia, e Cartagine sull’altra sponda domina indisturbata. Siamo oramai all’ultimo atto del dramma; la lotta per il dominio del Mediterraneo è al suo epilogo. Il giovane Condottiero Publio Cornelio Scipione, torna a Roma dalla Spagna e chiede al Senato di portare la guerra in Africa. E’ questo il solo mezzo per farla finita una volta per sempre. Da tutte le città d’Italia affluiscono volontari, ansiosi di servire sotto le insegne del giovane audacissimo condottiero, la cui fama ha già corso i monti e i mari. Scipione raduna i suoi armati in Sicilia, che diventa la sentinella avanzata della lotta. Qui si organizza, oltre che militarmente anche politicamente, stringendo un’allenza con Massinissa, che i cartaginesi avevano spodestato da re della Numidia. Quando la formidabile spedizione fu completata in tutti i suoi particolari, ed è la primavera del 204 a.C., sbarca in Africa con 20.000 uomini, scortato da una ben agguerrita flotta. Qui lo attende Massinissa con la sua cavalleria. In un primo formidabile scontro le truppe cartaginesi vengono sbaragliate, e incendiati gli accampamenti dove i superstiti s’erano rifugiati. Massimissa recupera il regno perduto e ancora una volta Cartagine chiede la pace. Scipione acconsente e detta le condizioni: restituzione dei prigionieri, l’abbandono delle isole fra l’Italia e l’Africa, consegna delle navi da guerra, contributo di 500.000 moggi di grano e di una forte somma di denaro. A Roma in gran festeggiamenti per la vittoria, arrivano gli ambasciatori di Cartagine, per le condizioni di pace e quelli di Massinissa, per ringraziare il Senato per la ratifica del riconquistato regno. Intanto la slealtà congenita dei cartaginesi vìola ancora una volta ogni impegno sottoscritto, ma sarà l’ultima. Una nave carica di viveri e d’armi inviata a Scipione da Roma, fa naufragio presso Cartagine. Questi, non solo si appropriano del carico, ma inveiscono pure contro i naufraghi, e li tengono come schiavi, rompendo così i patti della tregua. Ambasciatori mandati da Scipione al Senato cartaginese per chiedere soddisfazione vengono malmenati. Al contrario Scipione non si vendica contro gli ambasciatori nemici che si presentano a lui dopo il ritorno da Roma. Il dramma precipita, Annibale richiamato dal Senato cartaginese, come Scipione aveva previsto e desiderato, ritorna in patria dopo sedici anni di sanguinose guerre e senza che il suo grande sogno di rivincita si realizzasse. Egli ha ubbidito ma un triste presentimento gli attanaglia il cuore; sa di trovare là il suo terribile avversario. Pochi italici seguono nel viaggio il condottiero cartaginese: gli altri, quelli che hanno ricusato di accompagnarlo sono da lui fatti sgozzare, come ultimo atto di rancore in terra italica. Sbarca a Lentis Minor in Tunisia, stabilisce l’accampamento ad Agrumeto. Ai 20.000 soldati cartaginesi venuti dall’Italia con Annibale, se ne aggiungono in Africa altri offerti da alleati e da amici. Magone torna anch’esso dalla Liguria con 13.000 uomini ed altri mercenari affluiscono,
tutte le forze della morente repubblica cartaginese sono mobilitate e si coalizzano per l’ultimo sforzo. Scipione intanto, dopo la rottura dell’armistizio da parte dei cartaginesi, aveva fatto delle spedizioni punitive, Però non ha forze sufficienti e Massinissa deve ancora ritornare dall’Italia, mentre Annibale si va armando e preparando alacremente. E’ l’anno 202 a.C.; i due condottieri prima di scendere in campo hanno un abboccamento. Annibale per evitare la guerra che sente disperata, offre le isole mediterranee e la Spagna, che i romani avevano già in saldo possesso, e promette che non uscirà più da Cartagine. Ma Scipione non crede alle sue parole e alle promesse di una nazione la cui storia è permeata di episodi inauditi di slealtà e di perfidia, L’ultima parola è alle armi su quella pianura di Zama dove gli eserciti sono schierati. Scipione dispone le forze in modo da sbarrare la valle di Gragadas, per prevenire le mosse di Annibale ed ovviare al pericolo degli elefanti. Lascia larghi intervalli nella disposizione delle truppe. Le due ali di cavalleria sono comandate, quella destra da Massinissa, e la sinistra da Lelio. Vengono quindi due linee di riserva. In tutto circa 35.000 uomini. Annibale ha sulla prima linea una formidabile barriera di elefanti, e due ali di cavalleria. Dietro questa 20.000 mercenari e quindi le truppe cartaginesi e libiche. Completa lo schieramento una linea molto numerosa di riserve, in totale più di 50.000 uomini. A vantaggio dei romani c’era solo il campo, sul quale con fine astuzia, l’accorto Scipione aveva attirato l’avversario; c’era inoltre l’entusiasmo delle legioni, che sentivano la grandiosità del l’evento e la loro cieca fiducia nel condottiero che le aveva guidate sempre alla vittoria. E’giorno fatto quando avviene l’apocalittico scontro. Prima sono le cavallerie ad urtarsi, ma gli elefanti impauriti dal fracasso delle trombe romane si mettono a correre all’impazzata gettando lo scompiglio tra le stesse file cartaginesi, cosicché la cavalleria punica è travolta dagli stessi elefanti e dalla cavalleria romana che l’insegue. Nel centro le fanterie cartaginesi fanno pressione su quelle romame che sono in minor numero. Ciononostante le legioni romane riescono a respingere la prima linea avversaria che è formata da mercenari. La seconda linea cartaginese resiste ancora, ma subito dopo viene travolta. Resta la terza linea comandata dallo stesso Annibale, che conta circa 6.000 uomini. Mentre Annibale fa serrare le file in attesa dell’urto delle falangi romane, dalla sua parte, come dice uno storico del tempo, Scipione dispone gli astati al centro, e i principi e i triari, ai lati, e muove all’assalto. Lo scontro è accanito e sanguinoso; d’ambo le parti si combatte con grande valore e accanimento, ma le sorti restano incerte. Scipione sa che la sua cavalleria dovrà ritornare dopo l’inseguimento della cartaginese e delle altre formazioni sbaragliate; infatti quando arrivano Lelio e Massinissa la battaglia volge in netto favore dei romani. Ogni resistenza è infranta dall’impeto dei legionari di Scipione. Ventimila uomini di Annibale sono tagliati a pezzi, e altri ventimila fatti prigionieri e Annibale stesso può salvarsi a stento con la fuga. La battaglia di Zama è finita, e con essa la potenza di Cartagine che, rasa al suolo, fu cancellata per sempre dalle carte geografiche.
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CASSANDRA
Una delle figlie di Priamo, quindi principessa di sangue troiano, sorella d'Ettore e sciagurata per le sventure che prevedeva e non può dissimulare la gloria de' distruttori della sua famiglia, ma ella cerca alcuna consolazione, vaticinando per l'infelice valore d'Ettore una gloria più modesta e più santa; non d'un principe conquistatore, ma d'un guerriero caduto difendendo la Patria. Sacerdotessa di Apollo, da cui ebbe in dono la facoltà della profezia. Ritiratasi alle nozze col dio, non avendo voluto cedere alle sue voglie, questi la punì fecendo sì ch’ella predicesse il futuro e nessuno le prestasse fede, di modo che i suoi vaticini non fossero mai creduti.
- Il Foscolo riporta i versi di Virgilio Eneide II 246: ...fatis aperit Cassandra futuris ora Dei iussu non unquam credita Teucris. - Mito riferito da Eschilo nell’Agamennone e secondo Omero nell’Odissea; dopo la caduta di Troia, fu data come schiava ad Agamennone e uccisa da Clitemnestra, che la insultò anche dopo morta. - Per antonomasia dicesi Cassandra, di chi predichi tristi avvenimenti o altro e non essere creduto. - - Fu celebrata da Bacchilide e Pindaro.
CASSIOPEA
Figura della mitologia greca; nereide, regina d’ Etiopia, moglie di Cefeo e madre di Andromeda. Trasformata nella Costellazione del l’emisfero boreale.
Note - Cassiopea è’una costellazione, detta anche della Sedia nell’emisfero boreale, nella via Lattea, non lontano dal Polo, in posizione simmetrica all’Orsa Maggiore. E’ composta da cinque stelle luminose, tre di terza e due di seconda grandezza formanti una ”M” e da molte altre stelle di minor grandezza (circa 250, di cui un’ottantina visibili ad occhio nudo). Nella iconografia celeste la Costellazione è rappresentata come una donna seduta con un ramo in mano.
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CASTORE
CATULLO
Gaio - Valerio
Poeta latino (n.Verona 87? - m.54 a.C.), discepolo spirituale di Publio Valerio Catone, critico di poesia ed autore di due Epilli , non giunti a noi, che fecero di lui il caposcuola della corrente dei “poeti nuovi” (neòteroi), ne assimilò la poetica, di derivazione ellenistica, attuando in misura esemplare il rinnovamento dei contenuti, (affermazione della lirica come immediata effusione del mondo sentimentale) e quello dell’espressione (consapevolezza e responsabilità del travaglio formale). Amico di Cornelio Nipote, cui dedicò la prima raccolta dei suoi versi, e modello del giovane Virgilio, serbò nell’anima l’amore per la sua terra, rifugiandosi di tanto in tanto nella limpida quiete di Sirmione; ma consumò la sua vita a Roma, tra la gioventù ”dorata”, avida di piaceri spregiudicati, e sensibile alle squisite sottigliezze del colloquio intellettuale. La lucidità gallica, la profonda cultura greca, i fermenti della società romana concorsero a formare la sua indole. Pochi avvenimenti segnarono la sua esistenza, spenta precocementye dalla consunzione; sconvolgente fu il suo amore per la matrona Clodia, moglie di Quinto Metello Celere, che egli cantò sotto il nome di Lesbia, (implicitamente accostandola a Saffo, la poetessa di Lesbo); intenso il suo dolore per la morte di un fratello, del quale nel 57, in occasione di un viaggio compiuto in Bitinia, con una brigata di amici, al seguito del propretore, Memmio, venerò la tomba nella Troade. Il libro di “Catullo Veronese” , nella forma in cui ci è giunto, è diviso in tre parti: un gruppo di liriche brevi, in metri vari, ispirate alle occasioni di vita (amore, amicizie, conviti, scherzi, avventure), e designate col nome di nugae (fanfaluche, poesie leggere); un gruppo comprendenti gli epitalami e i - carmina docta - (poemetti epico-lirici alessandrini ineggianti e densi di mitologia); un terzo gruppo, affine al primo per la varietà dei contenuti e il carattere occasionale dell’ispirazione, ma intieramente in distici elegiaci. La “Chioma di Berenice” nota da noi per la traduzione e i commentari del Foscolo, e una traduzione da Callimaco (la regina Berenice ha sacrificato la chioma come ex-voto per il ritorno del marito; un astronomo di corte ha scoperto che la capigliatura recisa si è cambiata in costellazione). Le “Nozze di Peleo e Teti”, sono un accozzaglia di episodi mitici, e includono una digressione di proporzioni abnormi (la descrizione di un arazzo rappresentante il mito di Arianna, Bacco e Teseo), in cui la cura minuziosa delle notazioni descrittive, o dei riferimenti eruditi, è un’insidia costante alla schiettezza del canto, che non rifugge da una mollezza un po’ languida e persino affettata; il che non vieta di ammirare l’inaudita duttilità della lingua, capace di cogliere sottili sfumature sentimentali o ambientali, foniche o coloristiche, e l’affiorare di un pathos che umanizza la materia leggendaria. Un singolare capolavoro (anche per le risorse ritmiche di uno strano metro, il galliambo), è l’epillio Atis che evoca un fosco mito di automutilazione dovuta a furore religioso. Lenugee e le elegie, brevi, e talora brevissime (una delle più celebri è il distico “Odi et Amo”, che esprime un’irriducibile antinomia di stati d’animo), hanno l’aspetto di appunti, di fogli di diario; ne emerge la storia d’un temperamento estremo nelle sue palpitanti emozioni e la forza espressiva di un poeta nuovo, letteratissimo, ma genuino ed estremamente comunicativo.
- Note - Recita il Foscolo;
- dal giorno che l'eccellentissimo (aureo) Catullo cantò al suo lago di Garda (suo perchè della sua patria) perchè a lui dilettissimo le nozze di Peleo, quali furono cantate nella reggia del mare; un latino carme da quel giorno vien dall'isoletta di Sirmione, danzando nozze per l'argenteo Garda. Le "Nozze di Teti e Pelèo" ch’egli anteponeva persino alle Georgiche perchè gli pareva d'essere a nozze con tutta la comitiva di Bacco. Per lui Catullo fu il terzo modello di stile del descrittivo. Dopo aver detto che i latini imitarono gli inni greci, segue esprimendo il concetto che se Catullo fece i suoi carmi meno religiosi degli inni orfici e meno ummaginosi delle odi pindariche, altrettando li arricchì di gentilissimi ornamenti.
CAVEA
Spazio riservato al pubblico nel teatro classico. Il termine latino – caver – collegato dagli antichi grammatici con l’aggettivo – cavus, cavo, prevalse nell’uso per designare la parte occupata dal pubblico spettatore, sia nel teatro greco che in quello romano. In Grecia, alle origini, il pubblico fu sistemato sulle gradinate sopraelevate rispetto al luogo dell’azione scenica, sistemate spesso secondo uno schema rettangolare, o trapeziodale come per esempio le cavee teatrali di Festo e di Cnosso a Creta. Quindi, seguendo l’evoluzione dell’orchestra, la forma della cavea si adattò ad essa, assumendo soprattutto per ragioni acustiche la forma tipica di struttura semicircolare (sec.IV°a.C.). La cavea greca usufruì del pendio naturale di un colle; fu divisa orizzontalmente da un corridoio (diazonia) in due zone; inferiore e superiore, mentre divisioni in senso verticale erano i – kerkìdes - Arconti, sacerdoti e magistrati prendevano posto in prima fila, dove disponevano di speciali sedili su cui talora era scritta la carica dei personaggi cui erano riservati (esempio il teatro di Dionisio ad Atene). Per Roma, si può parlare di cavea vera e propria solo piuttosto tardi, risalendo la costruzione del primo teatro in pietra a quello di Pompeo del 55 a.C. La cavea romana somiglia esternamente alla greca, pur presentando grandi differenze di struttura. Utilizzando le loro conquiste tecniche (la muratura cementizia, l’arco, la volta), i Romani, svincolandosi dall’ambiente naturale, crearono col teatro e l’anfiteatro in piano, un’unità architettonica autonoma. La cavea, sorretta da costruzioni (substructiones), si salda con la scena, giacchè gallerie (criptae) sostituiscono i passaggi scoperti dell’orchestra greca (parodot); un portico coperto la chiude all’estremità superiore, accessi e sbocchi per il pubblico (vomitoria) si moltiplicano. Inoltre la minor sacralità dello spettacolo, favorisce, nella cavea romana, una distribuzione degli spettatori secondo più rigidi schemi sociali; ai senatori erano riservati posti speciali nell’orchestra (non più utilizzata per la rappresentazione); i cavalieri si accomodavano nell’ima cavea, mentre la media e summa cavea, erano per il popolo e le donne. I personaggi pubblici o il magistrato che offriva lo spettacolo, vi assistevano da due logge (tribunalia) ai lati della scena. Ancor oggi si può sperimentare la perfetta efficienza degli edifici scenici romani; l’immensa cavea dell’arena di Verona infatti può essere sfollata in brevissimo tempo dei suoi trentamila spettatori.
CE
CECROPE
Nacque dal suolo stesso dell'Attica, ed era rappresentato con un corpo da uomo terminante con una coda di serpente. Nell'antichità, infatti, il serpente era uno dei simboli della terra.
I miti e le leggende legati alla fondazione di Atene sono vari e complessi; in alcuni, il fondatore di Atene sarebbe stato Eretteo, al quale Cecrope sarebbe succeduto; in altre il fondatore sarebbe Erittonio.
In tutte le versioni, comunque, Cecrope risulta figlio della Madre Terra, a lui sono attribuiti i primi segni di civiltà, come l'abolizione dei sacrifici cruenti, il principio della monogamia, l'invenzione della scrittura e l'uso di seppellire i morti.
Cecrope sposò Agraulo, figlia di Atteo, dalla quale nacquero tre figlie: Aglauro, Erse e Pandroso. Ebbe anche un figlio, non si sa se dalla stessa donna, di nome Erisittone.
La tomba di Cecrope sembra sia da collocarsi, secondo il mito, sull'acropoli di Atene, nei pressi dell'Eretteo.
(Vedi Aglauro)
CEFALO
- 1° Versione
- 2° Versione
Figlio di Creusa e di Deioneo, re di Focile, marito di Procri, ingelositane costei, si nascose in un bosco per spiarlo. Ma Cefalo, vistala tra le foglie, la scambiò per un animale selvaggio e la uccise. Fu bandito dalla Grecia per ordine dell’Aeropago e si uccise col dardo stesso che la trafisse.
(Vedi Fetonte)
Cefalo è una figura della mitologia greca. Da lui prendeva il nome il demo di Cefale.
Nella mitologia
La maggior parte delle volte lo si considera figlio di Deioneo e di Diomedea, versioni minori ne fanno il figlio di Erse e Ermes e infine del re di Atene Pandione. Sposò Procri, figlia di Eretteo. La leggenda di questo personaggio è caratterizzata da storie d'amore e di gelosia. La dea dell'aurora Eos ne era follemente innamorata e, mentre Cefalo stava cacciando, lo rapì. Cefalo tuttavia non voleva tradire Procri, ma Eos insinuò nel giovane il dubbio che la stessa Procri era facile a tradirlo appena qualcuno le avesse fatto un regalo e per avvalorare la sua tesi lo trasformò in un'altra persona. Costui ne ebbe conferma quando, presentatosi a Procri con un regalo costoso che la dea gli aveva procurato, la donna accettò le sue avances.
A questa evidenza Cefalo abbandonò la moglie per cadere fra le braccia di Eos. Secondo Esiodo da questa unione nacque Fetonte. Procri abbandonata a se stessa si recò a Creta dove aiutò Minosse a guarire dal sortilegio che la moglie Pasifae gli aveva lanciato: tutte le volte che si sarebbe avvicinato a una donna il suo corpo avrebbe sprigionato animali disgustosi come serpi e scorpioni. Dopo averlo guarito, Minosse le donò in segno di ringraziamento una lancia che sarebbe andata sempre a segno e un cane, Lelapo, molto veloce a cui non sfuggiva alcuna preda (doni fatti a sua volta a Minosse da Artemide), purché Procri andasse via da Creta e non creasse gelosie in Pasifae, sua moglie. Ritornata ad Atene, Cefalo appena la vide con quelle armi pregò la donna di regalargliele. Procri pose come condizione che passasse ancora una notte con lei. I due si riconciliarono e il giorno dopo andarono a caccia insieme.
Sfortuna volle che Cefalo avendo udito un fruscio di rami pensò che vi fosse una preda invece colpì mortalmente Procri. Condannato all'esilio per questo omicidio giunse a Tebe dove in quel momento regnava Anfitrione che lo accolse e gli fece omaggio di un'isola che da allora venne chiamata Cefalonia. Qui pare che un giorno colto dal rimorso per la fine di sua moglie si sia gettato in mare da una rupe.
(da wikipedia>
Aurora e Cefalo,
olio su tela di Pierre Narcisse Guérin, 1810,
Parigi, Musée du Louvre.
CEFALONIA
Dopo l’isola di Corfù è la più grande delle isole Jonie, avendo una superfice di 815 kmq. L’angusto stretto di Itaca (Thiachi), la separa dal golfo di Patrasso. Le sue coste sono frastagliate più di tutte le altre isole Jonie. Tre catene di monti parallele ne percorrono la regione interna; la media è la più elevata e raggiunge nel monte Nero (Elatovuni) la massima altezza di 1620 m. Caldo è il clima, ma salubre. Poca l’acqua dei fiumi e breve la loro corsa; vi sono sorgenti solforose e salmastre. Capoluogo è Argostoli, alla riva est, con porto sicuro e vivo commercio marittimo. Le altre città sono: Lexurio, Cefalonia, città molto antica di cui se ne parla ancora dai tempi di Omero. Durante la guerra del Peloponneso fu alleata di Atene, e più tardi fece parte della lega Etolica. Si sottomise a Roma nel 189 a.C., e fece parte dell’impero d’Oriente. I Turchi la conquistarono nel 379 d.C. Veneta dal 1502; divise, da quel tempo, la sorte delle altre isole Jonie. Un terremoto distrusse il 4 febbraio 1867, una gran parte delle sue borgate.
CEFALÙ
Città della Sicilia presso la sponda del Tirreno sopra un ameno colle sporgente in mare a guisa di promontorio dove sorge una rocca chiamata dagli antichi Cefa, da cui la città trasse il nome. E' menzionata nella storia all'epoca della spedizine cartaginese sotto Imilcone II° nel 396 a.C., quando il detto generale stipulò un trattato con gli Imeresi e cogli abitanti di Cefalesi, nome col quale si chiamava allora Cefalù. Dopo la sconfitta dei Cartaginesi, Dionigi di Siracusa se ne impadronì a tradimento. Nella prima guerra Punica la città cadde in potere dei Romani. L'odierna Cefalù non occupa propriamente il luogo dell'antica, ma ne è poco distante, conservandone le memorie e le tradizioni; fu edificata dal re Ruggero. Curioso monumento dell'antica città è un edificio di vari appartamenti edificato tutto quanto con massi poligoni di pietra calcare, quindi una specie di costruzione ciclopica con rozze modanature simili a quelle dell'ordine dorico scolpite sulla faccia dei massi. Fu patria di uomini insigni, fra cui il ceebre astronomo e poeta Flores e GianBattista Spinola, rinomato poeta e giureconsulto.
CEFEO
Mitico re d’ Etiopia, figlio di Belo, marito della nereide Cassiopea e padre di Andromeda.
(Vedi Cassiopea)
CEFISO
Nome di parecchi fiumi storicamente celebrti nell’antica Grecia. Il principale di essi nasceva nel Parnaso e sboccava nel lago Copais, nella Beozia. Inoltre è il nome di un ruscello dell’Attica che si versa nel golfo di Egina.
CEFISODOTO
- Cefisodoto detto il Giovane
- Cefisodoto il Vecchio
Cefisodoto detto il Giovane, o Cefisodoto II (in greco antico: Κηφισόδοτος, Kephisódotos; IV secolo a.C. – III secolo a.C.) è stato uno scultore greco antico attivo tra il 345 e il 290 a.C. circa[1].
Cefisodoto era figlio di Prassitele e nipote di Cefisodoto il Vecchio, fu erede quindi di una bottega e di una tradizione familiare ottimamente avviata; operò fra la seconda metà del IV secolo e i primi decenni del III secolo a.C. Una base recante la sua firma[2], proveniente dal santuario di Asclepio ad Atene, conserva nell'iscrizione anche il nome del sacerdote consentendo di datare al 344/3 a.C. la fase iniziale della sua attività[1] e di porre ipoteticamente la sua nascita intorno al 360 a.C., con il periodo di massimo sviluppo, secondo Plinio, intorno al 296-293 a.C.[3]
Da testimonianze nella letteratura antica sappiamo come Cefisodoto lavorasse sia il marmo che il bronzo e si avvalesse della collaborazione del fratello Timarco. Si hanno notizie dell'attività della bottega dei figli di Prassitele a Megara, a Tebe, a Coo, a Eleusi, a Delfi e a Pergamo. Malgrado la quantità di basi firmate giunte sino a noi, le quali attestano la fervida attività dello scultore e della sua bottega, non ci sono rimaste sue opere originali; possediamo tuttavia alcune copie, create soprattutto in età romana, quali il ritratto del commediografo Menandro,[4] visto da Pausania (I, 21, 1) nel teatro di Dioniso, e quello dell'oratore Licurgo di Atene e dei suoi figli, eseguito in legno dopo la morte dell'oratore, di cui si legge nello Pseudo-Plutarco Vite dei dieci oratori. Plinio per distinguere Cefisodoto I da Cefisodoto II sottolinea che quest'ultimo aveva eseguito ritratti di filosofi (Nat. hist., XXXIV, 87), e ricorda alcune sue opere che furono trasportate a Roma: una statua di Latona nel tempio di Apollo Palatino, una Afrodite nella collezione di Asinio Pollione, un Asclepio e una Artemide nel tempio di Giunone nel portico di Ottavia (Nat. hist., XXXVI, 24).
Testa di Menandro,
copia di età romana della scultura scolpita da
Cefisodoto il giovane in collaborazione con il fratello Timarco,
Museo archeologico nazionale di Atene 3292.
Cefisodoto detto il Vecchio (in greco antico: Κηφισόδοτος, Kephisòdotos; 410 a.C. circa – ...) è stato uno scultore greco antico.
Ebbe la massima fioritura intorno al 370 a.C. e fu capostipite di una famiglia di scultori; forse Prassitele era suo figlio.
La sua opera più nota è il gruppo bronzeo di Eirene e Pluto (personificazioni della pace e della ricchezza), dedicato sull'agorà di Atene presso l'altare di Eirene poco dopo il 375 a.C., per celebrare le vittorie della seconda lega navale attica guidata da Timoteo (Pausania, I, 8, 2; IX, 16, 1-2). Il gruppo ebbe molta fortuna e fu riprodotto frequentemente su monete, anfore panatenaiche e rilievi marmorei. Ne possediamo diverse copie di età romana la più completa delle quali si trova alla Gliptoteca di Monaco. Il trattamento del panneggio sembra ormai lontano dal virtuosismo postfidiaco, mentre il gioco di sguardi che lega le due figure sembra preludere all'umanità delle opere di Prassitele.
Tra le altre opere ricordate dalla letteratura antica vi sono un gruppo con le nove Muse per il santuario dell'Elicona eseguito in collaborazione con Strongilione e Olimpiostene (Paus., IX, 30, 1) e un Ermes in bronzo con in braccio il piccolo Dioniso ricordato da Plinio (Nat. hist., XXXIV, 50).
Eirene e il piccolo Pluto:
copia romana da Cefisodoto il vecchio,
statua votiva, ca. 375 a.C., dall'agorà di Atene.
Monaco di Baviera, Gliptoteca 219.
CELEA
Città dell’antica Grecia nella Sicionia, molto celebre per un tempio a Cerere.
CELEMBOLO
Gli antichi Greci chiamavano così una loro particolare ordinanaza di battaglia, nella quale la falange raddoppiata entro i due corni di una delle sue fronti, serrava insieme a guisa di cuneo quelli della posteriore.
CELENDERIS
Borgo del Peloponneso sul golfo Sardonico, menzionato come patria di Teseo. Pur città marittima dell’Asia Minore nella Cilicia Trachea.
CELERI
Gli antichi Romani chiamavano così un reggimento di guardie a cavallo, istituito (credesi) da Romolo e composto, in origine, da 300 giovani delle più illustri famiglie appartenenti alle tre tribù. Nelle ritirate formavano la retroguardia e il loro capo era detto tribuno o prefetto dei celeri. Bruto, che scacciò i Tarquini, era tribuno di questo corpo scelto, che fu l’origine dell’ordine dei cavalieri.
CELENO
E’ nome di una delle tre Arpie. Nell’ Eneide, cacciano i Troiani dalle isole Strofadi, annunziando loro la fame crudele di cui dovranno soffrire.
- Note - Così le descrive Virgilio nel III° libro dell’Eneide:
-
(...) Strofadi grecamente nominate
Son certe isole in mezzo al grande Jonio,
Da la fera Celeno e da quell'altre
Rapaci e lorde sue compagne arpie
Fin d'allora abitate..
"Non c'è mostro più brutto di loro,
nessun flagello divino più crudele di loro uscì mai dallo Stige.
Sono uccelli col viso di fanciulla, dal ventre scaricano in continuazione luridissime feci,
hanno mani uncinate, faccia pallida sempre per la fame"
(da wikipedia)
CELEO
Mitico sovrano di Eleusi; marito di Metanira, padre di Demofonte
(Vedi Metanira)
CELIARCA
Presso i Greci, era il comandante di mille soldati, corrispondente press’a poco al nostro grado di colonnello.
CELIO
- CELIO
- CELIO ANTIPATRO Lucio
Uno dei sette colli di Roma, chiamato anticamente Querquetulanus -, dalle quercie che vi erano, poi detto Celio da Caeles Vibenna, capo etrusco che, andato a Roma come ausiliario contro i Sabini, vi pose la sua dimora. Quindi una parte di Roma fu chiamata Caelimontium o Caelimontona, la valle che si trova tra il monte Celio, e il monte Esquilino. Ai tempi di Tiberio, fu ordinato che si chiamasse Augusto; venne poscia detto Laterano, e i Papi vi risiedettero a lungo prima che si trasferissero al Vaticano.
Storico, al dire di Cicerone, contemporaneo di Celio Fannio Strabone; scrisse una storia della seconda guerra punica. Il cognome greco aggiunto al nome di Celio fa supporre che egli o il di lui padre fossero di origine greca.
CENOTAFIO
Presso gli antici greci, dai quali ci viene il termine (tomba vuota), come presso altri popoli, troviamo l’uso di tombe culturali, ossia non destinate a contenere il corpo del morto ma a servire per un’azione di culto. Il suo uso fu introdotto anche a Roma, e su di esso veniva inciso per tre volte il nome del morto, affinché l’anima ne prendesse possesso.
CENTAURI
Mostri favolosi, metà uomini e metà cavalli. Abitavano il monte Pelio in Tessaglia. Alle nozze di Piritoo re dei Lapiti con Ippodamia, uno dei centauri rapì la sposa, donde una lotta accanita tra i Lapiti e i Centauri rimasti soccombenti. Discendenti di Centauro, figlio ippomorfo di Issione, re dei Lapiti, che unitosi alle giumente nei pascoli della Magnesia, diede origine alla loro stirpe. La violenza era la loro caratteristica e considerati selvaggi dialetticamente opposti ai civili. Il centauro Chirone è ricordato e celebrato invece per la sua saggezza.
Michelangelo Buonarroti
Casa Buonarroti, Firenze
“Centauro domato da Amore”– Scultura ellenistica – Museo del Louvre – Parigi.
CENTIMANI
Giganti con cento mani e cinquanta teste, propriamente Titani, figlioli di Cielo e della Terra. Si citano specialmente i nomi di Gige, di Cotto, di Egemone, che in cielo era detto Briareo.
(ritorna a EGEONE)
(ritorna a GIGE)
CENTRONES
Due popoli dell'antica Gallia; il primo nella regione poi detta Tarantasia (Savoia), l'altro nel paese dei Nervii.
CENTUMCELLAE
Oggi Civitavecchia.Traiano ne fece un porto considerevole detto Trajani portus, con grandiose gettate.
CENTUMVIRI
Magistratura romana, intorno alla cui origine, all’ordinamento e ai cui poteri si hanno vaghe e confuse notizie, negli autori romani. I membri di questa magistratura erano, secondo Festo, centocinquanta eletti, tre per ciascuna delle trentacinque tribù, stabiliti nel 241 a.C. Sembra, senza dubbio, che la giurisdizione dei centunviri fosse circoscritta a Roma, o, tutt’al più all’ Italia, non solo per le materie civili, ma anche per le penali (criminali).
CENTURIA
I cittadini romani erano divisi in sei classi, ciascuna delle quali era suddivisa in certo numero di centurie. Quando nel campo di Marte si adunavano i comizi per l'elezione dei magistrasti, il popolo votava per centurie, e quelli perciò furono detti "Comitia centuriata". Nell'esercito romano, ogni legione era composta di dieci coorti, ogni coorte di tre manipoli, ogni manipolo di due centurie, di modo che una legione comprendeva trenta manipoli, e sessanta centurie.
CENTURIONE
(it.Centurio) Comandante di una compagnia o centuria di fanteria, che variava nel numero a seconda del variare di una legione. I centurioni venivane eletti ordinariamente dai tribuni militari, probabilmente previa conferma del console; la loro paga era del doppio di un soldato, ma sotto gli imperatori anche questo grado venne conferito qua si esclusivamente per amicizia o interesse. I doveri del centurione consistevano principalmente nel l’obbligo di tenere ben ordinata la compagnia, ed aver cura delle sentinelle. Aveva per insegna la vite ,ossia un bastone di vite, del quale si serviva per punire i subalterni.
CEO
Titano figlio di Urano e Gea
(Vedi Titani)
CEOS
CEA o CIA
Isola dell’Egeo, oggi Zia, fra l’Eubea e la Beozia; fu patria dei poeti Simonide, Bacchilide e del filosofo Prodico.
CERAMICUS
SINUS
Golfo dell’Asia Minore sulle coste della Caria fra le due penisole, Alicarnasso e Cnido; oggi Golfo di Stanco.
CERASUS
o CERASUNTE
Antica città greca dell’Asia Minore, nel Ponto, sulla spiaggia del mar Nero, o del golfo Catioreo; fu colonia di Sinope, Di qui Lucullo spedì in Italia le prime piante di ciliegio.(Oggi detta Keresum.)
CERAUNII.
Catena di monti dell’Epiro, oggi della Chimera o monti Cica.
CERAUNITE
Gli antichi chiamavano così alcune pietre che si credevano cadute col fulmine.
CERBERO
Cane di Plutone con tre teste (o cinquanta, secondo Esiodo), e dalla coda di serpente. Custode mansueto per chi entrava nell’Ade, terribile con chi tentava di uscirne. Vigile guardiano, per impedire l’entrata ai viventi e l’uscita ai morti. Ai morti si poneva accanto una focaccia col miele, perché offrendogliela placasse il terribile mostro. Come altri numerosi mostri mitici, era ritenuto figlio della gigantesca Echidna, la quale aveva partorito un altro mostro simile, Orto (o Ortro), bicefalo con coda serpentiforme che custodiva gli armenti di Gerione, un terribile gigante dalle tre teste. Ercole, sceso all’Ade a liberare Teseo e ammansito con la lira da Orfeo, venuto a richiedere la moglie Euridice, lotta e uccide Orto, cattura e incatena Cerbero.
- Astronomia - Costellazione boreale contenente quattro stelle; fu introdotta da Evelio e adottata nell’Atlante celeste di Flamste ed in prossimità di Ercole.
Nell'ultima e più dura delle sue dodici fatiche, Eracle è costretto a combattere e sconfiggere il feroce cane Cerbero per portarlo a Micene da Euristeo. L'eroe non lo uccide, ma dimostra di averlo sconfitto in combattimento.
(ritorna a ALCESTE)
CERCINA
Anticamente piccole isole alla costa d'Africa all'entrata della piccola Syrte (poi dette Korkerat). Ivi Mario si trattenne nell'inverno dell' 88/87 a.C.
CERCOPI
Gli antichi chiamavano così certi esseri fantastici, paragonabili agli spiriti folletti del medio evo. Il mito di questi spiriti ebbe origine, secondo alcuni mitologi nella Lidia, secondo altri nell’ isola di Eubea. Sono ricordati nelle leggende d’Ercole, a cui servivano ora ad aiuto, ora a trastullo.
Eracle e i due Cercopi
I Cercopi (greco antico: Κέρκοπες Kerkopes) erano, nella mitologia greca, due fratelli che vivevano nella regione delle Termopili, nell'isola di Eubea o in Asia minore.
I Cercopi erano due briganti celebri per i loro spergiuri, gli imbrogli e i furti[1], ed erano figli di Teia e Oceano. I loro nomi variano a seconda dell'autore: Passalo e Acmone, Basala e Achemone, Olo ed Euribato, Sillo e Triballo.
CEFISO
Fiume presso Orcomèno, protetto dalle Grazie, come è detto da Pindaro nell' Olimp. XVI, ode che poi è tutto un inno a quelle dèe.
- Note - Nell'Olimp. IX (trad. Borghi):
-
"Se delle Grazie coltivar mi vide
Grecia con fatal man l'orto ridente,
sa ben che ponno di gentil diletto
inebriar la mente".
CERE
Notissima città dell’Etruria a poche miglia dal mar Tirreno sopra un piccolo fiume, il Caeretanusamnis, ora Vaccina. Fu fondata dai Pelasgi ed ebbe anteriormente nome Agylla. Acquistò celebrità per ricchezza e potenza; fu conquistata dagli Etruschi e poi dai Romani. E' l'odierna Cerveteri.
CERERE
– CEREA - DEMETRA
Figlia di Saturno e di Rea (Cibele). Dèa madre, altrice dei popoli, inventrice dell’agricoltura e delle biade, che per prima, aveva insegnato l’arte di coltivare la terra agli uomini. E’la natura stessa riguardata come la madre di tutti gli esseri viventi. La storia della figlia perduta (Persefone) e ritrovata, formava la base del suo culto. Veniva rappresentata con la falce e un fascio di spighe in una mano e di papaveri nell’altra. La credevano fondatrice di ogni società umana e la veneravano come quella che all’uomo selvaggio ed errante, avesse dato costumi, civiltà, proprietà, protettrice leggi e patria, donde le venne il soprannome di Tesmofora, che significa datrice di leggi. Per ottenere buoni raccolti i romani celebravano in suo onore delle feste pubbliche verso la fine di maggio, dette ambarvali. Aveva in Roma un suo sacerdote, il flamine cereale, e una sua festa, i Cerealia, che cadeva il 19 aprile, secondo il calendario più antico, ma che in seguito fu ampliata aggiungendovi i sette o otto giorni precedenti, durante i quali si celebravano i famosi giochi circensi, i cosìddetti “Ludi Cereales”. Assai importante era un suo culto sull’Aventino, collina dove i plebei all’inizio del V°s.a. C., le avevano innalzato un tempio, divenuto in seguito il centro politico e religioso della plebe romana. Qui era venerata assieme a Libero e Libera, due divinità queste, considerate suoi figli, con i quali costituiva una triade che i plebei, nella loro lotta contro il patriziato, quasi opponevano alla triade ufficiale dello Stato romano Giove, Giunone, Minerva, ed era venerata sul Campidoglio.
CERETE
Filosofo greco, nato a Tebe verso la metà del V secolo a.C.
CERIGO
(CITERA - KYTIRA)
L'isola greca di 284 kmq., all’imboccatura del golfo di Laconia, fra l’estremità meridionale della Morea e Creta; è l’antica Citèra, celebre per il culto di Afrodite (Venere), perciò detta Citèrea. Sacra alla dèa perché, vi sarebbe discesa dal mare a terra. Un tempo colonia fenicia, gli Argivi vi s'impadronirono prima del 570 a.C.. A seguire più tardi gli Spartani, e quindi gli Ateniesi, che la conquistarono durante la guerra del Peloponneso. Alla spartizione dell’impero, toccò a Bisanzio. Caduto l’impero d’Oriente subentrò la Repubblica Veneta. Da quell’epoca in poi seguì la sorte delle altre isole Joniche; Capsali ne è il capoluogo all’estremità sud dell’isola.
CERIGOTTO
Piccola isola fra Cerigo e Candia; montuosa, con buon porto, ed una superfice di 13 kmq.
CERINTUS
Città antica sulla costa orientale del’isola di Eubea.
CERITI
Popoli dell’Etruria, la cui città portava il nome di Cere.
CESARE
- Cesare
- Cesare Caio Giulio
- (Elio Sparziano, Historia Augusta, II,3)
- « Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l'unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l'opinione dei più dotti e informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa dai Mauri; altra opinione è che il termine derivi dal fatto che, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, a un'operazione di parto cesareo. Si crede anche che la parola possa derivare dal fatto che il primo dei Cesari nacque con i capelli lunghi o dal fatto che aveva degli occhi celesti incredibilmente vispi. Bisogna comunque considerare felice la circostanza, quale che fu, che diede origine a un nome tanto famoso, che durerà in eterno. »
- (LA)
- « Vincerent ac sibi haberent, dum modo scirent cum, quem incolumem tanto opere cuperent, quandoque optimatium partibus, quas secum simul defendissent, exitio futurum; nam Caesari multos Marios inesse! »
- (IT)
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« Abbiatela pure vinta, e tenetevelo pure! Un giorno vi accorgerete che colui che volete salvo a tutti i costi sarà fatale alla fazione degli Ottimati, che pure tutti insieme abbiamo difeso. In Cesare ci sono, infatti, molti Gaio Mario! »
(Svetonio, Cesare, 1) - (Svetonio, Cesare, 6, traduzione di Felice Dessì)
- « Da parte di madre mia zia Giulia discende dai re; da parte di padre si ricollega con gli dei immortali. Infatti i Marzii Re, alla cui famiglia apparteneva sua madre, discendono da Anco Marzio, ma i Giuli discendono da Venere, e la mia famiglia è un ramo di quella gente. Confluiscono, quindi, nella nostra stirpe, il carattere sacro dei re, che hanno il potere supremo tra gli uomini, e la santità degli dei, da cui gli stessi re dipendono. »
- Sulla figura di Cesare come scrittore, significativo è il seguente passo di Svetonio:[219][220]
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« [55] Eguagliò o superò la gloria dei migliori, tanto nell'eloquenza quanto nell'arte militare. Dopo la sua accusa contro Dolabella, fu, senza ombra di dubbio, annoverato tra gli avvocati principi. Sta di fatto che Cicerone, nel Bruto, elencando gli oratori, dice: "Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo: ha un'esposizione elegante, chiara e, in un certo senso, anche magnifica e generosa".[221] In una lettera a Cornelio Nepote ne parla così: "Chi, dimmi, gli vorresti anteporre, anche cercando tra quegli oratori che non si siano mai dedicati ad altro? Chi più di lui è arguto o ricco nei concetti? Chi è più ornato o più elegante nelle espressioni?"[222] Da giovane aveva preso a modello, a quanto pare, Strabone Cesare, e nella sua Divinazione ne riportò letteralmente alcuni brani, tolti dall'orazione Per i Sardi. Pronunciava i discorsi, dicono, con voce alta e acuta, e il suo gestire era concitato e ardente, ma non privo di eleganza. Ci rimangono alcune sue orazioni, ma in alcuni casi l'attribuzione non è sicura. Augusto stima con ragione che quelle intitolata Per Quinto Metello non sia stata pubblicata da lui ma raccolta da qualche stenografo che non riusciva perfettamente a tenergli dietro mentre parlava; e infatti su alcune copie trovò l'indicazione scritta per Metello invece del titolo Per Quinto Metello, benché il discorso sia in persona di Cesare e in difesa propria e di Metello contro gli accusatori di entrambi. Lo stesso Augusto reputa molto azzardato attribuirgli anche le orazioni Ai soldati in Ispagna, tramandate in numero di due: una sarebbe stata pronunciata in occasione del primo combattimento, e l'altra per il successivo, nel quale però Asinio Pollione sostiene che non ebbe neppure il tempo di arringare le truppe per l'improvviso attacco del nemico.
[56] Lasciò anche dei Commentari sulle sue gesta nella guerra gallica e in quella civile contro Pompeo. È però incerto che sia l'autore anche di quelli sulla guerra alessandrina, su quella africana e su quella spagnola. Alcuni li attribuiscono a Oppio e altri a Irzio, che terminò anche l'ultimo libro del De bello Gallico, altrimenti rimasto incompiuto. Parlando dei Commentari di Cesare, Cicerone così si esprime nello stesso Bruto: "Scrisse anche dei Commentari che si devono assolutamente ammirare: sono nudi, scarni e belli, spogliati di qualsiasi ornamento oratorio come un corpo della sua veste. Ma, mentre volle offrire agli altri il materiale per scrivere la storia, forse fece opera grata agli inetti che vorranno agghindarlo con riccioli artificiosi, ma distolse i sani di mente dallo scriverne".[223] Così scrive Irzio, riferendosi agli stessi Commentari: "Sono tanto universalmente lodati che sembrano voler togliere e non offrire ad altri l'occasione di scrivere sullo stesso argomento. Per quanto mi riguarda, la mia ammirazione è ancora maggiore; tutti infatti ne conoscono la purezza e l'eleganza dello stile, ma io so anche con quanta facilità e rapidità furono scritti". Asinio Pollione, invece, li reputa scritti con scarsa cura e con poco rispetto della verità. "Infatti" dice "in molti casi Cesare prestò fede con leggerezza alle imprese riferite da altri, e in quanto alle proprie le riportò in modo inesatto, sia per deliberato proposito sia per errore di memoria, e credo li avrebbe voluti riscrivere e correggere". Cesare lasciò anche due libri Sull'analogia e altrettanti di un Anticatone, e inoltre un poemetto Il viaggio. Scrisse la prima di queste due opere durante il passaggio delle Alpi, mentre dalla Gallia Citeriore tornava al comando dell'esercito, dopo aver tenuto le assise come pubblico magistrato. La seconda fu scritta su per giù all'epoca della battaglia di Munda; l'ultima quando da Roma raggiunse la Spagna Ulteriore in ventitré giorni. Ci rimangono anche le lettere da lui indirizzate al senato, lettere che egli per primo piegò in pagine, come fossero libretti di annotazioni, mentre fino ad allora i consoli e i magistrati mandavano i fogli scritti per intero, su tutta la loro larghezza. Ci resta anche qualche lettera a Cicerone, e ai familiari su questioni domestiche. In queste ultime, quando voleva scrivere qualcosa di segreto o di riservato, lo metteva in cifra, mutando cioè l'ordine delle lettere, in modo da togliere ogni significato alle parole. Chi vuole esaminarle e decifrarle non ha che da cambiare la quarta lettera dell'alfabeto, la d, in a, e seguitare così con le altre. Si ricorda che [...] da giovane scrisse alcune operette, quali un poemetto In lode di Ercole, una tragedia, Edipo, e anche una Raccolta di sentenze. Augusto vietò la pubblicazione di queste operette con una brevissima e semplice lettera a Pompeo Macro, che aveva l'incarico di riordinare le biblioteche. »
(Svetonio, Cesare, 55-56, adattamento della traduzione di Felice Dessì)
Soprannome di un ramo della famiglia Giulia, una delle più antiche fra le patrizie di Roma, pretendendo essa di trarre origine da Julio figlio di Enea, e perciò di discendere da sangue divino. Essa conservava memorie storiche che risalgono all’anno 253 di Roma, 501 a.C.
Busto di Gaio Giulio Cesare.
Musei Vaticani - Roma
Gaio Giulio Cesare (in latino: Gaius Iulius Caesar, IPA: [ˈgaj.jʊs ˈjuː.lɪ.ʊs ˈkaɛ̯.sar];[N 2][3] nelle epigrafi C·IVLIVS·C·F·CAESAR e DIVVS IVLIVS;[4] in greco antico: Γαίος Ἰούλιος Καῖσαρ, Gáios Iúlios Kâisar; Roma, 13 luglio 101 a.C.[1] o 12 luglio 100 a.C.[2] – Roma, 15 marzo 44 a.C.) è stato un militare, console, dittatore, pontefice massimo, oratore e scrittore romano, considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della storia.[5]
Ebbe un ruolo cruciale nella transizione del sistema di governo dalla forma repubblicana a quella imperiale.
Fu dittatore (dictator) di Roma alla fine del 49 a.C., nel 47 a.C., nel 46 a.C. con carica decennale e dal 44 a.C. come dittatore perpetuo, e per questo ritenuto da Svetonio il primo dei dodici Cesari, in seguito sinonimo di imperatore romano.[6]
Con la conquista della Gallia estese il dominio della res publica romana fino all'oceano Atlantico e al Reno; portò gli eserciti romani a invadere per la prima volta la Britannia e la Germania e a combattere in Spagna, Grecia, Egitto, Ponto e Africa.
Il primo triumvirato, l'accordo privato per la spartizione del potere con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, segnò l'inizio della sua ascesa. Dopo la morte di Crasso (Carre, 53 a.C.), Cesare si scontrò con Pompeo e la fazione degli Optimates per il controllo dello stato. Nel 49 a.C., di ritorno dalla Gallia, guidò le sue legioni attraverso il Rubicone, pronunciando le celebri parole «Alea iacta est», e scatenò la guerra civile, con la quale divenne capo indiscusso di Roma: sconfisse Pompeo a Farsalo (48 a.C.) e successivamente gli altri Optimates, tra cui Catone l'Uticense, in Africa e in Spagna.
Con l'assunzione della dittatura a vita diede inizio a un processo di radicale riforma della società e del governo, riorganizzando e centralizzando la burocrazia repubblicana. Il suo operato provocò la reazione dei conservatori, finché un gruppo di senatori, capeggiati da Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e Decimo Bruto, cospirò contro di lui uccidendolo, alle Idi di marzo del 44 a.C. (15 marzo 44). Nel 42 a.C., appena due anni dopo il suo assassinio, il Senato lo deificò ufficialmente, elevandolo a divinità. L'eredità riformatrice e storica di Cesare fu quindi raccolta da Ottaviano Augusto, suo pronipote e figlio adottivo.[7]
Le campagne militari e le azioni politiche di Cesare sono da lui stesso dettagliatamente raccontate nei Commentarii de bello Gallico e nei Commentarii de bello civili. Numerose notizie sulla sua vita sono presenti negli scritti di Appiano di Alessandria, Svetonio, Plutarco, Cassio Dione e Strabone. Altre informazioni possono essere rintracciate nelle opere di autori suoi contemporanei, come nelle lettere e nelle orazioni del suo rivale politico Cicerone, nelle poesie di Catullo e negli scritti storici di Sallustio.
Cesare: denario
FRONTE
CAESAR, un elefante (simbolo di Cesare) avanza verso destra e calpesta un serpente;
RETRO
Sono rappresentati alcuni oggetti come un simpulum (attingitoio), un aspergillum (rametto di alloro o ulivo), una securis (scure) e un apex (copricapo).
Argento, 17 mm, 4,01 g; coniato nel 49-48 a.C..
Le principali fonti per la vita e il ruolo di Gaio Giulio Cesare sono rappresentate dalla biografia di Svetonio (Vite dei dodici Cesari) e di Plutarco (Vite Parallele), oltre a Appiano di Alessandria (Historia Romana), Cassio Dione Cocceiano (Historia Romana), Velleio Patercolo (Historiae Romanae), Marco Tullio Cicerone (Orationes Philippicae, Orationes in Catilinam, Epistulae ad Atticum, Orationes: pro Marcello, pro Ligario, pro Deiotaro, De provinciis consularibus), Marco Anneo Lucano (Pharsalia), e lo stesso Cesare con i Commentarii De bello Gallico e De bello civili.
Cesare nacque il 13 luglio del 101[1] o il 12 luglio del 100 a.C.[2] nella Suburra, un quartiere di Roma, da un'antica e nota famiglia patrizia, la gens Iulia, che, secondo il mito, annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano, Romolo, e discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, figlio a sua volta della dea Venere.[9][10]
Il ramo della gens Iulia che portava il cognomen "Caesar" discendeva, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, da un uomo venuto alla luce in seguito a un taglio cesareo (dal verbo latino 'tagliare', caedo, -ĕre, caesus sum, IPA 'kae-do, 'kae-sus sum).[11] La Storia Augusta[12] suggerisce invece altre tre possibili spiegazioni sull'origine del nome: che il primo Cesare avesse ucciso un elefante (caesai in berbero) in battaglia durante la prima guerra punica,[13] che fosse nato con una folta capigliatura (dal latino caesaries), oppure con occhi di colore celeste particolarmente vivo (dal latino oculis caesiis).
Nonostante le origini aristocratiche, la famiglia di Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà romana, né particolarmente influente. Ciò rappresentò inizialmente un grande ostacolo alla sua carriera politica e militare, e Cesare dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche politiche. Inoltre, negli anni della giovinezza dello stesso Cesare, lo zio Gaio Mario si era attirato le antipatie della nobilitas repubblicana (anche se successivamente Cesare riuscì a riabilitarne il nome) e questo metteva anche lo stesso Cesare in cattiva luce agli occhi degli optimates.
Il padre, suo omonimo, era stato pretore nel 92 a.C. e aveva probabilmente un fratello, Sesto Giulio Cesare, che era stato console nel 91 a.C., e una sorella, Giulia, che aveva sposato Gaio Mario intorno al 110 a.C. La madre era Aurelia Cotta, proveniente da una famiglia che aveva dato a Roma numerosi consoli. Il futuro dittatore ebbe due sorelle, entrambe di nome Giulia: Giulia maggiore, probabilmente madre di due dei nipoti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio, menzionati insieme a Ottaviano nel suo testamento,[14] e Giulia minore, sposata con Marco Azio Balbo, madre di Azia minore e di Azia maggiore, a sua volta madre di Ottaviano.
La famiglia viveva in una modesta casa della popolare e malfamata Suburra, dove il giovane Giulio Cesare fu educato da Marco Antonio Gnifone, un illustre grammatico nativo della Gallia. Cesare trascorse il suo periodo di formazione in un'epoca tormentata da gravi disordini. Mitridate VI, re del Ponto, minacciava le province orientali; contemporaneamente, era in corso in Italia la Guerra sociale e la città di Roma era divisa in due fazioni contrapposte: gli optimates, favorevoli al potere aristocratico, e i populares o democratici, che sostenevano la possibilità di rivolgersi direttamente all'elettorato. Pur se di nobili origini, fin dall'inizio della sua carriera Cesare si schierò dalla parte dei populares, scelta sicuramente condizionata dalle convinzioni dello zio Gaio Mario, capo dei populares e rivale di Lucio Cornelio Silla, sostenuto da aristocrazia e Senato.[15]
Nell'86 a.C. lo zio Gaio Mario morì, e nell'85 a.C., quando Cesare aveva solo sedici anni, morì il padre Gaio Giulio Cesare il Vecchio.[16] L'anno seguente Cesare ripudiò la sua promessa sposa Cossuzia per sposare Cornelia minore, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato di Gaio Mario nella guerra civile.[17] Il nuovo legame con una famiglia notoriamente schierata con i popolari, oltre alla parentela con Mario, causarono problemi non indifferenti al giovane Cesare negli anni della dittatura di Silla. Questi cercò di ostacolarne in tutti i modi le ambizioni, bloccando la sua nomina a Flamen Dialis; la situazione poi si aggravò quando il dittatore, avuta la meglio su Mitridate VI, rientrò in Italia e sconfisse i seguaci di Mario nella battaglia di Porta Collina, nell'82 a.C. Ormai capo indiscusso di Roma, Silla si autoproclamò dittatore perpetuo per la riforma delle leggi e la restaurazione della repubblica, e cominciò a eliminare i suoi avversari politici; ordinò a Cesare di divorziare da Cornelia poiché non era patrizia, ma Cesare rifiutò. Silla meditò allora di farlo uccidere,[18] ma dovette poi desistere dopo i numerosi appelli rivoltigli dalle Vestali e da Gaio Aurelio Cotta. In quell'occasione esclamò:
Cesare, temendo per la sua vita, lasciò comunque Roma, prima ritirandosi in Sabina (dove fu costretto a cambiare domicilio ogni giorno)[19] e poi, raggiunta la giusta età, partendo per il servizio militare in Asia, come legato del pretore Marco Minucio Termo.[20] Fu Minucio a ordinare al giovane legato di recarsi presso la corte di Nicomede IV, sovrano del piccolo stato della Bitinia. Di questa missione si parlò a lungo a Roma, ove si diffuse la voce che Cesare avesse avuto una relazione amorosa con il sovrano, come testimoniano i canti intonati dai legionari dello stesso Cesare oltre trentacinque anni dopo.[21] In ogni modo, come legato di Minucio durante l'assedio di Mitilene, Cesare partecipò per la prima volta a uno scontro armato, distinguendosi per il suo coraggio, tanto che gli fu conferita la corona civica, che veniva concessa a chi, in combattimento, avesse salvato la vita a un cittadino.[22] In seguito alle riforme promulgate da Silla, a chi fosse stata conferita una corona militare sarebbe stato garantito l'accesso al Senato.
Rientrato a Roma Minucio, Cesare rimase in Cilicia, partecipando come patrizio romano a diverse operazioni militari che si svolsero in quella zona, come l'azione contro i pirati (che proprio in Cilicia avevano il loro punto di forza) sotto il comando di Servilio Isaurico. In quanto di famiglia patrizia, lì fu associato con alcuni incarichi a vari comandanti romani.[23]
Dopo due anni di potere assoluto, Silla si dimise dalla carica di dittatore, ristabilendo il normale governo consolare. Cesare rientrò a Roma solo quando ebbe notizia della morte di Silla (78 a.C.),[24] e il suo ritorno coincise con il tentativo di ribellione anti-sillana capeggiato da Marco Emilio Lepido e bloccato da Gneo Pompeo. Cesare, non fidandosi delle capacità di Lepido, che pure lo aveva contattato,[25] non partecipò alla ribellione, e cominciò invece a dedicarsi alla carriera forense come pubblico accusatore e a quella politica come esponente dei popolari e nemico dichiarato degli ottimati. In questa fase, benché ancora giovanissimo, egli dimostrò già una grandissima intelligenza politica, evitando di rimanere implicato in un'insurrezione male organizzata e destinata a naufragare nell'insuccesso.[26]
Cesare, che non si era apertamente schierato contro la politica sillana, evitando di partecipare all'insurrezione di Lepido, decise di sostenere l'accusa di concussione contro Gneo Cornelio Dolabella, per atti durante il suo mandato di governatore in Macedonia e quella di estorsione contro Gaio Antonio Ibrida.[27][28] Entrambi gli accusati erano membri influenti del partito degli ottimati e in entrambi i casi, anche se l'accusa fu pronunciata con perizia, perse le cause: Dolabella, che probabilmente si era macchiato anche di vari crimini durante le proscrizioni sillane, fu assolto dall'accusa di concussione grazie all'abilità oratoria dei suoi avvocati Lucio Aurelio Cotta e Quinto Ortensio Ortalo.[29] Il discorso di Cesare, che non si è conservato, dovette però essere di ottima fattura, come testimonia il fatto che fosse ancora oggetto di studio nel II secolo.[30] Anche nel processo ad Antonio Ibrida, Cesare pronunciò un discorso particolarmente efficace, tanto da costringere lo stesso Ibrida, per ottenere l'assoluzione, ad appellarsi ai tribuni della plebe, sostenendo che non gli erano garantite delle eque condizioni processualistiche.[31] Benché l'esito del processo non compaia nell'opera di nessuno storico, è probabile che anche Ibrida riuscì a evitare la condanna. Cesare, che sapeva fin dal principio che le sue azioni legali non avevano alcuna possibilità di riuscita, attraverso l'esordio nel mondo forense si accreditò come importante rappresentante della fazione dei populares,[32] anche se l'esito negativo dei processi lo convinse a lasciare Roma una seconda volta per evitare le vendette della nobilitas sillana.[33]
Cesare decise allora, nel 74 a.C., di recarsi a Rodi, vera e propria meta di pellegrinaggio per i giovani romani delle classi più alte, desiderosi di apprendere la cultura e la filosofia greca.[34] Durante il viaggio fu però rapito dai pirati, che lo portarono sull'isola di Farmacussa, una delle Sporadi meridionali a sud di Mileto.[35] Quando questi gli chiesero di pagare venti talenti, Cesare rispose che ne avrebbe consegnati cinquanta e mandò i suoi compagni a Mileto perché ottenessero la somma di denaro con cui pagare il riscatto, mentre lui sarebbe rimasto a Farmacussa con due schiavi e il medico personale.[36] Durante la permanenza sull'isola, che si protrasse per trentotto giorni,[37] Cesare compose numerose poesie e le sottopose poi al giudizio dei suoi carcerieri; più in generale, mantenne un comportamento piuttosto particolare con i pirati, trattandoli sempre come se fosse lui ad avere in mano le loro vite e promettendo più volte che una volta tornato libero li avrebbe fatti uccidere tutti.[38] Quando i suoi compagni ritornarono, portando con sé il denaro che le città avevano offerto loro per pagare il riscatto,[39] Cesare si rifugiò nella provincia d'Asia, governata dal propretore Marco Iunco.[40] Giunto a Mileto, Cesare armò delle navi e tornò in tutta fretta a Farmacussa, dove catturò senza difficoltà i pirati; poi si recò con i prigionieri al seguito in Bitinia, dove Iunco stava sovrintendendo all'attuazione delle volontà espresse da Nicomede IV nel suo testamento. Qui chiese al propretore di provvedere alla punizione dei pirati, ma questi si rifiutò, tentando invece di impadronirsi del denaro sottratto ai pirati stessi,[41] e decise poi di rivendere i prigionieri.[42] Cesare allora, prima che Iunco potesse mettere in atto i suoi progetti, si rimise in mare lasciando la Bitinia e procedette egli stesso all'esecuzione dei prigionieri: li fece crocifiggere dopo averli strangolati, in modo da evitare loro una lunga e atroce agonia.[43] In questo modo, secondo le fonti filocesariane, egli non fece altro che adempiere ciò che aveva promesso ai pirati durante la prigionia,[44] e poté anzi restituire i soldi che i suoi compagni avevano dovuto richiedere per il riscatto.[45]
Terminata la vicenda dei pirati, Cesare prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia d'Asia e arruolando navi e milizie ausiliarie.[46] Nel 73 a.C., mentre ancora si trovava in Asia, fu eletto nel collegio dei pontefici, per compensare il fatto che avesse perso la carica del flaminato per fuggire da Silla.[47]
Tornato a Roma,[48] fu eletto tribuno militare alle elezioni del 72 a.C. per l'anno seguente,[49] risultando addirittura il primo degli eletti.[50] Si impegnò dunque nelle battaglie politiche sostenute dai populares, ovvero l'approvazione della Lex Plotia (che avrebbe permesso il rientro in patria di coloro che erano stati esiliati dopo aver partecipato all'insurrezione di Lepido)[51] e il ripristino dei poteri dei tribuni della plebe, il cui diritto di veto era stato notevolmente ridimensionato da Silla, per evitare colpi di mano da parte dei populares. Il ripristino della tribunicia potestas fu però ottenuto soltanto nel 70 a.C., l'anno del consolato di Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso. Entrambi avevano acquisito un grande prestigio portando a termine rispettivamente la guerra contro Quinto Sertorio in Spagna, e quella contro gli schiavi guidati da Spartaco. Crasso in particolare era in stretti rapporti con Cesare[52] (lo aiutò infatti più volte finanziandone le campagne elettorali) ma, per quanto incredibilmente ricco grazie alle proscrizioni sillane, dovette far appoggio durante la sua campagna elettorale sul carisma del nascente leader popolare.
Cesare fu eletto questore per il 69 a.C.[53] Dopo il consolato di Pompeo e Crasso, il clima politico romano si stava avviando al cambiamento, grazie al quasi totale smantellamento della costituzione sillana che i due consoli avevano operato. Nel 69 a.C. Cesare pronunciò dai Rostri del Foro,[54] secondo l'antico costume,[55] gli elogi funebri per la zia Giulia, vedova di Gaio Mario, e per la moglie Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna. Nel farlo, mostrò per la prima volta in pubblico dal periodo sillano le immagini di Gaio Mario e del figlio Gaio Mario il giovane,[56] e il popolo le accolse plaudente.[57] Nell'elogio per Giulia,[58] Cesare esaltava la discendenza della zia per parte di madre da Anco Marzio, evidenziando come negli esponenti della gens Iulia scorresse ora anche il sangue regale accanto a quello divino.
L'elogio di Cornelia parve invece piuttosto insolito, perché non era uso pronunciare discorsi in memoria di donne morte giovani,[59] ma fu fortemente apprezzato dal popolo,[60] in quanto celebrava una figura femminile ben lontana da quella della classica matrona romana.[61]
Sempre nel corso del 69 a.C., Cesare si recò nella Spagna Ulteriore, governata dal propretore Antistio Vetere. Lì si dedicò a un'intensa attività giudiziaria[62] e grazie al suo grande impegno[63] poté anche accattivarsi le simpatie della popolazione, che liberò dai pesi fiscali che Metello aveva imposto.[64]
Prima della fine dell'anno, Cesare tornò a Roma, a seguito di due episodi probabilmente leggendari ma particolarmente significativi: durante la notte sognò di avere un rapporto incestuoso con la madre.[65] Il sogno indicava infatti la necessità di ritornare in patria ed era allo stesso tempo un presagio di dominio del mondo. Mentre osservava poi la statua di Alessandro Magno a Cadice (Gades), Cesare fu folgorato e scoppiò in lacrime,[62] commentando: "Non vi sembra che ci sia motivo di addolorarsi se alla mia età Alessandro regnava già su tante persone, mentre io non ho fatto ancora nulla di notevole?"[66]
Cesare, dopo aver votato per l'approvazione della Lex Gabinia[67] e della Lex Manilia,[68] fu eletto edile curule (aedilis curulis) nel 65 a.C.. Grazie al suo comportamento poté consacrarsi definitivamente come nuovo leader del movimento popolare, conquistandosi le simpatie di tutta la popolazione romana.[69] Egli fece esporre le sue personali collezioni d'arte nel Foro e sul Campidoglio,[70] e organizzò dei giochi di gladiatori in memoria di suo padre.[71][72] Per la loro magnificenza (vi presero parte oltre trecentoventi coppie di gladiatori),[73] i giochi suscitarono le preoccupazioni degli optimates, che non vedevano di buon occhio l'affermazione di Cesare; essi promulgarono una legge che prevedeva che non si potesse avere alle proprie dipendenze più di un certo numero (a noi sconosciuto) di gladiatori.[74] Cesare si propose come continuatore della politica antisillana: fece infatti rimettere in piedi i trofei ottenuti da Mario per le vittorie contro Cimbri e Teutoni,[75] e decise, quando fu a capo del tribunale, di considerare come omicidi le uccisioni dei proscritti sotto Silla.[76][77]
Altro grandissimo successo fu per Cesare l'elezione nel 63 a.C. a pontefice massimo, dopo la morte di Quinto Cecilio Metello Pio, che era stato nominato da Silla. Cesare, per quanto scettico,[78] si era battuto perché il pontificato tornasse a essere, dopo la riforma sillana, una carica elettiva,[79] e comprendeva perfettamente quale aspetto avrebbe avuto la sua figura se insignita della carica di tutore del diritto e del culto romano. A sfidarlo c'erano però rappresentanti della fazione degli optimates molto più anziani e già da tempo giunti al culmine del cursus honorum, quali Quinto Lutazio Catulo e Publio Servilio Vatia Isaurico.[80] Cesare allora, aiutato anche da Marco Licinio Crasso, si procurò grandi somme di denaro che usò per corrompere l'elettorato,[81] e fu dunque costretto a pagare un prezzo altissimo per la sua elezione: il giorno del voto, uscendo di casa, promise infatti alla madre che ella lo avrebbe rivisto pontefice oppure esule.[82] La nettissima vittoria di Cesare[81] gettò nel panico gli optimates, mentre costituì per il neoeletto pontefice una nuova acquisizione di prestigio, in grado di assicurargli la nomina a pretore per l'anno seguente. Nel frattempo, per evidenziare l'importanza della sua carica, lasciò la casa natale nella Suburra per trasferirsi sulla via Sacra,[83] cominciando ad attuare una politica volta ad accattivarsi anche le simpatie di Pompeo Magno.
Nel 63 a.C. irruppe sulla scena politica Lucio Sergio Catilina. Nobile decaduto, egli tentò più volte di impadronirsi del potere: organizzò una prima congiura nel 66 o nel 65 a.C., a cui Cesare prese probabilmente parte.[84] La congiura, che avrebbe portato all'elezione di Crasso come dittatore e dello stesso Cesare come suo magister equitum, fallì per l'improvviso abbandono del progetto da parte di Crasso, o forse perché Cesare si rifiutò di dare il segnale convenuto che avrebbe dovuto dare inizio al programmato assalto al senato. Quando nel 63 la seconda congiura di Catilina fu scoperta da Marco Tullio Cicerone (pur non avendo prove certe) , Lucio Vezio, amico di Catilina,[85] fece i nomi di alcuni congiurati, includendo tra essi anche Cesare. Questi fu scagionato dalle accuse grazie al tempestivo intervento di Cicerone, ma resta assai probabile che avesse partecipato, almeno inizialmente, anche a questa seconda congiura.[86] Ad avvalorare l'ipotesi è il discorso che lo stesso Cesare pronunciò in senato in difesa dei congiurati Lentulo e Cetego: dopo la sua fuga, Catilina aveva lasciato a loro le redini della congiura, ma i due erano stati scoperti grazie a un abile piano congegnato da Cicerone, principale accusatore di Catilina e responsabile del fallimento della congiura. Discutendo sulla pena cui condannare Lentulo e Cetego, molti senatori avevano proposto la condanna a morte; Cesare, invitando tutti a non prendere decisioni avventate e dettate dalla paura, propose invece di confinare i congiurati e di confiscare loro i beni.[87] Il discorso di Cesare, che aveva convinto molti senatori, fu però seguito da un altro, molto acceso, pronunciato da Marco Porcio Catone Uticense, che riuscì a reindirizzare il senato verso la condanna a morte dei congiurati.[88] Lentulo e Cetego furono quindi condannati a morte senza che gli fosse concessa la provocatio ad populum. Il discorso di Cesare, grazie al quale egli si presentò come un uomo saggio e poco vendicativo, fu molto gradito al popolo, che sperava nei benefici che Catilina gli avrebbe concesso; è però probabile che con le sue parole il futuro dittatore tentasse anche di salvare dalla morte degli amici e compagni politici con i quali aveva indubbiamente collaborato.[89]
Dopo la morte della moglie Cornelia nel 68 a.C., Cesare sposò Pompea, nipote di Silla.[90] Ma nel 62 a.C. Publio Clodio Pulcro, amante di Pompea, si introdusse in casa di Cesare, dove la stessa Pompea stava preparando le celebrazioni per la festa di Bona Dea. Scoperto mentre era travestito da ancella, Clodio venne processato per lo scandalo, e Cesare ripudiò Pompea, pur rifiutando di testimoniare contro Clodio al processo.[91] Eletto pretore,[92] nel 61 a.C. fu poi governatore della provincia della Spagna ulteriore, dove condusse operazioni contro i Lusitani; acclamato imperator, gli fu tributato il trionfo una volta tornato a Roma.[93] Cesare fu tuttavia costretto a rinunciarvi, in quanto per celebrare il trionfo avrebbe dovuto mantenere le sue vesti di militare e restare fuori dalla città di Roma: il propretore chiese dunque al senato il permesso di candidarsi al consolato in absentia, attraverso i suoi legati, ma Catone l'Uticense fece in modo che la richiesta fosse respinta. Cesare, posto di fronte a una scelta particolarmente importante per la sua carriera futura, preferì dunque salire il gradino successivo del cursus honorum e candidatosi nel 60 a.C. fu eletto console per l'anno 59 a.C.[94][95]
Nel 60 a.C., Cesare stipulò un'alleanza strategica con due tra i maggiori capi politici dell'epoca: Crasso e Pompeo.[96] Questo accordo privato fu successivamente chiamato dagli storici primo triumvirato; non si trattava di una vera magistratura, ma di un accordo tra privati che, data l'influenza dei firmatari, ebbe poi notevolissime ripercussioni sulla vita politica, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni.[97]
Crasso era l'uomo più ricco di Roma (aveva infatti finanziato la campagna elettorale di Cesare per il consolato) ed era un esponente di spicco della classe dei cavalieri. Pompeo, dopo aver brillantemente risolto la guerra in Oriente contro Mitridate e i suoi alleati, era il generale con più successi alle spalle. Il rapporto tra Crasso e Pompeo non era dei più idilliaci, ma Cesare con la sua fine abilità diplomatica seppe riappacificarli, vedendo in un'alleanza tra i due l'unico modo in cui egli stesso avrebbe potuto raggiungere i vertici del potere. Crasso serbava infatti verso Pompeo un certo rancore, da quando quegli aveva celebrato il trionfo per la guerra contro Sertorio in Spagna e per la vittoria contro gli schiavi ribelli, che soffocata la rivolta di Spartaco cercavano di fuggire dall'Italia per attraversare l'arco alpino: ogni merito era andato a Pompeo, mentre Crasso, vero artefice della sofferta vittoria su Spartaco, aveva potuto celebrare soltanto un'ovazione.[97] Pompeo avrebbe dovuto sostenere la candidatura al consolato di Cesare, mentre Crasso l'avrebbe dovuta finanziare. In cambio di quest'appoggio, Cesare avrebbe fatto in modo che ai veterani di Pompeo venissero distribuite delle terre, e che il Senato ratificasse i provvedimenti presi da Pompeo in Oriente; al contempo, com'era desiderio di Crasso e dei cavalieri, fu ridotto di un terzo il canone d'appalto delle imposte della provincia d'Asia. A rinsaldare ulteriormente quanto previsto dal triumvirato, Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare.
Nel 59 a.C., l'anno del suo consolato, Cesare portò al servizio dell'alleanza la sua popolarità politica e il suo prestigio, e si adoperò per portare avanti le riforme concordate con gli altri triumviri.[98] Nonostante la forte opposizione del collega Marco Calpurnio Bibulo, che tentò in ogni modo di ostacolare le sue iniziative, Cesare ottenne comunque la ridistribuzione degli appezzamenti di ager publicus per i veterani di Pompeo, ma anche per alcuni dei cittadini meno abbienti.[99] Bibulo, una volta accortosi del fallimento della sua sterile politica volta esclusivamente alla conservazione dei privilegi da parte della nobilitas senatoriale, si ritirò dalla vita politica: in questo modo pensava di frenare l'attività del collega, che invece poté attuare in tutta tranquillità il suo rivoluzionario programma.[98] Cesare infatti programmò la fondazione di nuove colonie in Italia e per tutelare i provinciali riformò le leggi sui reati di concussione (lex Iulia de repetundis),[100] facendo approvare allo stesso tempo delle leggi che favorissero l'ordo equestris: con la lex de publicanis egli ridusse di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività. Fece infine promulgare una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta senatus).[101] In questo modo Cesare si assicurava l'appoggio di tutta la popolazione romana, ponendo le basi per il suo futuro successo.[98]
Durante il consolato, grazie all'appoggio dei triumviri, Cesare ottenne con la Lex Vatinia del 1º marzo[102] il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina[103] e dell'Illirico per cinque anni, con un esercito composto da tre legioni (VII, VIII e IX). Poco dopo un senatoconsulto gli affidò anche la vicina provincia della Narbonense,[104] il cui proconsole era morto all'improvviso, e la X legione.[105]
Il fatto che a Cesare fosse stata attribuita inizialmente la provincia dell'Illirico nel suo imperium, con la dislocazione all'inizio del 58 a.C. di ben tre legioni ad Aquileia, potrebbe significare che egli intendeva recarvisi in cerca di gloria e ricchezze, con cui accrescere il suo potere, la sua influenza militare e politica con campagne oltre le Alpi Carniche fin sul Danubio, sfruttando la crescente minaccia delle tribù della Dacia che si erano riunite sotto il loro re Burebista.
Burebista aveva infatti guidato il suo popolo alla conquista dei territori a occidente del fiume Tisza, oltrepassando il Danubio e sottomettendo l'intera area dove si estende l'attuale pianura ungherese, ma soprattutto avvicinandosi pericolosamente all'Illirico romano e all'Italia. La sua avanzata si arrestò improvvisamente, forse per il timore di un possibile intervento diretto romano nell'area balcano-carpatica. E così, invece di continuare nella sua marcia verso Occidente, Burebista tornò nelle sue basi in Transilvania. Il cessato allarme sul fronte orientale, indusse Cesare a rivolgere le proprie attenzioni verso la Gallia.
Il senato sperava con le sue mosse di allontanare il più possibile Cesare da Roma, proprio mentre egli stava acquisendo una sempre maggiore popolarità. Quando lo stesso Cesare promise di fronte al senato di compiere grandi azioni e riportare splendidi trionfi in Gallia, uno dei suoi detrattori, per insultarlo, urlò che ciò non sarebbe stato facile per una donna, alludendo ai costumi sessuali dell'avversario; il proconsole designato rispose allora ridendo che l'essere donna non aveva impedito a Semiramide di regnare sulla Siria e alle Amazzoni di dominare l'Asia.[106] Cesare seppe comprendere le potenzialità che l'incarico affidatogli presentava: in Gallia egli avrebbe potuto conquistare immensi bottini di guerra (con i quali saldare i debiti contratti nelle campagne elettorali), e avrebbe acquisito il prestigio necessario per attuare la sua riforma della res publica.[107]
Prima di lasciare Roma, nel marzo del 58 a.C.,[108] Cesare incaricò il suo alleato politico Publio Clodio Pulcro, tribuno della plebe, di fare in modo che Cicerone fosse costretto a lasciare Roma. Clodio fece allora approvare una legge con valore retroattivo che puniva tutti coloro che avevano condannato a morte dei cittadini romani senza concedere loro la provocatio ad populum: Cicerone fu quindi condannato per il suo comportamento in occasione della congiura di Catilina, venne esiliato, e dovette lasciare Roma e la vita politica.[109] In questo modo Cesare cercava di assicurarsi che, in sua assenza, il senato non prendesse decisioni che compromettessero la realizzazione dei suoi piani.[107] Allo stesso scopo, Cesare si liberò anche di un altro esponente dell'aristocrazia senatoria, Marco Porcio Catone, che venne allontanato da Roma inviandolo propretore a Cipro.[110] Per evitare inoltre di divenire oggetto delle accuse legali dei suoi avversari, si appellò alla lex Memmia, secondo la quale nessun uomo che si trovava fuori dall'Italia a servizio della res publica poteva subire un processo giuridico.[111] Infine, affidò la gestione dei suoi affari a Lucio Cornelio Balbo, un eques di origine spagnola; per evitare che i messaggi che gli spediva cadessero nelle mani dei suoi nemici Cesare adoperò un codice cifrato, che prese il nome di cifrario di Cesare.
Mentre si trovava ancora a Roma, Cesare venne a sapere che gli Elvezi, stanziati tra il lago di Costanza, il Rodano, il Giura, il Reno e le Alpi retiche, si accingevano ad attraversare il territorio della Gallia Narbonense. C'era dunque il pericolo che essi, al loro passaggio sul territorio romano, compissero razzie e incitassero alla rivolta il popolo che ivi risiedeva, gli Allobrogi; i territori che si sarebbero svuotati, potevano poi divenire meta delle migrazioni di altri popoli germanici, che si sarebbero trovati a vivere al confine con lo stato romano, dando origine a un pericolo da non sottovalutare.[112]
Il 28 marzo Cesare, avuta notizia che gli Elvezi, bruciate le loro città, erano giunti sulle rive del Rodano, fu costretto a precipitarsi in Gallia, dove giunse il 2 aprile, dopo pochissimi giorni di viaggio.[113] Disponendo solo della decima legione, insufficiente a contrastare un popolo di 368 000 individui (tra cui si contavano 92 000 uomini in armi),[114] fece distruggere il ponte sul Rodano per impedire che gli Elvezi lo attraversassero,[115] e cominciò a reclutare in tutta la provincia forze ausiliarie, disponendo, inoltre, la creazione di due nuove legioni nella Gallia Cisalpina[116] e ordinando a quelle stanziate ad Aquileia di raggiungerlo al più presto.
Gli Elvezi inviarono a Cesare dei messaggeri che chiesero l'autorizzazione ad attraversare pacificamente la Gallia Narbonense; Cesare, però, temendo che una volta in territorio romano quelli si abbandonassero a razzie, gliela rifiutò, dopo aver fatto fortificare la riva del Rodano. Gli Elvezi, allora, decisero di attraversare il territorio dei Sequani; Cesare tuttavia, non si disinteressò della questione e, adducendo tra i vari pretesti le devastazioni compiute dagli Elvezi stessi ai danni degli Edui, alleati dei Romani, si decise ad affrontarli, e li sconfisse irreparabilmente a Bibracte.
Una volta sconfitti, agli Elvezi fu dato ordine di tornare nel loro territorio d'origine, in modo da evitare che questo venisse occupato da popoli germanici proveniente dalle zone del Reno e del Danubio.[117]
La campagna di Cesare del 57 a.C.
I Galli chiesero allora a Cesare la possibilità di riunirsi in un'assemblea generale per fronteggiare il problema dell'invasione dei Germani guidati da Ariovisto.[118] Questi aveva già invaso la Gallia in precedenza ma, pur avendo ottenuto la vittoria, era stato convinto dal Senato a rientrare entro i propri confini, ottenendo il titolo di rex atque amicus populi Romani. Quando i Galli, al termine dell'assemblea, chiesero a Cesare di aiutarli a ricacciare l'invasore oltre il Reno, lo stesso Cesare propose ad Ariovisto di stipulare un accordo. Il re germano rifiutò, e Cesare decise di affrontarlo. Le legioni, però, intimorite dalla fama di imbattibilità che i Germani avevano guadagnato, sembravano sul punto di rifiutare il combattimento e ammutinarsi; Cesare, allora, disse che avrebbe sfidato Ariovisto portando con sé solo la fedelissima decima legione, e le altre, per dimostrare il loro valore, accettarono allora di seguirlo.[119]
Il generale romano avanzò verso Ariovisto, che aveva attraversato il Reno e l'Ill e, dopo un ultimo fallimentare negoziato, si decise a dare battaglia, presso l'odierna Mulhouse, ai piedi dei Vosgi. I Germani furono duramente sconfitti e massacrati dalla cavalleria romana mentre tentavano di salvarsi attraversando il fiume.
Con la vittoria su Ariovisto, Cesare, fermate le invasioni germaniche e posto il Reno come confine tra la Gallia e la Germania stessa, salvò le popolazioni galliche dal pericolo dell'invasione, stabilendo così una propria egemonia sul territorio.[120]
Dopo aver svernato nella Gallia Cisalpina,[121] nel 57 a.C., avvalendosi dell'aiuto degli alleati Edui e delle due nuove legioni che aveva fatto arruolare,[122] Cesare decise di portare la guerra nel nord della Gallia. Qui i Belgi erano da tempo pronti all'attacco, consci del fatto che se Cesare si fosse completamente impossessato della Gallia avrebbero perso la loro autonomia.
Il generale, radunate le forze, marciò allora verso il nord, dove i Belgi si erano radunati in un unico esercito di oltre 300.000 uomini. Raggiuntili, diede battaglia e li sconfisse una prima volta vicino a Bibrax presso il fiume Axona, provocando loro molte perdite.
Cesare avanzò ancora, quando altri Belgi, in massima parte Nervi, decisero di unirsi nuovamente per combattere l'esercito romano. Essi attaccarono di sorpresa l'esercito romano, ma Cesare seppure con grandi difficoltà riuscì a respingerli e a contrattaccare, capovolgendo le sorti della battaglia: ottenne infatti la vittoria, riuscendo a uccidere moltissimi nemici.[123] Portate a termine altre brevi operazioni, Cesare poté dirsi padrone dell'intera Gallia Belgica,[124] e all'arrivo dell'inverno tornò nuovamente nella Gallia Cisalpina.[125]
Nel 56 a.C. a insorgere furono i popoli della costa atlantica, dopo che Cesare aveva mandato il giovane Publio Crasso[126] a esplorare le coste della Britannia, lasciando così intuire il suo progetto di espansione verso nord-ovest. Per contrastare gli insorti, Cesare fece allestire una flotta di navi da guerra sulla Loira[127] e dopo aver inviato i propri uomini nei punti nevralgici della Gallia per evitare ulteriori ribellioni si diresse verso la Bretagna, per combattere i Veneti.[128] Dopo aver espugnato alcune città nemiche, egli decise di attendere la flotta appena costruita, che giunse al comando di Decimo Giunio Bruto Albino. Con essa poté facilmente avere la meglio sui Veneti presso Quiberon,[129] e, dopo averli sconfitti, li fece uccidere o ridurre in schiavitù, per punire la condotta incresciosa che avevano tenuto nei riguardi degli ambasciatori romani.[130]
Nel 55 a.C. i popoli germanici degli Usipeti e dei Tencteri, che assieme costituivano una massa di 430 000 uomini,[131] si spinsero fino al Reno e occuparono le terre dei Menapi. Cesare, allertato dalla possibilità di un'avanzata germanica in Gallia, si affrettò a raggiungere la Belgica, e impose loro di tornare oltre il Reno.[132] Quando questi si ribellarono agli accordi, Cesare ne fece imprigionare a tradimento gli ambasciatori e ne assaltò a sorpresa gli accampamenti, uccidendo quasi 200 000 tra uomini, donne e bambini.[133] L'azione, particolarmente cruenta, suscitò la sdegnata reazione di Catone, che propose al senato di consegnare Cesare ai Galli, in quanto colpevole di aver violato i diritti degli ambasciatori.[134] Il senato, invece, proclamò una lunghissima supplicatio di ringraziamento di ben quindici giorni.[135][136] Subito Cesare, costruito in gran fretta un ponte di legno sul Reno, condusse una breve spedizione in Germania per intimidire gli abitanti del luogo e scoraggiare altri eventuali tentativi di invasione.
Nell'estate del 55 a.C., Cesare decise di invadere la ricca e misteriosa Britannia. Dopo alcune operazioni preventive, salpò con ottanta navi e due legioni per sbarcare nei pressi di Dover, poco lontano da dove lo attendeva l'esercito nemico. Dopo un duro combattimento, i Britanni furono sconfitti e decisero di sottomettersi a Cesare, ma tornarono quasi subito alla ribellione, non appena appresero che parte della flotta romana era stata danneggiata dalle tempeste, che impedivano l'arrivo di rinforzi.[137] Attaccati di nuovo i Romani, i Britanni risultarono, però, nuovamente sconfitti, e furono costretti a chiedere la pace e a consegnare numerosi ostaggi. Cesare tornò allora in Gallia, dove dislocò le legioni negli accampamenti invernali; intanto, però, molti dei Britanni si rifiutarono di inviare gli ostaggi promessi, e Cesare cominciò a programmare una nuova campagna.
Nel 54 a.C., assicuratosi la fedeltà della Gallia,[138] il generale salpò nuovamente verso la Britannia con ottocento navi e cinque legioni.[139] Sbarcò senza incontrare nessuna resistenza, ma, non appena si fu accampato, venne attaccato dai Britanni guidati da Cassivellauno, che sconfisse in due diverse battaglie. Cesare decise allora di portare la guerra nelle terre dello stesso Cassivellauno, oltre il Tamigi, e attaccò fulmineamente i nemici: dopo che ebbe riportato delle facili vittorie, molte tribù gli si sottomisero e Cassivellauno, sconfitto, fu costretto ad avviare le trattative di pace, che stabilirono che egli avrebbe offerto ogni anno un tributo e degli ostaggi a Roma. Cesare si ritirò allora dalla Britannia stabilendo numerosi rapporti di clientela che posero la base per la conquista dell'isola nel 43 d.C.
Il proconsole dislocò le sue legioni negli hiberna, quando già in più zone si respirava aria di rivolta. Il capo degli Eburoni Ambiorige, in particolare, decise di prendere d'assedio un accampamento e, convinti con l'inganno i soldati a uscire allo scoperto, li aggredì, massacrando quindici coorti. Spinto dal successo, attaccò un altro accampamento, retto da Quinto Cicerone; questi si comportò in modo prudente, e attese l'arrivo di Cesare, che mise in fuga l'esercito nemico di 60 000 uomini.[140]
Contemporaneamente, anche il luogotenente di Cesare, Tito Labieno, fu attaccato dai Treviri, guidati da Induziomaro[141] ma, sebbene in svantaggio numerico, li sconfisse, uccidendo anche lo stesso capo Induziomaro.[142]
All'inizio del 53 a.C., Cesare portò il numero delle sue legioni a dieci, arruolandone una ex novo e ricevendone un'altra da Pompeo. Fermata una rivolta nella Belgica, marciò contro Treviri, Menapi ed Eburoni, affidando parte delle truppe al luogotenente Tito Labieno. Lo stesso Cesare sottopose a crudeli razzie le terre dei Menapi, che furono costretti a sottometterglisi,[143] mentre Labieno, mediante vari stratagemmi, poté avere facilmente la meglio sui Treviri e sugli Eburoni.[144] Venuto a conoscenza delle vittorie del suo luogotenente, Cesare decise di passare di nuovo il Reno, costruendovi un nuovo ponte, per punire i Germani che avevano appoggiato la rivolta gallica ed evitare che dessero ospitalità ai promotori della rivolta stessa.[145] Accortosi del rischio che avrebbe corso inoltrandosi in territori a lui sconosciuti, decise di tornare indietro lasciando in piedi il ponte (a eccezione della parte terminale) come monito della potenza romana.[146] Decise dunque di condurre l'intero esercito contro gli Eburoni e il loro capo Ambiorige; i popoli limitrofi, impauriti dall'entità delle forze dei Romani, accettarono di sottomettersi a Cesare, e Ambiorige si ritrovò così isolato. Molti Galli, anzi, si unirono ai Romani e cominciarono a combattere gli Eburoni; questi, non senza reagire, furono gradualmente sconfitti e massacrati, così che alla fine dell'estate Cesare poté ritenere vendicate le sue quindici coorti.[147]
Ultimo atto della guerra di Gallia fu la rivolta guidata dal capo degli Arverni Vercingetorige, attorno al quale si strinsero tutti i popoli celti, inclusi gli "storici" alleati dei Romani, gli Edui.
La rivolta ebbe inizio dalle azioni dei Carnuti, ma ben presto a prenderne il comando fu Vercingetorige che, eletto re degli Arverni, si guadagnò l'alleanza di tutti i popoli limitrofi.[148] Cesare, allertato, si affrettò a tornare in Gallia, lasciando la Pianura Padana dove si trovava a svernare. Vercingetorige decise di marciargli contro, ma il proconsole in risposta cinse d'assedio la città di Avarico: riuscì a espugnarla dopo quasi un mese con l'ausilio di imponenti opere di ingegneria militare, mentre il re degli Arverni, benché potesse contare su di un esercito ben più numeroso di quello di Cesare, si sottrasse allo scontro. Fu quindi costretto ad assistere impotente al massacro di tutta la popolazione della città (oltre 40 000 persone), ma riuscì a ottenere l'appoggio di altre popolazioni galliche.
Affidato ai luogotenenti l'incarico di occuparsi del resto della Gallia, Cesare puntò su Gergovia, capitale degli Arverni, dove Vercingetorige si era asserragliato. Sconfitto, anche se di misura, in uno scontro, Cesare fu costretto a togliere l'assedio, preoccupato dalle voci che gli annunciavano una defezione degli Edui, suoi storici alleati.[149] Intanto Vercingetorige, che si vide confermare il comando della guerra dall'assemblea pangallica, evitò nuovamente una vera battaglia in campo aperto, e decise di rinchiudersi nella città di Alesia.
Lì Cesare lo raggiunse e fece costruire una doppia linea di fortificazione che si estendeva per oltre 17 chilometri: egli, infatti, si aspettava l'arrivo di un esercito di rinforzo, e temeva che i suoi 50 000 legionari potessero rimanere schiacciati tra le forze nemiche. Difatti, dopo oltre un mese, a sostegno dei 60 000 assediati giunsero altri 240 000 armati, che attaccarono le dieci legioni di Cesare: egli, guidando l'esercito in prima persona assieme a Labieno, ottenne una decisiva vittoria e costrinse Vercingetorige a consegnarsi.[150]
Finiva così la ribellione gallica, e Roma poteva dirsi ormai padrona di una nuova immensa estensione territoriale. Tra il 51 e il 50 a.C., Cesare non ebbe infatti che da sedare alcune rivolte locali, e poté riconciliarsi con le tribù che aveva combattuto: nel 50, infine, dichiarò la Gallia, ormai totalmente in suo possesso, provincia romana, e nel 49 a.C. le sue legioni poterono finalmente tornare in Italia.
« Ecco l'uomo che dobbiamo combattere. Ha tutto, gli manca solo la buona causa »
(Affermazione di Marco Tullio Cicerone su Giulio Cesare alla vigilia della guerra civile[151].)
Dopo aspri dissensi con il senato, Cesare varcò in armi il fiume Rubicone, che segnava il confine politico dell'Italia; il senato, di contro, si strinse attorno a Pompeo e, nel tentativo di difendere le istituzioni repubblicane, decise di dichiarare guerra a Cesare (49 a.C.). Dopo alterne vicende, i due contendenti si affrontarono a Farsalo, dove Cesare sconfisse irreparabilmente il rivale. Pompeo cercò quindi rifugio in Egitto, ma lì fu ucciso (48 a.C.). Anche Cesare si recò perciò in Egitto, e lì rimase coinvolto nella contesa dinastica scoppiata tra Cleopatra VII e il fratello Tolomeo XIII: risolta la situazione, riprese la guerra, e sconfisse il re del Ponto Farnace II a Zela (47 a.C.). Partì dunque per l'Africa, dove i pompeiani si erano riorganizzati sotto il comando di Catone, e li sconfisse a Tapso (46 a.C.). I superstiti trovarono rifugio in Spagna, dove Cesare li raggiunse e li sconfisse, questa volta definitivamente, a Munda (45 a.C.).
Il patto triumvirale, che aveva legato Cesare a Pompeo e Crasso, era ormai del tutto inesistente, da quando Crasso, come era stato deciso nel 55 a.C. in un incontro tra i tre triumviri a Lucca (dove Cesare si era visto prorogare per un altro quinquennio il proconsolato nelle Gallie), si era recato in Siria a combattere i Parti ed era morto a Carre. (53 a.C.)
Il senato, intimorito dai successi di Cesare, aveva dunque deciso di favorire Pompeo, nominandolo consul sine collega nel 52 a.C., perché frenasse le ambizioni del suo vecchio alleato. Anche negli anni seguenti il senato aveva fatto in modo che i consoli eletti fossero sempre appartenenti alla factio dei pompeiani e che osteggiassero dunque le mosse del proconsole di Gallia; Cesare, di contro, aveva in mente di ottenere il consolato per il 49 a.C., in modo da poter tornare a Roma senza divenire oggetto di procedure penali e, una volta rientrato nell'Urbe, impadronirsi del potere. Per questo, nel 50 a.C., gestendo le sue scelte politiche dalla Gallia Cisalpina, richiese al senato la possibilità di candidarsi al consolato in absentia, ma se la vide nuovamente negare, come già era successo nel 61 a.C. Comprese le intenzioni del senato, Cesare "neutralizzò" il console pompeiano Lucio Emilio Paolo, e fece avanzare ai suoi tribuni della plebe Marco Antonio e Gaio Scribonio Curione (che aveva attirato a sé saldandone i debiti) una proposta che prevedeva che tanto lui quanto Pompeo avrebbero sciolto le loro legioni entro la fine dell'anno. Il senato, invece, ingiunse a entrambi i generali di inviare una legione per la progettata spedizione contro i Parti, mentre elesse consoli per il 49 a.C. Lucio Cornelio Lentulo Crure e Gaio Claudio Marcello, feroci avversari di Cesare. Questi fu dunque costretto a lasciare andare una delle sue legioni, che si radunò con quella offerta da Pompeo nel sud dell'Italia; gli uomini di Cesare, tuttavia, svolsero un importante lavoro di disinformazione, convincendo Pompeo che il loro amato generale era in realtà odiato dai suoi soldati per il suo comportamento dispotico. Cesare, intanto, ordinò ad Antonio e Curione di avanzare una nuova proposta in senato, chiedendo di poter restare proconsole delle Gallie conservando solo due legioni e candidandosi in absentia al consolato. Sebbene Cicerone fosse favorevole alla ricerca di un compromesso, il senato, spinto da Catone, rifiutò la proposta di Cesare, ordinando anzi che sciogliesse le sue legioni entro la fine del 50 a.C. e tornasse a Roma da privato cittadino per evitare di divenire hostis publicus. Cesare ordinò allora ai tribuni della plebe di osteggiare, tramite il diritto di veto, il senato, ma questi, al principio del 49 a.C., furono costretti a scappare da Roma.[152] Cesare allora decise di varcare con le sue legioni il confine politico della penisola italiana, il fiume Rubicone. Il 9 gennaio ordinò a cinque coorti di marciare fino alla riva del fiume, e il giorno successivo lo attraversò, pronunciando la storica frase "alea iacta est".[153]
Con quest'atto Cesare dichiarò ufficialmente guerra al senato e alla res publica, divenendo nemico dello stato romano.[N 3] Si diresse verso sud spostandosi lungo la costa adriatica, nella speranza di poter raggiungere Pompeo prima che lasciasse l'Italia, per tentare di riconciliarsi con lui; Pompeo, al contrario, allarmato anche dalla caduta di numerose città, tra cui Corfinio, che si erano opposte a Cesare, si rifugiò in Puglia, con l'obbiettivo di raggiungere assieme alla sua flotta la penisola balcanica.[154] L'inseguimento da parte dello stesso Cesare fu inutile, in quanto Pompeo riuscì a scappare assieme ai consoli in carica e a gran parte dei senatori a lui fedeli, e a mettersi in salvo a Durazzo.[155] Cesare allora, rientrato il 1º aprile a Roma dopo anni di assenza,[156] si impossessò delle ricchezze contenute nell'erario e, a una sola settimana dal ritorno, decise poi di marciare contro la Spagna (che gli accordi di Lucca avevano assegnato a Pompeo);[157] giunto in Provenza, lasciò tre legioni al comando di Decimo Bruto e Gaio Trebonio con l'incarico di assediare Marsiglia, che cadde in mano ai cesariani solo dopo mesi di assedio. Egli invece proseguì verso la penisola iberica, dove combatté contro i tre legati di Pompeo che amministravano la regione: dopo mesi di scontri riuscì ad avere la meglio e poté tornare in Italia.[158]
Retta per soli undici giorni, all'inizio di dicembre, la dittatura e ottenuta l'elezione al consolato per il 48 a.C.,[159] Cesare decise di attaccare Pompeo nella penisola balcanica, salpando da Brindisi nel gennaio del 48 a.C. assieme al suo luogotenente Marco Antonio.[160] Il primo scontro con i pompeiani si ebbe a Durazzo, dove Cesare subì una pericolosa sconfitta di cui Pompeo non seppe approfittare.[161] Si arrivò allo scontro in campo aperto, però, solo il 9 agosto, presso Farsalo: qui le forze di Pompeo, ben più numerose, furono sconfitte, e i pompeiani furono costretti a consegnarsi a Cesare, sperando nella sua clemenza, o a fuggire.[162]
Pompeo cercò rifugio in Egitto, presso il faraone Tolomeo XIII, suo vassallo, ma il 28 settembre, per ordine dello stesso faraone, fu ucciso.[163] Cesare, che si era lanciato all'inseguimento del rivale, se ne vide presentare pochi giorni dopo la testa imbalsamata.[164][165]
In Egitto era in corso una contesa dinastica tra lo stesso Tolomeo XIII e la sorella Cleopatra VII. Cesare, nell'intento di punire il faraone per l'uccisione di Pompeo, decise di riconoscere come sovrana del paese Cleopatra, con la quale intrattenne una relazione amorosa e generò un figlio, Tolomeo XV, meglio noto come Cesarione.[166] La scelta di Cesare non fu ben accolta dalla popolazione di Alessandria d'Egitto, che lo costrinse a rinchiudersi con Cleopatra nel palazzo reale;[167] qui il generale romano, disponendo di pochissimi soldati, fu costretto a costruire opere di fortificazione, e a rimanere bloccato nel palazzo fino all'arrivo dei rinforzi. Tentò più volte di rompere l'assedio usando le poche navi che aveva a disposizione, ma fu sempre respinto e durante uno di questi combattimenti, addirittura, saltato giù dalla sua nave distrutta, fu costretto a mettersi in salvo a nuoto, tenendo un braccio, in cui reggeva i suoi Commentari, fuori dall'acqua.[168] Per evitare che Achilla (generale alessandrino) si potesse impossessare delle poche navi rimaste le fece incendiare, nell'incendio venne probabilmente danneggiata la famosa biblioteca di Alessandria, che conteneva testi unici e di inestimabile valore. Dopo mesi di assedio, Cesare fu liberato e poté riprendere attivamente la guerra contro i pompeiani, che si erano ormai riorganizzati: il re del Ponto Farnace II, a suo tempo alleato di Pompeo, aveva attaccato i possedimenti romani, mentre molti esponenti della nobilitas senatoriale si erano rifugiati, sotto il comando di Catone l'Uticense, in Africa.
Cesare decise di recarsi nel Ponto per combattere Farnace II, che aveva sconfitto le scarne guarnigioni romane: dopo alcuni fallimentari tentativi di trattativa, Cesare mosse contro Farnace a Zela, dove lo sconfisse senza nessuna fatica, costringendolo a ritirarsi verso nord. Qui Farnace tentò di riorganizzarsi reclutando nuove truppe, ma fu sconfitto e ucciso da un suo ex collaboratore.[169]
Ristabilita la pace in Oriente, nell'ottobre del 47 a.C. Cesare tornò a Roma,[170] dove alcune legioni al comando di Marco Antonio si stavano ribellando, in attesa della somma di denaro che lo stesso Cesare aveva promesso loro prima della battaglia di Farsalo. Con un'abile mossa, Cesare fece leva sull'orgoglio dei legionari e sull'attaccamento che provavano verso di lui per convincerli a rimanere al suo servizio, e con essi partì per l'Africa[171] dove giunse il 28 dicembre.
Qui i pompeiani, che erano sotto la guida di Catone, avevano radunato un grande esercito, affidato a Tito Labieno e Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, e avevano stretto alleanza con il re di Numidia Giuba I. Dopo alcune scaramucce, Cesare diede battaglia presso Tapso, dove il 6 aprile 46 a.C. sconfisse l'esercito avversario.[172] Metello e Giuba morirono in battaglia, mentre Catone, che era a capo della rivolta, venuto a sapere della sconfitta, si suicidò a Utica.[173] Labieno e i due giovani figli di Pompeo, Gneo e Sesto, riuscirono invece a evitare la cattura e a rifugiarsi in Spagna.
Pacificata l'Africa, Cesare poté tornare a Roma il 25 luglio del 46 a.C., dove fu gioiosamente accolto dalla popolazione: la pace sembrava essere tornata, e l'Italia non aveva dovuto essere il teatro di nuove violenze, come lo era stata durante le precedenti guerre civili. Di Cesare, anzi, si lodava la clemenza, che lo aveva spinto a risparmiare e accogliere presso di sé tutti i pompeiani che gli si erano presentati dopo Farsalo, e a evitare nuovi eccidi come le proscrizioni sillane, di cui aveva rischiato di rimanere vittima nella giovinezza.[174] Giunto a Roma, inoltre, poté annunciare l'annessione delle Gallie e della Numidia e la conferma del protettorato sull'Egitto, assicurando così all'Urbe un migliore rifornimento di generi alimentari (tra cui il grano e l'olio), che allontanava il pericolo di carestie e altri eventuali problemi di approvvigionamento.[175]
Tra l'agosto e il settembre del 46 a.C., celebrò quattro trionfi, uno per ciascuna campagna militare che aveva con successo portato a termine: quella di Gallia, quella in Egitto, quella nel Ponto contro Farnace II e quella in Africa. In ciascuna occasione Cesare, vestito di abiti di porpora, percorse sul carro trionfale la via Sacra, mentre dietro di lui scorrevano i legionari, il bottino e i prigionieri. I soldati, in particolare, durante la processione, declamavano versi di lode e scherno nei confronti del generale, prendendone ora in giro i costumi sessuali e celebrandone ora le vittorie: sono un esempio il carmen triumphale di cui sotto o il cartello che recava la scritta Veni, vidi, vici (Venni, vidi, vinsi), e che descriveva la fulminea vittoria nel Ponto. Particolarmente suggestiva fu la celebrazione del trionfo sulle Gallie, durante la quale Cesare salì sul Campidoglio sfilando tra quaranta elefanti che reggevano dei candelabri. A ornare il corteo, in quell'occasione, ci fu Vercingetorige che, catturato da Cesare ad Alesia, era da cinque anni rinchiuso in prigione; terminata la celebrazione fu subito strangolato.[176]
La resa di Vercingetorige
Lionel-Noël Royer - 1899
(Museo Crozatier - Le Puy-en-Velay,Auvergne France).
In occasione dei trionfi, Cesare offrì agli abitanti di Roma rappresentazioni teatrali, corse, giochi di atletica, lotte tra gladiatori e ricostruzioni di combattimenti terrestri e navali (si trattò delle prime naumachie mai rappresentate a Roma), e organizzò dei banchetti ai quali presero parte oltre duecentomila persone. Utilizzando i bottini delle varie campagne, che ammontavano a oltre 600 000 sesterzi,[177] poté finalmente elargire le somme di denaro che aveva da tempo promesso al popolo e ai legionari: ogni abitante dell'Urbe beneficiò di 75 denari, a cui se ne aggiunsero altri 25 come indennizzo per il ritardo nella consegna dei denari stessi; ogni legionario, invece, ricevette 24 000 sesterzi e un lotto di terra. Cesare, infine, annullò le pigioni che ammontavano, a Roma, a meno di 1000 sesterzi, e quelle che ammontavano, in tutto il resto dell'Italia, a meno di 500.[178]
Contemporaneamente, Cesare poté soddisfare le rivendicazioni dei populares, avviando la riorganizzazione del mondo romano (vedi La dittatura). Ordinò un censimento degli abitanti di Roma in modo da poter migliorare la gestione cittadina, e fondò nuove colonie nelle province dove fece insediare oltre 80 000 tra esponenti del sottoproletariato urbano di Roma e soldati in congedo: in questo modo poté rifondare città come Cartagine e Corinto, distrutte in guerra un secolo prima.
La pace ristabilita dopo Tapso si rivelò quanto mai precaria, e già sul finire del 46 a.C. Cesare fu costretto a recarsi in Spagna, dove i pompeiani si erano ancora una volta riorganizzati sotto il comando dei superstiti della guerra d'Africa, i due figli di Pompeo e Tito Labieno. Si trattò della più difficile e sanguinosa di tutte le campagne della lunga guerra civile, dove l'abituale clemenza lasciò il passo a efferate crudeltà da ambo le parti. La guerra si concluse con la battaglia di Munda, nell'aprile del 45 a.C., dove Cesare affrontò finalmente i suoi avversari sul campo, e li sconfisse irreparabilmente. Si trattò, comunque, della più pericolosa delle battaglie combattute da Cesare, che arrivò persino a disperare della vittoria e a pensare di darsi la morte.[179] Tito Labieno cadde sul campo, mentre Gneo Pompeo fu ucciso poco tempo dopo; solo Sesto riuscì a salvarsi, rifugiandosi in Sicilia. Alla vittoria contribuì, seppure in minima parte, il giovane pronipote dello stesso Cesare, Ottavio, che, giunto in Spagna dopo un lungo periodo di malattia, diede prova del suo valore, spingendo lo zio ad adottarlo nel testamento.[180][181]
Tornato a Roma nell'ottobre, Cesare, eliminato finalmente ogni oppositore, celebrò il trionfo sui figli di Pompeo che aveva appena sconfitto nella campagna ispanica: si trattava di un qualcosa che non era affatto contemplato dalla tradizione romana, che permetteva la celebrazione di un trionfo solo su genti esterne e non su cittadini romani. Anche Silla, che pure aveva riformato la res publica secondo il suo volere, non aveva celebrato alcun trionfo per le vittorie nella guerra civile contro i populares. Cesare, inoltre, decise di concedere il trionfo anche al nipote Quinto Pedio, infrangendo così anche la tradizione che prevedeva che a ottenere il sommo riconoscimento delle proprie azioni belliche fossero esclusivamente i generali, e non i loro luogotenenti.[182] Il comportamento di Cesare, che apparve anche ai suoi contemporanei come un pericoloso errore politico, turbò profondamente il popolo romano, che vide così festeggiare le distruzione della stirpe del più forte e più sventurato tra i Romani.[183]
Alla fine della prima campagna di Spagna, nel 49 a.C., Cesare prese il potere a Roma come dictator, titolo che mantenne fino alla morte nel 44 a.C., e ottenne il consolato per l'anno successivo. Dopo esser stato nominato dictator con carica decennale nel 47 a.C., e detenendo anche il titolo di imperator, fu ripetutamente eletto console nel 46, nel 45 e nel 44 a.C., quando, il 14 febbraio, ottenne anche la carica di dittatore a vita,[N 4] che sancì definitivamente il suo totale controllo su Roma.
Furono erette sue statue a fianco di quelle degli antichi re ed ebbe un trono d'oro in senato e in Tribunato. Una mattina su di una sua statua d'oro collocata presso i rostri venne posto un diadema, ritenuto simbolo di regalità e di schiavitù. Due tribuni della plebe, Lucio e Gaio, sconcertati, fecero togliere il diadema e accusarono Cesare di volersi proclamare re di Roma, ma questi convocò immediatamente il senato e accusò a sua volta i tribuni di aver posto il diadema per screditarlo e renderlo odioso agli occhi del popolo, che lo avrebbe percepito come il detentore di un potere illegale: i due tribuni vennero dunque destituiti e sostituiti. Ancora più importante fu l'episodio dei Lupercali, un'antica festa durante la quale uomini di ogni età, in vesti succinte, percorrevano le strade dell'Urbe muniti di strisce di pelle di capra con cui colpire chi si trovavano di fronte. Mentre Antonio guidava la processione per il Foro, Cesare vi assisteva dai rostri: gli si avvicinò dunque Licinio, che depose ai suoi piedi un diadema d'oro; il popolo, allora, esortò il magister equitum Lepido a incoronare Cesare, ma questi esitava. Allora, Gaio Cassio Longino, che era a capo della congiura che si andava tessendo contro lo stesso Cesare, fingendosi benevolo, glielo pose sulle ginocchia assieme a Publio Servilio Casca Longo. Al gesto di rifiuto di Cesare, accorse infine Antonio, che gli pose il diadema sul capo e lo salutò come re; Cesare lo rifiutò e lo gettò via, dicendo di chiamarsi Cesare e non re, ricevendo così gli applausi del popolo, ma Antonio lo ripose per una seconda volta. Visto il turbamento che si era nuovamente diffuso nel popolo tutto, Cesare ordinò di mettere il diadema sul capo della statua di Giove Ottimo Massimo, la maggiore divinità romana.[184]
Una vexata quaestio è costituita dall'interpretazione delle volontà e delle aspirazioni politiche di Cesare degli ultimi anni di vita: non è chiaro se la dittatura perpetua dovesse essere nelle sue intenzioni la "fase suprema" del suo potere o se invece fossero da lui nutrite anche ambizioni monarchiche. A partire dalla tesi classica di Eduard Meyer, il quale intravedeva nelle mire cesariane la volontà di istituire una monarchia di tipo ellenistico, gli studiosi si sono divisi tra i sostenitori di questa teoria, coloro che invece pensano a un modello monarchico di tipo romuleo e vetero-romano,[185] e quelli che, infine, negano decisamente qualsiasi progetto regale.[186] La questione è difficilmente risolvibile, anche se alcuni elementi fanno pensare a un Cesare affascinato dai modelli monarchici orientali; si pensi al prolungato soggiorno alessandrino e al rapporto con Cleopatra (alla quale aveva fra l'altro dedicato un'immagine d'oro nel suo Foro), o alla politica edilizia di chiaro stampo dinastico o, infine, al progetto di matrice alessandrina (e anche pergamena) di apertura di una biblioteca pubblica a Roma. Va anche considerato che al centro del foro di Cesare troneggiava una statua equestre di Alessandro Magno con il volto del dittatore romano e che prima della spedizione contro i Parti nel Mediterraneo orientale, venne fatto circolare un oracolo secondo il quale quel popolo avrebbe potuto essere sconfitto solo da un re.
Assunta la dittatura, Cesare continuò l'attuazione di alcune di quelle riforme che erano state portate avanti da Silla quasi cinquant'anni prima. Decise di estendere la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina, e portò a novecento il numero dei senatori, inserendo nell'assemblea degli uomini a lui fedeli. Intese, inoltre, rafforzare le assemblee popolari a detrimento del senato stesso, che avrebbe dovuto gradualmente perdere la propria autonomia decisionale.[187] Fu il primo, poi, a tentare di adattare la burocrazia della res publica alle nuove esigenze che essa mostrava di avere: dopo la conquista della Gallia e l'espansione a Oriente c'era bisogno di una migliore gestione del potere e di un apparato statale più efficiente. Egli, perciò, con il duplice obiettivo di risolvere i neonati problemi e di offrire cariche ai suoi sostenitori politici:
aumentò il numero dei magistrati: i questori passarono da venti a quaranta, i pretori da otto a sedici, gli edili furono sei. I consoli rimasero due, con l'aggiunta di altri due magistrati che, seppure privi di qualsiasi imperium consolare, potevano poi svolgere le funzioni dei proconsoli;
si fece attribuire il diritto di nominare metà dei magistrati, e poteva comunque raccomandarne altri e fare in modo che venissero eletti ugualmente;
mise mano alla composizione del senato: per supplire alle numerose perdite dovute alla guerra civile, immise nel senato molti nuovi membri a lui fedeli, portando fino a ottocento o novecento il numero dei membri dell'assemblea, fissato in precedenza da Silla a seicento, e ammettendovi anche uomini originari delle province spagnole e galliche.
Rinnovò l'organizzazione dei municipi italiani e, per quanto riguarda l'amministrazione provinciale, decise di limitare la durata degli incarichi dei governatori (che, per i proconsoli, poteva raggiungere i cinque anni) a un anno per i propretori e due anni per i proconsoli. Tutti questi provvedimenti rimasero in vigore anche dopo la morte di Cesare grazie a un accordo tra il leader del senato Cicerone e quello cesariano Antonio che, in cambio, dovette accettare la concessione di un'amnistia ai cesaricidi.
Più volte nel corso della sua lunga carriera politica Cesare favorì la nascita di nuove opere architettoniche, sempre con l'obiettivo di stupire la plebe e acquisire così una popolarità sempre maggiore. Al termine della guerra di Gallia (51 a.C.), Cesare cominciò una campagna elettorale con l'obiettivo di ottenere il consolato; poco tempo prima, Pompeo aveva donato a Roma il primo teatro stabile, costruito in pietra, e aveva fatto edificare una nuova curia per il senato. A sua volta, dunque, Cesare lanciò un vasto programma di opere pubbliche che prevedeva la costruzione di un nuovo foro presso l'Argileto. L'opera doveva essere finanziata con il bottino ricavato durante la guerra in Gallia, e solo l'acquisto dei terreni necessari comportò la spesa di oltre cento milioni di sesterzi.[188] Questo foro Giulio aveva una forte somiglianza con quello della città di Pompei, realizzato nello stesso periodo: era costituito, infatti, da una lunga spianata di forma rettangolare chiusa sui lati da una serie di portici, alla cui fine si ergeva il tempio di Venere Genitrice. Secondo Appiano,[189] questo tempio sarebbe stato una sorta di ringraziamento rivolto alla dea da parte di Cesare per avergli consentito di uscire vincitore dallo scontro di Farsalo. Davanti a questo tempio, Cesare stesso si fece rappresentare in una statua equestre, a cavallo del suo destriero personale, per il quale aveva una grande predilezione.[190]
La costruzione di questo foro diede vita a una nuova e originale tipologia architettonica, che univa lo schema greco ed ellenistico dell'agorà alla classica struttura romana del tempio su podium. È in questo stile che furono poi realizzati tutti i successivi fori imperiali.
Con la dittatura, raggiunto il culmine del potere, Cesare poté adoperare ogni mezzo per la costruzione di opere sempre più grandiose: con il pretesto della celebrazione dei giochi per il suo trionfo, fece ingrandire il circo costruendovi nuovi settori di scalinate, in modo che vi potessero prendere posto più persone; ordinò la realizzazione di uno stadio per i lottatori nel Campo Marzio e fece scavare sulla riva del Tevere un bacino che ospitasse naumachie.
Cercò anche di rinnovare il vecchio foro, programmando la costruzione di una nuova curia, in quanto la Curia Hostilia era stata distrutta nel 52 a.C. da un incendio appiccato durante i funerali di Publio Clodio Pulcro dai sostenitori del defunto, fortemente ostili all'aristocrazia senatoria. Cesare diede il via alla costruzione di una nuova struttura, la Curia Iulia, la cui realizzazione si interruppe durante il lungo periodo delle guerre civili per essere poi ripresa da Augusto e completata nel 29 a.C. Quando fu portato a termine il grande bacino per le naumachie, Cesare progettò anche la costruzione di un tempio di Marte, che doveva essere più grande di qualsiasi altro, di una nuova basilica che doveva sorgere nell'area della vecchia basilica Sempronia, e di un nuovo immenso teatro stabile in pietra, ai piedi del monte Tarpeo. Cesare non poté vedere realizzati i suoi progetti a causa della sua prematura morte, ma essi furono portati a termine da Augusto, che costruì, infatti, il tempio di Marte Ultore, la basilica Giulia e il teatro di Marcello. Non fu invece mai realizzata la biblioteca che Cesare intendeva costruire per raccogliervi le opere in lingua latina e greca, per la cui realizzazione si stava già adoperando, prima della morte del dittatore, Marco Terenzio Varrone.[191]
Per decongestionare la città di Roma, che con il continuo arrivo di nuovi abitanti che andavano a ingrossare le file del sottoproletariato urbano era ormai decisamente sovrappopolata, Cesare decise di modificarne i confini amministrativi, allargando il perimetro del pomerium a un miglio romano (1.480 metri) dalle antiche mura.[192] Questa misura fu appena sufficiente, tanto che Augusto, pochi anni più tardi, dovette rimettere mano all'organizzazione dell'Urbe allargandone il perimetro e stabilendone la suddivisione in quattordici rioni.
Per migliorare la gestione cittadina, Cesare decise di censirne la popolazione, escogitando per questo un metodo innovativo, che soppiantasse il vecchio procedimento che prevedeva il passaggio dei cittadini, divisi per tribù, presso gli "uffici" di coloro che si occupavano del censimento. Cesare dispose che il censimento fosse organizzato nei singoli quartieri, e che se ne dovessero occupare i proprietari degli immobili che ospitavano le case. Il metodo dovette essere efficace, perché anche Augusto lo adottò per censire la popolazione, una volta preso il potere.[193] Svetonio, senza riferire il risultato di questo censimento, dice che esso permise di abbassare da 320 000 a 150 000 il numero di coloro che, in quanto nullatenenti, beneficiavano delle assegnazioni di grano da parte dello stato. Inoltre, per evitare che si creasse occasione di malcontento, Cesare decise che, anno per anno, i pretori avrebbero tirato a sorte i nomi di coloro che, morto un beneficiario delle assegnazioni, ne avrebbero preso il posto.[194]
Un ultimo progetto, che Cesare attuò con l'obiettivo di migliorare quanto più possibile la circolazione in una città dalle strade strette e spesso ingombre, fu quello di vietare durante il giorno la circolazione a tutti i veicoli a ruote, a eccezione dei carri per le processioni e di quelli adoperati per il trasporto di materiali da costruzione nei cantieri. Questa legge fu votata e approvata soltanto dopo la morte di Cesare, ma restò in vigore per molti secoli, dimostrando quindi che la necessità di migliorare la circolazione per le vie di Roma continuò a lungo a farsi sentire.[192] A partire da Cesare, dunque, il trasporto delle merci avvenne durante la notte, e il rumore che esso causava, fonte di grande disturbo per tutti coloro che dormivano, fu oggetto delle recriminazioni di Marziale[195] e Giovenale.[196]
Le guerre civili che Cesare condusse suscitarono forti difficoltà economiche: c'era, per esempio, il bisogno di stipendiare tutti i legionari che seguivano il loro generale in giro per il mondo. A partire dal 49 a.C., allora, Cesare si dotò di una propria zecca personale, che lo seguiva sul teatro di ogni sua operazione e coniava le monete di cui c'era un bisogno sempre crescente. Non si trattava di una pratica nuova: il senato, infatti, l'aveva autorizzata già in precedenza per i grandi corpi di spedizione di Lucio Licinio Lucullo o di Pompeo Magno in Oriente,[197] ma Cesare prese l'iniziativa spontaneamente, impossessandosi, senza alcuna autorizzazione, delle riserve auree contenute nell'erario.[N 5] Egli apportò, comunque, due grandi innovazioni alla monetazione, che furono poi riprese da Ottaviano e Marco Antonio per divenire d'uso comune in tutta l'epoca imperiale. Cesare per primo, infatti:
ordinò la coniazione di monete in oro;
fece imprimere il proprio ritratto sulle monete.
A Roma non erano mai state emesse monete in oro se non temporaneamente e in momenti di grandissimo pericolo (come le fasi cruciali della seconda guerra punica) dietro la decisione del senato.[N 6] L'emissione dell'aureus, dunque, si ricollegava all'idea di attingere alle riserve d'oro per salvare la res publica in pericolo; inoltre, l'elevato valore della moneta (un aureus valeva 25 denari o 100 sesterzi) facilitava l'assegnazione di gratifiche ai soldati.
I soggetti rappresentati sulle facce delle monete, infine, avevano un forte valore propagandistico: oltre al ritratto di Cesare accompagnato dal suo nome, apparivano principalmente le seguenti figure:[198]
Venere, rappresentata di profilo o in piedi, è il soggetto più frequente,[N 7] in quanto Cesare faceva risalire proprio a lei l'origine della gens Iulia;
alcuni oggetti utilizzati nel culto, che ricordavano la pietas di Cesare e la sua dignità di augure e pontefice massimo;
delle Vittorie, delle insegne militari e dei trofei delle vittorie ottenute sui Galli.
Un denario emesso da Cesare nel 44 a.C.
Sulle due facce sono rappresentati Cesare e Venere
che tiene in mano la Vittoria.
Cesare, una volta divenuto unico padrone di Roma, sebbene avesse ormai raggiunto un'età venerabile, era deciso ad attuare nuove campagne di espansione, sempre sull'esempio dell'uomo che ne aveva ispirato le imprese militari, Alessandro Magno, creatore di un vero impero universale. Intendeva quindi vendicare la sconfitta di Crasso a Carre[199] contro i Parti e sottomettere l'intera Europa continentale, attuando una campagna nella zona danubiana contro i Daci di Burebista, una in Dalmazia e un'altra contro le popolazioni della Germania libera, che troppo spesso avevano interferito nel corso della difficile conquista della Gallia.[200][201]
A causa della sua morte violenta e prematura, Cesare non poté attuare nessuna delle campagne che aveva programmato. Benché fossero già stati nominati coloro che avrebbero condotto la campagna contro i Parti, della cui organizzazione si stava occupando anche il giovane Ottaviano, e fossero già stati incaricati i magistrati che avrebbero retto lo stato durante l'assenza di Cesare,[202] essa non fu mai realmente portata a termine, tanto che la zona orientale dell'impero rimase sempre una delle più instabili. Tuttavia, più tardi, nel 20 a.C., Augusto si accordò con i Parti e ottenne la restituzione delle insegne sottratte a Crasso a Carre.
Le altre imprese che Cesare preparava furono invece portate a termine in tempi successivi: la Dalmazia fu completamente assoggettata da Augusto dopo la rivolta dalmato-pannonica del 6-9; la Germania fu occupata solo per un ventennio sotto Augusto, e i confini romani rimasero dove li aveva lasciati Cesare, sul Reno; la Dacia, infine, fu conquistata da Traiano nel 106, dopo due campagne militari.
A Cesare va comunque il merito di aver sottomesso il mondo celtico, che costituiva uno dei principali pericoli per l'espansione romana in Europa: sebbene si trattasse di civiltà meno complesse di quella di Roma, la loro forza militare, riposta soprattutto nella cavalleria, era notevole, e la loro presenza ai confini dell'Italia causava una situazione di costante pericolo. Per contro i Galli, una volta entrati a far parte dello stato romano, furono tra le prime popolazioni provinciali a ricevere la cittadinanza, accettando di buon grado il processo di romanizzazione.
Giulio Cesare è considerato, tanto dagli autori moderni quanto dai suoi contemporanei, il più grande genio militare della storia romana.[203] Egli seppe stabilire con i suoi soldati un rapporto tale di stima e devozione appassionata, da poter mantenere la disciplina evitando sempre il ricorso alla violenza contro i suoi stessi uomini. Nel corso della campagna di Gallia, Cesare non vietò mai ai suoi soldati di far bottino, ma il legionario doveva aver sempre ben chiaro l'obiettivo finale, e le sue azioni non dovevano in nessun modo condizionare i piani operativi della campagna del suo comandante. Conscio della situazione disagiata dei soldati, che venivano di solito ricompensati al congedo con una concessione di ager publicus ma che fino a quel momento erano costretti a vivere con poco, di sua iniziativa, tra il 51 e il 50 a.C. decise di raddoppiarne la paga, che passò da 5 a 10 assi al giorno (pari a 225 denarii annui). La riforma fu così ben accolta che la paga del legionario rimase invariata fino a quando l'imperatore Domiziano (81-96) prese nuovi provvedimenti.
Egli fu, inoltre, il primo a comprendere che una dislocazione di parte delle forze militari repubblicane (legioni e truppe ausiliarie) doveva costituire la base per un nuovo sistema strategico di difesa globale lungo tutti i confini, e in particolare in quelle aree "a rischio". Durante la campagna di Gallia, infatti, negli inverni posizionava le sue legioni in aree strategiche, in modo che la situazione rimanesse tranquilla nei momenti in cui non ci fosse la possibilità di intervenire prontamente in caso di necessità.
Creò un cursus honorum per il centurionato, che si basava sui meriti del singolo individuo, tanto che a seguito di gesti particolari di eroismo, alcuni soldati potevano essere promossi ai primi ordines, dove al vertice si trovava il primus pilus o primipilare di legione. Inoltre, poteva anche avvenire che un primus pilus venisse promosso a tribunus militum. Si andava indebolendo, pertanto, la discriminazione tra ufficiali e sottufficiali, e si rafforzava lo spirito di gruppo e la professionalità delle unità.
Egli, contrariamente a quanto avevano fatto molti dei suoi predecessori, che fornivano alle truppe donativi occasionali, reputò fosse necessario dare continuità al servizio che i soldati prestavano, e istituì il diritto a un premio per il congedo: era da tempo in uso la consuetudine di donare appezzamenti di terreno ai veterani, ma si trattava di qualcosa che, almeno fino ad allora, era sempre avvenuto a discrezione dei generali e del senato.[N 8]
A proposito del rapporto personale di Cesare con i suoi legionari, Svetonio scrive:
« [65] Non giudicava i soldati dai costumi o dall'aspetto, ma solo dalle loro forze, e li trattava con pari severità e indulgenza. Non li costringeva, infatti, all'ordine sempre e ovunque, ma solo di fronte al nemico: soprattutto allora esigeva una disciplina inflessibile, non preannunciando mai il momento di mettersi in marcia né quello di combattere, ma voleva che i suoi uomini fossero sempre vigili e pronti a seguirlo in qualsiasi momento ovunque li avesse condotti. Si comportava così anche senza un motivo, e specialmente nei giorni piovosi o festivi. Talvolta, dopo aver ordinato ai soldati che non lo perdessero di vista, si metteva in marcia all'improvviso, di giorno come di notte, e forzava il passo per stancare chi avesse tardato a seguirlo.
[66] Quando i suoi erano atterriti dalle voci sulle forze dei nemici, non li incoraggiava negandole o sminuendole, ma anzi le esagerava e raccontava anche frottole. Così, quando tutti erano terrorizzati nell'attesa dell'esercito di Giuba, riuniti i soldati in assemblea disse: "Sappiate che tra pochissimi giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila armati alla leggera e trecento elefanti. Quindi, la smettano certuni di chiedere e fare congetture, e diano retta a me, che sono ben informato. Altrimenti li farò imbarcare sulla più vecchia delle navi e li farò abbandonare senza meta in balìa dei venti.
[67] Non teneva conto di tutte le mancanze, e non le puniva tutte con la stessa severità. Mentre si accaniva, infatti, nel perseguitare disertori e sediziosi, era molto indulgente con gli altri. Dopo grandi vittorie, a volte dispensava le truppe da tutti i loro doveri, e permetteva che si abbandonassero a una sfrenata licenza. Era solito, infatti, vantarsi dicendo: "I miei soldati sanno combattere bene anche se si profumano". Nei suoi discorsi, inoltre, non li chiamava soldati ma commilitoni, termine ben più lusinghiero. Voleva anche che fossero ben equipaggiati, e dava loro delle armi decorate con oro e argento tanto per aumentare il loro prestigio quanto perché in combattimento fossero ancora più tenaci, spinti dal timore di perdere armi tanto preziose. Era tanto affezionato ai suoi soldati che, venuto a sapere della disfatta di Titurio, si lasciò crescere la barba e i capelli senza tagliarli se non dopo aver compiuto la sua vendetta. »
(Svetonio, Cesare, 65-67)
Cesare nominò consoli per il 44 a.C. sé stesso e il fidato Marco Antonio, e attribuì invece la pretura a Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino.[205] Quest'ultimo, spinto anche dalla delusione causatagli dal non aver ottenuto il consolato, si fece interprete dell'insofferenza di ampia parte della nobilitas, e incominciò a organizzare una congiura anticesariana. Trovò l'appoggio di molti uomini, tra cui molti dei pompeiani passati dalla parte di Cesare, e anche alcuni tra coloro che erano sempre stati al fianco dello stesso Cesare a partire dalla guerra di Gallia, come Gaio Trebonio, Decimo Giunio Bruto Albino, Lucio Minucio Basilo e Servio Sulpicio Galba.[206]
I congiurati, e primo tra loro lo stesso Cassio,[207] decisero di cercare l'appoggio di Marco Bruto: egli era infatti un lontanissimo discendente di quel Lucio Giunio Bruto che nel 509 a.C. aveva scacciato il re Tarquinio il Superbo e istituito la repubblica, e poteva rappresentare il capo ideale per una congiura che si proponeva di uccidere un nuovo tiranno. Bruto era inoltre nipote e grande ammiratore di Catone Uticense, e poteva infine trovare nella propria filosofia, a metà tra lo stoicismo e la dottrina accademica, le convinzioni per combattere Cesare, al quale era comunque legato.[206]
Il più influente tra i personaggi romani a non aderire alla congiura fu Cicerone, che, pur essendo amico di Bruto e sperando nell'eliminazione del tiranno Cesare, decise di tenersi fuori dal complotto; egli tuttavia, auspicò che assieme a Cesare fosse ucciso anche Marco Antonio che, non a torto, vedeva come un possibile successore del dittatore.[208]
Secondo la tradizione, la morte di Cesare fu preceduta da un incredibile numero di presagi: da più parti si videro bruciare fuochi celesti, uccelli solitari giunsero nel foro, e si udirono strani rumori notturni. Pochi giorni prima del suo omicidio, Cesare, mentre compiva un sacrificio, non riuscì a trovare il cuore della vittima, il che costituiva un presagio di malaugurio. Nello stesso periodo fu scoperta la sepoltura del fondatore di Capua, Capi, e sulla lapide tombale fu trovata la scritta: Quando verranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo verrà assassinato per mano dei suoi consanguinei, e subito sarà vendicato con grandi stragi e lutti per l'Italia. Le mandrie di cavalli che Cesare aveva fatto liberare al momento del passaggio del Rubicone cominciarono a piangere a dirotto, e uno scricciolo (che è anche chiamato uccellino regale), che era entrato nella Curia di Pompeo (dove il senato si riuniva dopo che la Curia era andata distrutta nell'incendio di cui sopra) portando un ramoscello d'alloro, fu subito attaccato e ucciso da parecchi uccelli che sopraggiunsero all'istante. Alla vigilia dell'omicidio, Calpurnia, la moglie di Cesare, donna del tutto priva di superstizioni religiose, fu sconvolta da sogni in cui la casa le crollava addosso, e lei stessa teneva tra le braccia il marito ucciso. Lo stesso Cesare sognò di librarsi nell'etere, volando sopra le nubi e stringendo la mano a Giove. Il giorno successivo, quello delle Idi di marzo, il 15 del mese, Calpurnia pregò dunque Cesare di restare in casa, ma egli, che la sera prima a casa di Lepido aveva detto che avrebbe preferito una morte improvvisa allo sfinimento della vecchiaia, sebbene si sentisse poco bene, fu convinto dal congiurato Decimo Bruto Albino a recarsi comunque in senato, in quanto sarebbe sembrato sconveniente che non salutasse neppure tutti i senatori che si erano riuniti per nominarlo, proprio quel giorno, re. Cesare, che poco più di un mese prima aveva imprudentemente deciso di congedare la scorta che sempre lo accompagnava, uscì dunque in strada, e qui fu avvicinato da un indovino, Artemidoro di Cnido, che gli consegnò un libello in cui lo ammoniva del pericolo che stava per rischiare. L'indovino si sincerò che Cesare lo leggesse quanto prima, ma il dittatore, che più volte si apprestò a farlo, non vi riuscì per colpa della folla che lo circondava. Giunto alla Curia di Pompeo, Cesare fu avvicinato da un aruspice di nome Spurinna, che lo aveva avvisato di guardarsi dalle Idi di marzo: a questi il dittatore disse, con aria beffarda, che le Idi erano arrivate, ma l'indovino gli rispose che non erano ancora passate.[209]
Entrato in senato, si andò a sedere ignaro al suo seggio, dove fu subito attorniato dai congiurati che finsero di dovergli chiedere grazie e favori. Mentre Decimo Bruto intratteneva il possente Antonio fuori dalla Curia, per evitare che prestasse soccorso, al segnale convenuto, Publio Servilio Casca Longo sfoderò il pugnale e colpì Cesare al collo, causandogli una ferita superficiale e non mortale. Cesare invece, per nulla indebolito, cercò di difendersi con lo stilo che aveva in mano, e apostrofò il suo feritore dicendo "Scelleratissimo Casca, che fai?" o gridando "Ma questa è violenza!". Casca, allora, chiese aiuto al fratello (ἀδελφέ, βοήθει), e tutti i congiurati che si erano fatti attorno a Cesare si scagliarono con i pugnali contro il loro obiettivo: Cesare tentò inutilmente di schivare le pugnalate dei congiurati, ma quando capì di essere circondato e vide anche Bruto farglisi contro, raccolse le vesti per pudicizia e alcuni dicono si coprisse il capo con la toga prima di spirare, trafitto da ventitré coltellate. Cadde ai piedi della statua di Pompeo,[210] pronunciando le ultime parole che sono state riferite in vario modo:
Καὶ σὺ, τέκνον; (Kai su, teknon?, in greco, "Anche tu, figlio?")[211]
Tu quoque, Brute, fili mi! (in latino, "Anche tu Bruto, figlio mio!")[212]
Et tu, Brute? (in latino, "Anche tu, Bruto?"), che è la versione riportata da William Shakespeare nella tragedia Giulio Cesare.[213]
Svetonio riferisce che, secondo il medico Antistio, nessuna delle ferite subite da Cesare fu mortale, a eccezione della seconda, in pieno petto.[211]
Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare, 1798,
Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna.
"Acta est fabula" (La commedia è finita)
Frase con cui nell'antico teatro si annunciava la fine della rappresentazione.
La ripetè sul letto di morte Cesare Augusto.
Come erede principale a cui spettavano i tre quarti delle sue ricchezze, Cesare lasciò il giovane pronipote diciottenne Ottaviano, che si trovava nell'Illirico, ad Apollonia, poiché doveva sovraintendere all'organizzazione dei preparativi per le due grandi spedizioni che Cesare aveva intenzione di intraprendere: quella contro i Daci di Burebista e l'altra contro i Parti, in Oriente. Ottavio, una volta informato dell'uccisione del prozio, decise di tornare a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare. Assieme a lui erano stati nominati eredi Lucio Pinario e Quinto Pedio, a cui spettò il restante quarto del patrimonio di Cesare; solo Ottavio, però, poté prendere, in quanto suo figlio adottivo, il nome del defunto, divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Cesare lasciò inoltre agli abitanti di Roma trecento sesterzi ciascuno e i suoi giardini sulle rive del Tevere.[214]
Ritratto di Ottaviano ai tempi della battaglia di Azio
Il 20 marzo il corpo di Cesare fu cremato nel foro: i cesaricidi avevano inizialmente pensato di buttarlo nel Tevere subito dopo l'assassinio, ma il proposito era rimasto incompiuto in quanto molti senatori, spaventati da quanto era successo, avevano subito lasciato il senato. Marco Antonio, che era divenuto il nuovo leader cesariano (Ottaviano era ancora in Illirico), fece costruire la pira nel campo Marzio, in prossimità della tomba della figlia di Cesare, Giulia, e fece collocare nel foro, vicino ai Rostri, un'edicola dove fece esporre la toga insanguinata che Cesare indossava al momento della morte. Innumerevoli persone sfilarono nel campo Marzio per portare doni e si celebrarono dei ludi in memoria del defunto, dove si recitarono alcuni toccanti versi di Pacuvio. Antonio, lesse poi, come laudatio funebris, il decreto con cui il senato aveva conferito a Cesare tutti gli onori umani e divini e con cui gli stessi senatori si erano impegnati a proteggere Cesare. Decise, poi, di far trasportare il corpo del defunto per il foro, portato a braccio da magistrati su di un lenzuolo, in modo che fossero ben visibili le pugnalate che egli aveva ricevuto: mentre alcuni cominciarono a chiedere che il corpo fosse cremato nella curia di Pompeo o nella cella di Giove Capitolino, alcuni uomini diedero fuoco al cataletto, e le fiamme furono subito alimentate dalla folla degli astanti, che cominciarono a buttarvi fascine, oggetti di legno e gli stessi doni che portavano. I veterani di Cesare, anzi, arrivarono a buttare nel rogo armi e gioielli, e a rendere omaggio giunsero anche gli stranieri, tra cui gli Ebrei, che erano grati a Cesare perché aveva sconfitto Pompeo, colpevole di aver violato il Tempio di Gerusalemme, entrando nel Sancta sanctorum.[215]
Nessun diritto di successione poté mai reclamare Cesarione, figlio naturale di Cesare, concepito con la regina d'Egitto, Cleopatra VII, durante il suo soggiorno del 48 a.C. La regina egiziana rimase famosa per essere stata non solo l'amante di Marco Antonio dopo la morte del dittatore, ma soprattutto per aver collaborato con lui al fine di creare un nuovo impero in Oriente che potesse contrastare il crescente potere di Ottaviano in Occidente. Il dissenso nato così tra Antonio e Ottaviano determinò una nuova guerra civile che culminò con la morte degli stessi Antonio e Cleopatra nel 30 a.C. e la trasformazione, attuata da Ottaviano, della Repubblica romana in impero.
Nel 42 a.C., quando gli eserciti di Marco Antonio e Ottaviano si apprestavano ad attaccare quelli dei cesaricidi Bruto e Cassio a Filippi, la figura di un uomo di incredibile grandezza e d'aspetto spaventoso apparve nella tenda di Bruto. Questi, riconosciuta la figura di Cesare, chiese all'ombra chi fosse. Essa rispose: "Il tuo cattivo demone, Bruto. Mi rivedrai a Filippi", e Bruto coraggiosamente rispose a sua volta: "Ti vedrò". Pochi giorni dopo, a Filippi, quando la vittoria dei cesariani era ormai certa, Cassio si suicidò con il pugnale con cui aveva trafitto Cesare, e poco dopo anche lo stesso Bruto, per non cadere in mano nemica, si diede la morte. Così, a due anni dall'assassinio di Cesare, tutti coloro che avevano preso parte alla congiura avevano perso la vita, e la vendetta del divus era compiuta.[216]
La sua opera di scrittore - racchiusa principalmente nei suoi commentari sulla guerra in Gallia (De bello Gallico) e sulla guerra civile contro Pompeo e il senato (De bello civili) - pone Giulio Cesare tra i più grandi maestri di stile della prosa latina.
Le narrazioni, apparentemente semplici e in stile diretto, sono di fatto un annuncio molto sofisticato del suo programma politico, in modo particolare per i lettori di media cultura e per la piccola aristocrazia d'Italia e delle province dell'Impero.
Le sue principali opere letterarie giunte sino a noi sono:
i commentari sulle campagne per sottomettere i Galli, fra il 58 e il 52 a.C. (Commentarii de bello Gallico). L'opera consta di sette libri, più un libro ottavo, composto probabilmente dal luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, per completare il resoconto della campagna e coprire il lasso di tempo che separa la guerra di Gallia da quella civile: si tratta di un'opera dallo stile lineare ma piacevole, con interessanti riferimenti etnografici sulle popolazioni incontrate durante il viaggio. Cesare, per aumentare l'obiettività dell'opera, usa la terza persona, anche se si tratta chiaramente di un metodo per esaltare la sua figura personale e per metterla in rilievo nella narrazione e nelle vicende descritte.[217] Le descrizioni sono comunque fredde e asettiche, prive di enfasi retorica e partecipazione emotiva: anche le scelte più terribili, come quelle di sterminare migliaia di persone, appaiono così non solo necessarie, ma addirittura prive di un'alternativa. Il De bello Gallico risulta così essere un'apologetica opera di propaganda della campagna di Gallia;[218]
i commentari sulla guerra civile contro le forze di Pompeo e del senato (Commentarii de bello civili). In tre libri Cesare spiega e racconta la guerra civile del 49 a.C. e il suo rifiuto di ubbidire al senato;
un epigramma in versi su Terenzio, del quale sono giunti a noi solo alcuni frammenti.
Le opere perdute includono: diverse orazioni (in una di esse - l'elogio funebre della zia Giulia - si affermava la discendenza della gens Iulia da Iulo e quindi da Enea e Venere); un trattato in due libri su problemi di lingua e stile (De analogia), terminato nell'estate del 54; vari componimenti poetici giovanili; una raccolta di detti memorabili; un poema sulla spedizione in Spagna nel 45; un pamphlet in due libri, intitolato Anticato o Anticatones, contro la memoria di Catone Uticense, scritto in polemica con l'elogio di Catone composto da Cicerone su richiesta di Bruto.
Infine, opere spurie sono, oltre al libro ottavo del De bello Gallico, tre opere del cosiddetto Corpus Caesarianum:
Bellum Hispaniense, sulla guerra in Spagna
Bellum Africum, sulla guerra in Africa
Bellum Alexandrinum, sulla guerra in Medio Oriente ed Egitto
e i resoconti degli ultimi avvenimenti della guerra civile, composti da ufficiali di Cesare. In queste tre ultime opere risulta evidente il diverso stile della prosa, evidentemente meno limpido ed entusiasmante di quello utilizzato da Cesare nelle sue due opere.
Gli autori di queste opere spurie erano probabilmente dei luogotenenti molto fedeli a Cesare, tra i quali figurano Gaio Oppio e, forse nella redazione del Bellum Alexandrinum, lo stesso Aulo Irzio.
Frontespizio di un'edizione del De bello Gallico
e del De bello civili
Cesare fu, oltre che grande protagonista politico delle vicende del suo tempo, anche importante oratore. Le sue orazioni sono andate perdute: esiste un rifacimento sallustiano di quella pronunziata il 5 dicembre del 63, mentre di altre orazioni è rimasta solo notizia (In Dolabellam, Pro rogatione Plautia, Pro Bithinis, Pro Decio Samnite). I giudizi degli antichi sull'eloquenza di Cesare erano concordemente positivi.[224]
br/
San Cesareo diacono e martire di Terracina fu il santo scelto, fin dalla prima età cristiana, a causa del suo nome per sostituire la figura pagana di Cesare. Infatti, il nome Caesarius significa “devoto a Cesare” ed è legato, quindi al grande condottiero romano, Gaio Giulio Cesare, e agli imperatori romani in quanto il loro appellativo era appunto Cesare[225].
Secondo l'archeologo Giuseppe Lugli, Cesareo di Terracina fu il santo designato a consacrare alla fede di Cristo i luoghi che già appartennero ai Cesari pagani[226]. Non si tratta, però, di una sostituzione meccanica a qualunque genere di memoria riconducibile a Cesare e agli imperatori in quanto la vita stessa del santo ed il tipo di devozione tributatogli dopo la sua morte mostrano qualcosa in più[227].
Nella "Passio S. Caesarii", tramandatoci in quattro versione, si fa riferimento all'antichissima gens romana da cui il giovane Cesareo sarebbe disceso, la Gens Julia (una chiara allusione al legame che sarebbe intercorso tra la famiglia di Giulio Cesare e quella del diacono). Cesareo, già opponendosi in vita ai Cesari pagani, con il martirio diventa il nuovo Cesare cristiano della storia e, a partire da IV secolo - dopo la traslazione delle sue spoglie da Terracina a Roma intro Romanum Palatium, in optimo loco, imperiali cubicolo, ossia nella Domus Augustana di Roma sul colle Palatino, nel sito di Villa Mills - il primo santo tutelare (protettore) della famiglia imperiale convertita al cristianesimo. Non senza ragione, il culto del martire di Terracina fu importato nel palazzo dei Cesari. E la ragione è nel nome stesso del Martire[228].
All'interno di questo palazzo imperiale venne eretto un oratorio in onore del martire chiamato “San Cesareo in Palatio”. Secondo Hartmann Grisar, il nome di questo oratorio sembra sia stato scelto, secondo il gusto dell'epoca, per l'eco che conteneva del nome di Cesare e dell'abitazione dei Cesari, così quindi il titolo di San Cesario anche da solo annunciava il nuovo carattere cristiano della potenza dei Cesari[229].
(da wikipedia)
CESTO
Specie d’armatura antica della mano, usata nel gioco dei latini detto pugilatus. Si chiamava così anche un cinto bianco ornato di gioielli e di fiori, che si portava alle nozze ed era uno degli attributi di Venere; detto anche Cesto di Venere.
CETEGO
- Gaio Cornelio Cetego
- Publio Cornelio Cetego
- Publio Cornelio Cetego (sostenitore di Mario)
- Marco Cornelio Cetego
- Cetego personaggio dell'Eneide
(in latino: Caius Cornelius Cethegus; ... – 63 a.C.)
Senatore e nobile romano: violento e intrigante, parteggiò per Mario e poi per Silla; insultò e feri il proconsole Metello Pio. Molestato dalla vigilanza dei magistrati, e specialmente da quella di Cicerone, entrò nella congiura di Catilina. Scoperta questa, Cetego fu condotto in prigione e giustiziato per ordine di Cicerone.
Gaio Cornelio Cetego (latino: Gaius Cornelius Cethegus; floruit 200-193 a.C.; ... – ...) fu un politico e un generale della Repubblica romana, trionfatore contro Insubri e Cenomani.
Appartenente alla famiglia patrizia dei Cetego della gens Cornelia, era figlio di Lucio Cornelio e nipote di Marco Cornelio Cetego.
Nel 200 a.C. fu comandante dell'esercito romano in Spagna in qualità di proconsole, carica che ricoprì prima ancora di essere edile; eletto a questa carica in sua assenza (199 a.C.), organizzò dei giochi magnificenti.
Nel 197 a.C. fu console; in questa veste sconfisse gli Insubri e i Cenomani in Gallia cisalpina, ottenendo per questa vittoria un trionfo.
Nel 194 a.C. era censore: l'anno successivo, in cui esercitava il lustrum, si recò a fare da mediatore, assieme a Marco Minucio Rufo e Scipione l'Africano, tra Massinissa e i Cartaginesi.
[1] (latino: Publius Cornelius Cethegus) (... – ...) è stato un politico romano.
Publio Cornelio Cetego fu edile curule nel 187 a.C. e, stando a quanto afferma Livio, celebrò i ludi di quell'anno con A. Postumio Albino.[2]
Fu poi nominato pretore nel 185 a.C.[3] e console nel 181 a.C. con Marco Bebio Tamfilo.[4]
Appena entrati in carica, ai due consoli fu affidata la provincia della Liguria e quattro legioni di cinquemiladuecento fanti romani e trecento cavalieri, e ancora quindicimila uomini tra soci e latini. A causa del gravoso problema della pirateria, i due consoli furono invitati a occuparsi anche della marina con la creazione della figura dei duoviri navales, ai quali furono assegnate venti navi dotate di un equipaggio composto da cittadini romani usciti di schiavitù (ex sillani) e da uomini liberi. Il racconto di Livio ci dice che Roma trascurò a lungo la sua flotta, soprattutto dopo la vittoria su Antioco, e che adesso, ravvedutasi, decise di far fronte alla negligenza passata attraverso l'elezione dei duoviri, i quali venivano eletti in via straordinaria, per un periodo di tempo limitato e con il compito di allestire la flotta e di assumere il comando.
Durante la guerra annibalica, i Galli e i Liguri avevano recuperato la loro indipendenza sostenendo dapprima Annibale e, in seguito, il fratello Asdrubale. Naturalmente per Roma combattere contemporaneamente contro Annibale e contro i Galli e i Liguri era insostenibile; ma, sconfitti i cartaginesi, il possesso della zona si rivelò indispensabile sia per motivi strategici e di prestigio sia perché quella era l'unica zona della penisola da cui si potesse considerare geograficamente e politicamente possibile un ampliamento. La riconquista di questi territori fu dura e lunga per una serie di motivi: la bellicosità degli indigeni, la conformazione del territorio che presentava zone montuose, paludose e boschive, l'impegno di truppe numericamente insufficienti per riuscire nell'impresa (Roma era infatti impegnata nelle più facili guerre in Oriente), la saltuarietà dei comandi, il contrasto tra i generali e tra le fazioni del senato, ma soprattutto, la poco tenace volontà dei romani di conquistare territori che offrivano ben poche possibilità dal punto di vista dello sviluppo demografico e agricolo.
Intanto, nel 180 a.C. Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tamfilo, invitati a governare le province fino all'arrivo dei nuovi consoli, decisero di attaccare con l'esercito i Liguri Apuani, i quali, non aspettandosi la guerra e presi alla sprovvista, si arresero in dodicimila.[5] A questo punto i due proconsoli chiesero al senato di poter trasportare gran parte della popolazione sconfitta nel Sannio, in modo da porre fine alla guerra in maniera definitiva, e il senato non poté che accettare. I Liguri chiesero ripetutamente di poter rimanere nella loro terra, ma le loro suppliche caddero nel vuoto e quarantamila uomini liberi, con donne e ragazzi, vennero trasferiti nel Sannio a spese dello stato. Cornelio e Bebio si occuparono della distribuzione delle terre e dell'assegnazione di centocinquantamila libbre per l'insediamento nelle nuove sedi. Si formarono così due nuclei di Liguri: i Corneliani e i Bebiani.
A questo punto Livio ci fornisce versioni diverse riguardo all'esito della vicenda: in un primo momento afferma che, una volta definita la questione e riportato l'esercito a Roma, ai proconsoli fu tributato il trionfo per la vittoria riportata sui Liguri Apuani; mentre in un secondo momento ci dice che quello di Cornelio e Bebio fu il primo caso di trionfo attribuito a magistrati che non avevano combattuto una guerra (infatti non c'erano prede o prigionieri da condurre in corteo e nulla da distribuire ai soldati), insinuando quindi che l'operazione di conquista era stata opera del predecessore Lucio Emilio Paolo Macedonico. In una terza versione assegna la vittoriosa campagna contro gli Apuani a Aulo Postumio Albino Lusco e Quinto Fulvio Flacco. Questa confusione deriverebbe da due fonti diverse a cui Livio attinse ma, considerando che i Liguri trasportati nel Sannio furono in seguito conosciuti con i nomi di Liguri Corneliani e Liguri Bebiani, appare abbastanza evidente che i consoli del 181 a.C. erano stati i principali responsabili della vittoria, e che il riferimento al trionfo immeritato era probabilmente una trovata propagandistica del successore Fulvio.
Probabilmente, proprio grazie al trasferimento dei Liguri Apuani nel Sannio, Cetego fu eletto nel 173 a.C. tra i decemviri agri dandis assignandis che avevano il compito di assegnare le terre dei Liguri e dei Galli ai singoli coloni: dieci iugeri ciascuno per i romani e tre ciascuno per i latini.
Nel 181 a.C. i due consoli proposero la lex Cornelia Baebia de ambitu[6], la prima di una lunga serie di leggi contro la corruzione e il broglio elettorale, la quale stabiliva come pena l'ineleggibilità per dieci anni.
A questa legge Mommsen collega anche la lex Baebia de praetoribus che proponeva la nomina, ad anni alterni, di quattro e sei pretori. La norma permetteva ai pretori nelle regioni lontane di rimanere in carica per due anni anziché uno in modo da evitare inutili e lunghi viaggi ma, allo stesso tempo, diminuendo il numero dei pretori, restringeva anche il numero dei candidati al consolato. Questa iniziativa legislativa non poteva trovare il consenso della nobiltà che, più che contestare le leggi sull'ambitus (facilmente eludibili), contestò e fece abrogare le disposizioni sulle elezioni pretorie. Perciò quest'ultima parte fu subito abolita.
Secondo Mommsen la legge fu approvata nel 181 a.C. e, benché per l'anno successivo si nominarono comunque sei pretori per non danneggiare i candidati di quello stesso anno, fu effettivamente applicata a partire dal 179 a.C. Inoltre, poiché nel 177 a.C. vennero eletti di nuovo sei pretori, si è dedotto che probabilmente la disposizione fu abolita già nel 178 a.C., nonostante l'orazione di Catone, ne lex Baebia derogaretur, in cui contestava la proposta di abolizione delle disposizioni bebiane relative alle cariche pretorie[7]
Leggi contro l'ambitus erano state emanate anche in passato[8], ma nel II sec. a.C. diventarono particolarmente importanti perché le competizioni elettorali erano spesso prive di programmi politici veri e propri e la lotta politica si condensava nello scontro tra candidati disposti ad utilizzare qualsiasi strumento pur di ottenere il consenso popolare. Questo rendeva necessarie le leggi contro la corruzione e il broglio elettorale.
(da wikipedia)
Publio Cornelio Cetego (latino: Publius Cornelius Cethegus; fl. 88 a.C.-78 a.C.; ... – ...) è stato un politico della Repubblica romana, appartenente al ramo dei Cetego della gens Cornelia.
Sostenitore di Gaio Mario, venne proscritto dal suo nemico Lucio Cornelio Silla nell'88 a.C.: dovendo quindi lasciare Roma, si rifugiò in Numidia. Nell'83 a.C. chiese perdono a Silla e poté rientrare in città. Assieme al console Marco Aurelio Cotta, fece conferire il comando supremo sul Mar Mediterraneo e sulle sue coste a Marco Antonio Cretico: i due uomini (Oratore e Cetego) erano simili nel loro carattere inaffidabile, e conducevano entrambi una vita cattiva.
(in latino: Marcus Cornelius Cethegus; ... – 196 a.C.) è stato pontifex maximus[1] e curule edile nel 213 a.C.,[1] pretore per la Regio II Apulia et Calabria nel 211 a.C.,[2] censore nel 209 a.C.,[5] e console nel 204 a.C.[4].
Divenuto edile alla fine del 213 a.C., organizzò i Ludi Romani, insieme all'altro edile, Scipione Africano, con grande dispendio, tenendo conto delle scarse possibilità del momento. Essi vennero rinnovati per un solo giorno. Ad ogni vicus di Roma vennero concessi cento congi di olio (pari a 327 litri).[6]
Cetego aveva al suo seguito il chiliarca ispanico Merico, che già aveva preso parte alla conquista di Siracusa da parte del console Marco Claudio Marcello nel 212 a.C..
Nel 211 a.C., venne eletto pretore, ottenendo l'Apulia.[2] Con il ritorno di Marcello a Roma verso la fine dell'estate di quell'anno, a Cornelio Cetego venne data disposizione di eseguire gli ordini che il senato romano aveva decretato in Sicilia: a Soside, che aveva fatto entrare i Romani in Siracusa di notte, e a Merico, che aveva consegnato Naso ed il suo presidio, vennero concessi il diritto di cittadinanza insieme a cinquecento iugeri di terra. A Soside venne donato il terreno nei pressi di Siracusa, che in passato era appartenuto ai re cittadini, oltre a una casa in città che egli scelse tra quelle confiscate per diritto di guerra. A Merico ed agli Spagnoli, che con lui erano passati dalla parte dei Romani, venne deliberato di donare loro una città con il suo territorio in Sicilia, fra quelle che avevano abbandonato l'alleanza con i Romani. Queste disposizioni vennero quindi messe in pratica dal pretore, Marco Cornelio Cetego. E sempre sullo stesso terreno vennero donati a Belligene, che aveva spinto Merico alla defezione, altri quattrocento iugeri.[7]
Dopo la partenza di Marcello dalla Sicilia, la flotta cartaginese sbarcò 8.000 fanti e 3.000 cavalieri numidi. Le città di Morgantina (Murgentia) e di Ergentium passarono dalla parte dei Cartaginesi, seguite poi da Ibla (Hybla) e Macella, oltre ad altre città minori. I Numidi si erano dati a saccheggiare ed incendiare i campi degli alleati del popolo romano, vagando per tutta la Sicilia. Contemporaneamente l'esercito romano, indignato sia perché non aveva potuto seguire Marcello a Roma, sia perché gli era stato proibito di svernare in città, trascurava il servizio militare al punto che, poco mancava che non si ribellasse, se solo avesse trovato un comandante all'altezza per prendere l'iniziativa. Fra tutte queste difficoltà, il pretore Cetego cercò di calmare l'animo dei soldati, a volte confortandoli, altre punendoli. Alla fine ridusse all'obbedienza tutte le città che si erano ribellate, assegnando Morgantina agli Spagnoli, ai quali, per decreto del senato, doveva una città ed un territorio.[8]
La presenza delle truppe romane di questi anni è testimoniata dai denari romani d'argento coniati nel periodo 240-220 a.C. e ritrovati nei siti archeologici di Morgantina.
Cetego ottenne il comando in Sicilia dopo Marcello per il 210 a.C., come propretore.[3] Tito Livio racconta che Cetego, succeduto a Marcello nell'isola, aveva raccolto un gran numero di persone a Roma, per protestare contro il suo avversario Marcello e riempirlo di false denunce. Affermava, inoltre, che la guerra in Sicilia durava ancora, sempre per gettare discredito su Marcello. Quest'ultimo seppe però dimostrare un grande dominio di sé.[9] Quando poi il console di quell'anno, Marco Valerio Levino, ottenne la provincia di Sicilia, lo stesso ebbe anche il compito dal senato, di congedare l'esercito che era stato comandato da Cetego.[10]
Ottenne la censura nel 209 a.C.[5] e il consolato nel 204 a.C..[4]
Nominato proconsole nel 203 a.C. nella regione dell'Italia Superior, ottenne una sostanziale vittoria contro Magone Barca, fratello di Annibale, sul territorio degli Insubri, costringendolo a ritirarsi oltre le Alpi.
Si era costruito una grande fama di oratore, tanto che Ennio lo descriveva la "quintessenza della persuasività" (suadae medulla), e Orazio lo definiva un'autorità sull'uso del latino.[11] Cetego viene anche citato da Livio nell'Ab Urbe Condita[12]
(da wikipedia)
di Virgilio, presente nel dodicesimo libro.
Cetego è uno degli innumerevoli italici che prendono parte alla guerra contro i troiani di Enea sbarcati nel Lazio. Egli è rutulo, e dunque combattente nelle file di Turno. Muore nell'ultima battaglia, per mano di Enea.
(da wikipedia)
CETO
Ceto (in greco Κητώ Kētṓ κῆτ|ος kḗt|os, ovvero "grande pesce, balena") è una divinità della mitologia greca, figlia di Ponto e di Gea, avente sembianze di mostro marino.
È sorella di Nereo, di Taumante, di Forco ed Euribia. Sposò il proprio fratello Forco e gli dette numerosi figli: Echidna, Scilla, le Graie, le Gorgoni la ninfa marina Toosa, il drago Ladone che custodiva i pomi delle Esperidi e le stesse Esperidi. Ceto era la personificazione dei pericoli del mare e, in senso più lato, delle paure nascoste e delle creature estranee.
Aspetto
Come indica lo stesso nome (si pensi alla parola cetaceo), Ceto era raffigurata spesso come un mostro marino dalla foggia di grande pesce o balena. Nell'arte greca Ceto era rappresentata come un incrocio tra un pesce (o, talvolta, come un'altra creatura marina) e un serpente.
CETRA
Strumento musicale (detto anche Citara - lat. cithara) a corda in uso sin dalla più remota antichità, tra i popoli d’Oriente ed anche dai Greci e Romani. Se ne fa risalire l’invenzione a Ju, che visse nel 4.000 a.C., leggendosi nella Genesi.
CH-CI
CHARIS
Una delle Grazie; sposa del dio Vulcano (alludendo forse alla sua raffinatissima arte nel lavorare i metalli).
CHILONE
Chilone, o Chilone di Sparta (Sparta, ~620 a.C. – Pisa, ~520 a.C.), fu uno dei sette savi.
Diogene Laerzio scrive nella Vita di Chilone che questi nacque a Sparta da Damageto (Damagetas), e che era già vecchio durante la 52ª Olimpiade (572-69 a.C.), tanto che morì nella città greca di Pisa dopo aver abbracciato il figlio (Chilone di Patrasso) vincitore nella gara di pugilato a Olimpia.
Erodoto ne parla come un contemporaneo di Ippocrate di Atene, padre di Pisistrato.
Sulla sua tomba sarebbe stato inciso l'epigramma:
Incoronata di lance, Sparta generò questo Chilone
che dei Sette Sapienti quanto a sapienza fu il primo
Ancora Diogene Laerzio scrive che fu eletto Eforo di Sparta durante la 56ª Olimpiade (556-55 a.C.). Alcidamante riporta che fu giudice e che fece parte dell'assemblea di Sparta.
Gli si attribuisce il merito di aver contribuito a rovesciare la tirannia nella città di Sicione, che diventò in seguito alleata di Sparta. La sua influenza fu anche decisiva per la svolta nella politica isolazionista di Sparta che portò alla formazione della lega del Peloponneso nel VI secolo a.C.. Contribuì a isolare Argo politicamente e militarmente, preparando così le future vittorie contro di essa.
Uomo di poche parole, sosteneva di non mai aver commesso nulla di illegale nella sua vita, ma di avere dei dubbi riguardo a un episodio: quando era giudice, per parte sua condannò un amico, applicando la legge, ma convinse gli altri giudici ad assolvere l'imputato, in modo che fossero salvi sia la legge sia l'amico.
Si dice anche che, parlando dell'isola di Citera, desiderasse che quell'isola non fosse mai esistita, o che il mare l'avesse sommersa, prevedendo che sarebbe stata la rovina degli Spartani. In effetti in seguito l'ex re di Sparta Damarato, esiliato dopo la destituzione e rifugiatosi in Persia, consigliò al re persiano Serse, durante la seconda guerra persiana, di fare dell'isola una base navale da cui attaccare la Grecia. Molti anni dopo, durante la guerra del Peloponneso, gli ateniesi, guidati da Nicia, conquistarono Citera, che usarono come caposaldo per rivolgere ulteriori attacchi agli Spartani.
Aforismi
È disputata l'attribuzione a Chilone del detto «Conosci te stesso», che altre fonti ascrivono a Talete. Diogene Laerzio gli attribuisce altresì i seguenti aforismi:
- «Non parlare male dei morti»
- «Rispetta la vecchiaia»
- «Preferisci il castigo al guadagno illecito; perché il primo è doloroso solo una volta, ma il secondo è doloroso per tutta la vita»
- «Non ridere di una persona caduta in disgrazia»
- «Evita di gesticolare quando parli, ciò è indice di stoltezza»
- «Se sei forte, sii anche misericordioso, così che il tuo prossimo ti possa rispettare anziché temere»
- «Impara a essere un buon padrone nella tua casa»
- «Non permettere alla tua lingua di vincere il tuo buonsenso»
- «Limita la tua ira»
- «Non essere avverso alla divinazione»
- «Non desiderare ciò che ti è impossibile ottenere»
- «Non affrettarti troppo sulla tua strada, impara ad apprezzare il riposo»
- «Obbedisci alle leggi»
CHIMERA
Mostro con coda di drago (o serpente), testa e corpo di leone e altra testa di capra sulla schiena, spirava fuoco dalle narici. Nell' "Iliade " Glauco narra come fu uccisa da suo nonno Bellerofonte. Concepita come un essere distruttore vomitante fuoco, come altri mostri, tra cui Cerbero (il cane degli inferi), era ritenuta figlia della mitica Echidna e in qualche modo veniva messa in relazione con gli aspetti terrificanti della morte. D'altra versione, mostro mito logico nato da Tifone e da Echidna, fornito di tre teste; una di leone, una di capra e una di dragone, dalle quali vomitava fiamme e fuoco. Esso devastava le campagne della Licia e Bellarofonte cavalcando Petaso, lo uccise. Questo mito si spiega con dire che Chimera era il nome di un vulcano della Licia (Asia Minore), appartenente alla giogaia del Chinase, presso la cima del quale abitavano leoni, nella regione mediana pascevano capre, e ai piedi strisciavano serpenti. La parola chimera divenne sinonimo di cosa immaginaria e impossibile, e nelle belle arti è il nome che si dà ad una specie di cammeo che riunisce parecchie figure in un sol corpo.
E’un monumento dell’arte di gettare in bronzo presso gli etruschi
CHIODO
ANNALE (CLAVUS ANNALIS)
Si chiamava un chiodo che i Romani, nei primordi della loro città, quando era ancora poco esteso l’uso delle lettere dell’alfabeto, conficcavano ogni anno alle idi di settembre nelle pareti laterali del tempio di Giove, per mano del pretore massimo in persona. In alcune occasioni si creava all’uopo un dittatore e non solo per notare gli anni ma per la superstiziosa opinione che una grande calamità aggravatasi in quel torno di tempo sui cittadini sarebbe cessata subito, ossia sarebbe rimasta come inchiodata, senza muoversi più, se quella cerimonia fosse stata compiuta da un funzionario diverso dal solito.
CHIONE
Di Eraclea nel Ponto, discepolo di Platone; ordita una congiura, mise a morte Clearco, tiranno di Eraclea (353 a.C.). Gli si attribuiscono tredici lettere pregevolissime, ma probabilmente apocrife, e composte da uno degli ultimi platonici.
CHIONIDE
Poeta comico della vecchia commedia atenise. Abbiamo i titoli di due delle sue commedie l’una citata da Ateno e l’altra da Suida.
CHIONO
Chiono è una figura della mitologia greca, era figlia di Aquilone. Era una ninfa e fu amata da Poseidone; dalla loro unione nacque Eumolpo.
(Vedi Eumolpo)
CHIRONE
Chirone, in quanto medico, fu chiamato a curare Achille quando quest'ultimo, a seguito delle magie praticate da sua madre Teti per renderlo immortale, ebbe la caviglia ustionata. Chirone gliela sostituì con quella di un Gigante morto, Damiso, particolarmente dotato nella corsa (ciò avrebbe reso Achille piè veloce).
Centauro figlio di Saturno e della ninfa Filira, figlia dell’Oceano, dimorava per lo più nelle vicinanze del Pelio, dove la sua scienza e la sua saggezza attiravano molti giovani greci avidi d’istruzione. Conosceva specialmente le virtù delle piante. Si differenziò dai compagni concepiti come violenti e selvaggi per la sua eccezionale saggezza.Tra i vari eroi greci, qual’è il grande Achille, si diceva che avessero passato l’infanzia alla sua scuola sita in una caverna del monte Pelio in Tessaglia. Quale maestro di eroi, trova riscontro in certi mostri boscherecci e selvaggi (come appunto i Centauri greci), che nell’ideologia religiosa di alcuni popoli primitivi trasformano gli adolescenti in adulti nelle famose iniziazioni. Per solito questi esseri, sono concepiti con tratti negativi, in quanto pericolosi abitatori del mondo extra umano (la foresta, il deserto ecc), e con tratti positivi per le loro pratiche iniziatiche; l’ambivalenza originaria si sarebbe scissa nell’ideologia greca, che ha conservato solo i tratti negativi dei Centauri proiettando tutti i tratti positivi nella figura eccezionale di Chirone. Fu sommo astronomo e medico; chiuse la sua esistenza ferito a morte da Ercole, del quale era pur stato maestro di pugilato ed educatore.
CHIRONOMIA
Si chiama così un movimento mimico delle mani, che era parte della danza greca e romana.
CHIROTONIA
Nelle asssemblee di Atene, si chiamava così quel modo di votazione che consisteva nel tendere e alzare le mani. Il votare per chirotonia si usava specie nell’elezione di quei magistrati scelti nelle pubbliche assemblee detti chirotoneti. nel dare suffragio alle leggi e in alcuni particolari processi concernenti gli interessi del popolo.
CHITONE
Veste abituale degli antichi greci a cui corrispose poi la tunica romana. Fermato sulle spalle da fibbie, solitamente di lana o di lino, era stretto ai fianchi da una cintura e ricadeva morbidamente. Con o senza maniche, era usato sia dagli uomini (corto), che dalle donne (lungo). Quello portato dagli schiavi era tagliato in modo da lasciare scoperto il braccio destro e parte del petto.
CIATO
(Lat.Cyathus)
Misura comune ai Greci e Romani; la si usava per liquidi e solidi. Era uguale ad un oncia o dodicesima parte di un sestiero ossia litri 0.45. I beoni romani usavano bere tanti ciati quante erano le Muse e talvolta tanti quante erano le lettere nel nome dei loro padroni. Il ciato dei greci pesava dieci dramme.
CIBALE
o CIBALIS
Città della Pannonia Inferiore, presso il lago Hiuleas, fra la Sava e la Drava; fu patria dell’imperatore Valentiniano. Presso questa città Costantino, nel 314 dell’era volgare sconfisse Licinio.
CIBARIA
Era una legge suntuaria nell’antica Roma, che limitava le spese della mensa.
CIBELE
o VESTA
Figlia del Cielo e della Terra, moglie di Saturno veniva chiamata anche Opi, Rea, Tellus, la Buona Dèa, la Madre degli Dèi ecc. Divinità asiatica (Lidia e Frigia), della natura selvaggia e montuosa, identificata dai greci con Rea; si muoveva con un carro trainato da pantere e leoni e con seguito di coribanti. Dunque divinità attorno alla quale si accentrava la religione dei Frigi e di altri popoli pre-greci dell’Asia Minore. Il suo culto fu celebre quindi in Frigia, e i suoi misteri risalgono alla più remota antichità (1580 a.C.). Era
dèa sovrana, quasi un’essere supremo di natura femminile, una Terra-Madre, accanto cui figuravano in posizione di inferiorità un dio Cielo (Papas-padre), un essere semidivino, Attis, che per molti aspetti ricorda Adone, delle civiltà semitiche, e una schiera di dèmoni (coribanti). Il nome Cibele era in realtà un epiteto di Nubile, come si legge in alcune iscrizioni antiche frigie, derivato da una sede di culto della dèa; un monte della Frigia non identificato. Veniva di solito designata con tali epiteti (Berencinzia da Berecinti), antico popolo frigio (Dindimene, dal monte Dindino ecc.), giacchè la sua posizione di divinità unica, non richiedeva un proprio e vero nome, era usualmente detta la Madre o Grande Madre. Veniva rappresentata come una regina con corona turrita simile alla cinta muraria di una città), seduta in trono tra due leoni, o su un carro trainato da leoni. Quale che fosse la più antica religione di Cibele, per l’epoca storica si ha solo notizia di culti orgiastici, processioni in maschera, danze estatiche al suono di flauti e di vari strumenti a percussione (cembali, tamburelli, ecc.), e gli esecutori erano detti coribanti, così come i dèmoni seguaci della dèa. Oltre a ciò si conoscevano alcune elaborazioni letterarie di un mito di Attis, che sostanzialmente è ricordato come un prodigioso giovine amato dal la dèa, il quale muore di morte violenta, o, secondo altra versione, evirandosi e costituendo così il prototipo dei galli, come erano chiamati certi sacerdoti al servizio di Cibele. A Pessinunte si mostrava la tomba di Attis, e ogni anno in primavera, si celebrava la sua morte e, sembra, la sua resurrezione; in tale occasione i celebranti si flagellavano a sangue e coloro che intendevano diventare galli, giunti all’apice del parossismo, si eviravano ad imitazione del dio commemorato. Il culto di Cibele si diffuse tra i greci, che talvolta identificavano la dèa frigia con la loro Rèa. In epoca ellenistico-romana, tale culto prese forma di misteri (di Attis). Quei misteri somigliavano alle orge di Bacco, Dalla Frigia il culto passò in Creta e in Italia dove ebbe notorietà fino ai tempi di Annibale; fu allora che i Romani avendo consultati i libri sibillini, ne ebbero risposta che il nemico, non sarebbe stato cacciato se non si facesse venire a Roma la madre degli Dei. Una deputazione fu inviata ad Attalo, re di Pergamo per richiederla, ed ebbe da quel principe una grossa pietra conservata a Pessinunte (Frigia) dove Cibele aveva anche uno splendido tempio, Fu recata con pompa a Roma. Nel 205 a.C., i romani introdussero ufficialmente Cibele nelle loro città. col titolo di Grande Madre degli dèi; le fù istituito un culto pubblico, che tra l’altro comprendeva la celebrazione di giochi annui in aprile (Megalenses, così detti dal greco Megale Mater- Grande Madre). Fu accolta non come divinità straniera, ma come un’antica dèa della stirpe romana, con riferimento alla leggenda delle origini troiane (Enea), e dunque frigie, dei fondatori di Roma. Tuttavia lo stato romano ignorò Attis, e gli aspetti esotici del culto (riti orgiastici, evirazioni ecc.), lasciando la religione frigia alla devozione dei privati, per lo più schiavi o liberti. Il culto frigio si venne così affermando in modo autonomo; si costituirono associazioni di fedeli, e un’organizzazione sacerdotale i cui membri si chiamavano coribanti, dattili. cabiri ecc., con un sacerdote supremo, detto Attis, coadiuvato da un arcigallo (ma a volte le due cariche erano rivestite da una sola persona), che dirigeva i galli. In epoca imperiale anche il culto frigio venne ufficialmente riconosciuto, ed ebbe le sue feste pubbliche nel mese di marzo.
(Vedi Arcigallo)
CICERONE
- CICERONE CICERO
- CICERONE MARCO TULLIO
- Academica priora
- Academici libri oppure Academica posteriora
- Cato Maior de senectute
- Consolatio:
- De Divinatione
- De finibus bonorum et malorum
- De Fato
- De natura deorum
- De officiis
- Hortensius:
- Laelius seu de amicitia
- Paradoxa Stoicorum
- Tusculanae disputationes
- De re publica
- De legibus
- De domo sua ad pontifices
- De haruspicum responsis
- De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia)
- De lege agraria (Contra Rullum) I–III
- De provinciis consularibus
- De Sullae bonis
- Divinatio in Caecilium
- In L. Calpurnium Pisonem
- In Catilinam I–IV
- In P. Vatinium
- In Verrem actio prima
- In Verrem actio secunda I–V
- Oratio cum populo gratias egit
- Oratio cum senatui gratias egit
- Philippicae orationes I – XIV
- Pro Aemilio Scauro
- Pro T. Annio Milone
- Pro Archia
- Pro Aulo Caecina
- Pro M. Caelio
- Pro A. Cluentio Habito
- Pro G. Cornelio
- Pro L. Cornelio Balbo
- Pro P. Cornelio Sulla
- Pro Marco Fonteio
- Pro Q. Ligario
- Pro Marco Marcello
- Pro muliere Arretina
- Pro Lucio Murena
- Pro Gneo Plancio
- Pro Publio Quinctio
- Pro C. Rabirio perduellionis reo
- Pro Rabirio Postumo
- Pro rege Deiotaro
- Pro Sex. Roscio Amerino
- Pro Q. Roscio Comoedo
- Pro P. Sestio
- Pro Titinia
- Pro Marco Tullio
- Pro L. Valerio Flacco
- Brutus:
- De inventione:
- De optimo genere oratorum
- De oratore
- Orator
- Partitiones oratoriae
- Topica (44 a.C.):
- Alcyones:
- Aratea:
- De consulatu suo:
- De temporibus suis:
- Epigrammata
- Limon:
- Marius:
- Nilus:
- Pontius Glaucus:
- Tymhaeus:
- Uxorius:
- Epistole agli amici (Epistulae ad familiares) (16 libri)
- Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem) (3 libri)
- Epistole a Marco Giunio Bruto (Epistulae ad M. Brutum) (2 libri)
- Epistole ad Attico (Epistulae ad Atticum) (16 libri)
- Memoria
Nome di una famiglia poco illustre nella storia romana, appartenente alla Claudia Gens, plebea, di cui un solo membro mentovato è Claudio Cicerone tribuno della plebe nel 454 a.C. La parola pare connessa con Cicer, e fu probabilmente adoperata in origine a contraddistinguere qualunque individuo celebre per la sua perizia, per la coltura di questa specie di legume; e il nome sarebbe poi rimasto ai discendenti.
Celeberrimo oratore romano, nato il 3 gennaio 106 a.C., in Arpino, città dei Sanniti. Sorse da principio come difensore di Roscio d’Ameria, recossi poi per ragioni di salute ad Atene ed in Asia Minore (79 a.C.). Ritornato in patria due anni dopo, sposò Terenzia ed eletto questore, amministrò per un anno le rendite dello Stato nella Sicilia occidentale, con giustizia e disinteresse. Per questo gli si affidò sei anni più tardi il processo intentato dai Siciliani contro Verre, rapace governatore e acquistò particolare fama presso il popolo. Divenne così - edile curile, (70 a.C.) e pretore (66 a.C.). L’accortezza e la circospezione con cui seppe sventare nell’anno del suo consolato, la congiura di Catilina, gli valsero grandi onori. Il Senato condannò a morte i congiurati, ma Cicerone per i raggiri di Clodio, tribuno del popolo fu cacciato in esilio a Tessalonia (58 a.C.), e non gli si permise il ritorno che solo al principio di agosto del 57 a.C. Nel 53 fu nominato nel collegio degli à’uguri; difese (52) ma indarno Milo, assassino di Claudio. Eletto nel 51 governatore della Sicilia, si rese benemerito di quell’amministrazione; di ritorno a Roma nel 49, si studiò, ma inutilmente di impedire la guerra civile fra Cesare e Pompeo. Seguì quest’ultimo a Farsaglia, ma ritornò in Italia col permesso di Cesare. Nel 46, separatosi da Terenzia, sposò la ricca sua pupilla Publilia, e si tenne fin dopo l’assassinio di Cesare lontano dalla vita pubblica. Scrisse in seguito quattrordici discorsi contro Antonio con il nome di Filippiche, tanto celebri; favorì il giovane Ottavio, ma dopo che questi costituì il triumvirato con Antonio e Lepido, fu abbattuto egli stesso e proscritto.
Il 7 dicembre del 43 a.C., si lasciò uccidere tranquillamente da Erennio. Cicerone, come uomo politico diede prova di poca risolutezza e di poca indipendenza. Ma lo resero molto amabile la sua umanità, e il delicato suo sentire per l’amicizia, e per tutto ciò che vi era di buono e di bello; così pure la sua straordinaria operosità intellettuale e il suo zelo scientifico. Di quanto seppe, fanno testimonianza cinquantasette discorsi, che ancora ci restano, in cui spiccano il talento oratorio, la fervida fantasia, l’arguzia che schiaccia, e l’inesauribile vena della parola. Ebbe stile chiaro, puro, arrotondato, elegante. Per questa qualità come pure per la struttura dei suoi periodi, le sue opere oratorie e filosofiche sono veri modelli. Egli fu il primo romano che trattasse scientificamente la retorica; nei suoi libri filosofici espose da prima ai Romani, in forma popolare, la filosofia greca. Le opere di Cicerone, essendo numerosissime e su diverse materie, si usa distinguerle nel modo seguente: Opere filosofiche, Orazioni, Epistole, Poemi, Opere storiche e miscellanee, Delle opere filosofiche si usa distinguerle; Filosofia del gusto o retorica, Filosofia politica, Filosofia morale, Filosofia speculatica, Teologia.
Giovane Cicerone che legge o Fanciullo che legge Cicerone affresco staccato di Vincenzo Foppa (1464 circa), Collezione Wallace di Londra
Panoramica alfabetica di tutte le opere filosofiche
(prima stesura dei libri sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica).
Catulus (Dialogo), la prima parte dell'Academica priora, perduto.
Lucullus (Dialogo), la seconda parte dell'Academica priora, conservato.
(versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica, in quattro libri).
("Catone il censore, sull'anzianità"). Cicerone immagina Catone il Censore all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda età.
una consolazione a sé stesso scritta alla morte dell'amata figlia Tullia, in cui Cicerone esorta a considerare la caducità di ogni cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta.
("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra tutte quelle composte da Cicerone, mette in luce un'opinione molto esplicita sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle opinioni stoiche al riguardo, si nota che Cicerone tratta gli argomenti con la dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo.
("Sui confini del bene e del male"). È un dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere.
("Sul Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina provvidenzialistica degli stoici.
("Sull'essenza degli dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. Cicerone orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza. L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare lo stesso Cicerone. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se Cicerone respingeva con certezza il parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta, pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione dello stesso Cicerone. Si è però ipotizzato che Cicerone abbracciasse almeno in parte il probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di Cicerone: egli è persuaso che il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. Cicerone non trova gli argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta. Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo" accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei, sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro, per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano; schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione popolare, e si può dire che anche al tempo di Cicerone ciò era diventato un luogo comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano la dottrina stoica. A Cicerone, invece, l'esistenza degli dei appariva come necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello stesso modo, Cicerone analizza, poi, il tema dell'immortalità dell'anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da Platone.[97]
("Sui doveri"): Il De officis, che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera filosofica di Cicerone, che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, Cicerone non fornisce profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus.
sorta di προπεμπτικόν (propemptikon) ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava Cicerone. L'opera fu assai apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino.
("Lelio" o "sull'amicizia").
(Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici): Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso giudicate di basso livello dalla critica.
("Conversazioni a Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte nel 45 a.C., sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione": a Cicerone, che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per Cicerone la situazione era davvero complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi nella villa di Tusculum, particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo studio della filosofia. Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve confrontare il saggio nei confronti di questi elementi turbatori della propria imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte. Cicerone tratta questi temi con il suo solito stile eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica.
("Sulla repubblica"), sul modello della Repubblica di Platone: Si rimanda alla voce specifica.
("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto probabilmente nel 52 a.C., dopo che Cicerone era stato nominato augure. Si tratta di uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del quale ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di Crisippo, Cicerone dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti, costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti. Dopo quest'avvio, Cicerone passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, Cicerone non immagina leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata l'analisi, Cicerone si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto. L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale Cicerone appare ai suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, Cicerone analizza la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza considerevole per i contemporanei di Cicerone. Quale doveva essere la parte dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della repubblica? Non era lontano il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta definitiva a questo quesito, e tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della nobilitas e del senato. Nell'opera, il fratello di Cicerone, Quinto, è fortemente contrario al tribunato della plebe, carica che ritiene potenzialmente troppo pericolosa: Cicerone, pur discostandosi dalle opinioni del fratello, riconosce il pericolo che il tribunato della plebe costituisce per il mantenimento della calma e della pace. Possediamo solamente i primi tre libri del De legibus: ce n'erano probabilmente sei. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al diritto civile. Si trattava di opere particolarmente preziose, perché Cicerone non ha mai trattato altrove gli stessi argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re publica e De legibus furono scritti in un'epoca durante la quale la costituzione romana era ancora in piedi, prima della guerra civile e la fine dell'antica libertà. Questa circostanza spiega il carattere dei due lavori: sono al tempo stesso libri teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento di Cesare, l'elemento speculativo dominerà nella filosofia di Cicerone, che infatti fuggirà la vita pubblica per ritirarsi nella contemplazione.[98]
Orazioni
(LA)
« In principiis dicendi tota mente atque artubus contremisco. »
(IT)
« All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente. »
(Marco Tullio Cicerone)
Cicerone è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma.[99][100] Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da Quintiliano la fama di Cicerone quale modello classico dell'oratore è ormai incontrastata. Cicerone ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi; 58 orazioni (alcune parzialmente lacunose) le abbiamo ricevute nella versione originale, circa 100 sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si possono dividere grosso modo tra orazioni pronunciate di fronte al Senato o al popolo e tra le arringhe pronunciate in qualità di - utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico, come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre, unica volta in cui Cicerone compare come accusatore in un processo penale. Il suo successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico,[101] soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario e raggiungere il proprio scopo.
Tecniche di memorizzazione
Per memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[102] Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.
Busto di Cicerone
Musei Capitolini - Roma.
Panoramica alfabetica di tutte le orazioni
("Sulla propria casa, al collegio pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare: durante l'esilio di Cicerone il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte della proprietà di Cicerone sul Palatino alla dea Libertas; Cicerone dichiara questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che nasce la locuzione Cicero pro domo sua.
("Sul responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno di Cicerone sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di Cicerone ivi in costruzione. Contro questa ed altre accuse Cicerone si rivolge con un appello al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano su indagini dolosamente carenti.
("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.), orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio, a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro il re del Ponto Mitridate VI.
("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III); un quarto dell'orazione è stato perduto.
("Sulle province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato riguardo alle province consolari romane.
("Sui beni di Silla", 66 a.C.).
("Dibattito contro Cecilio", 70 a.C.), dibattito riguardo l'assunzione del ruolo di accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per Cicerone egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre.
("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.), orazione d'accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino.
("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63 a.C.), orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV)
("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria contro P.Vatinio riguardo l'interrogatorio nel processo contro P.Sestio.
("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen pecuniarum repetundarum)
("Seconda accusa contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque pubblicati in forma scritta.
("Ringraziamento al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
("Ringraziamento al senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
("Le filippiche", 44 a.C./43 a.C.), orazioni contro Marco Antonio.
("In difesa di Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Tito Annio Milone", 52 a.C.), orazione difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di Cicerone. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges"
("In difesa di Archia", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio Archia.
("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71 a.C.), orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo.
("In difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Publio Cornelio Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Cesare in quanto dittatore.
("In difesa di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore.
("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("A favore di Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un processo di corruzione elettorale.
("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Publio Quinto", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico tradizionale di Cicerone a favore del querelante in un processo civile. Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di Cicerone Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo.
("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete.
("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare
("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di Cicerone in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. Cicerone ottenne l'assoluzione.
("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Scritti di retorica
Così come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, ma tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di Cicerone. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito.[103] Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.
Perciò non è affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza Cicerone l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III 54-143); Cicerone stesso dichiara che "io sono diventato un oratore [...] non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.
Panoramica alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci
il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta nella forma di un dialogo tra Cicerone, Bruto ed Attico la storia dell'arte retorica romana fino a Cicerone stesso. Dopo un'introduzione (1-9) Cicerone inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria esperienza; Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), Cicerone respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di Cicerone stesso, non senza una grossa dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione dello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano.
("Sul ritrovamento"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente sulle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di Cicerone per quanto riguarda il contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con l'opera "La Retorica" di Erennio, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono comunque all'incirca dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente sulla medesima o su affini fonti greche. Inoltre c'è un'incredibile somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune fonte latina, forse originaria da un comune insegnante o dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine greca.
("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se Cicerone l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata.
(Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di Cicerone non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basta su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di Cicerone scritta con più cura formale ed è per questo motivo che è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello stile ciceroniano.
("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa un'opera dedicata a Marco Giunio Bruto che descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, Cicerone ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potrà svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono ben ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo.
("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il figlio di Cicerone, Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'Catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio. L'originalità di Cicerone in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile molto semplice e delle poche novità introdotte.
scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.)
Opere perdute
Tra le opere tardive di Cicerone si possono annoverare scritti consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute. Delle poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori dello stesso Cicerone. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici.
Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di Cicerone
epillio composto da Cicerone dopo il 92 a.C. nel quale veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò entrambi i defunti in uccelli alcioni.
libera traduzione giovanile dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli.
poemetto autobiografico composto da Cicerone tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo contro Lucio Sergio Catilina.
altra opera autobiografica perduta scritta nel 54 a.C. in cui Cicerone celebrava i suoi interventi migliori durante il consolato.
("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da Cicerone circa quando aveva vent'anni. Stando alle testimonianze dello scrittore Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali.
opera in esametri di Cicerone in cui venivano trattati argomenti letterali e sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo un'opera del commediografo Terenzio.
poema epico-storico in cui Cicerone parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla poesia, cioè epico.
opera quasi sconosciuta. Si pensa che Cicerone l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto.
componimento in stile alessandrino di Cicerone. Scritto circa nel 93 a.C., l'opera trattava del mito di Glauco il quale dopo aver mangiato un'erba afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino.
vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che Cicerone presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di traduzione.
opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo; esso vale Il marito docile e perciò si ritiene avesse carattere scherzoso e argomento leggero, se non apertamente comico.
Epistolario
Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto che l'immagine che traspariva di Cicerone non era quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità.
Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:
Il nome di Cicerone è diventato un'antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando.[104] Parimenti con il nome Cicerone vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio Cicerone, da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati.[104] Negli Stati Uniti d'America vi sono ben quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco Tullio Cicerone. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[104] Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con l'appellativo di Cicerone, a causa della sua eloquenza.
- SENTENZE di Cicerone
- "Cedant arma togae" (Cicerone - De off., I, 22).
- La toga sottentri alle armi.- Primo emistichio di un verso detto da Cicerone in memoria del suo consalato. Si cita la frase come auspicio per esprimere il desiderio che il governo militare, simboleggiato nelle armi, faccia posto al governo civile, rappresentato nella toga.
- "Cicero pro domo sua".
- Cicerone per la sua casa:- Titolo di un orazione tenuta dal sommo oratore per riavere l'area e i fondi per rifabbricare la sua casa, confiscatagli durante l'esilio. Si citaa volentieri all'indirizzo di chi difende con ferrvore una causa propria, Co di chi si esalta nel far valere le proprie ragioni.
CICLADE
Veste di tela sottilissima con lunga coda ornada d’oro, portata dalle donne romane. Fra le altre prove dell’effeminatezza di Caligola vi è quella che fu veduto uscire in pubblico con una ciclade indosso. Alessandro Severo ordinò che le donne non dovessero possedere più di una ciclade per ciascuna e che questa non fosse ornata di più che con sei once d’oro.
CICLADI
(Kyklades)
Arcipelago della Grecia situato nell’Egeo centro-meridionale, tra l’antica Attica e il Peloponneso ad Ovest, Creta a Sud e la sezione sud-occidentale dell’Anatolia ad Est. Costituisce una provincia greca, di cui è capoluogo Ermopoli, cittadina situata nell’isola di Sira (Syros). Il nome delle Cicladi significa isole disposte in cerchio, in contrapposizione alle Sporadi, ossia isole sparse. Quanto alla struttura dell’arcipelago, si possono facilmente individuare tre allineamenti principali: il primo formato dalle isole Andro (Andros), Tino (Ténos), Micono (Myconos), e Nasso (Naxos), la più estesa; misurando 450 Km., può essere considerata il prolungamento dell’ Eubea. Un’altro, costituito dalle isole Zea (Kéa),Termia (Thermià. Kythnos), Serpanto o Serifo (Sérifos), e Sifno (Sifnos), sembra continuare verso Sud–Est la terra ferma dell’Attica; un terzo infine, di cui fanno parte le isole di Policandro (Polégandos), Sicandro (Sikinos), Nio (Ios), e Amorfo (Amorgòs), è disposto in direzione Ovest-Est. Al centro di questo sistema grosso modo circolare, sono le isole di Giura (Gyaros), Sira (Syroe), Paro (Pàros), Antiparo (Antìparos) ; all’esterno quelle di Milo (Mélos), Santorino (Théra), e Nanfio (Anàfe). Il loro clima è dolcissimo, ma scarse le precipitazioni, e per lo più montuose. E in vero le Cicladi sono quasi tutte irti scogli, così Myoconos è una roccia di granito; e Rhenea fu già detta sassosa da Omero (Inno ad Apollo 44); e di Gyaros (Jura) disse medesimamente Giovenale ; "Gyarae clausus scopulis"
ARTE CICLADICA
Alla colonizzazione preistorica delle Cicladi, è legata l’arte cicladica, che fu relativamente tarda; risale infatti agli inizi dell’età dei metalli (metà del III° millennio a.C.), quando lo sviluppo della navigazione commerciale nell’Egeo portò alla valorizzazione dei giacimenti minerari delle isole (rame, ossidiana, marmo, smeriglio). Le popolazioni dell’arcipelago vissero di queste risorse, di traffici marittimi e più tardi anche di pirateria. Ciò, assieme alla situazione geografica, favorì la fioritura di una civiltà (cicladica) che, se ebbe intensi rapporti con le culture Anatoliche (Troia, Thermi nell’isola di Lesbo), e con quelle della Grecia continentale, di Creta e persino dell’Egitto, sviluppò tuttavia delle tendenze originarie e giunse ad espressioni d’arte tra le più alte della preistoria mediterranea. Fra i prodotti più caratteristici di questà civiltà furono i bellissimi vasi di pietra e gli idoli di marmo, che quasi sempre rappresentano con astratta e geometrica eleganza, una figura femminile con le braccia conserte: rinvenuti nelle tombe, essi indicano il rapporto tra il culto della dèa della fecondità e quello dei morti. Molto eleborata è anche la ceramica, decorata ad intagli e con complessi intrecci di spirali ricorrenti. Forme vascolari tipicamente cicicladiche sono le pissidi (scatole probabilmente per cosmetici), e le padelle (forse piatti per offerte rituali), che spesso recano oltre la consueta decorazione a motivi geometrici, anche raffigurazioni di navi; eloquente testimonianza della vita marinara di quelle genti. Queste infatti, giunsero a far sentire la loro influenza fino al Mediterraneo occidentale; le tipiche decorazioni cicladiche ad intrecci di spirali sembrano essere state imitate nei rilievi megalitici di Malta e gli idoli di pietra furono importati ed imitati anche in Sardegna. Dalle Cicladi sembra derivare la caratteristica usanza di seppellire i morti entro grotticelle scavate nella roccia, diffusasi poco prima del 2000 a.C.,in tutta l’Italia centro-meridionale. Nel secondo millennio a.C., le Cicladi furono soggette all’influenza e probabilmente al dominio di Creta. Ciò portò dapprima al sorgere di abi tati con carattere di nucleo urbano, come le tre cittadelle fortificate successive e sovrapposte, scoperte a Philacopy (isola di Milo); più tardi all’impoverimento delle isole, ed infine alla progressiva e inarrestabile decadenza di quella civiltà fino allora fiorente.
CICLICI
–Poeti greci che cantarono i fatti di Troia dopo Omero, completando la sua epopea.
CICLOPI
Figli di Urano e della Terra (Gea), Esseri giganteschi aventi un so lo occhio, fornitori di fulmini a Giove. Fabbri ed aiutanti del dio Vulcano, avevano la loro officina nell’Etna o, secondo altre fonti, nelle isole Lipari. Furono uccisi da Apollo per vendicare il figlio Esculapio, fulminato da Giove. La loro concezione, come quella di altri mostri, tendeva a fissare in forme concrete il caotico (caos), dialetticamente contrapposto al cosmico, ossia alle attuali forme dell’esistenza. Rispetto a tali forme i Ciclopi potevano essere immaginati come vissuti ”prima” o viventi ”fuori”, ovvero come esseri primordiali. I tre ricordati da Esiodo erano: Argo, Bronte, Sterone o Sterpe, che avevano fornito a Zeus il fulmine, l’arma con cui questi avrebbe imposto l’attuale ordine del mondo, e non come un popolo senza religione, senza leggi; selvaggio. Ricordati come bravissimi artigiani e costruttori sì che proverbiali rimasero le mura ciclopiche.
CICONI
Tribù dei Traci stanziati sulla riva orientale del fiume Nestus.
CIDIPPE
Cidippe (in greco antico Κυδίππη) era un personaggio della mitologia greca, sacerdotessa di Artemide e sposa di Aconzio.
Come racconta Callimaco all'interno degli Aitia [1], Aconzio, straordinariamente colpito dalla bellezza della giovane, escogita un sistema particolare per farla sua sposa e presa una mela, vi scrisse sulla buccia: "giuro per il santuario di Artemide di sposare Aconzio" e la inviò alla fanciulla.
Nel tempio della dea, lei lesse ad alta voce la frase senza accorgersi di compiere un giuramento solenne e nonostante suo padre la promise in sposa per tre volte ad altri uomini, per tre volte lei fu colpita da malattia ed il matrimonio non poté essere celebrato.
Cidippe infine, tramite un Oracolo comprese che i tre matrimoni furono impediti dalla dea Atena e prese Aconzio come sposo e generò due figli, Cleobi e Bittone..
Il mito viene riproposto anche nelle Eroidi di Ovidio[2].
(Ritorna a Bittone)
(Ritorna a Aconzio)
CIDNO
(Cydnus)
Fiume della Cilicia campestre (Asia Minore) modernamente chiamato Kara-su (acqua nera); scende dal Tauro. Scorre non lungi da Tarso e sbocca nel Mediterraneo dopo 60 km.di corso. Freddissime sono le sue acque;
CIDONIA
Antichissima citta dell’isola di Creta. Oggi Canea: di là fu portato in Italia il Cotogno, detto per ciò "malum cydonium" (melo di Cidonia).
CIERIUM
Antica città della Tessaglia, sede principale dei Beoti Eoli .
CIFONISMO
(Cyphonismus)
Specie di tortura o punizione usata dagli antichi. Presso i Greci cyphon era un pezzo di legno o collare, che si poneva ai rei, i quali erano perciò costretti a tenere bassa la testa.
CIELO
URANO
Nella mitologia greca il cielo cosmico, marito di Gea e formante con lei la prima coppia divina (cielo – terra), che generò i dodici Titani, i tre Ciclopi, e i tre Giganti (Continenti). Il più giovane dei Titani, Crono, lo domò, lo evirò, e assunse in sua vece il dominio del mondo.
CILICIA
Contrada (Regione) dell’Asia Minore, limitata ad ovest dalla Panfilia; al nord dal Tauro; ad est dall’Amano; a sud dal Mediterraneo. Il fiume Sarno la separava in due parti:.la occidentale montuosa, detta per ciò Trachea, e la orientale piana, chiamata Pedia. Vi davano accesso due strette gole; la Cilicia Pilae, o Pòrtae e le Amanides o Siriae Portae. I fiumi principali che la bagnavano erano: il Calycadnus, il Cydnus, il Sarus e il Piramus. Le sue principali città: Tarsus, Soli, Issus, Selinunte, e Selenica. Le più antiche memorie dicono la Cilicia governata da re, e quando essa divenne una delle satrapie persiane continuò ad avere i suoi re nativi, ma soggetti all’impero di Persia. La Cilicia divenne poscia provincia del regno di Macedonia. Seleuco e i suoi discendenti n’ebbero la sovranità, finchè Pompeo ridusse la parte orientale detta Campestre, Provincia Romana. Il resto fu sottomesso da Vespasiano.
CILLENE
- Cillene
- Cillene
- Cillene
- Cillene:
Antica città con porto nel Peloponneso (Elide), comunemente identificata con Chiarenza, ma posta probabilmente fra i promontori di Araxus e Cheronatas. E’ monte del Peloponneso (Arcadia) picco. Isolato e grandioso coronato da un tempio , di Mercuriooggi Zyria.
è nome di un monte della Morea (nome medioevale del Peloponneso).
(dal greco Κυλλήνη) o Giove XLVIII, è un satellite naturale irregolare del pianeta Giove. È stato scoperto da una squadra di astronomi dell'Università delle Hawaii nel 2003 ed ha ricevuto la designazione provvisoria S/2003 J 13.
Cillene è caratterizzata da un movimento retrogrado ed appartiene al gruppo di Pasife composto da satelliti retrogradi ed irregolari che orbitano attorno a Giove ad una distanza compresa fra 22,8 e 24,1 milioni di chilometri, con una inclinazione orbitale pari a circa 165°.
Trae il suo nome da Cyllene, figlia di Zeus, una naiade (ninfa delle sorgenti) o un'oreade (ninfa delle montagne) associata con il Monte Cillene (Grecia). Secondo certi autori Pelasgo avrebbe avuto da lei un figlio, Licaone, che divenne re dell'Arcadia. Altri autori fanno di Licaone lo sposo di Cyllene.
Nome della Ninfa che allevò Mercurio.
CILONE
Nobile ateniese che guadagnò il premio della doppia corsa ai giochi olimpici (640 a.C.). Sposata la figlia di Teagene, tiranno di Megara, concepì l’idea di farsi tiranno di Atene. Impadronitosi con audace colpo di mano dell’Acropoli, vi fu assediato dai nove arconti, finchè stretto dalla fame, si rifugiò all’altare delle Eumenidi, ove fu immolato con tutti i suoi seguaci.
CIMBER
o CIMERO L.TULLIO
Uno degli uccisori di Giulio Cesare; deluso dalle sue mire ambiziose, si unì ai cospiratori e si presentò al dittatore il 15 marzo 44 a.C., col pretesto di presentargli una petizione in favore del proprio fratello esiliato; gli gettò sul capo la veste e perciò gli altri congiurati ebbero agio di pugnalarlo. Quando Bruto e Cassio si recarono in Macedonia, Cimber rese loro buoni servigi, cooperando con la squadra.
CIMBRI
KIMBRI
Popoli celti o celto sciti, che scesero nelle Gallie ed in Italia un secolo circa avanti l'èra nostra. Abitavano il settentrione della Germania, specialmente lo Jutland, che da essi fu detto Chersoneso Cimbrico. Unitisi ai Teutoni, sconfissero i consoli Papirio Carbone (113 a.C.) Sostennero fiere guerre contro i Romani; ma avendo ardito entrare in Italia si trovarono di fronte Mario che li sbaragliò (101 a.C.) Da quell'epoca la storia fa appena qualche menzione dei Cimbri, ma la tradizione vuole che l'avanzo di essi si stabilisse nell' Elvezia (Svizzera) centrale e si suppone che gli abitanti dei cantoni forestali e dall'Oberland bernese siano loro discendenti.
Secondo le Res gestae di Augusto, i Cimbri erano ancora presenti nella penisola danese intorno all'anno 1.[3]
- (Augusto, Res gestae)
-
(LA)
« Classis mea per Oceanum ab ostio Rhéni ad solis orientis regionem usque ad fines Cimbrorum navigavit, quo neque terra neque mari quisquam Romanus ante ide tempus adit, Cimbrique et Charydes et Semnones et eiusdem tractus alii Germanorum populi per legatos amicitiam meam et populi Romani petierunt. » - (IT)
« La mia flotta ha navigato attraverso l'oceano, dalle bocche del Reno verso la regione del sole nascente fino alle terre dei Cimbri, presso i quali nessun romano era andato in precedenza né per mare né per terra, ed i Cimbri, i Carudi, i Semnoni ed altri popoli Germanici della stessa regione, con i loro ambasciatori chiesero l'amicizia mia e del popolo romano. »
CIMIERO
Elmo
CINCIA
Gente Plebea, di poca importanza: nessuno dei suoi membri ottenne mai il consolato; di essa si distinse per primo L. Cincio Alimento, pretore nel 209 a.C.. (Il cognome di questa gente era Alimento. Una legge romana, la quale prescriveva che nessuno doveva accettare un dono per una difesa giuridica; venne promulgata nel 204 a.C., dal tribuno del popolo M. Cincio Alimento.
CINCINNATO
- Lucio Quinto Romano
- Gaio Quinzio Cincinnato
- Lucio Quinzio Cincinnato,
- Gneo Manlio Cincinnato,
- Quinto Quinzio Cincinnato (Roma, ... – ...)
famoso per l’integrità del carattere; era ricco ma costretto a pagare una grossa ammenda pel figlio Quinto Cesone; vendette i pripri beni, si ritirò in una capanna oltre il Tevere, e quivi attese a coltivare un campicello residuo della sua antica opulenza, Secondo il Niebuhr, però, questa della multa di Cesone, sarebbe una finzione per dissimulare le strettezze in cui visse il grand’uomo. Nominato console nel 457 a.C., per calmare i tumulti della plebe. Cincinnato ottenne l’intento; poi rifiutò che i suoi uffici fossero protratti, e tornò alla sua capanna. Due anni dopo, nominato dittatore per combattere gli Equi, ottenne una decisiva vittoria; comandò poi un esercito contro i Volsci, pienamente li disfece ed ebbe gli onori del trionfo. Fu poi nominato interrege, quindi nuovamente dittatore, e quando Spario Melio parve volersi far re, anche in tale occasione Cincinnato seppe salvaguardare le insidiate libertà popolari.
Statua di Cincinnato
Jardin des Tuileries, Paris
(... – ...) è stato un politico e militare romano.
Nel 377 a.C. fu eletto tribuno consolare con Gaio Veturio Crasso Cicurino, Lucio Quinzio Cincinnato Capitolino, Publio Valerio Potito Publicola, Servio Sulpicio Pretestato, Lucio Emilio Mamercino[1].
Durante il tribunato Roma dovette far fronte alla solita minaccia dei Volsci, cui questa volta si erano uniti i Latini.
Organizzata la leva, l'esercito fu diviso in tre parti, uno a difesa della città, una a difesa della campagna romana, e il grosso fu inviato a combattere i nemici, agli ordini di Lucio Emilio e Publio Valerio.
Lo scontro campale si svolse nei pressi di Satrico e fu favorevole ai romani, nonostante la forte resistenza dei Latini, che dai romani avevano adottato le tecniche di battaglia. Mentre i Volsci si ritirarono ad Anzio, dove trattarono la resa, consegnando la città e le sue campagne ai romani[1], i Latini diedero fuoco a Satrico, e attaccarono Tuscolo, secondo loro doppiamente colpevole, perché città latina che aveva ottenuto la cittadinanza romana.
Mentre i Latini occupavano la città, i Tuscolani si ritirarono nella rocca, ed inviarono una richiesta d'aiuto ai romani. Questi inviarono immediati rinforzi agli ordini di Lucio Quinzio e Servio Sulpicio, riuscendo a sconfiggere i Latini, ed a liberare la città alleata[2].
(da wikipedia)
in latino Lucius Quinctius Cincinnatus (... – ...), è stato un politico romano del V secolo a.C. appartenente alla gens Quintia. Era figlio di Cincinnato e fratello di Cesone Quinzio.
Primo tribunato consolare
Fu eletto tribuno consolare una prima volta nel 438 a.C. con Mamerco Emilio Mamercino e Lucio Giulio Iullo.[1] Durante il suo tribunato la colonia di Fidene si ribello ai romani, cacciò la guarnigione presente a si alleò con il re di Veio Tolumnio uccidendo poi gli ambasciatori inviati da Roma.[2]
Guerra contro Fidene
Nel 437 a.C. fu Magister equitum sotto il dittatore Mamerco Emilio Mamercino.[2] Insieme a questo prese parte alla guerra contro Fidene, ed i suoi alleati, quando guidò lo schieramento centrale dei legionari romani opposto ai fidenati; l'esercito romano riportò una grande vittoria che fu celebrata con un trionfo[3].
Secondo tribunato consolare
Nel 425 a.C. fu eletto tribuno consolare per la seconda volta insieme ad Aulo Sempronio Atratino, Lucio Furio Medullino e Lucio Orazio Barbato.[4]
Terzo tribunato consolare
Nel 420 a.C. fu eletto tribuno consolare per la terza volta insieme Marco Manlio Vulsone, Lucio Furio Medullino e Aulo Sempronio Atratino.[5]
In quell'anno non ci furono scontri con le popolazioni vicine, ma in città ci furono tensioni per l'elezione dei questori, carica che anche per quell'anno fu ad appannaggio dei Senatori, anche se una nuova legge prevedeva che per quelli di nuova istituzione potessero essere eletti anche i plebei.
Gaio Sempronio Atratino fu portato in giudizio dai tribuni della plebe per la condotta della guerra contro i Volsci del 423 a.C., al termine del quale fu condannato a pagare a pagare una multa di 15.000 assi[5].
(da wikipedia)
in latino Cnaeus Manlius Cincinnatus (Roma, ... – 480 a.C.), è stato un politico e militare romano
del V secolo a.C.
Gneo Manlio apparteneva alla nobile gens Manlia, una delle più antiche e conosciute gentes patrizie dell'antica Roma, i cui cognomina più diffusi durante la Repubblica erano Capitolino, Torquato e Vulsone; il nomen Manlio viene frequentemente confuso con Manio o con Manilio.
Gneo Manlio, eletto console nel 480 a.C. insieme a Marco Fabio Vibulano[1][2], fu il primo membro di questa gens a raggiungere il consolato e da allora vari Manlii ebbero incarichi nella magistratura della repubblica.
In quell'anno Tiberio Pontificio, un tribuno della plebe, propose, come Spurio Licinio l'anno precedente, una legge agraria[3] cercando di ostacolare la leva militare[4], ma i senatori ed i consoli riuscirono a corrompere alcuni tribuni della plebe e ad effettuare il reclutamento: era l'inizio della guerra contro Veio, e più in generale contro l'Etruria, che durò fino al 476 a.C.[4].
Gli Etruschi si erano ammassati a Veio e riuniti all'esercito di quella cittadina non tanto per sostenerne la lotta quanto perché coltivavano la speranza di approfittare della debolezza di Roma conseguente alle accese lotte intestine[4]. Una volta che Romani ed Etruschi si furono insediati nei rispettivi accampamenti i due consoli, timorosi di affrontare gli eserciti alleati, evitarono dapprima il combattimento, trattenendo le proprie truppe. I nemici tentarono allora di provocarli insultando sia loro che le truppe, suscitando un profondo senso di rabbia ed una crescente impazienza di combattere il nemico[5]. Ulteriori provocazioni degli Etruschi esasperarono i soldati romani a tal punto da far temere un ammutinamento delle truppe; Marco Fabio convinse Gneo Manlio all'azione e fece giurare l'esercito, davanti agli dei, che la battaglia sarebbe stata vinta, pena la punizione divina sugli sconfitti.
La battaglia venne vinta da Marco Fabio ma a carissimo prezzo, poiché durante il suo svolgimento caddero prima Quinto Fabio, console due anni prima, e poi lo stesso Gneo Manlio[6][7]. Il console superstite, profondamente rattristato per la morte del fratello e del suo collega non accettò, in segno di dolore e di rispetto, il trionfo che il senato gli aveva riservato[8].
(da wikipedia)
è stato un politico romano del V secolo a.C.
Primo tribunato consolare
Nel 415 a.C. fu eletto tribuno consolare con Numerio Fabio Vibulano, Publio Cornelio Cosso e Gaio Valerio Potito Voluso[1]
In quell'anno i Bolani attaccarono i coloni romani di Labico, inviati l'anno prima, sperando nell'appoggio degli Equi, che però non intervennero. Furono facilmente sconfitti dai romani.
« Ma, mentre avevano sperato che tutti gli Equi approvassero e difendessero quel misfatto, abbandonati dai loro, persero terre e città in una guerra che non merita neppure di essere descritta perché si ridusse a un assedio da nulla e a una sola battaglia. »
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 4, 49.>)
Secondo tribunato consolare
Nel 405 a.C. fu eletto tribuno consolare con Aulo Manlio Vulsone Capitolino, Tito Quinzio Capitolino Barbato, Lucio Furio Medullino, Gaio Giulio Iullo e Manio Emilio Mamercino[2].
Roma portò guerra a Veio, assediando la città, che non riuscì a convincere le altre città etrusche a scendere in guerra contro Roma.
« All'inizio di questo assedio gli Etruschi tennero un'affollata assemblea presso il tempio di Voltumna, ma non riuscirono a decidere se tutte le genti etrusche dovessero entrare in guerra accanto ai Veienti. »
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 4, 61)
da wikipedia)
CINEA
Celebre oratore, discepolo di Demostene; recatosi nell’Epiro, divenne intimo amico di Pirro, il quale soleva dire che l’eloquenza di Cinea gli aveva aperto le porte di assai più città che le armi dei propri soldati. Cinea aveva scritto una storia della Tessaglia, che andò perduta; gli è attribuito il sunto che ci resta dell’opera sulla tattica di Enea di Stinfalo. Cinea è quegli che al tempo della calata di Pirro in Italia, tornato da Roma dove fu mandato ambasciatore, riferì a Pirro che il Senato romano eragli sembrato non un’adunanza di uomini, ma di re.
CINEGIRO
Cinegiro è ricordato per il coraggio che dimostrò nella battaglia di Maratona (490 a.C.) combattendo contro i Persiani. Erodoto narra che, mentre i Persiani fuggivano verso le loro navi ancorate sulla spiaggia, Cinegiro si aggrappò colla mano destra ad una di esse per trattenerla, morendo poi quando la mano gli venne tranciata.[1] Risulta invece inverosimile il resoconto di Giustino, secondo il quale Cinegiro si aggrappò prima colla mano destra, che gli fu tranciata, poi colla sinistra, tranciata anch'essa, e infine coi denti, lottando "come un animale selvatico rabbioso".[2]
L'esemplare coraggio di Cinegiro, divenuto molto famoso, venne citato da vari autori, tra cui Plutarco,[3] Valerio Massimo[4] e Svetonio.[5] Inoltre, l'unica opera superstite di Polemone è proprio un'orazione intitolata Epitaffi dedicata ai caduti di Maratona, in particolare Cinegiro e il polemarco Callimaco. Secondo Plinio il Vecchio il pittore Paneno lo dipinse tra i generali che avevano preso parte alla battaglia (Callimaco e Milziade per parte ateniese, Dati e Artaferne per parte persiana).[6]
Cinegiro divenne pertanto un emblema del coraggio e delle virtù belliche, tanto che pare venisse eretta una statua in suo onore nella stoa poikile di Atene; Luciano di Samosata racconta infatti che il filosofo Demonatte, vedendo il monumento - in cui il soggetto scolpito aveva tra l'altro una mano amputata - vi riconobbe senza esitazione il fratello di Eschilo.[7] Cinegiro fu ricordato anche da Libanio[8] e Paolo Silenziario gli dedicò un epigramma incluso nell'Antologia Palatina.[9]
(da wikipedia)
CINETO
Rapsodo di Chio, vissuto verso il 500.a.C.; gli viene generalmente attribuito l’inno omerico ad Apollo, e forse egli fu il primo rapsoda dei poemi omerici in Siracusa.
CINETONE
Poeta ciclico di Lacedemone, fiorito verso il 765 a.C.. scrisse la Telegonia, che conteneva la storia di Ulisse, dal punto in cui finisce l’Odissea, fino alla sua morte. Genealogie, Eracleia; Elipedia; la Piccola Iliade.
CINICI
Antichi filosofi greci che presero nome da Cinosarge. Ginnasio posto fuori delle mura di Atene, dove Antìstene, fondatore della setta, cominciò a fare le sue lezioni. Secondo altri, tal nome sarebbe derivato dall’aggettivo, canino, introdotto a significare la mordacità, con la quale i cinici censuravano i costumi corrotti, i pregiudizi, le superstizioni, i grossolani errori ecc. Cotesti filosofi pretendevano far rifiorire, in una società guasta, i costumi semplici dell’uomo in istato di natura; facevano guerra al vizio, ma osteggiavano altresì ogni gentile costumanza. Poveramente ed anche squallidamente vestiti, per ispirare il disprezzo della ricchezza, dormivano nelle strade, e davano l’esempio di severe virtù. Essi spinsero l’austerità fino a proscrivere le arti e le scienze, e l’opinione pubblica li abbandonò, fascendoli bersaglio al motteggio ed anche alla persecuzione. La loro scuola non è paragonabile certo né alla socratica, né alla platonica, né all’aristotelica per il valore speculativo delle dottrine; è però notevole per le pratiche applicazioni. Con Diogene, Menippo, ecc., la reputazione della setta mandò le sue ultime scintille, e si dileguò completamente nel 250 a.C. Poi il cinismo divenne sinonimo di rozzezza, indifferenza, insensibilità, immoralità.
CINIFIONE
o CINERARIO
Si chiamava quello schiavo romano che aveva l’ufficio di riscaldare i ferri (calamistri), con cui si inanellavano i capelli. Ad esso erano pure affidate le pomate, le polveri da colorire i capelli, e tutto ciò che serviva all’acconciatura della testa.
CINIRA
Eroe mitologico, figlio di Apollo, re di Cipro e di Pafo, sacerdote di Venere Pafia. Secondo Tacito, Cinira sarebbe giunto a Cipro dalla Cilicia, recando il culto di Afrodite. Avendo poi scoperto di aver avuto commercio incestuoso colla propria figlia Smirna, si uccise. Secondo altre tradizioni egli aveva promesso di aiutare i Greci nella guerra contro Troia, ma avendo mancato alla parola fu maledetto da Agamennone e ucciso da Apollo. Le sue cinquanta figlie balzate in mare, furono mutate in alcioni.
CINNA
Nome di parecchi illustri romani. Cinna Lucio Cornelio, patrizio, fu partigiano di Mario e console con Papirio Carbone (84 a.C.). Morì in un ammutinamento delle truppe che voleva condurre contro Silla. - Cinna Cneo Cornelio, nipote di Pompeo Magno, cospirò contro Augusto che generosamente gli perdonò e lo promosse al consolato. - Cinna C. Elvio, poeta contemporaneo, compagno e amico di Catullo, fu ucciso dopo i funerali di Giulio Cesare dalla plebe infuriata che lo scambiò con Cornelio Cinna, il cospiratore contro il dittatore.
CINOCEFALE
Antico nome di certe piccole montagne della Tessaglia, dove i Romani sotto Tito Quinto Flaminio, riportarono una vittoria su Filippo, figlio di Demetrio, re della Macedonia e posero fine alla prima guerra macedonica (197 a.C.).
CINOCEFALI
(dal greco testa e cane)
Titolo dato dagli antichi tanto agli uomini quanto a mostruose immagini di divinità. Gli antichi stessi credettero all’esistenza di una nazione di cinocefali, che collocarono nell'India, essendo naturale che le cose credute favolse si ponessero in luoghi remoti e male conosciuti. Ma, se questa nazione era favolosa, esistevano veramente idoli cinocefali nell’Egitto, dove la religione ha consacrato tutte le mostruosità e i sogni più stravaganti. Quivi troviamo le specie di cinocefali, sebbene, a dir il vero, impropriamente così chiamati. L’uno è Anubi, rappresentato con testa di cavallo, che comunemente è presa per quella di un cane, ed anche di un lupo: l’altro è Toth, che, sebbene qualche volta porti capo umano, è spessissimo quello di un’ibi è tuttavia anche rappresentato con testa di scimmia cinocefala, o con corpo intero di scimmia. I monumenti dell’Egitto rappresentano molte figure con testa di questa sorta e i sepolcrali, in particolare, abbondano di geni dell’Amenti (Inferno), distinti per teste di sciacallo. Questa strana trasformazione di dei in animali, qualunque ne fosse la significazione mitica, era in Egitto così immedesimata con la religione che in certe processioni i sacerdoti apparivano in pubblico con maschere cinocefale.
CINOFONTIDE
Festa che si celebrava in Argo in occasione della quale si solevano uccidere tutti i cani che si incontravano.
CINOSURA
Gli antichi chiamavano così la costellazione dell’Orsa Minore. Questo vocabolo significa testa di cane.
CIPRIA
- CIPRIDE - CIPRIGNA
Epiteto di Venere in quanto adorata nell’isola di Cipro.
CIPRO
La più grande isola del Mediterraneo orientale. Stato dell’Asia occidentale, è situata a circa 65 km., dalle coste della Turchia e a 85 Km. dalle coste della Siria. Indipendente dal 1959, che ha posto fine alla sovranità inglese. Repubblica presidenziale nell’ambito del Commonwealth Britannico, è suddivisa in sei distretti che prendono nome dai sei capoluoghi, con capitale Nicosia. E’ la terza isola del Mediterraneo dopo la Sicilia e la Sardegna; attraversata da due catene di monti, che si possono considerare la pro secuzione del sistema turco del Tauro, e quindi un prolungamento della vicina Asia Minore. La capitale Nicosia è città antica con vari monumenti civili e religiosi d’interesse storico ed artistico, e conserva in parte un’aspetto orientale. I capoluoghi, tutti sulla costa sono: Limassol, affacciata alla baia di Acrotiri, centro portuale con un antico castello veneziano del XII°secolo. Famagosta, sulla baia omonima, città ricca d’arte e di storia, con attivo porto cui fa parte un retroterra agricolo vasto e fertile; Làrnaca, anch’essa centro portuale, Pàfos, sulla costa occidentale, e Kyreneia, su quella settentrionale.
CENNI STORICI
Le sue prime vestigia di civiltà risalgono all’età del bronzo. Nell’XI s.a.C., fu colonizzata dai Greci, dai Fenici, dagli Assiri. Nel VI s,a.C., dagli Egiziani, nel IV s.a.C., dai Persiani, ed ancora dai Greci. Fu infatti Evagora (411-374 a.C.), Signore di Salamina che eliminò l’occupazione fenicia ed istaurò un illuminato governo monarchico. Con la pace di Antalcida (386) tra Greci e Persia ni, passò a questi ultimi. Ribellatasi nel 350 si affidò ad Alessandro Magno, cadendo dopo la morte di questi, sotto il dominio dei Tolomei d’Egitto. Nel 58 a.C., l’isola fu conquistata dai Romani ed entrò a far parte del l’impero quale provincia, prima imperiale e poi senatoria. Diviso l’impero romano nel 395 d.C., fece parte della diocesi d’Oriente e in tale periodo l’isola godette di grande prosperità, fino alla conquista araba del 649 d.C.. Riconquistata da Niceforo Foca (963-969), si distaccò dall’impero nel 1184 in seguito alla ribellione del governatore Isacco Comneno proclamatosi re. Al dominio dei Comneno pose fine Riccardo Cuor di Leone, che si impossessò di Cipro durante la terza crociata, poiché era stata negata l’ospitalità alle sue navi, cedendola poi a Guido di Lusignano, che,nel 1196 ottenne il titolo di re; regnando fino al 1474. Cipro, quale stato franco del levante, mantenne buone relazioni con Venezia e Genova che vi instaurarono loro colonie. Fino al 1473 predominò l’influenza genovese, poi predominò quella veneziana in seguito al matrimonio di Giacomo II°d’Antiochia Lusignano e la veneziana Caterina Corsaro. Alla morte del marito la Caterina Corsaro mantenne il trono fino al 1489 quando Venezia la costrinse ad abdicare in suo favore. Il dominio veneziano ebbe termine nel 1571 con l’occupazione turca, dopo l’estrenua difesa di Famagosta da parte di Marc’Antonio Braga. I Turchi insediatisi, restarono a Cipro tre secoli, fino al 1878 quando la Gran Bretagna, con il loro consenso ottenne l’amministrazione dell’isola in cambio dell’aiuto dato alla “Sublime Porta”, al Congresso di Berlino.
Nel 1914 la Gran Bretagna si annettè l’isola, e il possesso le fu riconosciuto dai trattati di Sèvres del 1920 e di Losanna nel 1923. Nel 1959 il governo Inglese proclamò l’isola di Cipro colonia della Corona Britannica sotto un governatore coadiuvato da un Consiglio esecutivo e un Consiglio legislativo. Fra i Ciprioti di origine Greca che costituivano l’80% della popolazione, e il resto di origine Turca, era sorto all’inizio del XIX° secolo un movimento per l’unione (enosis) alla Grecia. Nel 1931 questo movimento provocò disordini e induse il Governo Britannico a sciogliere il Consiglio legislativo e affidare tutti i poteri al governatore in carica. Dopo la seconda guerra mondiale, il movimento riprese più vigoroso e nell’ottobre del 1946 il Governo Britannico chiamò tutti i partiti a partecipare alla riforma costituzionale in una Assemblea legislativa che fu sciolta nel 1948, per aver respinto un progetto di soluzione inglese Nel 1950 l’Arcivescovo Makarios, indisse un plebiscito clandestino che dette parere favorevole all’unione con la Grecia. Da parte Britannica si continuò a respingere ogni proposta di soluzione, nonostante la Grecia avesse investito della questione l’ O. N.U., e il terrorismo dell’ E.O.K.A., guidato dal colonnello Givas. Fallita una conferenza tra il ministro degli Esteri Britannico, Turco e Greco (Londra-1955), fu proclamata la legge marziale e l’arcivescovo Makarios, accusato di complicità con l’E.O.K.A., deportato nelle isole Seicelles. Un progetto di costituzione presentato nel 1956, da Lord Radcliffe che prevedeva l’auto-governo ma non l’autodeterminazione fu respinto dal Governo Greco. Nel 1957 l’Arcivescovo Makarios venne liberato, e l’E.O.K.A., sospese gli atti terroristici e cessò la legge marziale. Nel 1958 il Governo Britannico propose un primo settennale di collaborazione tra Gran Bretagna, Grecia e Turchia seguito dall’autogoverno. Il piano non fu accettato, neppure in un’altra forma modificata da Atene che insisteva per l’autodeterminazione e da Ankara che voleva la spartizione dell’Isola. Un tentativo mediatico della N.A. T.O., fallì per l’intransigenza britannica. La soluzione al problema fu individuata dalla proposta del Makarios di creare uno Stato indipendente, fondato sull’intesa fra le due comunità etniche. I colloqui Turco-Greci iniziati nel 1958 si conclusero con gli accordi di Zurigo l’anno seguente, cui fecero seguito gli accordi di Londra dello stesso anno e l’indipendenza prevista per il febbraio del 1960, fu proclamata nel l’agosto successivo. Presidente della Repubblica Cipriota venne nominato l’Arcivescovo Makarios. La vita del giovane Stato si rivelò ben presto molto difficile per gli antichi attriti esistenti tra la maggioranza greca e la minoranza turca. Essi esplosero in aperta guerra civile nel 1963, allorché Makarios propose modifiche alla costituzione, che furono però ritenute favorevoli ai greci-ciprioti. A rendere più pericoloso il conflitto contribuì l’ingerenza di circoli nazionalistici greci e turchi. La Turchia giunse nel 1964 a bombardare alcune località dell’isola. L’O.N.U., decretò allora l’intervento di proprie truppe che riuscirono a far cessare i combattimenti, ma non gli scontri, che continuarono a susseguirsi pur con minore intensità. Non meno complessa si presentava l’organizzazione della vita politica, dalla quale la comunità turca continuava ad astenersi, pur non riconoscendo valide le decisioni del governo e della Camera. Fra le ultime vi erano la proroga di un anno dei poteri al presidente Makarios, concessa nel 1966. Il colpo di Stato greco del 1967, con la nomina dell’ultranazionalista col. Givas a comandante delle forze armate greco-cipriote, e lo sbarco abusivo di contingenti di truppe greche e turche finirono per rendere incandescente la già tesissima atmosfera dell’isola, ove la possibilità dell’ENOSIS era sempre più chiaramente ammessa. Nel 1967, gruppi di armati greco-ciprioti, attaccarono due villaggi abitati da popolazioni turche, causando ventiquattro morti. La reazione della Turchia fu immediata; l’esercito posto sul piede di guerra e la flotta turca prese posizione nei porti dell’isola e la Grecia seguì senza indugio l’esempio turco. La Turchia inviava alla Grecia un ultimatum,con il quale chiedeva l’allontanamento dall’isola del Civas ritenuto il maggior responsabile dell’incidente. Il Governo greco ordinò al colonnello il rientro in Patria e riprese le trattative con la Turchia, sostituendolo con l’ex diplomatico Pimpinelis, più addatto dei “colonnelli” a trattare la spinosa questione. Il pericolo di uno scontro armato tra le due nazioni (membre entrambi della N.A.T.O), provocò l’intervento del segretario generale dell’Organizzazione Atlantica, Manlio Brosio, di un emissario speciale del presidente degli Stati Uniti d’America, L.Johnson e di un rappresentante del l’O.N.U. La vicenda si concluse dopo complesse trattative nel dicembre del 1967, con la sostanziale accettazione da parte greca delle richieste turche, mentre l’O.N.U., si è resa garante dell’indipendenza dell’isola.
CENNI DELL’ARTE CIPRIOTA
La sua posizione geografica nel Mediterraneo, fin dalla più lontana preistoria, ebbe la funzione di ponte tra le civiltà d’Oriente e l’Europa. Nel IV° millennio a.C., i primi nuclei di colonizzatori pro venienti dall’Asia Minore, ove l’agricoltura s’era precocemente sostituita alla caccia e alla raccolta come base delle risorse economiche, introdussero anche nell’isola la nascente civiltà agricola. A questo periodo appartengono i resti del villaggio Chirochitìa, i cui abitanti adoperavano vasi di pietra, non conoscendo l’uso del vasellame di argilla cotta, e vivevano nelle case con pareti di fango impastato e dal tetto a forma di cupola. In una fase più avanzata dell’età neolitica, s’introdusse l’uso del vasellame d’argilla ed anzi, questi primi prodotti ciprioti mostrano già una notevole abilità tecnica. Hanno una bella superficie rosso lucida e talvolta decorati con motivi ornamentali dipinti. Ma è solo nell’età del bronzo che Cipro raggiunge quella fioritura economica, dovuta alle ricchissime miniere di rame (il suo stesso nome potrebbe derivare dal nome latino del rame “cuprum”, oltre che al legname per la costruzione di navi offerto dalle vaste foreste, che dove poi durare per tutta l’antichità classica. Durante la prima (1800-1600 a.C.) e la seconda (1600-1300 a.C) età del bronzo, visse sotto l’influenxza delle grandi civiltà orientali; d’apprima dell’Anatolia occidentale, poi, soprattutto della Siria, della Palestina e dell’Egitto; a quest’e poca risale la costruzione della fortezza di Nitovikla, di cui restano le mura ciclopiche, con due torri ai lati dell’ingresso. Di muratura moderna erano le case di abitazione, costruite di pietra, tenute assieme col fango, ma articolate in piante complesse, con cortile e vari ambienti, come appare nel villaggio di Ambelikon. Con la tarda età del bronzo (1300 – 900 a.C.), gli abitanti si legarono in rapporti sempre più stretti, sia commerciali che culturali, con il vicino mondo delle civiltà egee, tanto che si giunse in alcune zone dell’i sola, ad una vera e propria colonizzazione da parte di genti micenee. Fu allora che Encomi divenne un importante centro del commercio marittimo controllato dai navigatori achei. Ma nel XIII e XII secolo quando quest’impero entrò in crisi, anche Cipro ne avvertì la scossa, e dovette subire invasioni e devastazioni da parte di quegli stessi popoli del mare che fecero crollare il regno ittita e mi nacciarono seriamente quello egizio. Dopo le invasioni del popolo del mare, fu proprio per la sua posizione geografica a sottostare ai Fenici e successivamente agli Assiri. Nel VI secolo risentì dell’influenza culturale dell’Egitto. Allo scoppio delle guerre persiane l’elemento greco si affiancò agli ittiti, mentre alterne vicende successive portarono l’isola a periodi di indipendenza, poi, sotto il dominio dei Tolomei dell’ Egitto, finchè con la morte dell’ultimo di essi, fu lasciata in eredità ai Romani, che, dal 58 a.C., ne fecero una loro provincia, tranne il breve periodo in cui appartenne al regno di Cleopatra. Le manifestazioni artistiche cipriote mantennero, rispetto a quelle greche un carattere di grande indipendenza e risentirono in modo particolare di quelle orientali. Non vi sono resti di edifici pubblici, tranne il grande palazzo di Vouni (V°s.a.C.), che è ben lontano dai cànoni architettonici greci. Anche i luoghi di culto non hanno nulla a che vedere con gli edifici templari greci. Elemento comune a tutti i santuari ciprioti è un grande cortile centrale, attorno al quale si dispongono senza nessuna legge altri cortili più piccoli e vani diversi. La scultura inizia con caratteri propri dal VII°s.a.C., o secondo alcuni studiosi alla seconda metà del secolo VI°; agli inizi si può riconoscere un influsso assiro, in seguito egiziano. Via, via, l’influenza greca si fa evidente, ma soprattutto quella attica, ma con il legarsi di Cipro all’Egitto tolemaico, si stabilisce un’arte ellenistica comune, in cui si riscontra un grande fiorire della scultura ispirata ad un fresco realismo. Dell’epoca romana ci sono pervenuti numerosi ritratti e teste votive.
CIPSELO
Tiranno di Corinto, figlio di Aezione; da fanciullo fu sottratto dalla madre alle persecuzioni dei Bacchiadi, col tenerlo nascosto in una cassa. Regnò trent’anni, cominciando nel 658 o 655 a.C.
CIRCE
Secondo la mitologia greca, una figlia del dio Sole (Elio) e di Perseide. Signora della magìa, viveva in un’isola lungo la costa occidentale d’Italia ed abitava in un palazzo costruito in pietra lucente attorniata da leoni e lupi ammansiti.Tesseva e lavorando cantava. E’ricordata nell’Odissea quando Ulisse approdato all’isola Eea (localizzata dagli antichi presso il Circeo), dove viveva la maga, trascorse un anno presso di lei, che con la sua arte aveva trasformato i suoi compagni in porci, e la costrinse a ridonare la forma umana ai suoi compagni.. Prima di ripartire ella lo avvertì che per tornare salvo in patria, doveva visitare le regioni infernali e chiedere consiglio a Tiresia. Una tradizione greco-italica, voleva che dalla maga Circe e Ulisse fossero nati due figli, Agrio e Latino. Con ogni probabilità Omero attinse il mito della Circe dalle gesta degli Argonauti. La leggenda vorrebbe far derivare la colonia romana dei Circei dal suo nome, ma tale attribuzione è storicamente errata.
CIRCENSI
Giochi; istituiti da Evandro e si celebravano in onore di Nettuno. Di una festa eroica o pastorale, i Romani ne fecero poi uno spettacolo di sangue, traendovi i condannati a combattere contro le fiere. Il popolo ne fu appassionatissimo, tanto che restò celebre il grido ”panem et circenses”. I giochi si celebravano a Roma il 13 agosto o il 15 settembre e duravano cinque giorni.
CIRCO
Edilizio romano somigliante allo Stadio greco; in origine non era altro che uno spazio piano e scoperto, intorno al quale s’innalzavano dei palchi provvisori di legno per allogarvi gli spettatori. Anzi, si ha ragione di credere che vi fossero pochi sedili, riservati alle persone più distinte. Secondo parecchi storici, i giochi del Circo furono istituiti da Romolo e la prima volta che furono celebrati, diedero occasione al ratto delle Sabine. Sembra inoltre, e bisogna tenere questo linguaggio, perché diverse sono le notizie che si hanno intorno all’epoca dei re. Sembra che uno dei Tarquini fissasse la celebrazione dei giochi del Circo, nella valle Murcia tra il Monte Aventino e il Palatino, facendovi costruire un primo circo in pietra. Quel circo fu, per molto tempo, il solo che avessero i Romani; ma la loro predilezione per gli spettacoli che si davano (corse, giochi di Troja, pugne equestri, lotte ginnastiche, cacce, naumachìe), essendo cresciuta con la potenza e con la ricchezza loro, fino quindici circhi si contavano sotto gli imperatori, sì nel recinto della città, che nei dintorni. La religione autorizzava questi edifici, che venivano consacrati. Il tempo e la mano dei barbari li hanno tutti distrutti; altri monumenti vi furono sostituiti, e dalle sole rovine di quello di Caracalla, si può arguire qual’era la loro forma e disposizione. Questo circo era situato poco lungi dalla via Appia, a circa due miglia da Roma. Esso presenta un semicerchio, nel mezzo del quale s’apre la porta principale; le sue estremità si prolungano in modo da formare due ali, di cui la destra entrando è la più corta della sinistra, e questa, verso i due terzi della sua larghezza, sporge in fuori con una curva, molto visibile. Poco dopo il punto centrale del semicerchio, comincia un massiccio, detto spina. Il punto di mezzo di questo spazio è il centro d’un elissi, che congiunge le due ali, e chiude il circo. Sul piano dell’elissi vi sono una porta e sei carceres, o rimesse; da ciascuna parte i loro centri tendono tutti in quello dell’elissi, la quale è terminata da due torri; l’una di esse ha una scala per salire sulle carceres. Altre porte sono ai piedi di queste torri e servono all’ingresso e all’uscita della “pompa trionfale”, che faceva il giro del circo e precedeva la corsa dei carri. I posti sul lungo e libero spazio lasciato fra la spina e le carceres, erano i più comodi e quivi l’imperatore aveva il suo seggio, detto “maenianum”, situato all’ala destra. I consoli e i senatori avevano i loro seggi nel ”podium”; di la si vedevano distintamente le carceres, ed essi potevano dare facilmente il segnale a coloro che attendevano per aprire le porte di esse carceres, dei carri impazienti di lanciarsi nella corsa. Un canale detto“euripo”, separava, nella maggior parte dei circhi, l’arena, dagli spettatori, garantendoli dall’urto e dalla caduta dei carri. L’euripo c’era, ad esempio nel Circo Massimo, la cui fondazione viene attribuita a Tarcquinio Prisco. Questo circo fu ampliato da Cesare, abbellito da Augusto, e incendiato sotto Nerone. Fu poi restaurato da Trajano, ma crollò in parte sotto Antonino. Rialzato ancora ed arricchito d’un secondo obelisco sotto Costanzo, disparve infine col tempo ed alcune ruine attestano appena la loro passata esistenza. Questo edilizio era lungo mt.690 e largo mt. 317. Oltre questo circo famoso nella storia romana, d’un altro è rimasta memoria;, quello che, ai tempi di Cesare fu innalzato da Cajo Scribonio Curione, per dar feste pubbliche nelle esequie del padre. Consisteva in due capacissimi teatri, l’uno accanto l’altro e versatili sopra perni, per modo che potevano girare e formare un anfiteatro. Un altro ne fece Giulio Cesare, quando inaugurò il suo “Foro”(768 di Roma)), e vi pose i sedili attorno. Come già sopra accennato il primo circo di pietra fu creato da Statilio Tauro in Campo Marzio nel 723 di Roma, al posto che ora è Monte Citorio. I circhi erano destinati ache alle lotte dei gladiatori, e purtroppo nell’epoca delle persecuzioni contro i cristiani, al supplizio di questi, che venivano abbandonati al furore delle belve inviate dalle provincie soggette dell’Asia e dell’Africa. Tra i circhi romani il più famoso, come ben si sà, il Colosseo.
CIRENAICI
Nome dato ad una setta di filosofi seguaci della dottrina di Aristippo, nativo di Cirene; in genere si può dire che il loro sistema differiva da quello di Epicuro solo in ciò, che essi ponevano il grande obiettivo dell’uomo nella ricerca attiva del piacere, mentre Epicuro lo faceva consistere in un perfetto riposo della mente e dell’andare esente da dolore.
CIRENE
La città antica diede nome all’intera regione (Cirenaica). Illustre città dell’Africa settentrionale, vicina al Mediterraneo, fu la principale della Cirenaica e la più commerciale dopo Cartagine. Fondata da una colonia dell’isola greca di Tera nel 631a.C., ebbe dapprima una serie di re, poi, sembra intorno al 450 a.C., vi si stabilisse un governo repubblicano. La città passò dunque per una serie di mutamenti e di discordie intestine, finchè fu conquistata nel 331 a.C., da Alessandro Magno. Dopo la sua morte fu soggetta all’Egitto sotto il regno del primo Tolomeo (regno dei Lagidi) fino a Tolomeo Fiscone, che la diede al primo figlio naturale Apione, che nel 97 a.C., la cedette ai Romani. Di Cirene restano numerose rovine, di cui innumerevoli tombe scavate nella roccia costruite in pietra, templi d’ordine dorico, avanzi di due teatri, di un anfiteatro, d’un acquedotto, ecc. Ebbe una scuola di medicina, celebre ai tempi di Erodoto. Fu patria di Callimaco, Aristippo e Carneale, fondatore della nuova Accademia. Nei primi tempi della Chiesa fu sede di un Vescovo. Forse centro d’origine dell’eresia sabelliana , tutta la regione divenne teatro di lotte sanguinose tra eretici, pagani e cristiani, si che ne conseguì che la civiltà andò quasi smarrita. A partire del‘700 fu visitata da esploratori occidentali, finchè divenuta la Libia colonia italiana, fu scavata per circa trent’anni da archeologi italiani. Situata a 15 km.dal mare, controllava tutta la regione, e la sua prosperità economica derivava esclusivamente dall’agricoltura. La sorgente chiamata “Fonte di Apollo”condizionò l’origine e l’esistenza della città. Al di sotto della fonte, il santuario di Apollo consiste in un recinto comprendente il tempio del dio e altri minori; più a Sud il quartiere dell’agorà e l’acropoli; ad Est la collina con il tempio di Zeus. Importante resto del periodo romano (Is.d.C.), è il cosìdetto Cesareo, cioè il foro di Cirene. Traiano costruì nel recinto di Apollo grandi edifici termali, in cui è venuta alla luce la più celebre delle moltissime statue in marmo che gli scavi hanno reso. Oggi, villaggio di una certa importanza ha nome Curin.
CIROPOLI
Città dell’Asia, situata sulle sponde del Jassarte, fondata da Ciro, da cui prese il nome; chiamansi pure Cirescata. Fu distrutta da Alessandro, il quale vi costruì una città detta Alessandria ultima. Si crede che l’attuale Cogent corrisponda a Ciropoli.
CIRPHIS
Catena di monti della Focile, parallela al Parnaso a sud del Pleisto
CIRRA
Città della Focide, sul golfo Crisseo, presso l’imboccatura del Plei sto, che discende nel Parnaso. Secondo Gell, le rovine di Cirra trovansi vicino il villaggio di Xeno Pegadia, su d’un poggio presso la costa e i molti letti del Pleisto.
CIRTA
Antica città della Numidia, residenza dei re dei Massyli, di Siface, di Massinissa e d’altri; era centro di parecchie vie, sopra un ramo dell’Ampsagu, è fortificata. Sotto i Romani fu colonia della Julia. Costantino la rialzò dalla decadenza, le diede il suo nome e tuttora dicesi Costantina.
CISIO
Veicolo celere e leggero simile al nostro calesse, usato dagli antichi Romani quando volevano recarsi da un luogo ad altro colla massima velocità. I conduttori si chiamavano ciliarii, ed erano soggetti a severi castighi se si fossero mostrati negligenti o troppo arrischiati nelle corse.
CISPA
Gens.
Era plebea e originaria dall’Anagnia, città degli Ernici; nessuna persona di questo nome è citata però fino alla fine della Repubblica; il solo cognome di questa Gens è Leno.
CITERA
Citèra è l'antico nome dell’isola di Cerigo nella Laconia in cui si deve la nascita di Venere e riti particolari; da quì l'epiteto di Citerea. Pone il Foscolo che Citèra fosse già nei primi tempi un istmo che la congiungeva alla Laconia, di poi sommerso nel mare; da ciò il fenomeno di quelle specie d'isole vicine al continente.
CITERONE
- Citerone
- Citerone
Catena di alte montagne che divideva la Beozia dalla Megaride e dall’Attica. Fu teatro della metamorfosi di Atteone, della morte di Penteo, dell'esposizione di Edipo, ecc.
Nella mitologia greca, Citerione o Citerone era il nome di uno dei re di Platea (Beozia), predecessore di Asopo. A lui si deve il nome dell'omonima montagna della Grecia.
Citerione fu partecipe di una disputa fra il padre degli dei Zeus e sua moglie Era. Zeus non era riuscito a sedurre la moglie e chiese consiglio a Citerione come era solito a quei tempi chiedere consigli agli umani che riteneva degni. Il suo consiglio fu quello di creare una statua di donna fatta di legno, Citerione poi diffuse la notizia che era l'amante del dio quindi Era venne e una volta scoperto l'inganno rise e fece pace con il marito.
Pareri secondari
Secondo altri pareri invece Citerione era un giovane molto bello, amato da Tisifone, una delle Erinni. L'uomo non volle saperne di lei e Tisifone, con i suoi poteri, trasformò uno dei capelli del giovane in un serpente che lo morse uccidendolo mentre si trovava su un monte che da allora prese il suo nome (secondo una variante fu un serpente della chioma di Tisifone a morderlo).
Altra storia sempre collegabile al suo mito lo vedeva fratello di Elicone, i due avevano caratteri opposti e Citerione finì per uccidere sia suo padre che suo fratello, facendolo precipitare da un monte; in quella circostanza cadde anch'egli, e dai due si ebbero i nomi delle due montagne vicine.
(da wikipedia)
CITIUM
Città dell’isola di Cipro di cui si vedono tuttora i resti presso Lamarka. Vi morì Cimone, ateniese, nel 449 a.C. e vi nacque Zenone il filosofo.
CITNO
(Citnos)
Isola dell’arcipelago, una delle Cicladi tra Ceo e Serifo, colonia an tichissima dei Dropi, una delle tribù primitive della Grecia, e detta perciò anche Driope. I suoi abitanti presero parte alla famosa battaglia di Salamina contro i persiani nel 480 a.C. Il suo nome moderno Termia trae origine dalle sue molte terme, assai frequentate dai Greci.
CIZICENE
Presso i Greci si chiamavano così le sale da conviti ch’erano rivolte a settentrione e mettevano nei giardini. Trassero il nome da Cizico, città della Misia, famosa per la bellezza dei suoi edifici.
CL-CN
CLADEUS
Fiume dell’Elide, tributario dell’Alfeo.
CLAMIDE
Parte dell’esterno abbigliamento dei Greci, distintivo che rammentava loro l’affinità con gli Orientali che di sciarpe, veli, scialli e pepli non difettarono mai. Corto mantello leggero proveniente dalla Tessaglia e dalla Macedonia, usato dai greci nei viaggi, in guerra e in occasione di parate, poi dai Romani, che ne fecero il mantello del supremo comandante dell’esercito. Di forma rettangolare, ma terminante ad un lato in un semicerchio, si fermava sul petto e sulla spalla.
CLARONISSI
Gruppo di piccole isole spettanti all’isola di Cefalonia, alla bocca del golfo di Lepanto.
CLARUS
Città della Lidia vicina a Calofone, celebre per un oracolo di Apollo.
CLASSIARIO
(Classiarius)
Nome che i Romani davano al soldato che era di presidio nei luoghi marittimi o sui fiumi.
CLASSICISMO
Con questo termine è indicato l’atteggiamento di quegli artisti, scrittori, poeti, critici ecc., che a fondamento dell’arte, pongono un’idea universale, eterna, immutevole della bellezza, concepita come ordine, misura, equilibro rasserenante, e tale idea, trovano realizzata una volta per sempre in opere alle quali viene attribuito un valore esemplare e normativo. In questo senso generalissimo, il classicismo è presente in tutti i tempi, e in tutti i Paesi, contrapponendosi all’ideale, anch’esso universalmente presente, di arte concepita come invenzione assolutamente libera da modelli e da regole, e svincolata anche da ogni precostituita idea del bello. Storicamente il classicismo e l’anticlassicismo si presentano ogni volta in forme, così come la loro contrapposizione si atteggia in modi diversi, secondo il variare delle situazioni di cui il classicismo e l’anticlassicismo esprimono gli ideali estetici contrastanti; in sé non è un pregiudizio, così come l’anticlassicismo comunque orien tati. Pregiudizi diventano entrambi ogni volta che i fautori dell’uno o dell’altro, presumono di far coincidere la distinzione tra classicismo e anticlassicismo con quella fra il bello e il brutto o fra l’arte e la non arte. Già nel I°s.a.C., Cicerone aveva parlato di alcune statue di Fidia come esemplare su un’eccelsa forma di bellezza e poco più tardi Orazio affermava nell’ “Ars poetica”, il principio dell’imitazione della natura, che sarà poi il cardine razionalistico del classicismo dal Rinascimento in poi. Al tempo di Augusto, e poi, in maniera ancora più evidente nell’epoca adrianea (II°s.d.C.), gli artisti riecheggiarono formule espressive dell’arte greca, a volte proponendosi di esprimere in un linguaggio di derivazione ellenistica nuovi temi squisitamente romani, come ad esempio nei rilievi dell' “Ara Pacis”. A volte invece in maniera accademica, come nella Villa Adriana a Tivoli e nelle numerose statue del liberto Antinoo. Questa connessione fra arte greca e arte romana, divenne così profonda che gli artisti successivi finirono per identificare spesso suggerimenti dell’una e dell’altra. In epoca adrianea, sono presenti gli elementi tipici del classicismo, e cioè del superamento dei fattori soggettivi nella creazione artistica, la ricerca dell’equilibrio stilistico fra forma e contenuto, fra ragione e fantasia, e l’imitazione dei capolavori del passato. Nei secoli successivi si ritrovano elementi classici di volta in volta nell’arte carolingia, e poi in quella romanica e gotica, ma anche se l’imitazione dell’antico appare evidente, nelle opere dei vari artisti (basterà citare Nicola Pisano), è soltanto per i secoli XV° e XVI° che si può parlare più propriamente di classicità, poiché furono gli stessi artisti che per la prima volta, ponendosi il problema del rapporto con l’antico, ricercarono lo spirito e le leggi estetiche che portarono a quei capolavori pur operando in piena autonomia, e senza cadere in pedisseque imitazioni. Di tale ricerca furono protagonisti principali, sia con opere che con gli scritti: Donatello, Brunelleschi, Masaccio, Alberti, il Filatere, Mantegna, Francesco di Giorio, Martini, Bramante, Leonardo, Michelangelo, Correggio.e Raffaello. Tuttavia nelle opere di questi ultimi quattro e della loro cerchia, si possono ritrovare i primi elementi figurativi anticlassici, e le premesse del manierismo, che, esasperando certi aspetti del classicismo, si pone in certo modo in antitesi con esso. L’opposizione della controriforma all’eccesiva libertà espressiva, che si era manifestata nel primo manierismo cinquecentesco, e influenzò il classicismo delle poetiche secentesche, specialmente quelle dei Carracci che proposero un ritorno ai grandi maestri, non solo del 500, ma talvolta anche dell’ellenismo. Il classicismo di Agostino e Annibale Carracci, lasciò la sua espressione pià famosa negli affreschi della Galleria Farnese in Roma (1597 – 1604), ove essi mostrarono l’ispirazione a ricreare con un’operazione culturale i suggerimenti figurativi tratti dall’antichità e dal Rinascimento. Esso ebbe un valido sostegno nelle opere teoriche di Giovanni Battista Agucchi e poi di Giovanni Pietro Bellori. Nel seicento il classicismo si diffuse in tutta Europa. Due artisti francesi Claude Gellé detto Le Lorrain e Nicolà Poussin, vissuti lungamente in Italia, gettarono le basi del classicismo francese. Il Poussin aveva già studiato a Parigi le incisioni di Raffaello e di Giulio Romano, e venuto a Roma nel 1624, si accostò con profondo amore non solo alle antiche testimonianze della scultura e dell’architettura romana, ma anche ad artisti come il Domenichino e dei Carracci e fu estremamente sensibile al fascino della campagna romana. Entrambi portarono ad altissima perfezione e dignità il paesaggio arcaico. Il classicismo divenne sempre più importante in Francia, fino a divenire arte ufficiale sotto il regno di Luigi XIV, attraverso l’Accademia di Charles Le Brun. In Inghilterra fu il Palladio, l’artista del 500 italiano, che maggiormente interessò gli architetti del 600 e 700; già Inigo Jones aveva dato una sua personale interpretazione dell’arte palladiana, ma fu nel 700 che nacque il neo palladianesimo. Ne fu promotore Lord Burlington. che nel 1732 pubblicò i rilievi del Palladio sulle “Terme dei Romani”, e ideologo del gruppo fu Colen Campbell con la sua opera “Vitruvius Britannicus”.Tale orientamento confluì nel più vasto movimento del neo-classicismo in cui anche l’architettura del giovane stato americano subì attraverso Thomas Jefferson una spinta ufficiale verso lo stile classico. Ispiratore del Jefferson fu il francese Charles Luis Clerisseau, conoscitore e disegnatore di antichità classiche e, fra l’altro, progettista del - Capitolo di Richmond -. Nell’architettura, poco dopo la Restaurazione, trionfò l’eclettismo romantico che vide fusi insieme elementi gotici, classichegianti, rinascimentali e barocchi. In Germania, in epoca romantica e in occasione di grandi imprese urbanistiche, si studiarono e si imitarono i modelli del Rinascimento italiano o dell’antichità classica. Così appare costruita su modelli classici la porta di Brandeburgo.di Leo von Klenze e del Langhans, architetto, il primo, di Ludovico I di Baviera, e che riecheggia nelle sue opere grandiose l’architettura fiorentina e quella romana o addirittura greca, come nel suo Walhalla, eretto in posizione dominante il Danubio a Ratisbona a somiglianza del Partenone di Atene. Più tardi, con Arnold Bocklin e Hans von Matées, si ebbe un nuovo ritorno alle forme classiche, ma in modo allegorico e fantastico neo-romantico, continuato in seguito, nell’Europa centrale da Franz von Stuck. In Italia il classicismo di Nino Costa, quello del Sartorio, e dei gruppi legati alla rivista “Il Convito”, e più tardi alla Mostra del “Novecento”, rimase un fenomeno limitato alle proporzioni e nei risultati. Più evidenti furono invece i ritorni classicistici, nell’architettura, dove il classicismo si incontrò fra il 1925 e il 1945 soprattutto in Italia, Germania e U.R.S.S., con le esigenze politico propagan distiche dei regimi al potere, giungendo a risultati essenzialmente retorici.
CLASSICO
(lat.classicum)
Si chiamava così un suono solenne di tutti gli strumenti militari delle legioni romane: con esso si convocavano le legioni, si dava il segno della battaglia, si animavano i soldati a combattere, e si eseguivano altresì le sentenze capitali inflitte ai soldati sediziosi. Il classico si suonava davanati alla tenda dell’imperatore, avendo egli solo, quand’era presente, l’autorità di ordinarlo.
CLASTIDIUM
Città della Gallia cisalpina, che sorgeva dov’è oggi Casteggio. Marcello vi debellò gl’Insubri nel 222 a.C.
CLATERNA
Antica città della Gallia cisalpina, tra Bonomia e Forum Cornelio
CLAUDIA
Gens.
Dei Claudi, alcuni erano patrizi d’origine Sabina, e portavano i soprannomi di Caecus, Caudex, Crassus, Pulcher, Regillensis, Sabinus e Nero; altri erano plebei ed erano soprannominati, Agellus, Canina, Centumalus, Cicero, Flamen, e Marcellus. I Claudi patrizi si distinsero in ogni tempo è per alterigia, arroganza e odio profondo alla Repubblica. Durante alcuni secoli questa gens produsse molti uomini cospicui, pochi veramente grandi, nessuno magnanimo.
CLAUDIANO
Claudio
L’ultimo dei poeti classici latini, nato ad Alessandria, vissuto sotto Teodosio. e i due figli di lui Arcadio ed Onorio. Dottissimo in fatto di storia, mitologia, scienze e filosofia, avvivò questa vasta suppellettile di dottrina col fuoco d’una brillante immaginazione. Splendido il suo stile, sebbene talvolta inorpellato; la sua versificazione è in sommo grado armoniosa, ma è mancante nella descrizione.
- tre panegirici sul terzo, quarto, e sesto consolato di Onofrio;
- un poema sulle nozze di Onorio e Maria;
- quattro poemetti fescennini, sullo stesso oggetto;
- le lodi di Stilicone, in due libri, ed il panegirico sul suo consolato; De Bello Gildonico, primo libro d’un poema sulla guerra in Africa contro Gildone;
- De Bello Getico, poema storico sulla fortunata spedizione di Silicone contro Alarico e i Goti;
- Eidyllia, raccolta di sette poemetti riguardanti la storia naturale.
Note - Tra le opere che di lui ci furono conservate ricordiamo le seguenti:
- L’edizione principe di Claudiano fu stampata a Vicenza (1482) da Jacopo Dusenio. La migliore è quella di Burann Juniore (Amsterdam 1760.Traduzione italiana delle opere di Claudiano fecero Beregani, Medina. Girali ed altri.
CLAUDIO
Nome di due imperatori romani:
- Claudio Tiberio Druso Nerone
- Claudio Marco Aurelio Flavio
- Claudio Appio
- Claudio Appio Crasso
- « Trattavano con impudenza la plebe e ne saccheggiavano le proprietà, visto che era sempre il più forte ad avere ragione, qualunque capriccio gli fosse passato per la testa. Ormai non avevano più rispetto nemmeno per le persone: si frustava e persino si decapitava. Perché poi la crudeltà non fosse fine a se stessa, all'esecuzione del proprietario seguiva la confisca dei beni. »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 37)
- « Le Idi di maggio arrivarono. Senza preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri - ora privati cittadini - apparvero in pubblico facendo capire di non voler assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di volersi privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio dispotismo. »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 38)
figlio di Druso, nato a Lione (9 a.C.), salì al trono all’età di 50 anni. Fatti mettere a morte gli uccisori di Caligola, si mostrò poi per un breve periodo clemente; ma Messalina, moglie di lui, lo ag girò a suo senno, e il sangue corse a rivi. Avvedutosi delle infamie di lei, la fece uccidere (48). Sposò poi la nipote Agrippina, e, a pregiudizio del proprio figlio ed erede Btitannico, adottò Nerone. L’avvenimento più memorabile del suo regno fu l’invasione della Brettagna (Inghilterra), dove i Romani non erano più stati dopo Giulio Cesare. Claudio aveva scritto una storia del tempo di Augusto, e le memorie della sua vita. Opere non senza eleganza.
(detto il gotico)
Nato in Illiria, ma non si sa precisamente quando, di parenti ignoti, fu tribuno sotto Decio. Difese le Termopili e il Peloponneso dai Barbari. Valeriano gli affidò poscia il comando di tutta l’Illiria. Ucciso Gallieno, fu salutato imperatore in sua vece (268), e co minciò col distruggere Aureolo, debellò i Goti a Nissa (Servia) uccidendone 50.000 morì dopo quel trionfo a Sirmio nel 270.
(detto il cieco)
Edile curule, censore con C. Plauzio, nel 312 a.C, console e dittatore; sconfisse col suo collega Volumnio, gli eserciti riuniti dei Sanniti e degli Etruschi. Quando Cinea fu inviato a Roma da Pirro, a fare proposte di pace, Appio, vecchio e cieco si presentò in Senato, perorò così bene che le condizioni offerte dal nemico, furono rigettate. Fu il primo scrittore romano in prosa e in versi, di cui ci sia giunto il nome. Compose un poema il cui soggetto era la filosofia pitagorica. La sua eloquenza fu lodata.
Appio Claudio Crasso Inregillense Sabino[1] (latino: Appius Claudius Crassus Regillensis Sabinus) (510 a.C. circa – 449 a.C.) è stato un politico romano.
Fu eletto console con Tito Genucio Augurino nel 451 a.C., anno in cui fu istituito il primo decemvirato, e per questo motivo, per compensare la perdita della carica consolare, fu designato per il primo decemvirato[2].
Primo decemvirato
Fece parte del primo decemvirato nel 451 a.C., che aveva il compito di riscrivere le leggi dell'ordinamento romano. Come gli altri componenti, oltre a contribuire alla stesura di quelle che sarebbero diventate le leggi delle XII° tavole , amministrò la giustizia della città, con grande soddisfazione di tutti i cittadini[3] , tanto che i romani decisero di riproporre il decemvirato anche per l'anno successivo.
Secondo decemvirato
Appio Claudio fu l'unico ad essere rieletto anche nel secondo decemvirato,[4] caratterizzato però da un comportamento autoritario ed anti plebeo, e in qualche modo anche sovversivo, perché dopo aver emanato le leggi contenute nelle XII° tavole, e quindi aver adempiuto ai compiti per cui erano stati eletti, i decemviri non indissero nuove elezioni, mantenendo la carica.
In quel frangente, i Sabini e gli Equi, convinti di poter approfittare dei dissidi interni a Roma, tornarono a razziare le campagne romane i primi, e quelle tuscolane i secondi. I decemviri allora si videro costretti a convocare i Senatori per approntare le necessarie azioni belliche.
La riunione fu molto contrastata per la convinzione dei Senatori del comportamento illegale dei decemviri, che avrebbero dovuto dimettersi al termine del proprio mandato, tanto che molti Senatori, prendendo la parola, si rivolgevano ai decemviri come questi fossero privati cittadini e non magistrati romani. Sfruttando però l'astio dei Senatori per il tribunato della plebe, che avrebbe dovuto essere ripristinato al pari del consolato, i decemviri riuscirono ad ottenere dai Senatori l'indizione delle leva militare, che permise la costituzione di due eserciti, inviati a fronteggiare i Sabini e gli Equi. Mentre gli otto decemviri designati conducevano i due eserciti nella campagna bellica, ad Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicene fu affidata la difesa della città.
A questo punto si inseriscono gli avvenimenti legati a Lucio Siccio Dentato e Verginia, che portarono all'aperta ribellione dei plebei, che minacciando la secessione da Roma, ottennero dai Senatori la decadenza dei decemviri e la ricostituzione delle magistrature ordinarie; consolato e tribunato della plebe.
Verginia.
Nella vicenda che portò all'uccisione di Verginia per mano del padre Lucio Verginio, Appio Claudio rivestì il ruolo negativo del potente innamorato pazzo della ragazza[5], che non esita ad utilizzare le proprie prerogative pubbliche a scopi privati libidinosi[6].
Il complotto ordito da Appio Claudio per possedere la ragazza, farla passare per schiava di un proprio cliente per sottrarla alla potestà legale del padre, si concluse con la rinuncia dei decemviri alla propria autorità, ed al ripristino delle magistrature ordinarie, quale prezzo perché i plebei rinunciassero ai propositi di secessione da Roma.
Uccisione di Virginia by Camillo Miola (1882).
Napoli, Museo di Capodimonte.
Morte
Dopo la caduta dei decemviri, ristabilite le prerogative dei Tribuni della plebe, dai consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato, Appio Claudio fu accusato da Lucio Verginio, primo degli eletti tra i Tribuni, per aver falsamente accusato una cittadina romana, la figlia Virginia, di essere una schiava.[7].
Nonostante gli interventi dei familiari che cercarono di intercedere per Appio Claudio presso la plebe, e nonostante lo stesso Appio volesse far ricorso al diritto di appello, da lui negato quanto era in carica come decemviro, Lucio Virginio mantenne viva la memoria dei torti subiti, personalmente ma anche dalla plebe di Roma, ed ottenne che Appio Claudio fosse tradotto in carcere, dove si suicidò, non volendo attendere il giudizio.
(da wikipedia)
CLEANTE
Storico, nato ad Asso, nella Troade, intorno al 300 a.C., morto in età di 80 anni; stretto dalla miseria si consacrò allo studio della filosofia. Per sostenersi e pagare a Zenone la mercede dell’istruzione impartitagli, lavorava tutta notte ad attinger acqua dai pozzi dei giardini. Inoltre scriveva brani delle lezioni di Zenone, sulle ossa e sui cocci delle stoviglie. Morto nel 263 a.C., il maestro, gli succedè nella scuola. Laerzio ha conservato i titoli dei numerosi trattati scritti da Cleante. Le dottrine di questo filosofo erano pressocchè identiche a quelle di Zenone, e la sua teoria morale era anche più rigida di quella dello stoicismo ordinario.
CLEARCO
Nome di due scrittori antichi; il primo nativo di Soli, discepolo di Aristotele, compose molte opere registrate in parte da Vossio; il secondo fu poeta comico ateniese, della nuova commedia; rimangono frammenti di alcune sue commedie.
CLEDONIO
Autore di un saggio sulla grammatica latina; "Grammaticae latinae auctores antiqui" sopra un solo ed imperfetto manoscritto: “Ars Cledonii senatoris, costantinopolitani grammatici”. E’questo un commentario sul celebre trattato di Donato. Di Cledonio, personalmente nulla si sa; solo pare che appartenesse all’universita di Costantinopoli.
CLEDONISMO
(dal greco kledon – rumore, fama) Specie di divinazione che gli antichi traevano da parole pronunziate a caso. Cicerone osserva che i pitagorici badavano non solamente alle parole degli oracoli, ma eziandio a quelle degli uomini, e credevano che il pronunziare certe parole a tavola, come per esempio – incendio – fosse caso di cattivo augurio. Quindi invece di – prigione - essi dicevano domicilio, e per evitare Erinni, nome delle Furie, essi dicevano Eumenidi.
CLEFTI
(gr. Ladri, curiosità storica)
Nome dato ai greci che vivevano liberi nelle loro montagne ed erano continuamente in guerra contro i loro oppressori, avendo per legittima preda ogni cosa che appartenesse ai Turchi e spesso rubando anche agli stessi compatrioti. Quando la Grecia venne conquistata dai Turchi, molti abitanti della pianura si ritrassero alle alture e vi costruirono i villaggi e vissero in caverne piombando poi di la, a far scorrerie e depredazioni: furono per ciò detti clefti e il nome divenne in seguito proprio d’intere popolazioni. A poco a poco la loro indipendenza venne sino ad un certo grado riconosciuta dai Turchi; ma benchè si creasse espressamente la milizia degli Armatoli, e poi quella dei Schipetari per reprimerli, fu impossibile di farli rinunziare al loro genere di vita. La Grecia forse, non si sarebbe mai vendicata in libertà se non fossero stati questi Clefti e gli antichi loro guardiani, gli Armatoli, che presero per primi animosamente parte nella lotta contro la Porta nel 1821, e si segnalarono come i migliori soldati di Grecia, così come i loro capi ne furono i migliori generali, Tra questi va annoverato Custrate, Giorgio Zongas, Giorgio Macry, Karaiskakis, Mitzo Kondojaunis, Odisseo, Karatasso, Menestosaulus e Marco Botzaris.
I Clefti sono ospitali verso coloro che non li tentano con la speranza di un bottino. I loro canti formano una parte assai curiosa della moderna poesia nazionale di Grecia.
CLEITO
Macedone, fratello di Lanice o Ellanice, la quale nutrì Alessandro il Grande; salvò la vita a questo monarca nella battaglia del Granico (334 a.C.), troncando con un colpo di spada il braccio di Spitridate, che stava per uccidere il re. Montato in collera per un paragone istituito in un banchetto fra Alessandro e Filippo, a scapito di quest’ultimo, pronunciò parole ingiuriose contro il re, recitando un passo di Euripide, in cui è detto che i soldati si guadagnano le vittorie e il generale raccoglie la gloria, Alessandro infuriato lo trafisse con uno spiedo.
CLEITOR
Città dell’Arcadia, ora Paleopoli.
CLELIA
Eroina dell’antica Roma, della quale dice la leggenda. che, trovandosi in ostaggio con altre fanciulle nel campo di Porsenna, fuggì attraversando il Tevere a nuoto. Rimandata dai Romani al re etrusco, questi, meravigliato di tanto ardire, non solo le restituì la libertà, ma le permise di condurre seco una parte degli ostaggi. Il popolo romano le eresse una statua equestre sulla via Sacra.
CLEOBI
Figlio di Cidippe (sacerdotessa argiva di Giunone), che, assieme al fratello Bittone si aggiogarono al carro che doveva portare la madre al santuario della dèa Era; per ricompensa la dèa li fece addormentare nel sonno eterno.
CLEOBULO
Uno dei sette sapienti di Grecia; amico di Solone. Nato a Rodi o nella Caria; viaggiò l’Egittto per acquistare cognizioni e morì settuagenario nel 564 a.C. Ci rimangono parecchie delle sue massime, di cui la più nota è questa: - la misura è ottima cosa – massima che corrisponde al : - ne quid nimis.
CLEOFANTO
- Cleofanto pittore corinzio,
- Cleofanto di Ceo (medico greco, IV° sec. a.C.).
- “Trahebat praeterea mentes artificio inani, alias vinum promittendo aegris dandoque tempestive, iam frigidam aquam et, quoniam causas morborum scrutari prius Herophilus instituerat, vini rationem inlustraverat Cleophantus apud priscos, ipse cognominari se frigida danda praeferens, ut auctor est M. Varro. alia quoque blandimenta excogitabat, iam suspendendo lectulos, quorum iactatu aut morbos extenuaret aut somnos adicieret, iam balneas avidissima hominum cupidine instituendo et alia multa dictu grata atque iucunda, magna auctoritate nec minore fama, cum occurrisset ignoto funeri, relato homine ab rogo atque servato, ne quis levibus momentis tantam conversionem factam existimet...”).
(greco Ékphantos; latino Ecphantus), pittore corinzio di età arcaica, ricordato da Plinio come il primo che riempì di colore le figure servendosi del cocciopesto.( Miscela compatta ottenuta impastando con calce minuti cocci di anfore, tegole e simili) Col nome di Pittore di Ecfanto si indica invece un ceramografo autore di vasi policromi del tardo protocorinzio, tra i quali il celebre vaso Chigi.
(da: sapere.it/enciclopedia)
L’inizializzazione dei medici in età ellenistica – come si sarebbe poi verificato anche in età classica - si svolgeva già all’interno della famiglia, laddove fossero presenti già medici. Tipico è il caso di Cleofanto.
Figlio di Cleombroto, medico del re Seleuco I Nicanore, nipote per linea materna del medico Medios e fratello di Erasistrato (315 ca. a.C. -240 ca. a.C.), nacque a Iuli, nell’isola di Ceo, nelle Cicladi nordoccidentali. Fu iniziato sin dalla giovane età all’arte della medicina.
Non è certo che anche lui, come il fratello, abbia avuto come maestri Crisippo di Cnido e Metrodoro.
Galeno, nel citare Mnemone (di Side), scrive che quest'ultimo fu un suo seguace (Commentario in Ippocrate, Sulle epidemie III°, II°.4, III°.71, vol. XVII°. pt. i. pp. 603, 606, 731).
In Cleofante ritroviamo il concetto dell’”hydor” ippocratico, il quale lo aveva a suo tempo distinto tra dietetico e terapeutico.
Nella sua medicina prevalevano le cure basate sui bagni e sull’uso dell’acqua, del vino e di farmaci diaforetici; principi che successivamente avrebbero condizionato anche Asclepiade, i cui rimedi terapeutici si basavano su massaggi, bagni termali, passeggiate e musica, con il ricorso a farmaci o salassi solo in casi estremi.
Giulio Jasolino (1533 ca. – 1617 ca.), nella sua opera “De’ rimedi naturali, che sono nell’isola di Pithecusa, oggi detta Ischia. Libri due...” (in Napoli, B. Roselli, 1751), ricorda che citazioni di Cleofanto le possiamo ritrovare anche nella “Naturalis Historia” di Plinio (il quale, al XXVI° Libro, VIII° – 14-15, testualmente riporta:
Cleofante, dice il Jasolino, “al suo tempo, tra molte cose dilettevoli, che egli ritrovò per dar gusto agli ammalati suoi, introdusse i bagni con grandissimo applauso degli uomini...” e che lo stesso Celso “mostrò con molta diligenza aver raccolte tutte le regole principali di Cleofante, le quali, si legge appresso Galeno, che da molti Medici famosi di quei tempi furono seguite, e inquanto poterono accresciute, come fu Antonio Musa, Andromaco, Archigene, Ruffo ed Erasistrato...”.
Come dice Leonardo di Capoa, nel suo “Del parere, divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrandosi l’origine, e ‘l progresso della medicina, ...” - vol. I° – (in Cologna, MDCCXIV°), Cleofanto era medico antichissimo, il quale usava curare le febbri terzane e quaterne col vino bagnando la testa dei suoi pazienti con acqua calda oppure somministrando farmaci diaforetici o nel cominciar dell’accessione, o poco prima.
(da
ilmedicodifamiglia.altervista.org)
CLEOMBROTO
Due re di Sparta:
Cleombroto I° figlio e successore di Agesipoli, nel 378 a.C., marciò contro i Tebani, e nel 371 comandò una battaglia contro Epaminonda, nella quale riportò ferite che lo trassero poco dopo a morte.
Cleobroto II°, genero di Leonida, ne usurpò per qualche tempo il trono, quando poi fu richiamato Leonida andò in esilio, accompagnato dalla propria moglie.
CLEOMEDE
Scrittore greco d’epoca incerta, al quale vengono attribuite parecchie opere che vertono sull’astronomia, sull’aritmetica e sulla dottrina della sfera. Sembra che il Riccioli sia stato il primo a supporre due scrittori di questo nome: uno vissuto ai tempi d’Augusto, e l’altro sotto il regno di Teodosio. Per Cleomede qui intendiamo quel solo che scrisse due libri; sulla “Teoria circolare dei corpi celesti”; quest’opera è di molto pregio storico, perché ricorda le misure della Terra di Posidonio, e di Eratostene, e stabilisce quanto sia antica l’opinione che la rotazione della luna è uguale alla sua rivoluzione sinodica (avrebbe dovuto dire siderale), intorno alla terra. Riferisce molti argomenti per provare la rotondità di questa, e ricorda eclissi senza che fossero predette dai - canoni -, il che proverebbe essere stato in uso una specie di almanacco.
CLEOMENE
Nome di tre re di Sparta, e d’altri personaggi:
- Cleomene I°
- Cleomene II°
- Cleomene III°
- Cleomene Apollodoro
- Cleomene greco di Naucrate (Egitto)
figlio di Anassandride, salito al trono nel 519 a.C., debellò gli Argivi a Tirinto e avrebbe voluto prendere Argo, ma Telesilla la difese; cacciò quindi i figli di Pisistrato da Atene, e rese la libertà a quel popolo. Avido di potere fu crudele e fraudolento; esiliato e richiamato, finì per darsi volontariamente la morte (489 a.C.).
Figlio di Cleombroto, salito al trono nel 371, regnò per 60 anni, senza far cose degne di ricordo; morì nel 309 e gli successe Arco.
Figlio di Leonide II°. Gli succedette nel 230 a.C.; guerreggiò con gli Achei, la cui lega dava molta ombra ai Lacedemoni; prese Atene e Metidrio, e devastò l’Argolide. Soccorrendo gli Eli, disfece l’esercito acheo, guidato da Arato, e si impadronì di Mantinea. Tornato a Sparta, avvelenò Euclida, figlio di Agide, re dell’altro ramo. Per restaurare le istituzioni di Licurgo, fece sgozzare tutti gli Efori, distrusse il senato, ripartì di nuovo le terre, sbandì ogni lusso e si adoperò perché rifiorisse l’età del ferro. Vinto a sua volta dagli Achei a Sellasia, riparò in Egitto. Il re Tolomeo Filopatore, lo fece arrestare; disperato si uccise (221). Secondo la testimonianza di Plutarco fu Agiatide ad illustrare a Cleomene il progetto riformatore del suo primo marito, che proprio per questo era stato fatto uccidere da Leonida, e a convincerlo a seguirne il progetto una volta salito al potere.
Alla base della statua leggesi la seguente iscrizione: - Cleomene figliolo di Apollodoro, ateniese, fece -. Considerando pero' che il peso dello zoccolo in cui trovasi l’iscrizione è rimesso e che alcune delle lettere, sono imitazione poco perfetta degli antichi caratteri greci, alcuni antiquari e critici credettero l’iscrizione non essere antica; da ciò oscurità e dubbi sull’iscrizione e della statua stessa. Ma il Visconti ha restituito a Cleomene la gloria di quel capolavoro, notando che l’iscrizione avrebbe potuto essere per qualche accidente restaurata, e che se fosse stata falsificata, non si sarebbe scelto un artista, cui, eccetto Plinio, nessun autore antico aveva fatto parola. Il Visconti dal carattere e dalla perfezione del lavoro deduce che Cleomene dovette fiorire poco prima della distruzione di Corinto, verso l’olimpiade CL, 180, e lo fa padre di un altro Cleomene, il cui nome leggesi sulla tresta della testuggine annessa alla statua antica detta di “Germanico”.
La Venere dei Medici di Cleomene di Apollodoro
fine del I secolo a.C.
marmo, Altezza 153 cm - Uffizi, Firenze
Da Alessandtro il Grande nominato monarca del distretto arabo dell’Egitto, e ricevitore dei tributi di tutti i distretti egizi e delle vicine parti dell’Africa (231 a.C.). La sua rapacità non ebbe confini. Nella distribuzione dell’impero dopo la morte di Alessandro, Cleo mene fu lasciato in Egitto in qualità di Iparca, Tolomeo poi lo fece mettere a morte come partigiano di Perdicca.
CLEONE
Ateniese, di professione conciapelli; fattosi difensore del popolo, venne ad avere gran parte nei pubblici affari. Gli Ateniesi lo crearono insieme a Demostene, capo dell’esercito nella contesa che eb bero con gli Spartani per la fortezza di Pilo. Uscitone vincitore ed avendone acquistata grande popolarità, in un’altra guerra degli Ate niesi contro gli Spartani, guidati da Brasida, ebbe lui solo il comando supremo (422 a.C.). Ma affrontato il nemico ad Antipoli, vi perì col duce spartano. Fu bersaglio alle satire di Aristofane.
CLEOPATRA
- Cleopatra I
- Cleopatra II
- Cleopatra III
- Cleopatra IV
- Cleopatra V° Selene
- Cleopatra VI°
- Cleopatra VII°
- Cleopatra d'Armenia o del Ponto
- Cleopatra Berenice
- nome Horo: non attestato;
- nome Nebty (o delle Due Signore): non attestato;
- nome Horo d'Oro: non attestato;
- nome del Trono: non attestato;
- nome personale (nomen di nascita): iry-pꜥtt wr(t)-ḥsw(t) birnikt (iry-patet, wer(et)-hesu(t), birniket), "la principessa ereditaria che è grande di lode, Berenice".[12]
- Cleopatra Euridice
- Cleopatra di Gerusalemme
- Cleopatra di Macedonia
- Cleopatra VIII
- Cleopatra Tea
- Cleopatra di Tebe
- Cleopatra Trifena
(Cleopatra Tea Epifane Sira)
Cleopatra Tea Epifane, detta Sira[1] (in greco antico: Κλεοπάτρα Θεά Ἐπιφανής Σύρα, Kleopátra Theá Epiphanés Sýra; 215 a.C. circa[2] – 176 a.C.[3]), chiamata nella storiografia moderna Cleopatra I o Cleopatra Sira, è stata una regina seleucide, che per matrimonio diventò regina consorte e poi reggente dell'Egitto tolemaico.
Cleopatra nacque all'interno della dinastia seleucide, figlia di Antioco III il Grande e Laodice III. Suoi nonni paterni erano Seleuco II Callinico e Laodice II, quelli materni Mitridate II del Ponto e Laodice. Aveva diversi fratelli: Antioco minore, Laodice IV, Seleuco IV Filopatore, Antiochide (moglie di Ariarate IV di Cappadocia) e Antioco IV Epifane.
Regina d'Egitto
Nel 193 a.C. Cleopatra, a seguito degli accordi per la fine della quinta guerra siriaca, andò in sposa a Tolomeo V, con il quale ebbe tre figli Tolomeo VI, Cleopatra II e Tolomeo VIII. Nel 187 a.C. fu nominata visir. Alla morte del marito, nel 180 a.C., regnò insieme al figlio Tolomeo VI fino alla morte avvenuta nel 176 a.C.
Busto che potrebbe rappresentare Cleopatra I Regina d'Egitto
(o Cleopatra II o Berenice III)
(Museo del Louvre, Parigi)
(da wikipedia)
Cleopatra Filometore Soteira (in greco antico: Κλεοπάτρα Φιλομήτωρ Σωτήιρα, Kleopátra Philométor Sotéira; 185 a.C. circa – 116 a.C.), chiamata alla storiografia moderna Cleopatra II, è stata una regina egizia del periodo tolemaico.
Figlia di Tolomeo V e di Cleopatra I dopo la morte della madre (175) si sposò con il fratello Tolomeo VI nel 173 a.C. ed insieme all'altro fratello Tolomeo VIII furono correggenti d'Egitto dal 171 a.C. al 164.
Nel 170 Antioco IV re di Siria invase l'Egitto, provocando una guerra, vinta dall'Egitto con l'aiuto di Roma nel 168.
Cleopatra divenne reggente per il figlio Tolomeo VII in seguito alla morte del padre avvenuta nel 145 e l'anno seguente sposò l'altro suo fratello Tolomeo VIII Evergete II "Fiscone". Questi, ucciso il nipote, si proclamò re d'Egitto e nel 142 sposò la nipote Cleopatra III, ripudiando la sorella.
Nel 131 Cleopatra II scatenò una rivolta contro il Fiscone e riuscì a cacciare lui e la moglie da Alessandria d'Egitto. A questo punto Cleopatra proclamò re il figlio dodicenne di Fiscone, Tolomeo Menfite. Tolomeo VIII riuscì a far assassinare il figlio e mandò i pezzi del corpo a Cleopatra. Seguì quindi una sorta di guerra civile fra Alessandria, fedele a Cleopatra, ed il resto del paese controllato da Tolomeo. Dopo aver inutilmente tentato di offrire il trono a Demetrio II, nel 127 a.C. Cleopatra lasciò l'Egitto e si rifugiò in Siria.
Tornata in patria nel 124 a.C. si riconciliò con il fratello e la figlia e governò con loro, fino alla morte di Tolomeo VIII avvenuta nel 116. Poco dopo morì anche lei.
Torso di un faraone tolemaico, forse Tolomeo V,
padre di Cleopatra II. Museo del Louvre, Parigi.
(da wikipedia)
Cleopatra Evergete Filometore Soteira (in greco antico: Κλεοπάτρα Εὐεργέτις Φιλομήτωρ Σωτήιρα, Kleopátra Euergétis Philométor Sotéira; 160 a.C. circa[1] – settembre 101 a.C.[2]), chiamata nella storiografia moderna Cleopatra III, è stata una regina egizia appartenente al periodo tolemaico.
Cleopatra era figlia di Tolomeo VI Filometore e Cleopatra II, tra di loro fratelli.[3] I suoi nonni erano quindi Tolomeo V Epifane e Cleopatra Sira, mentre suo zio era Tolomeo VIII Evergete Fiscone.[4] Era la sorella minore di Tolomeo Eupatore, Tolomeo VII Neo Filopatore e Cleopatra Tea.[5]
Giovinezza e matrimonio con Tolomeo VIII (160-116 a.C.)
Nel 144 a.C. Cleopatra II, madre di Cleopatra, sposò il fratello minore Tolomeo VIII Evergete II "Fiscone", il quale, ucciso il nipote, si proclamò re d'Egitto e nel 142, ripudiata la sorella, sposò la nipote Cleopatra III, nominandola correggente.
Nel 131, in seguito ad una rivolta scatenata da Cleopatra II, il Fiscone e la moglie furono cacciati da Alessandria d'Egitto, dove tornarono verso il 127 a.C.
Cleopatra III ebbe con Tolomeo VIII cinque figli: Tolomeo IX Filometore Sotere II Latiro, Tolomeo X Alessandro I, Cleopatra Trifena, Cleopatra IV e Cleopatra Selene.
Quando Tolomeo VIII morì, nel 116 a.C., lasciò il trono alla moglie Cleopatra, che avrebbe dovuto scegliere con quale figlio governare. Cleopatra avrebbe voluto regnare con il figlio più piccolo Tolomeo X Alessandro, ma gli Alessandrini la obbligarono a scegliere Tolomeo IX Latiro, che era governatore di Cipro. Il giovane Alessandro fu mandato a Cipro per sostituire il fratello.
Nel 110 a.C. Cleopatra però accusò Latiro di volerla uccidere e lo depose, richiamando il figlio più piccolo ad Alessandria. L'anno seguente Tolomeo IX riuscì a riconquistare il trono, ma la madre nel 107 a.C. richiamò Tolomeo Alessandro. Dopo aver combattuto la guerra degli scettri al fianco di Tolomeo X Alessandro contro Tolomeo IX Latiro, nel 101 Cleopatra morì, probabilmente fatta assassinare dal figlio Alessandro.
Rilievo con effigie di Cleopatra III
(tempio di Sobek, Kôm Ombo)
(da wikipedia)
Cleopatra IV (in greco antico: Κλεοπάτρα, Kleopátra; 138 a.C./135 a.C. – Dafne, 112 a.C.) è stata una regina egizia appartenente al periodo tolemaico.
Figlia di Tolomeo VIII e Cleopatra III, verosimilmente nel 118 a.C., comunque prima della morte del padre, sposò il fratello Tolomeo IX Latiro, divenendo nel 116 a.C. regina consorte d'Egitto.
Nel 115 a.C. Cleopatra III la fece espellere dall'Egitto, facendo sposare il figlio con Cleopatra Selene. Cleopatra allora andò a Cipro, radunò un esercito e tentò di sposare l'altro fratello, Tolomeo X Alessandro. Non essendo riuscita nell'intento, andò in Siria, dove sposò Antioco IX Ciziceno, con il quale forse ebbe il figlio Antioco X. Nella lotta per il potere instauratasi tra il Ciziceno ed il cugino Antioco VIII Grifo, quando questi conquistò Antiochia, Cleopatra si rifugiò nel tempio di Apollo a Dafne. Lì venne uccisa nel 112 a.C., su istigazione della sorella Cleopatra VI, moglie di Antioco VIII.
(da wikipedia)
Cleopatra Selene (in greco antico: Κλεοπάτρα Σελήνη, Kleopátra Seléne; 131-130 a.C.[1] – Seleucia sull'Eufrate [2], 69 a.C.[3]), chiamata nella storiografia moderna anche Cleopatra V Selene, Cleopatra V o Cleopatra Selene I, è stata una regina egizia, appartenente al periodo tolemaico.
Figlia di Tolomeo VIII e di sua sorella Cleopatra III. Fu regina con il marito Tolomeo IX ed in seguito regina in Siria come sposa di tre differenti sovrani.
Inizialmente fu chiamata solamente Selene e aggiunse il nome di trono tolemaico di Cleopatra dopo aver sposato, nel 115 a.C. Tolomeo IX in seguito all'allontanamento della sorella Cleopatra III. A differenza di molte altre mogli-sorelle del periodo tolemaico non venne elevato al rango di coreggente. Dal matrimonio nacquero una figlia, Berenice III e due figli, Tolomeo XII ed un altro, chiamato anch'esso Tolomeo [4].
Nel 107 a.C. le relazioni tra Tolomeo IX e sua madre, associata al trono, giunsero ad un punto di rottura ed il sovrano fu costretto a lasciare l'Egitto. Dopo aver trovato rifugio Cipro raccolse un esercito è si trasferì nel sud della Siria da cui, nel 103 a.C. tentò di conquistare l'Egitto. Cleopatra III stipulò allora un patto di alleanza con uno dei due re che si contendevano la Siria, Antioco VII, a cui diede Cleopatra Selene in moglie. La precedente consorte di Antioco, Cleopatra Trifena, sorella maggiore di Selene, era stata uccisa nel 111 a.C. da Antioco IX fratellastro di Antioco VII.
In Siria la guerra civile per il trono durò fino al 98 a.C. esaurendo le casse dello stato. Nel 96 a.C. Antioco VII fu assassinato in Antiochia permettendo ad Antioco IX di conquistare la capitale e di sposare Cleopatra Selene[5].
Anche Antioco IX sopravvisse per poco tempo al suo trionfo. Antioco VII aveva avuto cinque figli da Cleopatra Trifena e tutti loro cercarono di giungere al trono. Nel 95 a.C. Antioco fu ucciso in battaglia da Seleuco VI Epifane, il maggiore dei figli di Antioco VII.
Alla morte di Antioco IX, il figlio avuto da Cleopatra IV, Antioco X Eusebe, sposò Cleopatra Selene I, sua matrigna, e riconquistò Antiochia mentre Seleuco VI fu ucciso. A dispetto delle apparenze questo nuovo fu un vero matrimonio da cui nacquero due figli, uno dei quali fu Antioco XIII Asiatico.
Antioco X morì in battaglia combattendo contro i Parti nel 92 a.C. (o nell'83 a.C.) e Cleopatra Selene, preoccupata per la propria sicurezza cercò rifugio in Cilicia.
Dopo l'uccisione del nipote Tolomeo XI Alessandro II (80 a.C.) Cleopatra Selene rimase l'unica legittimo erede della dinastia tolemaica. Essa pose pretese sul trono d'Egitto a nome dei figli avuti nel quarto matrimonio ma il popolo di Alessandria scelse come nuovo re Tolomeo XII Aulete, che non apparteneva alla linea di discendenza. Cleopatra inviò allora i figli a Roma affinché presentassero il loro caso davanti al senato ma la missione non ebbe successo ed essi ritornarono presso di lei dopo due anni.
Nel 69 a.C. il re armeno Tigrane il Grande assediò Cleopatra a Ptolemais e dopo averla catturata la fece deportare a Seleucia sull'Eufrate, dove la fece uccidere.
Un anno più tardi i Romani distrussero lo stato armeno ed il figlio di Cleopatra, Antioco XIII, ultimo sovrano della dinastia seleucide tentò, senza successo, di ricostruire la propria base di potere. Infine nel 63 a.C. i romani conquistarono la Siria ponendo fine al regno ellenistico creato 240 anni prima da Seleuco I Nicatore.
(da wikipedia)
Cleopatra Trifena (in greco antico: Κλεοπάτρα Τρύφαινα, Kleopátra Trýphaina; 100 a.C./95 a.C. – 57 a.C.), chiamata nella storiografia moderna Cleopatra VI, è stata una regina egizia appartenente al periodo tolemaico.
Figlia naturale di Tolomeo IX sposò intorno all'80 a.C. il fratello Tolomeo XII, appena diventato re d'Egitto. Secondo le fonti ebbero una sola figlia, Berenice IV, ma il marito ebbe altri quattro figli illegittimi: Cleopatra, Arsinoe IV, Tolomeo XIII e Tolomeo XIV. Nel 58 a.C., in seguito alla cacciata del fratello-marito, regnò con la figlia Berenice IV fino alla morte avvenuta nel 57 a.C.
(da wikipedia)
Cleopatra Tea Filopatore[1][N 1] (in greco antico: Κλεοπάτρα Θεά Φιλοπάτωρ;[N 2] in egizio: ḳliw-pꜣ-drꜣ, qliu-pa-dra; in latino: Clĕŏpătra; 70/69 a.C.[2] – Alessandria d'Egitto, 12 agosto 30 a.C.[3]), conosciuta per un breve periodo nel 51 a.C. semplicemente come Cleopatra Filopatore (Κλεοπάτρα Φιλοπάτωρ), dal 36 a.C. come Cleopatra Tea Neotera Filopatore (Κλεοπάτρα Θεά Νεώτερα Φιλοπάτωρ) e dal 34 a.C. con il titolo aggiuntivo di Nea Iside (Νέα Ἶσις) e chiamata nella storiografia moderna Cleopatra VII o semplicemente Cleopatra, è stata una regina egizia del periodo tolemaico, regnante dal 52 a.C. alla sua morte.
Fu l'ultima regina del Regno tolemaico d'Egitto e l'ultima sovrana dell'età ellenistica che, con la sua morte, avrà definitivamente fine. Il nome Cleopatra deriva dal greco Kleopatra, che significa "gloria del padre" (kleos: gloria; patros: del padre). Fu anche una dei nemici più temuti per la Repubblica romana; oltre che disporre di una grossa flotta, di un esercito potente e di un regno ricco di risorse, infatti, aveva dalla sua parte anche un presumibile grande fascino, grazie al quale aveva sedotto due tra i più grandi condottieri romani: Giulio Cesare e Marco Antonio.
I Tolomei, secondo la loro dinastia, parlavano greco, rifiutandosi di imparare la lingua egizia, che era considerata una lingua "non ufficiale" del regno; in opposizione a ciò Cleopatra studiò e imparò perfettamente anche l'egizio, ponendosi nei confronti del popolo come la reincarnazione della dea Iside. Oggi è probabilmente (insieme a Cheope, Akhenaton, Tutankhamon e Ramses II) la più famosa di tutti i sovrani dell'antico Egitto; è conosciuta con il nome di Cleopatra, anche se fu la settima e ultima regina a possedere quel nome. Comunque, Cleopatra non fu mai di fatto sovrana unica dell'Egitto, avendo consecutivamente regnato insieme al padre (Tolomeo XII Aulete), al fratello (Tolomeo XIII Teo Filopatore), al fratello-marito (Tolomeo XIV) e al figlio (Tolomeo XV Cesare).
Cleopatra era figlia del faraone Tolomeo XII Aulete e di una donna sconosciuta.
Testa di Tolomeo XII Aulete, padre di Cleopatra
(Museo del Louvre, Parigi)
Alcuni storici considerarono Cleopatra figlia dell'omonima Cleopatra VI Trifena, sorella e unica moglie conosciuta di Tolomeo XII,[4] ma lo storico antico Strabone nota che Cleopatra era una figlia illegittima.[5] La madre di Cleopatra era però quasi certamente di origine egizie, probabilmente membro della famiglia del gran sacerdote di Ptah, con ascendenze sia egizie sia macedoni.[6] Sempre secondo la testimonianza di Strabone, Tolomeo XII ebbe solamente una figlia legittima, Berenice IV, da Cleopatra VI, due figlie illegittime, Cleopatra e Arsinoe IV, e due figli illegittimi, Tolomeo XIII e Tolomeo XIV.[7]
Cleopatra apparteneva all'antica famiglia dei Tolomei (o Lagidi) ed era quindi discendente del diadoco Tolomeo I Sotere, fondatore della dinastia e amico d'infanzia di Alessandro Magno; discendeva, inoltre, attraverso la sua antenata Cleopatra I, che sposò Tolomeo V Epifane, anche da Seleuco I Nicatore, un altro diadoco, potendo così vantare nobili origini greco-macedoni.[8] Era imparentata con Tolomeo di Cipro e Cleopatra Berenice, fratellastri del padre, con Tolomeo IX, suo nonno, e con Tolomeo X, Cleopatra Trifena, Cleopatra IV, Cleopatra Selene e Tolomeo XI suoi prozii e zii. Grazie a matrimoni dinastici era imparentata anche con molti membri della dinastia seleucide.
Particolare di Cleopatra VII in marmo (89.2.660)
(Metropolitan Museum of Art, New York)
Giovinezza (70/69-51 a.C.)
Cleopatra nacque nell'inverno tra il 70 e il 69 a.C. (sicuramente prima del 14 gennaio e probabilmente tra dicembre e i primi di gennaio), nel 12º anno di regno del padre,[9] e nel periodo seguente, dal 68 a.C. al 59 a.C., vennero al mondo la sorellastra Arsinoe IV e i fratellastri Tolomeo XIII e Tolomeo XIV.[10] Nel 59 a.C. il padre, Tolomeo Aulete, ottenne il riconoscimento di amicus et socius populi romani, grazie all'appoggio dei triumviri Giulio Cesare e Pompeo.[11] Nell'estate del 58 a.C., però, Tolomeo fu costretto a lasciare l'Egitto per due motivi: uno era la crescente crisi economica del regno e il conseguente innalzamento delle tasse, mentre l'altro era il mancato impegno nel proteggere il regno cliente di Cipro contro l'invasione romana; infatti quello stesso anno l'esercito romano guidato da Marco Porcio Catone aveva strappato l'isola al fratellastro di Tolomeo, Tolomeo di Cipro, e questi si era ucciso per non essere catturato.[12]
Particolare di Cleopatra VII in marmo (89.2.660) (Metropolitan Museum of Art, New York)
Tolomeo Aulete si rifugiò quindi a Roma e Cleopatra lo seguì.[13] In Egitto, intanto, gli Alessandrini elevarono al potere la moglie di Tolomeo, Cleopatra Trifena, e la figlia maggiore, Berenice IV;[14] Trifena, però, morì poco dopo e la figlia di Tolomeo si ritrovò come unica monarca del regno.[15] Berenice si sposò quindi con il principe seleucide Seleuco Kybiosaktes, che morì poco dopo, si dice avvelenato dalla moglie per la sua incapacità di governare, e la principessa si sposò nuovamente, questa volta con Archelao, un sacerdote della Cappadocia.[16] Tolomeo chiese quindi aiuto ai Romani e questi, per rimetterlo sul trono, inviarono Aulo Gabinio, al quale fu anche promessa una ricompensa di diecimila talenti da Tolomeo;[17] Gabinio arrivò in Egitto e catturò subito Archelao ma, pensando che avrebbe guadagnato poco denaro vincendo velocemente, lo rilasciò dichiarando che era fuggito.[18] Alla fine Gabinio riuscì a sconfiggere e uccidere Archelao e Berenice fu condannata a morte da suo stesso padre, che tornò in Egitto insieme a Cleopatra nel 55 a.C.[19] In quegli anni Cleopatra vide per la prima volta Marco Antonio, un giovane nobile romano, a quel tempo al servizio di Gabinio come comandante di cavalleria e con il quale ebbe da adulta una importante relazione sentimentale.[20]
Dopo che Tolomeo tornò in Egitto, si presentò il problema della successione: la maggiore dei suoi figli era Cleopatra, ma per evitare problemi legati al fatto che fosse donna, Tolomeo decise di nominarla co-erede con il figlio maggiore, Tolomeo XIII, chiedendo nel proprio testamento che il popolo romano facesse da guardiano ai due ragazzi quando sarebbero ascesi al trono.[21] Nel 52 a.C. tutti e quattro i figli del re ricevettero l'appellativo di "nuovi dei" e "fratelli amanti" (Θεοι Νεοι Φιλαδελφοι, Theoi Neoi Philadelphoi); inoltre in quello stesso periodo Cleopatra fu associata al trono insieme al padre, assicurando una successione migliore essendo il figlio maschio ancora un bambino.[22]
Dettaglio della Venere esquilina,
statua ellenistica raffigurante Cleopatra
(Musei capitolini, Roma)
Primi anni ed esilio (51-48 a.C.)
Tolomeo XII morì di malattia nella primavera del 51 a.C.[23] e Cleopatra succedette al padre insieme al fratello di dieci anni Tolomeo XIII, che sposò secondo la tradizione che la dinastia tolemaica aveva iniziato con Tolomeo II e Arsinoe II, riprendendo il costume degli antichi faraoni.[24] Assunse immediatamente il titolo di Φιλοπάτωρ (Philopátor, "amante del padre") in onore del defunto genitore.[25] Tuttavia, la giovane regina decise da subito di accentrare il potere nelle proprie mani e di mettere da parte Tolomeo XIII, ancora bambino: aggiunse formalmente al suo titolo l'aggettivo Θεά (Theá, "divina"), diventando Theá Philopátor ("divina amante del padre"), per enfatizzare la sua successione diretta con Tolomeo XII,[26] e fece escludere il nome del fratello-marito dai documenti ufficiali fino al 50 a.C.[27] Cleopatra lavorò anche per cercare appoggio nell'Alto Egitto, governato dall'epistrategos Callimaco, dove il padre aveva goduto di una grande popolarità; le si presentò un'ottima occasione in quanto il toro sacro di Api era morto nel 52 a.C. e l'anno seguente, alla sua ascesa al trono, i sacerdoti ne avevano trovato uno nuovo, che venne consacrato il 22 marzo di quell'anno a Ermonti alla presenza della regina.[28]
Nella seconda metà del 50 a.C., però, l'Egitto fu scosso da una carestia, dovuta ad una secca del Nilo: i nemici di Cleopatra ad Alessandria, capitale e centro del potere egizio, presero l'occasione per far approvare un decreto il 27 ottobre, a nome di Tolomeo XIII e Cleopatra, che obbligava i mercanti a dirottare le scorte di grano dall'Alto Egitto verso la capitale, pena la morte.[29] Minando il territorio dove Cleopatra era più forte, i cortigiani miravano a indebolire la posizione della regina, che tra il 49 e il 48 a.C. fu costretta a lasciare Alessandria, rifugiandosi nella Tebaide.[30] Successivamente, però, la regina decise di lasciare anche l'Alto Egitto e nella primavera del 48 a.C. fuggì insieme alla sorella minore Arsinoe IV nella Siria meridionale, dove il padre aveva avuto molti amici, con lo scopo di formare un esercito per riconquistare il trono.[31]
Guerra civile e riconquista del potere (48-46 a.C.)
La guerra civile tra i figli di Tolomeo Aulete era ormai imminente, quando nel settembre del 48 a.C. arrivò in Egitto il generale romano Gneo Pompeo Magno: questi, battuto da Gaio Giulio Cesare nella battaglia di Farsalo, sperava di ricevere asilo da Tolomeo XIII, visto il buon rapporto che aveva avuto con il padre Tolomeo XII; tuttavia, vista la sua recente sconfitta, ospitarlo avrebbe messo il sovrano egizio in una posizione svantaggiosa.[32] Tolomeo XIII e i suoi consiglieri, con a capo l'eunuco Potino, avendo anche paura che Pompeo potesse prendere il controllo dei Gabiniani di stanza ad Alessandria e prendere il potere in Egitto, decisero di farlo assassinare dall'egizio Achilla e dal romano Lucio Settimio, anche nella speranza di ingraziarsi il favore di Cesare.[33] Inoltre Tolomeo fece mettere in prigione l'ex-console Lucio Cornelio Lentulo Crure, che morì poco dopo.[34]
Quando il vincitore di Farsalo arrivò, Tolomeo gli offrì la testa di Pompeo, ma le sue speranze non andarono a buon fine, poiché Cesare non approvò l'uccisione di un suo concittadino.[35] Con il suo più grande rivale ormai morto, Cesare decise di rimanere in Egitto per sistemare la situazione tra Tolomeo e Cleopatra, forte del testamento di loro padre che affidava al popolo romano la custodia su di loro: in qualità di console, infatti, Cesare ordinò che i due rivali smantellassero gli eserciti e risolvessero la controversia attraverso la giustizia.[36] Tuttavia, Cesare non fu affatto buon visto dagli egizi: si presentò ad Alessandria come un console in visita in una città assoggettata e pretese il denaro che Tolomeo XII gli aveva promesso nel 59 a.C.; per questo motivo ci furono delle sollevazioni popolari che portarono alla morte di molti suoi soldati.[37]
I due rivali, quindi, arrivati ad Alessandria, e all'inizio di novembre vennero nominati da Cesare nuovamente co-reggenti; allo stesso momento, il console donò l'isola di Cipro ai fratelli minori di Cleopatra e Tolomeo, Arsinoe e Tolomeo minore.[38] Tuttavia, nel frattempo, Potino, il reggente di Tolomeo XIII, aveva mandato degli ordini al generale Achilla per far arrivare l'esercito da Pelusio ad Alessandria, per sconfiggere il console e liberare Tolomeo; Achilla, aiutato dai Gabiniani, arrivò in città e riuscì facilmente a conquistarne la gran parte, assediando il palazzo reale, dove Cesare si difendeva con i suoi pochi soldati.[39] Il console ordinò quindi di bruciare la flotta egizia nel porto, causando la distruzione di gran parte di Alessandria, compresa la grande biblioteca;[40] inoltre, avendo scoperto le trame di Potino e temendo che potesse far scappare Tolomeo dal palazzo, lo fece arrestare e uccidere.[41]
Arsinoe, intanto, riuscì a fuggire dal palazzo con l'aiuto dell'eunuco Ganimede e si unì alle truppe assedianti;[42] essendo però entrata in disaccordo con Achilla, lo fece uccidere e affidò il comando delle truppe a Ganimede.[43] Dopo alcuni scontri tra le flotte che videro la vittoria di Cesare e dei suoi alleati rodi comandati da Eufranore,[44] gli egizi iniziarono a dubitare di Ganimede e Arsinoe e decisero di consegnarli a Cesare in cambio del rilascio di Tolomeo; questi riuscì quindi a ricongiungersi con le sue truppe.[45] Arrivarono nello stesso tempo, però, i rinforzi di Cesare: truppe romane da Siria e Cilicia, le truppe pergamene di Mitridate e i giudei di Antipatro.[46] Mentre Tolomeo abbandono l'assedio per attaccare gli alleati dei Romani, le truppe di Cesare lo attaccarono il 26 e 27 marzo del 47 a.C.: le truppe egizie furono sconfitte nella battaglia del Nilo, Tolomeo morì nella fuga e Arsinoe venne catturata.[47]
Cleopatra, rimasta unica sovrana dell'Egitto, nominò coreggente il fratello più giovane, Tolomeo XIV. L'Egitto rimase formalmente indipendente, anche se tre legioni romane furono fatte stanziare allo scopo di mantenere l'ordine pubblico.
Testa colossale di Tolomeo XV Cesare, figlio di Cesare e Cleopatra (Bibliotheca Alexandrina, Alessandria d'Egitto)
La relazione tra Cesare e Cleopatra, dalla quale nacque un figlio, Tolomeo XV Cesare detto Cesarione, aveva per entrambi scopi politici: il dittatore romano doveva assicurarsi il controllo dell'Egitto, importante per le sue risorse finanziarie, mentre Cleopatra sperava con essa di ottenere per il paese una posizione di privilegio all'interno dell'impero.
Il soggiorno a Roma e Marco Antonio (46-31 a.C.)
Nel 46 a.C. Cleopatra andò a Roma con il figlio appena nato e vi rimase fino alla morte di Cesare, nel 44 a.C. Nell'estate dello stesso anno morì Tolomeo XIV per cause naturali; subito dopo Cesarione venne designato come coreggente, prendendo il nome di Tolomeo XV Cesare.
Nel 42 a.C., Marco Antonio, uno dei triumviri che governavano Roma in seguito al vuoto di potere conseguente la morte di Cesare, chiese a Cleopatra di incontrarlo a Tarso per verificarne la lealtà. Antonio poi la seguì ad Alessandria, dove rimase fino all'anno successivo. Dalla loro unione nacquero i due gemelli Cleopatra Selene e Alessandro Helios.
Massima espansione del Regno d'Egitto sotto il governo di Cleopatra, a seguito delle Donazioni di Alessandria
Quattro anni dopo, nel 37 a.C., mentre era in viaggio per la guerra contro i Parti, Antonio incontrò Cleopatra ad Antiochia, dove si sposarono, anche se il triumviro era legato a Ottavia, sorella di Ottaviano. Poco dopo nacque un altro figlio, Tolomeo Filadelfo. Ottavia venne rimandata a Roma. Dopo la conquista dell'Armenia, nel 34 a.C., condotta da Antonio con il contributo finanziario egiziano, entrambi celebrarono il trionfo ad Alessandria.
Il tradizionalismo dell'opinione pubblica romana fu profondamente scosso dalla inconsueta procedura trionfale e dalle decisioni prese nell'occasione della Donazione di Alessandria: Cleopatra ebbe il titolo di "regina dei re", fu associata nel culto a Iside e nominata reggente dell'Egitto e di Cipro con Cesarione; Alessandro Helios fu incoronato sovrano dell'Armenia, Media e Partia, Cleopatra Selene fu nominata sovrana di Cirenaica e Libia, mentre Tolomeo Filadelfo fu incoronato sovrano di Fenicia, Siria e Cilicia.
Declino e morte (31-30 a.C.)
La politica di Cleopatra e Antonio, tesa a dominare tutto l'Oriente, favorì la reazione di Ottaviano, che accusò la regina di minare il predominio di Roma e convinse i Romani a dichiarare guerra all'Egitto. La regina aveva fatto costruire una flotta possente (Flotta tolemaica di Cleopatra): circa 300 navi di grossa stazza. Nel 31 a.C. le forze navali romane si scontrarono con quelle di Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio.
Visto che la battaglia era persa la regina ordinò alla sua scorta personale, circa 60 navi, di aprirsi un varco nella flotta romana e riparò ad Alessandria, seguita da Antonio. Dopo la vittoria Ottaviano invase il Regno tolemaico d'Egitto e, dopo una breve resistenza, entrò ad Alessandria. Nel 30 a.C., dopo il suicidio di Antonio per non essere torturato e fatto prigioniero da Ottaviano, Cleopatra si rinchiuse nel mausoleo dei Tolomei e, secondo la versione classica di Plutarco, si uccise facendosi mordere da un aspide. Ipotesi moderne propongono alternative, come il suicidio con l'uso di veleni.[48]
Il suicidio di Cleopatra,
busto in marmo di Claude Bertin (1690 circa,
Museo del Louvre, Parigi)
Plutarco nel suo Vita di Antonio, racconta come Cleopatra decise di usare questo animale:«...Cleopatra raccoglieva ogni sorta di veleni mortali, tra i più forti che ci fossero, e di ciascuno di essi provava se erano efficaci e nello stesso tempo indolori, propinandoli ai detenuti in attesa di morire. Poiché vide che quelli istantanei procuravano una morte subitanea, ma dolorosa, e i più dolci non erano rapidi, provò gli animali, osservandoli di persona, mentre venivano applicati uno dopo l'altro. Fra tutti trovò quasi solo il morso dell'aspide, che induceva nelle membra un torpore sonnolento e un deliquio dei sensi, senza per questo arrecare spasimo o provocare gemiti; non appariva che un lieve sudore alla fronte, mentre le facoltà percettive svanivano, si rilasciavano dolcemente, e resistevano a ogni tentativo di risvegliarle e richiamarle in vita, come chi dorme profondo...».
Nel 2010, lo storico tedesco Christoph Schäfer ha sfidato tutte le altre teorie, dichiarando che la regina in realtà si avvelenò e morì per aver bevuto una miscela di veleni. Dopo aver analizzato i testi storici con la consulenza di tossicologi, lo storico ha concluso che l'aspide non avrebbe potuto causare una morte lenta e indolore, in quanto il veleno dell'aspide (identificato col cobra egiziano anziché con la vipera, che inocula poco veleno, mentre il cobra è quasi sempre mortale; inoltre il cobra era il simbolo dei Re d'Egitto) paralizza le parti del corpo, a partire dagli occhi, prima di causare la morte. Schäfer e il suo tossicologo Dietrich Mebs ritengono che Cleopatra avesse usato una miscela di cicuta, aconito e oppio, simile a quella che venne usata per avvelenare Socrate.[49]
Plutarco ci ha riportato il breve discorso tra Marco Vipsanio Agrippa e un'ancella di Cleopatra, davanti al corpo della regina ormai morta: «Ti sembra sia stata una degna fine?» chiese il romano. L'ancella rispose: «Più che degna... degna dell'ultima regina d'una grande stirpe!». Cesarione fu fatto giustiziare da Ottaviano, mentre i tre figli avuti da Cleopatra con Antonio furono portati a Roma[50]. L'Egitto divenne una provincia romana retta dal prefetto d'Egitto, funzionario di rango equestre[51]. Ottaviano, ritornato a Roma per festeggiare il trionfo della spedizione egiziana, fece allestire su un carro un dipinto della bellissima regina, portandolo in trionfo attraverso le vie della città.[52]
Cleopatra
(Cleopatra Tea Filopatore)
Busto marmoreo di scuola alessandrina
raffigurante la regina Cleopatra, 40/30 a.C.
(Altes Museum, Berlino)
(da wikipedia)
- figlia di Mitridate VI del Ponto e moglie di Tigrane II d'Armenia.
(da wikipedia)
Berenice III
Cleopatra Berenice Tea Filopatore (in greco antico: Κλεοπάτρα Βερενίκη Θεά Φιλοπάτωρ, Kleopátra Bereníke Theá Philopátōr; in egizio: birnikt, birniket; 120 a.C. circa[1] – giugno 80 a.C.[2]), conosciuta fino al 101 a.C. semplicemente come Berenice (Berenice III nella storiografia moderna, per distinguerla dalle omonime antenate) e fino all'80 a.C. come Cleopatra Berenice, è stata una regina egizia appartenente al periodo tolemaico.
Busto che potrebbe rappresentare Cleopatra Berenice
(o Cleopatra I o Cleopatra II) (Museo del Louvre, Parigi)
Berenice III era l'unica figlia legittima di Tolomeo IX Sotere II Latiro dalla prima moglie Cleopatra IV.[3] Era un membro della dinastia ellenistica dei Lagidi e discendeva quindi da Tolomeo I Sotere, uno dei diadochi di Alessandro Magno. Era la sorellastra di Tolomeo XII Aulete e di Tolomeo di Cipro; i suoi nonni (sia paterni che materni, poiché i genitori erano fratelli) erano Tolomeo VIII Evergete II Fiscone e Cleopatra III, quindi i sui zii erano Cleopatra Trifena, Cleopatra Selene, Tolomeo X Alessandro e Tolomeo Apione, mentre Tolomeo XI Alessandro II era il cugino.
Giovinezza, matrimoni e regno
Nel 107 a.C. il padre di Berenice, Tolomeo IX Sotere, fu cacciato da Alessandria d'Egitto e prese il suo posto il fratello minore, Tolomeo X Alessandro, in co-reggenza con la madre dei due, Cleopatra III.[4] Nel 101 a.C., alla morte della madre, Tolomeo X sposò Berenice, che assunse quindi anche il nome dinastico di Cleopatra; da questa unione nacque almeno una figlia, di cui però non si conosce il nome.[5] Tolomeo X aveva già avuto un figlio, chiamato anche lui Tolomeo Alessandro, da una relazione sconosciuta.[6] All'inizio dell'88 a.C. Tolomeo X fu cacciato dagli alessandrini e fuggì in Asia minore con Cleopatra Berenice e la figlia; da lì cercò di riconquistare il trono ma morì in battaglia a marzo e Tolomeo IX, il padre di Berenice, tornò a essere faraone.[7] Cleopatra Berenice tornò quindi in Egitto e venne associata al trono dal padre.[8]
A marzo dell'80 a.C. Tolomeo IX morì, lasciando il trono a Cleopatra Berenice, la sua unica figlia legittima; assunse allora il nome aggiuntivo di Tea Filopatore, in onore del padre.[9] L'esperienza di una regina da sola sul trono incontrò molte opposizioni e solamente dopo pochi mesi, a giugno, Cleopatra Berenice fu costretta a sposare il cugino Tolomeo Alessandro (figlio del precedente marito), anche su pressione del dittatore romano Lucio Cornelio Silla, del quale Alessandro era un protetto.[10] Solamente dopo 18 o 19 giorni di matrimonio, però, Tolomeo Alessandro fece uccidere Cleopatra Berenice per regnare da solo; questo fatto fece scatenare una rivolta popolare ad Alessandria, dove Berenice era molto amata, e Alessandro fu subito sostituito da Tolomeo XII Aulete, figlio naturale del padre di Berenice e quindi suo fratellastro.[11]
Secondo la titolatura reale egizia, Berenice III ebbe diversi nomi:
Berenice III nella cultura
Cleopatra Berenice è la protagonista del libretto del 1709 Berenice, regina d'Egitto di Antonio Salvi: questo fu inscenato per la prima volta il 29 settembre di quell'anno nel teatro della villa medicea di Pratolino con musiche di Giacomo Antonio Perti e nel 1737 fu la base dell'opera di Georg Friedrich Händel Berenice, messa in scena per la prima volta il 18 maggio 1737 alla Royal Opera House di Londra.[13]
(da wikipedia)
Euridice, nata Cleopatra (in greco antico: Κλεοπάτρα Ευρυδίκη, Kleopàtra Eurydìke; prima del 338/337 a.C. – dopo il 336 a.C.), è stata una nobile antica macedone, nipote del generale Attalo e ultima delle sette mogli di Filippo II di Macedonia[1]. Si pensa che Cleopatra e Filippo abbiano avuto dei figli, ma la loro esistenza non è del tutto certa; se esistettero, comunque, furono certamente uccisi subito dopo la morte di Filippo.
Cleopatra, ancora vergine, sposò Filippo nel 338[1] o 337 a.C.[2];[3] come moglie di Filippo, le fu dato il nome di Euridice. Sebbene Filippo fosse poligamo, questo suo nuovo matrimonio sconvolse profondamente Olimpiade d'Epiro, la quarta moglie, visto che il diritto al trono del figlio Alessandro fu messo in discussione.
Secondo Marco Giuniano Giustino[4] e Satiro di Callati[5], Cleopatra Euridice e Filippo ebbero due figli: Europa, una femmina, e Carano, un maschio.[6]
Secondo gli storici antichi, dopo l'assassinio di Filippo, i piccoli Europa e Carano furono fatti uccidere da Olimpiade d'Epiro; in seguito, forse in conseguenza di questo fatto, Cleopatra Euridice si suicidò.[7] Lo storico Peter Green è fermamente convinto del fatto che fu Alessandro a decidere la morte di Carano, ma che l'uccisione di Europa e Cleopatra Euridice siano da attribuirsi ad una vendetta di Olimpiade.
(da wikipedia)
Cleopatra di Gerusalemme (floruit 25 a.C. – dopo il 4 a.C.) fu la quinta moglie di Erode il Grande.
Nulla si conosce delle origini di Cleopatra.[1] Sposò Erode nel 25 a.C.[2] e gli diede due figli: Filippo (II), nato nel 20 a.C., ed Erode II, nato nel 18 a.C. circa.[3]
Sopravvisse alla morte di Erode avvenuta nel 4 a.C.[4]
(da wikipedia)
(354 a.C. circa – Sardi, 308 a.C.) fu regina d'Epiro.
Era figlia di Filippo II di Macedonia e di Olimpia d'Epiro, e quindi sorella di Alessandro Magno. Nel 337 a.C. andò in sposa allo zio Alessandro I, re d'Epiro e fratello di Olimpia.
Nel 326 a.C. divenne vedova e fu oggetto delle brame di vari generali macedoni che desideravano sposarla per poter accampare diritti al trono di Macedonia. Il primo, Leonnato, al quale era stata promessa, trovò la morte nella guerra lamiaca nel 322 a.C. L'anno seguente morì un altro pretendente, Perdicca.
Cleopatra fu assassinata a Sardi nel 308 per ordine di Antigono I.
(da wikipedia)
Cleopatra Selene (in greco antico: Κλεοπάτρα Σελήνη, Kleopátra Seléne; Alessandria d'Egitto, 25 dicembre 40 a.C. – Cesarea in Mauritania, 6), chiamata nella storiografia moderna Cleopatra VIII o Cleopatra Selene II (per distinguerla dalla pro-prozia Cleopatra Selene), è stata una regina egizia del periodo tolemaico, unica figlia femmina della regina d'Egitto Cleopatra VII e del triumviro romano Marco Antonio, gemella di Alessandro Helios. Sposò il re di Numidia e di Mauretania Giuba II.
Il primo nome, Cleopatra, deriva da quello della madre Cleopatra VII, ultima sovrana d'Egitto. Il secondo nome deriva dalla dea greca Selene (Σελήνη, Luna), appunto, e le fu dato, come riferisce Plutarco, per contrapposizione con il secondo nome del fratello gemello, Helios ( Ἥλιος, Sole).
Dopo la conquista dell'Armenia, nel 34 a.C., condotta con il contributo finanziario egiziano, Antonio celebrò questo successo politico-militare (l'organizzazione della difesa dello Stato romano contro i Parti era in tal modo consolidata) entrando come un trionfatore ad Alessandria d'Egitto, dove donò a Cleopatra l'intero bottino e, in occasione dei successivi festeggiamenti, nominò Cleopatra Selene sovrana di Cirenaica e Libia. Nella stessa occasione la regina Cleopatra ebbe il titolo di "regina dei re", fu associata nel culto a Iside e nominata reggente dell'Egitto e di Cipro insieme a Cesarione (il figlio che aveva avuto da Giulio Cesare), mentre dei due fratelli di Cleopatra Selene avuti con Antonio, Alessandro Helios fu incoronato sovrano dell'Armenia, Media e Partia, e Tolomeo fu incoronato sovrano di Fenicia, Siria e Cilicia.
L'evento è conosciuto come le “donazioni di Alessandria”, e si trattò del più grande trionfo politico di Cleopatra e contemporaneamente di un gravissimo atto di Antonio nei confronti di Roma e in particolare del suo rivale Ottaviano. Il tradizionalismo dell'opinione pubblica romana fu infatti profondamente scosso dalla inconsueta procedura trionfale e dalle decisioni prese nell'occasione; l'incoronazione dei tre fanciulli era un evidente colpo inferto alla potenza di Roma, poiché se è pur vero che i ragazzi, in quanto figli di Antonio, erano romani, il padre li poneva però (tranne Cesarione) in una situazione di subordine nei confronti di Cleopatra, la “regina dei re”, in modo che i territori su cui i tre avevano la sovranità venivano, di fatto, posti sotto il controllo della regina d'Egitto, determinando quindi l'estromissione dell'autorità di Roma sull'Oriente. Questa situazione fu una delle cause che determinarono l'ultimo conflitto fra Antonio e Ottaviano, che si concluse con la vittoria di quest'ultimo nella battaglia di Azio.
Dopo la morte di Cleopatra e Antonio e l'occupazione dell'Egitto da parte di Ottaviano, quest'ultimo, in occasione del trionfo per la vittoria riportata, fece sfilare i tre orfani di Marco Antonio avvinti in pesanti catene d'oro, ma poi li consegnò a sua sorella Ottavia Minore perché si occupasse della loro educazione. Dei due maschi si persero ben presto le tracce, probabilmente eliminati prima che, crescendo, diventassero un potenziale pericolo come simbolo politico in quanto eredi di Marco Antonio. Non tutti gli studiosi accettano però l'ipotesi di un'eliminazione dei due ragazzi (Ottaviano, in fondo, li aveva risparmiati, contrariamente a quanto aveva fatto con Cesarione), che potrebbero invece essere deceduti per cause naturali.
Tra il 26 e il 20 a.C. Ottaviano, divenuto ormai l'imperatore Augusto, concesse Cleopatra in moglie al re numida Giuba II[1], mettendole a disposizione una enorme dote. L'unione aveva un evidente scopo politico; il re numida infatti divenne in tal modo un fedele alleato di Roma, al punto che fu accusato di eccessiva romanizzazione dai suoi sudditi e dovette fuggire dalla Numidia a seguito di violenti disordini, per rifugiarsi in Mauretania. Qui la coppia reale si stabilì nella nuova capitale, Iol (ribattezzata Cesarea in omaggio a Roma, l'attuale Cherchell, in Algeria).
Ebbero forse tre figli: Cleopatra (incerta), Tolomeo (1 a.C. – 40) e Drusilla (5 - ?). Tolomeo fu re di Mauretania (inizialmente in co-reggenza con il padre) dal 21 al 40, anno in cui fu fatto assassinare da Caligola che poi annesse la Mauretania all'impero romano. Anche su Drusilla sussiste qualche dubbio; tra l'altro, sia per l'età avanzata in cui Cleopatra l'avrebbe partorita, sia per il nome, caratteristico della famiglia imperiale romana, con la quale invece Cleopatra sembrerebbe aver definitivamente reciso ogni legame.
Cleopatra esercitò una notevole influenza sulle politiche di Giuba. Sotto il loro governo il regno di Mauritania ebbe un florido sviluppo soprattutto commerciale in tutta l'area mediterranea, ma anche artistico, con la costruzione di monumenti (che risentono di stili egizi, greci e romani mescolati insieme) ed un mausoleo dove i due coniugi vennero sepolti. Diversi elementi fanno intendere che in lei abbia prevalso un carattere ereditario greco-egizio, piuttosto che romano.
Non si hanno testimonianze biografiche certe su Cleopatra, ed infatti la data della morte si colloca in un intervallo di tempo abbastanza ampio, tra il 5 a.C. ed il 18, con qualche probabilità di collocazione intorno al 5-6 d.C. Si tratta infatti di deduzioni indirette, derivate da indizi numismatici e dalla circostanza di un probabile secondo matrimonio di Giuba verso l'anno 6.
Note
La data del 20 sembrerebbe la più accreditata, ma solo da prove numismatiche; una moneta numida del 6º anno di regno di Giuba (19-20 a.C.) raffigura infatti per la prima volta il re insieme a Cleopatra Selene, dal che si deduce che quello dovrebbe essere l'anno del matrimonio. D.W.Roller fa però notare che quando Giuba lasciò Roma per diventare re, verso il 25, entrambi erano già in età da matrimonio, e quindi potrebbero essersi sposati già in quell'anno. Ma la teoria è tutta da dimostrare.
(da wikipedia)
Cleopatra Tea Evergete (in greco antico: Κλεοπάτρα Θεά Εὐεργέτις, Kleopátra Theá Eyergétis; 164 a.C. circa – 121 a.C.), conosciuta semplicemente come Cleopatra Tea, è stata regina egizia del periodo tolemaico, regnante nell'impero seleucide in quanto sposa di Alessandro I Bala, Demetrio II Nicatore e Antioco VII Evergete Sidete, madre di Antioco VI Dioniso e per proprio diritto.
Cleopatra apparteneva alla dinastia dei Tolomei, in quanto figlia del faraone Tolomeo VI. Il padre la diede in sposa, a Tolemaide, al sovrano seleucide Alessandro I Bala per suggellare la loro alleanza (150 a.C.): dal loro matrimonio nacque Antioco VI Dioniso (147 a.C.).
Nel 148 a.C. Tolomeo ruppe l'alleanza con Alessandro per stringerne una con il suo antagonista, Demetrio II, e fece divorziare Cleopatra per darla in sposa a quest'ultimo (146 a.C.). Alla morte di Alessandro, Antioco VI viene salvato dal generale Diodoto, che però dopo poco uccide Antioco per indossare la corona. Anche dal secondo matrimonio Cleopatra ebbe dei figli, Seleuco V Filometore, una figlia e Antioco VIII Gripo. Demetrio fu però catturato dai Parti e tenuto in ostaggio: il suo posto venne preso dal fratello, Antioco VII Sidete, che, allo scopo di rafforzare la propria posizione, sposò Cleopatra. I due ebbero almeno un figlio, Antioco IX Cizenico, mentre i nomi degli altri figli non sono noti.
Nel 129 a.C. Sidete venne ucciso e Demetrio, tornato sul trono, reclamò la propria sposa: Cleopatra, per evitare guai peggiori al figlio di Sidete, inviò Antioco IX nella città di Cizico, in Asia Minore (da cui prese il soprannome Cizico). Demetriò tentò invano di invadere l'Egitto in favore delle pretese dinastiche della madre di Cleopatra Tea, Cleopatra II, e, quando tornò in patria senza l'esercito che l'aveva abbandonato, cercò di rifugiarsi a Tolemaide Ermio (moderna el-Mansha), ma la città gli chiuse le porte per ordine di Cleopatra Tea: salito a bordo di una nave, venne assassinato per ordine della moglie.
Dal 125 al 121 a.C. Cleopatra regnò sulla Siria, uccidendo il primo figlio avuto da Demetrio, Seleuco V, che cercava di reclamare il trono del padre. Per legittimare il proprio regno, Cleopatra associò al trono il figlio Antioco VIII Gripo. Antioco divenne sempre meno controllabile, mentre cresceva, e Cleopatra decise di assassinarlo; di ritorno da una caccia, Antioco si vide offrire dalla madre, con insistenza, del vino: insospettito, la obbligò a berlo prima lei, e Cleopatra morì.
(da wikipedia)
Moneta di Cleopatra Tea
– figlia di un prefetto in servizio a Tebe sotto Traiano nel II secolo; la mummia, rinvenuta presso Kurma, è esposta al British Museum
(da wikipedia)
Cleopatra Trifena (in greco antico: Κλεοπάτρα Τρύφαινα, Kleopátra Trýphaina; ... – 112 a.C.), o semplicemente Trifena, è stata una regina egizia appartenente al periodo tolemaico.
Figlia maggiore di Tolomeo VIII e Cleopatra III, quindi sorella di Tolomeo IX, Tolomeo X, Cleopatra IV e Cleopatra Selene, sposò il sovrano seleucide Antioco VIII Gripo. Durante una lotta con il rivale del marito, Antioco IX Eusebe, e dopo la morte di sua moglie, nonché sorella di Trifena, Cleopatra IV, nel 113 a.C., Trifena si suicidò quando cadde nella mani di Antioco IX, nel 112 a.C.
(da wikipedia)
CLEROMANZIA
Specie di divinazione che si faceva col gettare dadi, fave, ciottoli, ecc., i quali, agitati nell’urna si versavano poi sopra una tavola, pronosticando l’avvenire secondo la disposizione dei numeri che presentavano.
CLIMENE
NINFA OCEANINA
(Vedi Fetonte)
CLIO
Clio (in greco Κλειώ), un personaggio della mitologia greca, era la musa della Storia.
Figlia di Zeus e Mnemosine (cioè della potenza e della memoria), ebbe secondo una versione il figlio Reso dal re Strimone prima che questi diventasse dio fluviale. Viene rappresentata con una tromba nella mano destra e una pergamena nella sinistra.
Il mito narra che, dopo un alterco con Afrodite, quest'ultima l'abbia punita facendola innamorare di Pierio (re di Macedonia). Dalla loro unione discenderebbero Giacinto, Imene e Ialemo.
Il nome Clio proviene dalla medesima radice del verbo κλείω che in greco significa "rendere famoso, celebrare, glorificare": per questo motivo fu la musa prima della poesia epica e poi della storia, generi letterari i quali, con metodi completamente differenti hanno il fine comune di narrare le grandi gesta del passato.
(da wikipedia)
CLIPEO
Scudo grande e rotondo di metallo, usato dai soldati greci e romani.
Indicava il grande scudo cavo dell'oplita greco o del precedente guerriero nuragico. Nella terminologia dell'arte romana, il termine clipeus passò poi a indicare un ritratto iscritto in uno spazio rotondo.
Il clipeus venne derivato dagli Antichi romani dall'oplon delle forze di fanteria pesante (Vedi Oplita) operativi nella Magna Grecia grazie alla mediazione culturale operata dagli Etruschi[1]. Il suo uso da parte delle truppe romane data agli anni del regno del monarca di origine etrusca Servio Tullio.
Il clipeus fu abbandonato quando al legionario romano fu pagato per la prima volta lo stipendio, verso la fine del V secolo a.C.[2]. Restò comunque in uso, quale arma cerimoniale ai cittadini romani più abbienti che ne richiesero la fabbricazione in metallo pregiato poi sontuosamente decorato.
CLISTENE
Uomo politico e legislatore ateniese (VI s.a.C.). Si affermò in Atene dopo la cacciata dei Pisistradi, quando la borghesia ateniese rafforzatasi in seguito alle leggi soloniane, seppe conquistare alla propria causa gli stessi Alcmeonidi, alla cui gens apparteneva Clìstene. Nel 508–507 a.C., attese all’elaborazione di un riordinamento politico, noto sotto il nome di riforma costituzionale di Clìstenem, e nel 507–506, fu arconte. Il primo intento suo fu di metter fine o almeno di ridurre la potenza delle famiglie nobili, potenza che poggiava sulla divisione dell’Attica in quattro tribù di origine gentilizia, divenute poi territoriali, dalle quali provenivano i membri del Consiglio dei 400. L’Attica fu invece suddivisa in un centinaio di municipi (demi), riuniti tre a tre, nelle trittìe e queste furono a loro volta raggruppate in dieci tribù, ciascuna delle quali era formata da trittìe appartenenti a diverse zone dell’Attica. Ogni tribù doveva fornire cinquanta membri per la nuova Bulè, divenuta in tal modo il Consiglio dei 500. I buleuti poi sorteggiati tra le prime tre classi, non dovevano esercitare il loro ufficio contemporaneamente, bensì cinquanta alla volta, per una decima parte del l’anno. Il sorteggio che era stato istituito da Solone, fu invece abolito per gli arconti, che dovevano essere eletti fra i cittadini della prima classe. Si trattò dunque di una costituzione moderatamente censitaria atta a favorire la classe media, e che comportò una maggiore fusione fra le famiglie e le classi stesse, come pure una diminuzione dell’autorità dell’arcontato, anche perché Clìstene trasferì i poteri militari dall’arconte Polemarco a dieci strateghi eletti dalle tribù. Per prevenire un possibile ritorno della tirannide, introdusse una legge secondo la quale chiunque cadesse in sospetto di aspirare alla tirannide, poteva venir esiliato per dieci anni, qualora 6000 cittadini esprimessero in votazione segreta tale decisione. La legge fu detta ostracismo da òstrakon (coccio), tavoletta di terra cotta, su cui i cittadini scrivevano il voto.
CLITARCO
Storico Greco, figlio di Dione lo storico; accompagnò Alessandro il Grande nella sua spedizione in Asia, e ne scrisse la storia. Cicerone censura quest’opera, ed in un altro passo. rimprovera a Clitarco d’aver mescolato nella sua narrazione della morte di Temistocle, la favola, alla storia. Quintiliano dice che Clitardo è più abile che veritico, Longino condanna il suo stile frivolo e gonfio, applicandogli un’espressione di Sofocle
CLITEMNESTRA
Figlia di Tindaro e di Leda; sorella di Elena, di Castore e di Polluce, moglie di Agamennone, mitico re di Argo e di Micene, capo supremo dei greci contro Troia. Clitemnestra fu amante di Egisto, l’ultimo dei Tiestei; trucidò il marito Agamennone al suo ritorno dalla guerra troiana.. Il figlio Oreste per vendicare il padre la uccise.
CLISOFONE
Storico e geografo greco di Rodi; scrisse parecchie opere citate da Plutarco. I suoi frammenti furono pubblicati da Muller
CLITORIO
Città antica dell’Arcadia; giaceva in mezzo alla pianura, detta oggi Bazzana. Aveva tre templi, uno dedicato a Cerere, uno ad Asclepio, dio della saviezza, il terzo ad Ilizia, dea dei Parti.
CLITUNNO
(Clitumnas)
Fiume dell’Umbria; nasce non lungi dal Villaggio Le Vene nel circondario di Spoleto (oggi Maroggia), e sbocca nel Chiagio. Ad un ora da Trevi vedesi alle sue sponde un piccolo tempio pagano, del basso impero. Questo fiume fu celebrato da poeti antichi e moderni. La valle per cui esso scorre, dalla sua sorgente fino a Bevagna, è un largo tratto di perfetta pianura, circoscritta in tutte le parti dalle pendici laterali degli Apennini. Gli abbondanti suoi pascoli davano alimento, nei tempi antichi, ad una finissima razza di candide agnella, preferite pei sacrifici. Credevasi che quella rara candidezza della lana derivasse dal bagnarsi nelle acque limpide del Clitumno e dal berle. Tradizione che sussiste ancora fra gli abitanti della vallata.
CLIZIA
Ninfa, figlia d’Oceano (Nettuno) e Teti (dèa del Mare); moglie o secondo altra versione figlia di Pelope. Amata da Apollo è trasformata da questi in girasole.
(Vedi Flora)
CLOACA
Specie di acquedotto sotterraneo e scolatoio comune per ricevere e scaricare le immondezze. Le cloache più notevoli erano quelle di Roma, di cui rimangono tuttora avanzi considerevoli in buon stato. Esse sono, senza fallo, antichissime, e se ne riferisce l’origine ai tempi di Tarquinio il Superbo. Le sole cloache che si possono paragonare a quelle di Roma, sono quelle di Londra e certo nessuna città è meglio fornita di siffatte costruzioni. Anche Costantinopoli ha una celebre cloaca; delle romane dopo venticinque secoli rimane ancora la Cloaca Massima, che, costruita dai Tarquinii, raccoglie le acque e le immondizie per gettarle nel Tevere. Comincia in mezzo al Foro romano, discende al Velebro, passa sotto l’arco di Giano Quadrifronte e va nel fiume vicino al tempio di Vesta. Ad essa mettevano capo i canali che raccoglievano le acque dell’Esquilino, del Quirinale e del Viminale; è fatta di grossi blocchi di tufo, congiunti senza cemento a pezzi di travertino. L’altezza della volta è di mt.3,60, Dall’alto del Ponte Rotto si può vedere lo sbocco della cloaca nel Tevere, quando il fiume è povero d’acque.
CLOACINA
Era il nome della dèa delle cloache. Tito Tazio avendo trovato a caso una statua in una cloaca ne fece una divinità e la consacrò sotto questo nome. Cloacina, fu soprannome dato a Venere per un tempio consacratole a Roma presso un luogo paludoso.
CLODIA
(Legge)
Questo nome ebbero a Roma parecchie leggi proposte dal tribuno P. Clodio (anno di Roma 695), vietava ai censori di cacciare dal senato o notare d’infamia alcuna persona, se non prima d’essere stata accusata apertamente, e da essi concordemente condannata; un’altra diretta principalmente contro Cicerone, ordinava fosse interdetto dal fuoco e dall’acqua chiunque avesse messo a morte un cittadino non condannato e senza giudizio; una terza proibiva di prendere àuspici ed osservare il cielo quando il popolo fosse congregato per pubblici affari.
CLODIO
Publio
Patrizio romano, acerrimo nemico di Cicerone e di Milone, ebbe l’edilità e il tribunato; incontratosi un giorno (52 a.C.), con quest’ultimo mentre tornava dalla sua villa ad Ariccia, rimase ferito ed ucciso sulla pubblica strada Accusato d’omicidio, Milone fu difeso inutilmente da Cicerone, e, prima della condanna, esulò spontaneamente a Marsiglia.
CLODIONE
Primo capo Franco che si stabilì nella Gallia dopo aver passato il Reno; fu vinto da Ezio, generale romano, ma tornò ben presto e affermò il suo potere fra i paesi posti tra il Reno e la Somma. Morì verso il 447 e gli successe Meroveo dal quale prese nome la dinastia dei Merovingi.
CLOELIA
o GlUILIA Gens
Era patrizia e Albana d’origine; si dice che il nome le derivasse da Cloelio, compagno di Enea. Dopo la distruzione d’Alba i Cloelii, formarono parte del senato romano. La Fossa Cluilia che circondava Roma, era opera di un principe albano di questa Gens, chiamato Cluilio.
CLOTO
Clòto era una delle tre Moire (o Parche), figlia, secondo una versione, della Notte o, secondo un'altra, di Zeus e di Temi o Mnemosine. Era la più giovane e tradizionalmente associata alla nascita. Era la tessitrice, che filava lo stame della vita. Il suo nome viene dal greco Klothes, ovvero filatrice.
CNIDO
(CNIDUS)
Città della Caria.La Caria (dal luvio Karuwa, "contrada scoscesa"; in greco Καρία, in turco: Karya) era una regione storica nell'ovest dell'Anatolia, che si estendeva a sud della Ionia, a nord della Licia e a ovest della Frigia. I greci (ioni e dori) ne colonizzarono la regione costiera e si fusero con la popolazione locale. Gli abitanti della Caria, i cari, vi erano stanziati ancor prima dei greci: per Erodoto si trattava di discendenti dei minoici[1], mentre i cari stessi ritenevano di discendere da popolazioni anatoliche dell'interno e di essere imparentati con i misi e i lidi; la lingua caria era in effetti una lingua anatolica. Un ultimo popolo rilevante per i cari era quello dei lelegi, un nome con cui forse si indicavano in antico gli antenati dei cari o i precedenti abitanti della loro regione di insediamento successivo.(da: Wikipedia)
CNOSSO
- Cnosso o Cnufi
- Cnosso o Cnossus
Divinità egiziana, adorata specie nell’isola d’Elefantina, e nel mezzodì della Tebaide. Il nome geroglifico di questo dio varia spesso nella sua ortografia. Dai Romani era conosciuto sotto il nome di Jupiter Amman - Cenubis. Pare si volesse indicare che questo essere incognito e nascosto era lo spirito che anima e conserva l’universo.
Antica città reale dell’isola di Creta, presso la costa settentrionale nel Mediterraneo orientale, abbondava di tradizioni mitologiche, e dicevasi fondata da Minosse Abitata fin dal Neolitico*, raggiunse il suo massimo splendore all’inizio del II millennio a.C. per decadere dopo il XV s.a.C., probabilmente causa la conquista greca. In quella occasione furono distrutti la città e il grande palazzo, ma la zona continuò ad essere abitata fino all’età ellenistica e romana. Fu in ultimo saccheggiata da Metello. Il palazzo di tipo feudale, probabilmente di un potente Signore, fu iniziato circa nel 2000 a.C., con successive aggiunte, rimaneggiamenti e ricostruzioni rese necessarie dai frequenti terremoti e da esigenze abitative. Tutto l’edificio era organizzato intorno ad un ampio cortile centrale, con altri cortili più piccoli, e una fitta rete di corridoi. Si individuano le sale di rappresentanza, amplissimi magazzini, bagni, forse un cortile quadrato con attorno scalinate per rappresentazioni teatrali, ed infine, officine artigianali. Questa complessa distribuzione, può aver dato origine alla leggenda del labirinto. (E’avvertibile che degli ampi restauri e ricostruzioni degli archeologi inglesi è dubbia in alcuni casi la veridicità). Sono conservati alcuni frammenti di affreschi decorativi databili dal XVIII s.a.C., in poi, di questo palazzo e di alcune ville, con ricca e vivace policromia. Della zona, non essendo stata esplorata sistematicamente si conoscono solo abitazioni isolate, alcune delle quali risalgono al periodo sub-neolitico. In genere sono piccole e appaiono appartenere a famiglie, in termini moderni, di piccola borghesia, mentre la maggiore potenza economica e politica era riservata agli abitanti del palazzo. Fu insieme con Festo e Gortyna, uno dei centri più importanti dell’isola, e agli scavi d’inizio del XX secolo si deve in gran parte la conoscenza dell’arte cretese-micenea.
Note - * Neolitico è periodo della preistoria dell’uomo dal III al IV millennio, il più recente dell’era della pietra, che precede l’età del bronzo; distinto dall’uso di oggetti di pietra levigata (con il sussistere di oggetti di pietra scheggiata propri del paleolitico), con fabbricazione della ceramica, allevamento del bestiame, culto dei morti, e inumazione.
CO-CU
COA
Veste; prendeva il nome dall’isola di Coo, perchè si filava e si tesseva in quell’isola, le cui manifatture erano molto riputate. Dagli scrittori latini si apprende che la veste di Coo era trasparente, di una finezza singolare, che la si portava specialmente dalle donne di malaffare ed era talvolta tinta in color porpora ornata di liste d’oro.
COCITO
(dal gr. pianto lamento)
Fiume dell’Epiro, che confonde le sue torbide acque con quelle dell’Acheronte. La sua etimologia, l’insalubrità delle sue acque indussero i poeti a porlo tra i fiumi dell’inferno. Pausania nella descrizione che fa dell’Acheronte, dice che il Cocito scorre anch’esso nella stessa pianura, e nessun altro fiume fuorché l’Acheronte e il Vavà, si vede nella pianura di Phafanari, Anche in Ita ùlia nella Campagna, v’era un fiume che si gettava nel lago Lucrino, e i poeti dicevano che comunicasse con l’inferno. Note - Nella mitologia è uno dei fiumi infernali, circondante il Tartaro.
CODRO
Ultimo re di Atene, figlio di Melanto. I Messeneii e i Corintii, avendo suscitati gli Eraclidi contro gli Ateniesi, l’oracolo di Delfo, consultato intorno all’esito di questa guerra, rispose che: "la vittoria resterà al popolo il cui re rimarrà ucciso dal nemico". Codro, saputo ciò, si spogliò del regio manto, prese le vesti di un contadino, penetrò nel campo degli Erachidi, e cadde ucciso (1095 a.C.).
I nemici, allorchè scoprirono la vera condizione dell’ucciso rimasero spaventati, di modo che, non ardirono neppure a venire alle mani, e Atene fu salva.
COLCHIDE
(COLCHIS)
Regione lungo la costa orientale del Mar Nero, dal Fai al sud, al Corax, al nord-ovest; confina al nord col Caucaso, all’est col Liberia e coll’Armenia, al sud. Corrisponde all’odierna Mingrelia, e fa parte dell’Abasia. La catena principale era il Caucaso; fiume primario il Phasis, la città principale Dioscurias o Cutalisium. Essa è celebre nella mitologia come patria di Medea, sede originaria della magia e scopo della spedizione degli Argonauti. Dapprima indipendente, fu da Mitridate unita al Ponto. Sembra che i due grandi poeti greci Eschilo e Pindaro siano stati i primi a dare a questo paese lo storico suo nome di Colchide.
Gli abitanti, detti Colchesi, giusta il parere di Erodoto e di Diodoro, essere un rimasuglio dell’esercito di re Sesostri e perciò di origine egiziana.
COLLATINO
L.Tarquinio
Nipote di Tarquinio il Superbo, marito della famosa Lucrezia, cui venne fatta violenza da Sesto Tarquinio, Cacciati i Tarquinii, fu con L.Giunio Bruto creato console, l’anno di Roma 244 (509 a. C.), ma, appartenendo alla famiglia bandita, per non essere sospetto al popolo, rinunciò alla carica, usci da Roma; si ridusse a vivere in Alba.
COLLAZIA
Antica città del Lazio, a circa 16 km.da Roma tra Gabii e l’Anio. Da Virgilio indicata nell’Eneide come una delle colonie di Alba Longa. Cicerone ne parla incidentalmente come una delle città municipali del Lazio, assai decaduta ai suoi tempi. Strabome dice che fu ridotta a semplice villaggio. Plinio la annovera tra quelle dell’antico Lazio, che più non esistevano. La storia non se ne oc cupò più in seguito, ma la memoria ne fu conservata in una delle grandi strade romane che si chiamò via Collazia o Collatina.
COLOFONE
Città jonia dell’Asia,a circa 22 km. da Lebedo, 12 da Efeso, presso il fiumicello Ale, con porto poco distante. Colofone fu presa da Gige re di Lidia dal 708 al 670 a.C., ed Aliate II uno dei suoi successori, Dal 610 al 559 a.C., si fece padrone anche di Smirne, abitata allora da quelli di Calofone. Al principare della guerra Peloponnesica se ne impossessarono i Persiani.
COLONATO
Stato in cui trovavansi gli uomini addetti all’agricoltura sotto l’impero romano, specialmente ai tempi degli imperatori cristiani. Era una specie di servitù temperata, per cui il colono era vincolato con legame indissolubile al terreno che ne coltivava e al godimento di esso, pagava un canone. Il nome Colono ne è derivazione.
COLONNA
(capo)
Promontorio sulla costa orientale della Grecia settentrionale, l’an tico Sanium. Era ornato da un tempio di Pallade. Inoltre erano detti migliari quelle piccole colonne conficcate nel terreno ad indicare al passeggero le distanze percorse. Osservasi a Roma nel Campidoglio una colonna massiccia fatta costruire ed erigere da Augusto, servente di guida per enumerare le miglia delle vie militari, che mettevano capo al Foro Romano, dove da prima l’imperatore l’aveva fatta collocare Colonne sono pure dette il promontorio all’ingresso sud-ovest del golfo di Taranto, notevole per le rovine del tempio di Giunone.
COLONNATA
o COLONNATO
Colonne riunite insieme e formanti un sistema architettonico, di cui si adornavano i monumenti. Oggi non si dà questo nome alle colonne che adornano i frontespizi delle chiese o di altri edifici, dandosi a queste preferibilmente il nome di peristilio. Tale aggregato di colonne fu molto in uso presso gli antichi, come fanno fede i ruderi di Palmira (recentemente distrutti dalla furia barbara dell'ISI), gli avanzi di templi grechi ed egizi (nell’isola di File ecc.).
Invero il tempio di Giove Olimpio in Atene non consisteva che in una serie di ricchi colonnati di forme e di proporzioni diverse. La moderna architettura non trascurò di avantaggiarsi dagli esempi grechi, ed il Bernini ce ne ha dato una splendida prova, che è il doppio colonnato in Roma in piazza di S.Pietro, da lui concepito e mandato a termine. Ma un’enorme difficoltà si presentava all’artista, la quale consisteva nel dare alla piazza quelle proporzioni che richiedevano la magnificenza e l’ampiezza del monumento. Senonchè il genio del Bernini ha saputo vincere meravigliosamente fra i tanti ostacoli anche questo, stabilendo fra l’una e l’altra tali rapporti di armonia da farne un’opera splendida e sorprendente. Questo colonnato ebbe principio nell’anno 1661 sotto Alessandro VII, e, per quanto vari artisti, dopo il suo compimento hanno studiato d’imitarlo, ciònondimeno nessuno riuscì a fare un’opera cotanto perfetta. Tra le tante imitazioni sono degni di ricordo il colonnato di S.Francesco di Paola, a Napoli, di S.Lorenzo a Milano, e della Chiesa di Nostra Donna di Kazan, a Pietroburgo.
COLONUS
Monte nei dintorni di Atene, immortalato da Sofocle.
COLOSSAE
COLOSSE (Κολοσσαί, Κολόσαι, Colossae). - Antica città della Frigia, sulla riva sinistra del Lico. Essa fu un tempo la maggiore città della Frigia sud-occidentale, favorita dalla sua posizione sulla grande via commerciale che da Sardi per l'alta valle del fiume metteva a Celene; ma quando nella stessa valle fiorì Laodicea, Colosse cominciò a declinare. Dopo aver fatto parte del regno seleucidico, in seguito alla battaglia di Magnesia venne in possesso del regno di Pergamo (189 a. C.) ed estintasi la dinastia degli Attalidi (133), dopo varie vicende fu con tutta la parte occidentale della Frigia maggiore aggregata, probabilmente da Silla, alla provincia di Asia.
San Paolo indirizzò ai Colossesi un'epistola. Nel 628 Colosse fu colpita da un terremoto; poi il suo nome scompare dalle fonti. Tuttavia fu sede vescovile; Epifanio, vescovo di Colosse, partecipò al concilio di Calcedonia del 451. Di Colosse abbiamo monete autonome (sec. I e II a. C.) e imperiali. Gli avanzi della località furono trovati a nord di Honaz.
(da: Enciclopedia Italiana Treccani)
COLOSSEO
(COLISEO)
Meraviglioso anfiteatro in Roma, presso la via Sacra, incominciato da Flavio Vespasiano al suo ritorno dopo la guerra contro gli Ebrei , ed ultimato da Tito, suo figlio, che l’inaugurò con feste che durarono 100 giorni. Vi furono uccise migliaia di bestie feroci e gran numero di gladiatori. Più tardi i cristiani lo bagnarono del loro sangue. L’anfiteatro è composto da tre ordini e dal lato esterno circuito da una triplice serie di archi sovrapposti gli uni agli altri e separati fra loro da mezze colonne, che sostenevano la gran cornice. Ogni ordine comprendeva ottanta archi, ed altrettante mezze colonne. Al di sopra di questi vastissimi porticati era un attico adorno di pilastri e con cento finestre simmetricamente disposte. Lo stile architettonico dei predetti archi esternamente varia ad ogni ordine, ed è dorico, jonico e corintio. Gli archi del primo piano erano segnati da numeri romani, ed eranvi altrettante porte d’ingresso, dalle quali si saliva col mezzo di scale interne ai piani superiori ed alle gradinate. Al popolo erano destinati 70 archi; due erano riservati ai gladiatori e due all’imperatore col suo seguito. Il Colosseo è di forma ovale; la sua circonferenza esterna è di 527 metri, con 50 di elevatezza. Vi sono due ingressi, l’uno è presso la Meta Sudans, l’altro sul fianco del monte Celio. Vicino a quest’ultima porta vedesi un enorme sostegno di mattoni che Pio VII°fece appositamente costruire a fine di preservare l’edificio da un diroccamento in quella parte. Si vuole che quattro anni sieno bastati alla costruzione di questo vasto edificio. Nelle muraglie che circondano l’arena erano praticate alcune porte, difese da inferriate, dalle quali comparivano tanto i gladiatori quanto le bestie feroci. Alle sopradette medesime sorgeva il podio, ch’era un immenso balcone riservato all’imperatore e alla sua famiglia; i sacerdoti, le vestali, i senatori e i magistrati avevano la sedia curale. Un incendio danneggiò questo monumento, sotto il regno di Antonino Pio. Ma venne immediatamente riparato. Lo stesso danno accadde sotto Macrino, e non si pensò di rimediarvi che sotto Settimo Severo. In seguito alcuni scavi che furono praticati sotto l’arena, si trovarono muraglie, passaggi sotterranei, pezzi di colonne, sculture ed iscrizioni. Durante la guerra civile del secolo XIV l’edificio fu talmente devastato che ne cadde tutto un fianco.
COLOSSO
(Dal greco kolossòs); vocabolo linguistico pre-greco di origine asiatica che indicava sia la statuetta di un potere magico, che la statua in generale. In questo secondo significato fu usato dai Greci di stirpe dorica che colonizzarono l’isola di Rodi e chiamarono così la grandiosa statua del dio Elios (Apollo), eretta nella città all’inizio del III s.a.C., per ricordare la resistenza vittoriosa all’assedio di Demetrio Poliorcete. Tale statua fu considerata dagli antichi come una delle sette meraviglie del mondo e il nome colosso divenne per antonomasia attributo di tutte le statue di proporzioni gigantesche. Il colosso di Rodi non si è conservato, si hanno solo notizie letterarie dalle quali si apprende che era alto 12 metri, di bronzo, appoggiato ad una robusta intelaiatura in ferro e riempito nella parte inferiore di pietre, per una maggiore stabilità. La statua crollò non dopo molti anni, nel 224 a.C.,per un terremoto, ma anche in pezzi, costituiva una meraviglia. Nel VII°s.a.C. gli Arabi in una loro scorreria si impadronirono dei pezzi bronzei rimasti.
COLOTE
- Colote Filosofo
- Colote Scultore
e seguace fedelissimo della scuola di Epicuro. In una sua opera, avendo difeso energicamente le dottrine del maestro, venne poi confutato da Plutarco in un trattato che porta il titolo: “Contro Colote”. Questo filosofo fu pure molto ostile alle dottrine di Socrate.
vissuto nel V s.a.C., ebbe gran nome.(Quintiliano ne parla di un pittore vissuto nel 396 a.C.)
COLURI
(Salamina)
Isola della Grecia sul golfo di Egina, nomarchia dell’Attica.
COLUTO
Poeta greco nato in Licopodi, città della Tebaide, vissuto ai tempi dell’imperatore Anastasio, sulla fine del secolo V. Scrisse parecchi poemi che non pervennero alla posterità, ed un poemetto “Il ratto d’Elena” rinvenuto dal Cardinale Bessarione, ch'ebbe poi l’o nore d’essere tradotto im italiano, francese, spagnolo, inglese e tedesco.
COMANA
Nome di due antiche città: Comana Aurea, o di Cappadocia, detta anche Cryse, sorgeva nell’Antitauro, nel luogo credesi oggi occupato dalla città Ebostan, sul Sihon o Saro. Vedevasi ivi il tempio della dèa della guerra Bellona, indicata da Strabone col soprannome greco di Enio, con un gran numero di persone consacrate al suo culto ed una sterminata moltitudine di ieroduli (schiavi dei santuari presso gli Orientali e i Greci; le donne eseguivano danze sacre e spesso si prostituivano a beneficio del tempio cui erano addette). Gli abitanti erano Cataoni. che riconoscevano la sovranità del re di Cappadocia, ma sotto la giurisdizione immediata del sommo sacerdote. Questi era il padrone principale del tempio, ed i ieroduli, ai tempi di Strabone, erano più di seimila, fra uomini e donne. Era in voga presso quel popolo la tradizione che Oreste con la sorella avesse introdotto nel tempio i riti religiosi della Scizia Taurica i quali erano veramente quelli di Artemide Tauropola (Artemis Tauropolos), ossia della taurica Diana, domatrice di tori. Quivi pose Oreste la sua chioma recisa, per ricordare i suoi finiti guai, chiamandola perciò l’affannosa chioma (hepenthimos kòme), dalla quale vollero trarre i grammatici greci, in modo assai strano, l’etimologia di Comana; supponesi che la dèa summenzionata così si chiamasse ma che nel linguaggio degli indigeni fosse la dèa Luna, per la ragione che anche nella Caria il dio Luno appellavasi Men. Dopo la morte di Caracalla, Comana diventò colonia romana. - Comana Pontica, città del Ponto, nella valle superiore del fiume Iris (poi Kasalmak), presso Gumenek dove il viaggiatore inglese Hemilton scoperse, sulle sponde del detto fiume, avanzi e parte di un ponte di costruzione romana. - Di Comana, Clivio. parla solo come di un mantejo (mantejum),o luogo sacro per la sede di un oracolo. Dicesi nelle iscrizioni posteriori, indicata col nome di Jerocesarea ,(Hierocoesarea) sotto i Romani appunto per indicare la santità del luogo, che era anche per la sua posizione, il gran mercato o emporio dei negozianti armeni. Questa Comana Pontica era sotto la tutela della stessa divinità della Comana di Cappadocia e dicesi anzi che ne era la fattòria o colonia, ed entrambe le religiose cerimonie erano quasi le stesse, godendo i sacerdoti degli stessi privilegi. Era assai popolata ed alle grandi processioni, (eròdoi - uscite) della dèa, accorrevano in folla le genti dei paesi circonvicini, e vi pullulavano le femmine a conio, appartenenti, per la massima parte, al tempio.
COMES
(lat; plur.Comites Compagni)
Presso gli antichi romani era il compagno di un alto magistrato. Ai tempi dell’impero, titolo che spettava ai confidenti dell’imperatore e ad alti dignitari (esempio: Comes sacrarum largitium; ministro delle finanze - Comes rerum privatarum; amministratore dei beni della corona).
COMMEDIA
Fondamentale genere di teatro, solitamente contrapposto alla tragedia. Mentre nell’antichità l’origine etimologica del nome è stata molto discussa, in tempi recenti si è preferito dare al termine un’origine e significato dionisiaci, risalenti cioè alle feste e ai cortei celebrati in onore del dio Dioniso. La più antica forma di commedia è quella greca, o attica antica, che si può far risalire a Magnete (V s.a.C), di cui non rimane alcuna opera, ma soprattutto ad Aristofane (V-IV s.a.C.). Il suo carattere principale è la satira di personaggi e fatti contingenti culturali, sociali, politici, letterari o filosofici, senza alcuna distinzione. La commedia inframezzata dal coro (par lato, cantato, danzato), mista ad azioni inventate o comiche, aveva oltre al compito di far divertire e ridere, una dichiarata vena polemica. Ad Aristofane segue Menandro (IV-III s.a.C.; “Il Misantropo”, ”l’Odiato", “L’Arbitrato”, ecc.) il maggiore della commedia attica nuova; la satira diventa parodia. Si avverte uno studio costante di aderenza alla realtà, i personaggi, sebbene più stilizzati, rimangono sempre tipi fissi, e sempre uguali sono gli intrecci delle commedie; basati su equivoci, su confusione di nomi, scambi di neonati, riconoscimenti finali e nozze conclusive.Tra i più noti autori della commedia attica nuova sono da citare oltre ad Aristofane: Menandro, Filemone, Sifilo, Apollodoro, Posidippo, Antifone, Situbulo.
La commedia latina è in gran parte di derivazione e importazione greche. A Roma esisteva già un abbozzo di spettacolo comico; la ”Fabula atellana”, commedia farsesca di origine osca, con personaggi e argomenti fissi, maschere e linguaggio scurrile. Celebri sono i personaggi dell’atellana: Marcus (il ghiottone sciocco), Bucco (il chiacchierone), Pappus (il vecchio babbeo), Dossennus (il gobbo malizioso e smaliziato). Assunta a divinità letteraria sotto Silla (138–78 a.C), la commedia atellana fu ripresa in età augustea, sotto Nerone e Adriano.
La commedia latina si suddivise in “palliata” e “togata”. La palliata (da pallium-ricco mantello, che faceva parte del costume greco), pur non escludendo a volte originalità ed inventiva, fu sempre di imitazione e di argomenti greci. Secondo Volcacio (II-I s.a.C), i dieci migliori autori di palliate furono; Cecilio, Stazio, Plauto, Nevio, Licinio, Imbrice, Attilio, Terenzio, Turpilio, Trabea, Luscio Lanuvio ed Ennio. La togata (tabula togata, da toga, veste romana), era invece di soggetto e ambiente italici. A volte si chiamò anche tabula trabeata (da trabea, abito tipico dei cavalieri), di cui l’unico autore noto è Caio Melico (liberto di Mecenate) e tabula tabernaria (da tabernae, taverne - osterie), Titinio (II s.a.C), Stranio (seconda metà del II s.a.C.), Atranio (I°s.a.C), furono gli autori più noti delle commedie togate; fra questi Afranio, fu il principale e il più fecondo. A differenza della commedia greca, la romana ebbe maggiori limitazioni; i personaggi, sebbene più caratterizzati, non potevano essere scelti liberamente dagli autori p.es. era proibito portare sulla scena personaggi della vita pubblica, perché non ne fosse sminuita la loro dignità (il servo non poteva mai apparire più furbo o intelligente del padrone, ecc.). Plauto (III-II s.a.C.) e Terenzio (II s.a.C.), domineranno le scene fino alla caduta dell’impero romano, e, riscoperti dagli umanisti, saranno i soli autori rappresentati, se si escludono alcune farse medioevali, eseguite da mimi e giullari, fino a tutto il XVI s. In questo secolo, con l’inserimento della cultura laica nelle rappresentazioni sacre, nasce un nuovo tipo di commedia, che si articolerà in due filoni: da una parte la commedia letteraria, in volgare, rivolta al pubblico raffinato e colto delle corti, dall’altra nella Commedia dell’arte. Quest’ultima fissa i tratti di alcuni personaggi, ricorrenti in determinate maschere, è priva di un testo preciso d’autore, si basa sulla recitazione improvvisata degli attori, si rivolge ad ogni tipo di pubblico, in particolare quello popolare e acquisterà tale favore da svilupparsi molto rapidamente influenzando due secoli il teatro di tutta Europa.
COMMODO
Lucio Elio Aurelio
Imperatore romano figlio di Marco Aurelio, nato il 161 d.C.; giovinetto accompagnò il padre nelle sue spedizioni, ed ebbe il primo consolato al ritorno dalla Siria.
COMPLUVIO
(Compluvium)
Presso i Romani chiamavasi così il tetto dell’atrio, o del cavedio, perché aveva un foro nel centro, per cui l’acqua piovana andava a versarsi, a piovere, per così dire, nella sottoposta vasca, o cisterna (impluvium) che era spesso adorna di statue, di colonne o d’altre opere d’arte. Impluvium chiamasi talvolta anche l’anzidetta apertura del tetto, sebbene nell’esatta terminologia dell’arte non si confondessero mai le due voci compluvio ed impluvio. Questo, secondo Vitruvio, non doveva essere mai largo più di un quarto della larghezza dell’atrio; la sua lunghezza era poi della stessa proporzione, rispetto alla lunghezza totale della casa.
COMUM
Città della GalliaTransalpina; nel 196 a.C., unitasi agli Insubri, contro i Romani, fu presa da questi, e più volte in seguito, da essi colonizzata Fu patria di Plinio, il giovane. Corrisponde all’odierna Como.
CONONE
- Conone capitano ateniese,
- Conone geometra e astronomo,
- Conone drammatico:
- - Conone Papa:
Nome di parecchi personaggi dell’antichità:
fu assai celebrato per la vittoria delle Arginuse, e dopo la destituzione di Alcibiade e Trasibulo, divenne generale in capo fra i dieci scelti a comandare la flotta ateniese. Fu sconfitto da Lisandro, comandante della flotta Spartana, nell’anno 405 a.C., e si rifugiò in Salamina, in Cipro. In seguito fece trattative con Farnabazo, satrapo persiano, e quindi le forze ateniesi e le persiane si unirono con quelle di Evapora allo scopo di opporsi alla potenza degli Spartani. Adunque Evapora, Conone e Farnabazo, apparecchiata una flotta di cui ebbe il comando il Farnabazo, guidato da Conone, scontrarono la flotta nemica presso Gnido e n’ebbero una splendida vittoria (anno 394). Questo trionfo giovò molto alla potenza ateniese, poiché Conone ottenne da Farnabazo molti favori per la sua patria, e una forte somma per la ricostruzione delle mura di Atene, gia demolite dagli Spartani. Isocrate raffigura Conone come distruttore della potenza lacedemone. Quantunque Senofonte non accenni all’epoca della morte di Conone, nondimeno pare sia avvenuta nell’anno 388 a.C.
vissuto in Samo intorno al 250 a.C., fu dotato d’ingegno sagace e si può dire che sia stato il più grande matematico dell’antichità, al punto di meritarsi la stima e l’ammirazione dello stesso Archimede.
vissuto all’epoca di Augusto , si distinse per un’opera da lui scritta che dedicò ad Archelao Filipatore , re di Cappadocia . Questo trattato consisteva in una raccolta di cinquanta narrazioni relativo al periodo mitico ed eroico.
nacque in Tracia e fu eletto nell’anno 686, succedendo a Giovanni V° . Fu uomo tanto virtuoso e caricatevole che meritò il soprannome di Angelico . Morì nell’anno 687.
CONOPE
Antica città dell’Etolia, presso la riva orientale dell’Achelaoo, chia mata poi Arsinoe.
CONSO
Antica divinità romana agreste che sembra abbia preceduto il consolo mentre altri considerano il nome come contrazione di “conditus”. Tutto ciò che sappiamo intorno a questa divinità, è, da quello che si può dedurre dall’etimologia del nome, dei riti e delle cerimonie; pare fosse il dio misterioso o nascosto delle basse regioni. La storia intorno l’introduzione del suo culto non dà alcuna luce sulla questione, poiché ambedue le spiegazioni concordano ugualmente con essa. Quando, dopo l’edificazione di Roma, i Romani non avevano donne e le loro richieste per ottenerne dalle tribù vicine fossero respinte, Romolo fece correre voce di aver trovato l’altare d’un dio ignoto sotterra. Il dio fu chiamato Conso, e Romolo gli promise sacrifici e feste se venivangli fatto d’aver mogli per i suoi romani. Secondo Hartung, Conso è da considerarsi come una deità infernale. Livio lo chiamò Nettuno Equestre, e le feste in onore del dio erano dette Consuali. Si celebravano dagli antichi romani ma erano diverse dalle altre feste per lo stesso dio dette Netturnali. Principiavano con una magnifica cavalcata, perché credevasi che Nettuno avesse primo insegnato agli uomini l’uso del cavallo. Le Consuali erano annoverate tra le feste dette sacre perché consacrate ad una divinità. Al principio non si distinguevano da quelle del Circo e perciò Valerio Massimo dice che il ratto delle Sabine ebbe luogo ai giochi di quello. Nei giorni di questa solennità, dice Plutarco, i cavalli e gli asini si lasciavano in riposo e li si ornavano di corone ed altri fregi, per essere festa dedicata a Nettuno Equestre. Secondo Servio, le Consuali si celebravano il 13 di agosto, ma Plutarco, nella “Vita di Romolo”, le pone al 18, ed il vecchio calendario romano il giorno 21 dello stesso mese.
(Vedi Opi)
CONSOLATO
Fu presso i Romani la suprema magistratura succeduta alla Monarchia.
CONSOLE
Era il primo magistrato ordinario della repubblica romana. Cacciato da Roma Tarquinio il Superbo (509 a.C.), fu stabilita la repubblica, ed invece del re furono eletti due consoli per amministrarla. I primi furono Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.
I consoli venivano eletti annualmente nei comizi centuriati, e da principio si scelsero solamente fra i patrizi. Ebbero lo stesso potere del re Il consolato, eccettuata la dittatura, era il più alto, e, prima che esistessero i pretori, gli edili e i censori, l’unico ufficio amministrativo di Roma. I consoli erano capi della repubblica, in se riunendo, il militare e l’esecutivo. Quindi i consoli si chiamavano anche pretori, giudici ed imperatori. Da essi gli anni prendevano il nome, e si tenevano a ques’oggetto registri annuali detti –fasti consolari -. Dal tempo di Silla e di Cesare, che furono dittatori perpetui, il consolato perse, grado a grado, ogni potere e sotto gli imperatori si ridussero ad un nome vano. L’ultimo console di cui l’anno venne denominato fu Basilio minore (541 a.C.), sotto Giustiniano. Dopo Giustino, gli imperatori Greci mantennero il titolo, anzi, segnarono gli atti, tanto coll’anno della loro assunzione al trono, quanto con quello dell’acettazione del consolato, date, le quali, dopo Costantino Pogonato concordarono sempre. Una doppia data di tal guisa troviamo qualche volta anche presso gli imperatori occidentali. Da Carlo Magno fino ad Ottone, quasi che anch’ essi avessero accettato, col titolo imperiale, il consolare. Il consolato pertanto finì col divenire una semplice indicazione d’inizio del governo dei così detti, imperatori romani.
CONTESA
- Contesa o Eris
- Moros, il destino avverso
- Ker, la morte violenta
- Thanatos, la morte
- Hypnos, il sonno
- La tribù degli Oneiroi, i sogni
- Momo, la colpa, il biasimo
- Oizys, la miseria
- Nemesi, la vendetta o
- la giustizia divina
- Apate, l'inganno
- Philotes, l'amicizia
- Geras, la vecchiaia
- I Keres, i destini fatali
- Le Esperidi, ninfe guardiane del giardino dei pomi d'oro
- Letum, la dissoluzione
- Lysimele, l'affetto
- Epifrone, la prudenza
- Styx, l'odio
- Eufrosine, la benevolenza
- Porfirione
- Epafo
- Continenza
- Petulanza
- Misericordia
- Disnomia, la disobbedienza alle leggi, il malgoverno
- Ate, l'errore, la rovina
- Le Makhai, spiriti delle battaglie
- Ponos, il travaglio, la fatica
- Lethe, l'oblio, la dimenticanza
- Limos, la fame
- Algea, i dolori
- Isminai, i combattimenti
- Fonoi, gli omicidi
- Androktasiai, le stragi
- Neikea, i litigi
- Pseudo-logoi, le bugie
- Amfilogie, le dispute
- Horkos, il giuramento.
- Eris, il pianeta nano
Dèa della discordia e della lotta (Iliade libro VI )
Eris, pittura vascolare greca
Altes Museum - Berlino
Eris (dal greco antico Ἔρις, «conflitto, lite, contesa», in italiano anche "Eride") era, nelle religioni e nella mitologia dell'antica Grecia, la dea della discordia.
L'episodio più significativo cui la dea è legata è quello della mela della discordia: furiosa per l'esclusione dal banchetto nuziale di Peleo e Teti, Eris giunse perfino a contemplare l'idea di scagliare i Titani contro gli altri Olimpi, che erano stati tutti invitati, e detronizzare Zeus[1]. Poi, però, scelse una via più subdola per compiere la sua vendetta. Giunta sul luogo in cui si teneva il banchetto, fece rotolare una mela d'oro, secondo alcuni presa nel giardino delle Esperidi, dichiarando che era destinata "alla più bella" fra le divine convitate. La disputa che sorse fra Era, Atena e Afrodite per l'assegnazione del frutto e del relativo titolo, condusse al giudizio di Paride e in seguito al ratto di Elena che originò la guerra di Troia[2][3][4]. Inizialmente la scelta spettava a Zeus, ma egli non voleva scegliere, perché avrebbe scatenato le ire delle dee "perdenti" in eterno. Decise quindi di affidare il compito ad un mortale. Scelse Paride, perché, come avevano testimoniato eventi passati, il giovane era abile e giusto nel giudicare.
Tutti i mitografi convengono nel descrivere Eris come una dea spietata, animatrice dei conflitti e delle guerre tra gli uomini, delle quali gode.
Omero ne offre un illuminante ritratto, descrivendola come «una piccola cosa, all'inizio» che cresce fino ad «avanzare a grandi falcate sulla terra, con la testa che giunge a colpire i cieli», seminando odio fra gli uomini e acuendone le sofferenze. Forse per questo il poeta le attribuisce anche l'epiteto di “signora del dolore”[5]. Una simile rappresentazione si ritrova anche in Quinto Smirneo: mentre Eris cresce a dismisura, la terra trema sotto i suoi piedi, la sua lancia ferisce il cielo, dalla sua bocca si sprigionano fiamme spaventose, mentre la sua voce tonante accende gli animi degli uomini[6].
Lo stesso tema viene ripreso in una delle favole di Esopo: Eracle sta attraversando uno stretto passaggio, quando nota una mela che giace sul suolo. La colpisce ripetutamente con la sua clava, ma ad ogni percossa la mela raddoppia le sue dimensioni, fino ad ostruire completamente il cammino dell'eroe. Atena, avvedendosi della cosa, spiega allora a Eracle come quella mela sia in realtà Aporia ed Eris: se lasciata a sé stessa, rimane piccola, ma a combatterla si ottiene solo di ingigantirla[7].
Esiodo rammenta comunque come la dea abbia, oltre a quella violenta, anche un'altra natura, che se compresa può essere d'aiuto ai mortali: quando si presenta nella forma della competizione, Eris è di stimolo agli uomini, spingendoli a superare i propri limiti e permettendo loro di conseguire risultati che la loro innata pigrizia renderebbe altrimenti irraggiungibili[8].
Quattro sono i miti sulle sue origini
Stando a Omero e Quinto Smirneo, Eris è sorella minore di Ares, e dunque figlia di Era e Zeus[9][10].
Un altro mito, riportato da Ovidio e dal Primo Mitografo Vaticano, vuole che Eris sia stata concepita da Era semplicemente toccando un fiore, senza che la dea giacesse con il divino consorte Zeus[11][12].
Per Esiodo invece sua madre fu la Notte, che la generò senza bisogno di accoppiarsi.
Secondo Igino la Notte la concepì con Erebo[13][14].
In quest'ultimo mito Eris risulterebbe allora appartenere all'era preolimpica, e in effetti il suo ruolo nel mito è frequentemente quello tipico delle altre personificazioni di concetti: la dea è un'incarnazione di una delle forze cui sono soggetti i mortali e le stesse divinità, ma non ha una storia propria né caratteristiche che la individuino, oltre a quelle strettamente legate alla sua funzione.
Sono fratelli e sorelle di Eris[15]:
A questo elenco, Igino aggiunge:
Sempre secondo Esiodo, Eris diede alla luce[16]:
Per quest'ultimo figlio fu assistita nel parto dalle Erinni, cui sarebbe poi spettato il compito di perseguitare e uccidere chiunque non tenga fede ai propri voti
Il ruolo di Eris nel mito
Pur essendo una divinità, il ruolo di Eris nella mitologia greca è marginale, limitato per lo più a brevi apparizioni sui campi di battaglia, specie durante la guerra di Troia. La dea vi è sovente appositamente inviata da Zeus per aizzare con le sue grida gli spiriti dei combattenti: non solo quelli dei greci, per i quali parteggia al pari di Ares, ma anche quelli dei troiani. Il suo accanimento supera però quello del fratello, al punto che Eris spesso rimane a gioire del sangue versato dagli uomini anche dopo che gli altri dei si sono ritirati, e ama passeggiare fra i corpi dei morti e dei morenti quando lo scontro si è già concluso[17][18][19].
Di lei sappiamo che forgiò l'alabarda con cui l'amazzone Pentesilea, figlia di Ares, combatté nella guerra di Troia[20], e che apparve in sogno a Dioniso, sotto le mentite spoglie di Rea per rimproverare al dio i suoi ozi ed esortarlo a riprendere la battaglia con il re d'India, allettandolo con la prefigurazione della sua prossima ascesa all'Olimpo[21]. Aiutò Efesto a forgiare la collana di Armonia, che svolse il suo ruolo funesto nelle vicende dei Sette contro Tebe e dei loro Epigoni[22].
Stando a Nonno, fu l'ancella di Tifone durante la battaglia del mostro con Zeus, che invece era fiancheggiato da Nike[23].
Eris ebbe un ruolo anche nella vicenda del vello d'oro, nell'epoca in cui questo era entrato in possesso di Tieste, consentendogli di diventare re di Micene, ai danni dell'altro pretendente al trono, Atreo. Zeus, che prediligeva quest'ultimo, ottenne da Tieste la promessa che avrebbe ceduto il trono se il sole avesse cambiato il suo corso. Quindi, il dio inviò Eris sul cammino del carro di Elio, e la dea pose il sentiero della sera sotto gli zoccoli del cavallo dell'alba, di modo che il sole quel giorno, giunto a metà della volta celeste, invertì il suo normale tragitto e tramontò a oriente[24].
Infine, quando Politecno e Aedona di Colofone vantarono di amarsi più di Zeus e Era, la dea infuriata inviò Eris fra di loro per far nascere una disputa, il cui esito finale fu l'assassinio del marito da parte di Aedona[25].
Rappresentazioni di Eris
Eris era raffigurata sullo scudo di Eracle, nell'atto di volteggiare intorno a Phobos (la paura), e la sua immagine terrificante era riprodotta anche sullo scudo di Achille[26][27].
Virgilio la pone all'ingresso dell'Ade, con serpi in luogo dei capelli, che tiene annodate con bende intrise di sangue[28].
del sistema solare, prende il nome dalla divinità.
(da wikipedia)
CONTURNIATI
Monete romane che risalgono ai tempi dell’impero. Avevano il contorno alto e di un metallo diverso da quello della moneta stessa. Le si annoverano fra le più belle e le più rare dell’antichità, ma non sono di metallo nobile. Hanno l’aspetto di medaglie di prima grandezza. E’ probabile che si distribuissero nei ginnasi come premi.
COORTE
Così era chiamata una divisione della legione romana, la quale era scompartita in dieci coorti, ognuna di queste in tre manipoli ed ogni manipolo, in due centurie. L’intera legione comprendeva sessanta centurioni, che, secondo il grado assumevano un nome relativo. Vi furono le coorti alari, così dette. perché collocate alle ali delle truppe e la coorte pretoria, che accompagnava il generale.
La tattica moderna intende per coorte un corpo di milizie composte da un numero di soldati non minore di 300 e non maggiore di 600.
COPONIO
- Coponio Scultore romano
- Coponio prefetto
autore delle quattordici statue delle nazioni conquistate da Pompeo, collocate nell’ingresso dei portici del teatro Pompeo, a Roma, le quali diedero a questo ingresso il nome di Porticus ad Nationes.
fu il primo prefectus cum iure gladii (prefetto con potere di condanna a morte) inviato da Augusto in Palestina nell'anno 6 dopo l'esilio del re Archelao a Vienne (Gallia meridionale) e la conseguente riduzione dei territori di Giudea e Samaria a provincia Romana.
Sotto la sua amministrazione avvenne la grande ribellione di giudei capitanata da Giuda il Galileo (il fondatore della setta detta degli "Zeloti") figlio di Eleazar (noto anche come Ezechia) nell'anno 7 istigata dal censimento fiscale ordinato dall'imperatore (lo stesso di cui parla Luca evangelista).
La rivolta venne repressa e lo stesso Giuda trovò la morte. Nell'anno 9 Coponio fu sostituito da Marco Annibulo a sua volta sostituito nel suo ruolo (Prefectus Iudaeae) da Annio Rufo nel 12.
COO
(Kos)
Isola del gruppo delle Sporadi nel mar Egeo meridionale. Seconda per grandezza, dopo Rodi, fu abitata fin dall’inizio del secondo millennio avanti Cristo, specie dove sorgeva, secondo fonti antiche il capoluogo, che, fondendosi nel 366 a.C., con l’attuale città di Coo, diede vita ad un nuovo centro. Altre località importanti al di fuori della città propriamente detta sono il santuario di Asclepio, la cui fondazione fu posteriore alla morte del grande medico greco Ippocrate, ivi nato a metà del IV s.a.C. Questo complesso distribuito su varie terrazze, comprendeva il tempio, un altare grandioso, l’àbaton, cioè l’edificio dove i fedeli aspettavano in sogno la venuta del dio guaritore, e infine una serie di stanze, che si può dire con funzioni di clinica, collegate fra loro da portici. Il terremoto del 1933 distrusse la Coo medioevale e turca, sotto cui era l’antica, tracciata secondo un preciso schema urbanistico detto Ippodameo (da Ipoodamo da Mileto), che la divideva in isolati regolari. La città ellenistica comprendeva due templi dedicati alla dèa Afrodite, un’ampia agorà, un’altare dedicato a Dioniso e molti altri edifici ricostruiti dai Romani in seguito ad un grave terremoto del 142 a.C.; essi costruirono anche ricche ville ed edifici termali, palestre, un odeon (molto ben conservato), ed un ampio teatro. Gli scavi hanno inoltre fornito diverse centinaia di mosaici, di statue e numerosissimi reperti architettonici, che attestano una ricca fioritura artistica. Nell’isola vi sono notevoli e sparsi dappertutto resti di edifici paleocristiani; chiese con pavimenti a mosaico, quali S.Stefano presso Cefalo, S: Paolo presso Zibari e nel capoluogo S.Giovanni, dotato di un ricco battistero. La città decadde in conseguenza di un altro terremoto verificatosi nel 554 d.C .Verso la fine del XIV secolo i Cavalieri Giovanniti, la cinsero di mura e ne curarono la ripresa.
COPTOS
Antica città della Tebaide (Egitto), nel luogo in cui la strada per Berenice, sul mar Rosso, lascia la valle del Nilo oggi Konft, prospera per commercio.
CORA
Città antichissima del Lazio, situata sopra un alto colle all’estremo dei monti Volsci, e distante da Roma circa 60 km. Questa fu una delle più ragguardevoli del Lazio; Catone l’annovera fra quelle che parteciparono alla consacrazione del santuario di Diana nella foresta Aricia, e Dioniso dice essere stata una delle trenta città latine che nel 493 a.C., si collegarono contro Roma. Caduta in potere dei Volsci, fu poi, verso il 428 a.C., riconquistata dai Romani.
Dalle asserzioni di Florio, pare sia stata saccheggiata da Spartaco, ed in seguito assai decaduta. La montagna su cui eravi la città, presenta vari piani di mura e piattaforme da cui gli assediati si difendevano. I grandiosi avanzi delle sue mura bastano a comprovare la grande importanza della città come luogo di fortificazione, e i pre ziosi frammenti di marmi che ancora vi si trovano, dimostrano la magnificenza dell’arte coltivata dai suoi abitatori. Fu scoperto un tempio d’ordine corinzio, che pare sia stato dedicato a Castore e Polluce, e secondo le indagini fatte dal Volpi, sui pochi avanzi che ne rimasero, è da credersi essere stata ricca di portici splendidi e di sessanta colonne di stile dorico, etrusco e corinzio.
CORACE
Oratore siciliano, celebrato specialmente dopo l’espulsione di Trasibulo da Siracusa (467 a.C.), seppe tanto distinguersi con la sua potenza oratoria, che divenne l’idolo dei suoi concittadini. Scrisse un trattato su quest’arte che qualche critico crede che l’opera intitolata “Retorica ad Alexandrum” attribuita ad Aristotele, sia stata scritta invece da Corace.
CORACESIUM
Città della Cilicia, sulla spiaggia e presso la frontiera della Pamfilia, oggi Alaya.
CORAGO
Così chiamavansi presso i Greci il capo dei cori, ed un magistrato incaricato della vigilanza di tutto quanto poteva occorrere ai cori nelle pubbliche rappresentazioni. Il corago pagava il vestiario, le corone e tutte le altre decorazioni, ed aveva pure l’obbligo di stipendiare un istruttore del coro, che insegnava ai coristi tutte le raffinatezze della loro professione. Non si costringeva alcuno ad accettare tale uffizio, se non era in condizioni di agiatezza da poterne sopportare le spese, e , senza molto detrimento. Furono pure chiamati coraggi, il ginnasiarca, e l’estintore. Il primo presiedeva all’esercizio ginnico dei giovani, l’altro doveva nelle grandi solennità offrire un banchetto alla sua tribù. Un corago di fanciulli doveva essere maggiore dei quarant’anni e quantunque s’ignori l’età prestabilita per gli altri coraghi, pare che doveva esserci un certo limite al disotto del quale fosse vietato assumere questo titolo. Questa magistratura era così stimata dagli Ateniesi, che si tributavano i più alti onori a chi avesse dato prova d’ essere uno splendido corago.
CORALIS
o TROGITI
Piccolo lago nella Pisidia.
CORALLA
Promontorio del Ponto sul mar Nero presso Cerasunte.
CORASSI
Gruppo di isole appartenenti alla Caria composto di due grandi isole e di varie piccole.
CORAX
Monte del sud-ovest dell’Etolia, ramo dell’Octa, attraversato da un varco che menava alla Doride.
CORAXICI
Monte dell’Albania in Asia sulla frontiera della Colchide; è una diramazione del Caucaso.
CORBULONE
Greco Domizio
Uno dei più grandi generali romani, figlio di Vestilia e fratello di Cesonia, moglie di Caligola; fu pretore sotto Tiberio, console nel 39 dell’era nostra, sotto Caligola. Sotto Nerone combattè i parti, sconfisse Tiridate, che aspirava al trono d’Armenia, e, in un’ ultima spedizione costrinse i Parti a sottomettersi al giogo dei Romani. Fu uno dei pochi che rimasero fedeli a Nerone, che nel 67, diede ordine, in cambio, che fosse ucciso. Corbulone avvisato di ciò; -Me l’ho meritato! - esclamò, immergendosi la spada nel petto.
CORCYRA
Isola del mar Jonio detta anche Drepane e Scheria; città principali Corcyra, e Cassiope. Fu colonizzata dai Corintii, verso il 700 a.C.
CORCYRA
NIGRA
Isola dell’Illirico mar Adriatico, oggi Curzola.
CORFINIO
(corfinium)
Anticamente era la capitale dei Peligni, non lungi dal fiume Aterno, ora detto Pescara, in provincia di Teramo. Se ne vedono ancora le rovine presso la chiesa di S. Pellino, nelle vicinanze di Pontina. Fra gli anni 90 e 83 a.C., fu al centro della lega armata dei popoli italici contro Roma e chiamavasi Lega Italica.
CORFU’
(Kérkyra)
Isola di 592 Kmq. del Mare Jonio settentrionale, che un braccio di mare largo in media una decina di chilometri, il canale di Corfù, separa dall’ Epiro. Il suo territorio è prevalentemente montuoso, dal clima mite per tutto l’anno. Il capoluogo è l’omonima cittadina dotata di porto a rilevante movimento marittimo mercantile. Situata a breve distanza dalla città antica, di cui rimangono alcune vestigia, tra cui le più importanti sono i ruderi del tempio della dèa Artemide (VI s.a.C.), il cui frontone è considerato il più prezioso monumento dell’epoca arcaica; il suo antico nome Corcyra viene comunque identificato con l’isola dei Feaci, di cui parla Omero nell’Odissea. Storicamente fu colonizzata dai Corinti verso il 734 a.C., sotto l’eraclide Chersicrate. Sommamente favorevole la situazione dell’isola per il commercio di allora, gli abitanti lo esercitarono con successo così prosperò che la dominazione da essi acquistata sul mar Jonio e sull’Adriatico, per mezzo di numerose colonie, destò la gelosia della madrepatria. Acquistò in breve grande notorietà, tanto da contrastare (VII s.a.C.), alla stessa madrepatria il dominio del mare Jonio e dell’Adriatico; più tardi, la rivalità con Corinto rappresentò una delle cause delle guerre del Peloponneso. Detta dai Bizantini e dai Turchi, Korphus (da korypho - vetta), fu chiamata un tempo Depane (falce), dal suo aspetto di luna falcata. Parecchi geografi suppongono, sebbene a torto, ch’essa fosse la Scheria di Omero, ossia il paese dei Feaci. Nei tempi più remoti vi abitavano i Liburni illirici. Nel 665 si venne fra Corfù e Corinto a lotta, nella quale quei di Corcira, le diedero sull’Adriatico un vittorioso combattimento, segnando così nella storia greca la prima battaglia marittima, e si resero indipendenti sotto Periandro, tiranno di Corinto, Corfù fu di nuovo sottomessa alla madrepatria. Una nuova questione con Corinto, per la comune colonia di Eridamno (434-432), spinse alla guerra del Peloponneso, durante la quale Corfù si tenne dalla parte degli Ateniesi, ma per sanguinose guerre civili, si trovò, da ultimo, stremata di forze, che finì per essere esclusa dal commercio nel mar Jonio e nell’Adriatico, e da allora decadde sempre più. Agatocle di Siracusa, la conquistò nel 229, e ne fece cessione a Pirro. Più tardi l’occuparono predoni di mare, gli lliri, istigati dalla loro regina Teuta, a cui fu tolta dai Romani nel 229, per restituirle la libertà, e riunirla poi con la provincia di Epiro, colla quale, diviso il romano impero in due parti, toccò al romano impero d’Oriente. Alleata dei Romani venne unita all’Im pero d’Oriente, ma dovette contrastare combattendo i Goti installatisi sulle coste dalmate e italiane. Soggetta poi a Bizantini, Normanni e Veneziani, divenne nel 1386 un saldo presidio di quest’ ultimi, che, nonostante i ripetuti attacchi turchi, la conservarono fino alla caduta della Repubblica Veneta nel 1797. Con le altre isole Jonie venne sottoposta a giurisdizione francese e poi, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte(1815), passò all’amministrazione inglese. Dal 1864 è riunita alla Grecia.
CORE
(PERSEFONE)
(gr. Kore-Fanciulla) Figlia di Demetra (Terra Madre identificata dai Romani in Cerere), simboleggia la vegetazione.
(Vedi Persefone)
CORI
Comune nella provincia di Roma, nel circondario di Velletri, piccola città murata, su alta vetta, inposizione pittoresca. E’antica Cora, e conserva avanzi di notevole antichità. Si vul credere, fondata da Dardano troiano.
CORIBANTE
Sacerdote e nuovi iniziati, seguaci al culto della dèa Cibele.
CORIBANTI
Nella Grecia antica erano mitiche figure demoniache, ora in numero di nove, ora immaginate come un’intero popolo, collegate alla dèa frigia Cibele: così chiamati, anche i seguaci di questa dèa che nelle cerimonie di culto, erano identificati in qualche modo con i coribanti mitici, o si ritenevano posseduti da essi. Ebbero questo nome perché invasi da delirio religioso, percorrevano le strade dimenandosi ed agitando il capo. Il culto era di tipo misterico, e vi si era ammessi solo dopo essere stati sottoposti ai riti di iniziazione. Le cerimonie erano note soprattutto per il loro carattere orgiastico e per le danze estatiche che venivano eseguite al suono di cimbali, timpani, tutti strumenti sacri a Cibele. Nel parossismo della danza, i sacerdoti e gli iniziati si ferivano a vicenda. Furono sovente identificati a Roma con i Lari e in Grecia con i Cureti*(da tonsura), perché portavano il capo raso e Dattili per chè, secondo la credenza del volgo, quando Cibele fu trafugata dal monte Ida, nell’isola di Creta, essi nacquero dalla pressione delle dita della dèa. Si dice pure, che i Coribanti su quelle coste, facevano un gran fracasso con le targhe di bronzo, perchè vegliando sulla salute di Giove bambino, temevano che i suoi vagiti non svegliassero l’ira di Saturno, che aveva minacciata la sua esistenza. Sacerdoti maniaci di Cibele, celebravano le feste in onore della dèa, col picchiare dei cembali e col suono dei flauti. Si afferma pure che detti sacerdoti fossero tutti eunuchi. Le feste coribantiche furono solennità e misteri, che venivano celebrati a Gnosso, nell’isola di Creta, in omaggio di colui che doveva essere nominato coribante. La persona che doveva essere iniziata, si collocava sopra un trono e gli spettatori la accerchiavano dimenandosi e danzando.
CORICIO
Antro, grotta immensa posta sul monte Parnaso. Erodoto racconta che in quella grotta, si salvarono molti abitanti di Delfo nell’infuriare dei Persiani, e Pausania afferma ch’era la più grande conosciuta a quei tempi. L’inglese Raikes fu il primo a scoprirla e farne una minuta ed esatta descrizione.
CORICO
Gli antichi geografi indicavano con questo nome cinque località diverse; Corico nella Licia, tra l’Olimpo e il Faseli, detto dai Turchi Caraly. - Corico, monte della Lidia (Koraka o Kurko), propriamente nella località dove sorgeva la famosa città di Eritre. - Corico nella Pamfilia, vicino ad Attalea (Adalia).- Corico, promontorio dell’isola di Creta detto oggi Grabusa, dividevasi in due parti, che sporgevano in fuori e servivano di punti fissi per misurare la distanza dell’isola dai diversi porti del Peloponneso. - Corico, una città di Creta portava lo stesso nome, ed il Buondelmonte, fiorentino, visitando l’isola nel 1415, rinvenne parecchi avanzi. - Corico, promontorio della Cilicia, aspra o trachea, oggi Horghoz, noto agli antichi per la caverna coricia ricordata da Pindaro e da Eschilo, come l’antro cilicio e dal Mela come il letto del Gigante Titone o Tifeo.
CORIFEO
Dal greco, sommità della testa, anticamente significò il capo di quelli che componevano il coro nella tragedia greca. Quando il coro doveva partecipare all’azione, il corifeo diceva ciò che poi avrebbero detto le persone che vi prendevano parte. Fu pure chiamato corifeo il rappresentante di una corporazione o setta.
CORINNA
Nome di una poetessa greca contemporanea di Pindaro, che fiorì al principio del V s.a.C. Le sue poesie furono riunite in cinque libri, i quali contenevano canti corali, partenie, epigrammi, e poemi erotici ed eroici. Ma pochi frammenti di questi ci furono tramandati. I Greci onorarono questa poetessa innalzandole dappertutto delle statue per glorificare la sua memoria e celebrandola prima fra le nove muse liriche.
CORINNO
Citato da Suida, come poeta epico. Nativo d’Ilio, vissuto prima di Omero, al tempo della guerra troiana, autore di un’Iliade, da cui Omero, credesi, trasse l’argomento del suo poema. Secondo lo stesso Suida, egli cantò altresì la guerra di Dardano coi Paflagoni, e fu discepolo di Palamede.
CORINTHIA
Territorio di Corinto, che occupava l’istmo che collega la Grecia settenarionale col Peloponneso, e una certa estensione al di qua e al di là del medesimo; confinava al Nord con la Megaride; al sud, con l’Argolide; all’est, col golfo Sardonico; all’ovest col Corintio.
CORINTHIACUS
(gr.sinus-insenatura, baia)
Oggi Golfo di Lepanto, formato dal mar Jonio: separa la Grecia dal Peloponneso fino all’istmo di Corinto.
CORINTO
- (Corinthus - Kòrinthos)
- Corinzio
- Corinto (bronzo di).
- Corinto (golfo di…)
- Corinto (guerra di...)
- Corinto (Istmo di)
Anticamente, celebre città della Grecia capoluogo della provincia di Corinzia, che comprendeva l’angolo dell’Argolide più all’est e univa il Peloponneso con la terraferma per mezzo dell’istmo omonimo, assai roccioso largo 59,15 mt. e alto 80. La città situata sotto il ripido versante nord del monte, su cui eravi la cittadella (Acrocorinto), situata nella parte più interna dell’omonimo golfo, sulla costa nord orientale, dista qualche chilometro dalle rovine della città vecchia, distrutta dal violentissimo terremoto del 1858. Grazie alla sua posizione geografica privalegiata, la regione fu abitata sin dal Neolitico, come testimoniano i reperti archeologici rinvenuti nel sottosuolo della città e dei suoi dintorni. Aveva tre porti Lechuon, sul golfo unito con Corinto, per mura lunghe 12 stadi; Kenchrea e Shonos sul golfo di Sronis, era la porta del Peloponneso, di grande importanza strategica. Favole e culti ricordano i tempi dei Fenici, che vi si erano stabiliti, ancora da epoche remote. Così per esempio vi si veneravano Apollo e Afrodite, quest’ultima con culto licenzioso. Vi erano, in particolare venerazione, anche Nettuno ed altre divinità marine. Il culto degli dèi fu d’impulso sin dall’antichità, all’esercizio ed allo sviluppo di molteplici attività artistiche, nelle quali i Corinti si distinsero, per spirito inventivo, buon gusto estetico ed attività, agognando essi di acquistarsi gloria superando il resto della Grecia con gli ornamenti della loro città e dei loro templi. L’edilizia deve ai Corinti le sue forme più ricche e più eleganti. Presso di loro fiorirono particolarmente le arti dei tessuti e della tintura, l’arte plastica, quella del vasellame e la lavorazione dei metalli. Nella pittura si citano, Artico, Cleopanto, Cleante ecc., benemeriti per averla iniziata e promossa. Vi ebbe la sua prima coltura il ditirambo, per opera di Azione. Più tardi la coltura intellettuale rimase al di sotto di quella della materia. Nessun Corinzio si distinse letteralmente Vi ebbero invece saggi uomini di Stato come Periandro, Fedone, Filolao, legislatore dei Tebani e Timoleone. Visse ivi anche Diogene. I Corinti si dedicarono particolarmente all’industria, al commercio, e alla navigazione. La situazione del paese in mezzo a due mari, la difficoltà di girare il Peloponneso, e la facilità invece di trasportar merci oltre l’istmo, avevano fatto di Corinto, un gran mercato e un punto di scalo. In particolare, era al centro di tutti i traffici di articoli mercantili della Grecia, dell’Italia, dell’Illiria e del l’Asia. Dei suoi propri prodotti Corinto esportava per lo più oggetti artistici: merci d’argilla e di metallo, statue, quadri ecc. All’epoca della sua maggiore floridezza avrebbe avuto 300.000 abitanti, e mezzo milione di schiavi, compresi quelli della flotta e delle colonie d’oltremare. La classe dominante era di origine dorica. I tiranni che si impadronivano del sommo potere, trovavano sempre il sicuro appoggio della popolazione non dorica, di gran lunga la più numerosa. Le colonie stabilite da Corinto fanno testimonianza dell’antica sua floridezza: Sbraco, Molicrea, Solino, nell’Arcadia, Leuca, Corcire, Epidamno, Apollonia, e più tardi Potidea nella Calcifica. La maggior parte delle cose sacre e delle divinità di Corinto, di cui non si hanno che pochi avanzi, erano nell’agora, nel cui mezzo vedevasi una statua in bronzo di Athena. A nord- ovest dell’agora, sorgeva un anfiteatro romano. Verso la porta sicionica, un tempio di Apollo, l’Odeon e la tomba dei figli di Medea. Non lungi il tempio di Minerva Caolinite (del quale si vedono ancora sette colonne doriche), il teatro e l’antico ginnasio, presso la fonte di Lerma, nel boschetto dei ci pressi, nel quale Diogene soleva intrattenersi. Conduceva alla cittadella (Acrocorinto), sopra una rupe ripida, alta 575 mt.,una via lunga trenta stadi (5.1/2 Km.), adorna ai lati di parecchi templi, altari e statue. In alto splendeva il tempio di Afrodite, colla statua della divinità. L’Acrocorinto provveduto copiosamente d’acqua dalla fonte Pirene, restò a lungo, per la situazione elevata d’accesso difficile, un’ importante fortezza; poi decadde. A piè del monte vedesi la piccola chiesetta di San Paolo, edificata nel punto in cui credesi l’apostolo abbia predicato il cristianesimo.
STORIA
La storia di Corinto, nel suo esordio è leggendaria. L’eolide Sisifo avrebbe fondato la città (Epeira), intorno al 1350 a.C. I suoi discendenti vi dominarono, finchè l’eraclide Alete, s’impadronì coi Dori, abbattendo la dinastia degli Eoli (1074). I Dori immigrati, costituirono ivi la nobiltà del nuovo Stato. A partire dall’VIII s.a.C alla monarchia primitiva succedette un’oligarchia di grandi proprietari terrieri, i Bacchiadi, che diedero inizio all’espansione com merciale della città, fondando le colonie di Corfù, Siracusa e Potidea. Nel secolo seguente (657), furono rovesciati i Bacchiadi e Cipselo, con l’aiuto dei democratici, instaurò la tirannia. Fu questo il periodo di maggior floridezza, e divenne in breve una opulenta città della Grecia. La sua ricchezza si poggiava sulla produzione e il commercio della porpora, dei bronzi e delle ceramiche, prodotti richiestissimi e assai apprezzati in tutto il Mediterraneo. Fra i nobili, i Bacchiadi, discendenti da re Bacchide, occupavano le cariche più elevate. Abbattuto il re (748), costituirono una dominazione oligarchica di 200 famiglie, fra le quli si sceglieva ogni anno un prylan. Questa oligarchia fu atterrata nel 657 da Cipselo, a cui succedette nel 629, il figlio Periandro (629-585). Entrambi fecero molto per la ricchezza e lo splendore della citta; favorirono d’essa il com mercio, si colonizzò, si sottomise Corcira, s’inventò la ruota del pentolaio e si promossero le industrie e le arti, così da elevarle a grande floridezza. Abbattuto nel 582 il nipote di Periandro, Psammetico, si ristabilì l’antica costituzione dorica. Corinto, amica ed alleata di Atene, nei primi tempi, gelosa del suo florido commercio e della sua formidabile potenza marittima, fece lega con gli Stati dorii. Dopo aver già cominciato nel 458, una guerra contro Atene, senza al cun successo, si infastidì per l’immischiarsi degli Ateniesi nei suoi rapporti con le sue colonie; aizzò i Peloponnesi (431) ad intraprendere la grossa guerra, che finì con la sconfitta di Atene, ma senza procurare a Corinto il vantaggio d’essere il primo Stato marittimo dell’Ellade. Si collegò poi (395) con Atene, Tebe ed Argo per insorgere contro la dominazione spartana. Ne seguì la così detta guerra di Corinto, cui fu teatro di scontri i suoi dintorni. Ma Corinto non raggiunse lo scopo di diventare una potenza indipendente. Nel 366 Timofane, si impadronì del potere supremo, ma fu abbattuto e assassinato dal fratello Timoleone. Negli anni 338 e 336 gli Elleni tennero a Corinto assemblee, in cui scelsero a condottieri dell’esercito contro la Persia, i re Filippo e Alessandro. Sotto la dominazione macedone Corinto e la cittadella, sempre occupata da poderosa guarnigione, furono una delle catene che tennero avvinta la grecia. Nel 243, cacciati i Macedoni, Corinto si unì con la lega achea, e stette con essa fino al 146, in cui presa dai Romani fu completamente distrutta sotto Mummio. Nella Storia, la caduta di Corinto segna la caduta della libertà e dell’indipendenza Greca. La gran parte del suo territorio andò ai Siconi, ed il commercio deviò verso Delo, e il luogo dove Co rinto sorgeva, stette deserto per cent’anni. Si erano conservati solo alcuni templi, e l’Acropoli. Cesare fece risorgere la città solo dopo il 46 a.C., chiamandovi ad abitarla i veterani e discendenti di liberti. Da quel tempo prese nelle iscrizioni il nome di Colonia Julia Corinthus. L’antica Corinto, comprendendo la rupe con l’Acropoli, aveva una conferenza di 85 stadi, ma la nuova, costruita in quadrilatero regolare, di 40 stadi a nord del castello ed era cinta di mura solo da tre lati, appoggiandosi al quarto all’acropo li. Si ricostruirono i templi ed altri pubblici edifici, ma già alla fine del terzo secolo Corinto fu di nuovo devastata (396) dalle schiere barbare dei Goti di Alarico, poi nel 267 saccheggiata dagli Eruli, quindi dai Turchi ed infine dagli Slavi. La città decadde sino a ridursi di molto. Tuttavia la fortezza di Acrocorinto, costituì a lungo un ambito possesso; passò infatti dai Franchi ai Normanni, dai Bizantini ai Turchi, dai cavalieri di Malta ai Veneziani, e quindi di nuovo ai Turchi (1715 –1821) la cui dominazione ridusse Corinto ad un misero villaggio. Svincolatasi nel 1822 dal giogo turco, in mano della Grecia greca, divenuta nazione indi pendente, il suo commercio passò dalla parte di Patrasso; riprese a rifiorire lentamente dal 1830 in poi. Nuovamente distrutta da un grave terremoto il 21/2/1858. Fu riedificata in un altro punto, a 5 km.N/E dal golfo di Lutrache, nel nome di Nea - Korinthos.
Note - Ai Corinzi si attribuisce l’invenzione della trireme (nave in legno da guerra, con triplice ordine di vogatori), e la creazione degli opliti (fanti pesantemente armati).
Museo dell'Acropoli di Atene: un antico documento iconografico della trireme nel rilievo scoperto da Charles Lenormant nel 1852.
ARCHEOLOGIA
Gli scavi inziati dopo il 1896, nella scuola americana di studi classici di Atene, hanno messo in luce soprattutto i resti dell’antica città romana (negozi, templi, terme, pavimentazioni in mosaico, statue ecc.). Della primitiva città rimangono tuttavia vari monumenti, tra i quali sette colonne doriche del tempio di Apollo, uno dei più antichi della Grecia, risalente al VI s.a.C., le fontane Pirene e Glaukè, i bagni di Afrodite, qualche frammento del pavimento dell’Agorà, resti di canalizzazioni, i propilei, le basi di un colonnato monumentale sul quale erano poste statue di giganti, le fondamenta del tempio di Poseidone, presso il quale avevano luogo i giochi istmici, i più importanti della Grecia dopo quelli di Olimpia. Le vestigia romane comprendono un teatro, l’odeon ed una villa con dei bei mosaici. Il Museo posto nel recinto archeologico, è uno dei più ricchi della Grecia.Vi sono conservati oggetti di epoca neolitica (fine del IV - inizio del III millennio a.C., dell’Elladico medio (2000–1700a.C. circa), ceramiche micenee (1650–1200 a.C.), numerose sculture proto-corinzie, e ceramiche a figure nere (VIII-VII s-a.C.), nonché resti di epoca romana, bizantina, franca, eccetera. Nell’età classica l’istmo era sbarrato da un muro fiancheggiato da due torri e dominato dalla cittadella costruita sul l’A croncorinto. Questa fu rimaneggiata nel corso dei secoli dai vari occupanti, ma soprattutto dai Bizantini, Franchi e Veneziani. La maggior parte di ciò che oggi rimane risale al XVIII secolo.
Il Canale (Diòryx Korinthou), è artificiale, tagliato nell’istmo omonimo che unisce l’Attica al Peloponneso; permette le comunicazioni marittime tra il golfo di Corinto (Mar Jonio) e quello di Egina (Mar Egeo). Largo in media 22 mt c/ca e profondo 8 mt, si snoda rettilineo con direzione NO-SE per 6345 mt, tra due alte sponde che in alcuni punti raggiungono gli 80 mt. sul mare. Le opposte rive sono collegate con un ponte stradale e uno ferroviario, su cui corre la linea Atene Patrasso. Il progetto del taglio del canale fu concepito in epoca assai remota, Già nel 67 d.C., l’imperatore romano Nerone aveva fatto eseguire quasi due chilometri di scavo. I lavori vennero però ripresi soltanto nel 1881 e completati nel 1893. Le navi provenienti dal Mar Jonio accedono al Canale dopo aver superato un braccio di mare formato dal golfo di Patrasso e di Corinto, tra il Peloponneso e la sezione centrale della Grecia; le comunicazioni tra questi due golfi che sono abbastanza larghi (20-35 km) e profondi (100–200 mt.), avvengono attraverso la strettoia di Lepanto,(Naupaktos) la cui ampiezza si riduce di circa due chilometri
Ordine dell’architettura classica greca e romana, che fu dapprima una semplice elaborazione dello ionico; è caratterizzato da un alto piedistallo, ricco di modanature, da una colonna dal fusto sottile, e da un aggraziato capitello. In particolare questo, presenta due filari di foglie,di acanto sovrapposti e sfalsati; fu usato in Grecia dove apparve nel V s.a.C., anche nell’ ordine dorico e jonico. I capitelli jonico e corinzio hanno dato vita con la loro fusione al capitello composito, molto usato nell’architettura romana.
Fra i tre ordini dell’architettura greca, è quello più specialmente atto a dare agli edifici quel carattere di ricchezza e di magnificen za. Distinguesi, oltre che per la modalità delle modanature e degli intagli, nel capitello della colonna, formato da una specie di campana rivestita da due ordini di foglie d’acanto e d’olivo e da caulicoli terminanti in volute, che fanno sorreggere l’abaco (parte superiore del capitello in forma di tavola).
Secondo Plinio, esso consisteva in una lega scoperta per un caso fortuito, nella distruzione di Corinto, composta d’oro, argento e rame, usata per getti artificiali. Epperò il cosiddetto bronzo di Corinto, si comporrebbe di metalli nobili. Ma per i getti artistici nell’antichità, non si riuscì mai a dimostrare la presenza.di un considerevole intrinseco d’ oro e d’argento. Ne consegue che per il bronzo corinzio si deve intendere una lega di rame di particolare bellezza, la cui composizione restò un segreto dell’artista.
Usavasi il bronzo corinzio per ogni sorta di oggetti artistici di lusso.
Nel mar Jonio, fra la Grecia di mezzo e il golfo di Patrasso, per mezzo dello stretto dei Piccoli Dardanelli 12 km.,fra i due promontori di Rhion ed Antirhion.
Guerra intrapresa per impulso della Persia, dalle città di Corinto, Tebe, Atene, Argo, strette in alleanza per iscuotere l’opprimente dominazione di Sparta. Una questione tra i Locri *opuntici, alleati di Tebe da una parte, e i Foci protetti di Sparta dall’altra, fu l’incen tivo allo scoppio delle ostilità, il cui principio fortunato (sconfitta e morte di Lisandro), condusse alla formazione di un Consiglio federale delle città in discorso, che doveva condurre la guerra dirigendola da Corinto. Sussidiato con denaro persiano, il consiglio chiamò tutti gli Elleni ad insorgere per la libertà. Gli Spartani vinsero presso Nemea, nel Peloponneso, e presso Coronea, nella Beozia, ma perdettero i frutti della vittoria per la sconfitta della loro flotta presso Gnido. Mentre gli Ateniesi col denaro portato da Canone, riedificarono le lunghe mura, gli Spartani si vedevano ristretti nel Peloponneso, dove, condotti da Agesilao e sostenuti dagli espulsi aristocratici di Corinto, combattevano (393-390) con alterna fortuna per il possesso dell’istmo, La guerra per terra illanguidì per sfinimento di forza e per discordia manifestatasi fra i capi della lega corinzia, sola Atene studiatasi fervorosamente e con successo di ristabilire la propria egemonia nell’arcipelago.
La Persia ingelositasene, si riavvicinò a Sparta e dettò (secondo la proposta dello spartano Antalcida) le condizioni della pace (detta appunto di Antalcida), nel senso che la dominazione sulla Grecia doveva essere divisa tra la Persia e Sparta.
* Da Opunte, città greca
Unisce la Grecia di mezzo alla Morea, ed ha una lunghezza di poco più di 6 kmt., con un’elevazione massima di 18 mt. Si lavorò parecchi anni, circa 14, per aprirvi un canale. Nell’antichità si tentò più volte (anche sotto Nerone), di scavare un canale attraverso l’istmo, ma sempre indarno. Nel 1881 il generale Turr si rese concessionario del taglio dell’istmo, e subito iniziò l’opera con alacrità, studiando mezzo abili ingegneri il modo di portare finalmente a termine un’opera tante volte incominciata dagli antichi. Terminati gli studi tecnici, si fu nell’anno 1882, il, 1 marzo, che il re Giorgio di Grecia, inaugurava i lavori dando egli stesso ini zio con il primo colpo di piccone. In seguito si fondò la società internazionale del Canale marittimo di Corinto, che si sostituì al concessionario per l’esecuzione dei lavori. La lunghezza del Canale deve essere di km.6, metri 345, e servirà ad unire il Peloponneso all’Attica, annullando il ponte di ferro gettato sul mare. In certi punti il terreno da tagliare è all’altezza di 80 mt., sul livello del mare. Avrà 22 mt., di larghezza ed il suo letto di 8 mt.,sotto il livello del mare. Le scarpe avranno il 10 per cento, ad eccezio ne di qualche tratto di terra franosa che dovrà essere più scarpata od essere rivestita. Diverse qualità di terra si presentano di ma no in mano che si avanza nel lavoro, come pure duri banchi di pietra che si fanno saltare, con polveri e dinamite. Oltre alle mine sono impiegate diverse macchine, che, caricando il materiale smosso, sui vagono completano 20 e più treni al giorno composti di 50-60 vagoni. Oltre alle macchine sono impiegati 1000 e più operai a smuovere la terra e caricare i vagoni, che sono condotti fuori dal canale a mezzo di forti locomotive. Un bel sistema viene applicato e sembra il più conveniente, aprendo cioè gallerie sotterranee ove entrano i treni e quindi a mezzo di fornelli che comunicano dalla parte superiore della terra smossa, si caricano i va goni senza adoperare pale e con pochissima fatica. Il materiale smosso precipita attraverso i fornelli sui vagoni. Dagli studi fatti pare che i metri cubi da trasportare ascendano a otto milioni, e, dovendosi per eseguire questo colossale lavoro, ricorrere a brac cia straniere (perché i Greci non lavorano che in commercio), la Compagnia assuntrice dei lavori fece costruire a comodo degli operai una quantità di case di legno da un capo all’altro dell’istmo, e ne concede ai medesimi l’uso gratuito, cosicché ora si ve dono due paesi in cui si trovano, negozi , alberghi, caffè, teatri, , un ospedale ecc. Questo fu il primo pensiero del la Compagnia, e, dopo costruite le case, si pensò ai cantieri e ai laboratori d’ogni genere dove si riparano macchine idrauliche, perforatrici, ecc., sono pure impiegate in questo lavoro12 locomotive, 700 vagoni, tra piccoli e grandi e 40.000 metri di strada ferrata. Fu inaugurato il 6 agosto 1893.
CORIOLANO
Appellativo d’onore con cui venne chiamato il patrizio romano Gneo Marzio, per l’insigne valore da lui spiegato nel conquistare la città di Corioli (dei Volsci), nell’ 498 a.C. Superbo della sua vittoria, e sdegnoso dei plebei, egli, in quello stesso anno e in occasione di una grande carestia, si oppose che si distribuisse gratuitamente al popolo dei viveri procacciati dalla Sicilia, a ciò indotto dal dispetto che provava per non essere stato eletto console. Chiamato dinanzi al tribunale del popolo, e non comparendo fu condannato all’esilio. Partì da Roma e si rifugiò presso il re dei Volsci, che lo pose alla testa d’un esercito col quale Coriolano si avanzò vittorioso fin sotto le porte di Roma. Soltanto le preghiere della sua vecchia madre Veturia e della sua consorte Volunnia, poterono indurlo a togliere l’assedio e ritirarsi. Visse molto probabilmente presso i Volsci; morì vecchissimo.
Di Coriolano minutamente scrisse Plutarco, e Shakespeare ne ha fatto l’eroe d’una delle sue tragedie.
CORNELIA
Gens
Tra i numerosi personaggi della gens Cornelia ricordiamo (in ordine cronologico):
I Cornelii Scipioni
- Publio Cornelio Scipione, tribuno consolare nel 395 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione, console nel 350 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298 a.C.
- Gneo Cornelio Scipione Asina, console nel 260 e nel 254 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione, console nel 259 a.C.
- Gneo Cornelio Scipione Calvo, console nel 222 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Asina, console nel 221 a.C.
- Publio Cornelio Scipione, console nel 218 a.C.
- Publio Cornelio Scipione, console nel 205 e nel 194 a.C. e famoso generale
- Publio Cornelio Scipione Nasica, console nel 191 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione Asiatico, console 190 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Africano Minore, figlio del Maggiore
- Gneo Cornelio Scipione Ispallo, console nel 176 a.C.
- Publio Cornelio Scipione, augure e pretore nel 174 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione, pretore nel 174 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione, politico e militare
- Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo, console nel 162 e nel 155 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Emiliano, console nel 147 e nel 134 a.C.
- Gneo Cornelio Scipione Ispano, pretore nel 139 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione, console nel 138 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione, console nel 111 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Nasica pretore nel 93 a.C.
- Lucio Cornelio Scipione Asiatico, console nell'83 a.C.
- Publio Cornelio Scipione, console nel 16 a.C.
- Publio Cornelio Scipione, questore nell'1
- Servio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito, console nel 51
- Publio Cornelio Lentulo Scipione, console nel 56
- Publio Cornelio Scipione Asiatico, console nel 68
- Servio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito, console nell'82
- Servio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito, console nel 110
- Servio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito, console nel 149
- Servio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito, console nel 178
- Lucio Cossonio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito: celebrò un taurobolium nel 295.
(esaustive informazioni su: Pagina di Wikipedia)
CORIOLI
Città dei Volsci, per la cui presa vuolsi che Gneo (o secondo altri Gaio) Marzio ricevesse il soprannome di Coriolano. Questa città sorgeva sui confini dei territori di Ardea, d’Ariccia e d’Anzio; di essa non restano vestigia. Si vuole che il luogo occupato dall’antica Corioli, corrisponda al Monte Giove, che è l’ultimo gradino considerevole della Lacinia, che dal monte Albano discende, per monte Gentile, Galloro e monte Due Torri, nella pianura meridionale del Lazio, a circa 26 km., da Roma e a sinistra della strada di Porto d’Anzio.
CORONEA
Città della Beozia ove fu sepolto Anfione.
CORONIDE
- CORONIDE - Dèa della medicina.
- CORONIDE - asteroide della fascia principale
- CORONIDE - segno diacritico dell'alfabeto greco
- CORONIDE - figlia di Coroneo
- CORONIDE - menade tessala
- CORONIDE - una delle Iadi
- CORONIDE - figlia di Flegias e madre di Asclepio.
(V. Esculapio – Asclepio)
re di Focide, mutata in corvo da Atena
Secondo il mito, Apollo si innamorò di Coronide mentre ella faceva il bagno in un lago: i due consumarono la loro passione, poi il dio andò via, lasciando un corvo a guardia della ragazza.
Coronide decise di sposarsi con Ischi e il corvo, quando li vide assieme, volò da Apollo per riferire. Quando scoprì che Coronide era incinta, decise di punire il corvo, tramutandogli le piume da bianche in nere, poiché non aveva allontanato Ischi da Coronide.
Artemide uccise Coronide trafiggendola con un dardo, su richiesta del fratello disonorato. Apollo, però, decise di salvare il piccolo che Coronide aveva in grembo, e chiese ad Ermes di prenderlo dal corpo della madre. Apollo decise di dare al piccolo il nome di Asclepio.
COSROE
- Cosroe I° di Persia
- Cosroe II di Persia
ovvero Cosroe I Anoshakrawān (persiano: انوشگروان) o Anoshirvān (persiano: انوشیروان), ossia anima immortale (501 circa – Ctesifonte, 31 gennaio 579), è stato un sovrano persiano.
Forse il più noto dei re della dinastia sasanide, regnò dal 531 al 579. Edificò città e palazzi, ripristinò vie commerciali, costruì o riparò ponti, canali e dighe. Durante l'ambizioso regno di Cosroe I° l'arte e la scienza persiane fiorirono e l'impero sasanide raggiunse l'apice della potenza e della prosperità.
All'inizio del suo regno Cosroe concluse una pace eterna con l'imperatore bizantino Giustiniano, il quale voleva avere mano libera per la conquista dell'Africa e della Sicilia. I suoi successi contro i Goti e i Vandali provocarono però la reazione del sasanide e l'inizio di una guerra nel 540.
Cosroe invase la Siria e deportò gli abitanti di Antiochia in Persia, dove costruì per loro una nuova città nei pressi di Ctesifonte. Nei sette anni successivi combatté con successo in Lazica o Lazistan (l'antica Colchide) e in Mesopotamia, e i bizantini, guidati da Belisario, non poterono nulla contro di lui. Nel 545 fu concluso un armistizio e nel 562 fu firmato un trattato di pace cinquantennale col quale i persiani restituivano la Lazica ai Bizantini e si impegnavano a non perseguitare i cristiani, purché questi non facessero proseliti tra gli zoroastriani; Costantinopoli, da parte sua, doveva pagare un tributo alla Persia.
Nel frattempo, a est gli Eftaliti erano stati attaccati dai Turchi Göktürk. Cosroe diede manforte a questi ultimi e conquistò la Battriana, lasciando ai Turchi la Transoxiana. Molte delle tribù ribelli della regione vennero assoggettate. Intorno al 570 la dinastia dello Yemen, che era stata sottomessa dagli etiopi di Axum, chiese l'aiuto di Cosroe che inviò una flotta con un piccolo esercito agli ordini di Vahrez. Gli Etiopici furono scacciati e lo Yemen divenne territorio persiano fino alla conquista araba.
Nel 571 scoppiò una nuova guerra con Costantinopoli per il controllo dell'Armenia, durante la quale Cosroe invase la Siria (conquistando Dara) e la Cappadocia riportando un grande bottino. Cosroe morì nel 579 durante le trattative con l'imperatore Tiberio II, e gli succedette il figlio Ormisda IV.°
Tolleranza religiosa
Sebbene Cosroe, negli ultimi anni del regno paterno, estirpasse l'"eresia" della setta comunistica dei mazdakiti, e fosse un sincero seguace dell'"ortodossia" zoroastriana, non fu un fanatico e non era incline alle persecuzioni. Concesse tolleranza a tutte le confessioni cristiane, e quando uno dei suoi figli si convertì e si ribellò contro di lui e fu infine fatto prigioniero, non lo fece giustiziare e nemmeno punì i cristiani che lo avevano fiancheggiato.
Quando nel 529 Giustiniano I chiuse l'Accademia di Atene, ultimo centro del paganesimo dell'impero bizantino, Cosroe accolse gli ultimi sette maestri del neoplatonismo. Qui essi trovarono che il regno di Cosroe non corrispondeva al loro ideale platonico ed ottennero di ritornare in patria senza danno dopo la conclusione del trattato tra Cosroe e Giustiniano.
Riforme
Cosroe introdusse un sistema più razionale di tassazione basato sulla proprietà fondiaria e cercò in ogni modo di incrementare la ricchezza e le entrate dell'impero. Ricostruì e migliorò le infrastrutture, favorì lo sviluppo della filosofia e della letteratura alle quali persino i suoi soldati si interessavano. Furono introdotti dall'India il gioco degli scacchi e numerosi libri che furono tradotti dal sanscrito in pahlavi. Burzoe (Bozorgmehr), ministro di Cosroe, tradusse il Panchatantra, che fu trasmesso poi attraverso gli Arabi anche all'Europa.
Matrimoni e discendenza
Cosroe I° sposò la figlia del Gran Khan dei Turchi celesti Istämi yabghu, noto ai bizantini, con il nome di Silziboulos, con il quale aveva concluso un trattato[1]. Da ella ebbe il suo successore Ormisda IV°, detto Turk-zâd.[2]
Sposò anche una cristiana di nome Eufemia, che egli lasciò libera di praticare la propria religione. Da Eufemia Cosroe ebbe il principe Nushzad, che nel 551 si ribellò contro il padre, ma fu graziato.
Cosroe I°, Signore della Giustizia, Palazzo di Giustizia di Teheran
(ritorna a Tribuno)
(Ctesifonte, 570 circa – Ctesifonte, 28 febbraio 628) nipote di Cosroe I, venne soprannominato Parviz (il vittorioso), per le numerose campagne militari guidate brillantemente; regnò dal 590 al 628.
Salì al trono nel 590 dopo la morte di suo padre Ormisda IV (Hormizd]]; nello stesso anno però il trono gli venne spodestato dal generale ribelle Bahram Chobin che lo depose e salì al trono di Persia con il nome di Bahram VI. Cosroe II però riuscì a fuggire a Costantinopoli dove chiese all'imperatore bizantino Maurizio aiuto per ritornare al trono. Grazie al magister militum bizantino Narsete, Bahram venne sconfitto e Cosroe II poté ritornare al potere.
Il 27 novembre 602 l'imperatore bizantino Maurizio venne ucciso in una congiura di palazzo dal tiranno Foca, che governò l'impero bizantino per otto anni fino al 610; Cosroe II, desideroso di ripristinare l'antico impero achemenide, ebbe così il pretesto per iniziare una nuova guerra contro i bizantini. Egli infatti, con il pretesto di vendicare la morte di Maurizio (a cui era riconoscente perché l'aveva aiutato a sconfiggere Bahram Chobin), invase l'impero bizantino riportando grandi successi sui bizantini, che, privi dell'abile ed esperto magister militum Narsete, furono incapaci di contrastarlo.
Nel 606 l'esercito di Cosroe II occupò la fortezza di Dara e invase l'Asia Minore, espugnando Cesarea, che era considerata la fortezza più difficile da espugnare dell'Impero bizantino e penetrando in Calcedonia. In seguito occupò le città siriane di Hierapolis, Chalcis e Berrhaea o (Aleppo) e assediò Antiochia. La rapida successione di successi persiani svelò la debolezza dell'Impero bizantino, l'incapacità di Foca, e l'odio che i suoi sudditi provavano per lui; e Cosroe fornì loro una decente scusa per sottomettersi o rivoltarsi a Foca, spargendo la voce che il figlio di Maurizio e l'erede legittimo al trono, Teodosio, fosse ancora vivo e vivesse ora nella corte di Persia; probabilmente questo era un impostore che Cosroe II voleva far salire al trono di Bisanzio in modo da trasformare praticamente Bisanzio in uno stato fantoccio dipendente dalla Persia.
Anche quando Foca venne deposto e ucciso da Eraclio (610), che venne incoronato imperatore, la situazione non migliorò per i Bizantini. I Persiani infatti continuarono la guerra perché Cosroe II voleva come imperatore non Eraclio ma Teodosio, il già citato presunto figlio di Maurizio, e, dopo aver occupato l'Armenia e la Mesopotamia, arrivarono a occupare Antiochia e la Siria nel 611. In seguito si espansero verso sud, occupando nel 614 la Palestina e Gerusalemme. Durante la conquista e il saccheggio della Città Santa venne trafugata e portata in Persia la Vera Croce (la croce di Gesù Cristo) del Santo Sepolcro e le chiese di Costantino ed Elena vennero danneggiate dalle fiamme.
Cosroe II mentre viene ucciso da Eraclio I, in una placca francese del XII secolo.
Poi nel 616 i Persiani iniziarono la conquista dell'Egitto conquistando prima la città di Alessandria e poi l'intero Egitto. Nel frattempo un'altra armata persiana si diresse verso la Tracia e occupava in poco tempo Calcedone, le coste del Bosforo, la città di Ancyra e l'isola di Rodi. Secondo Gibbon, se Cosroe II avesse posseduto una flotta potente avrebbe portato la morte e la devastazione anche in Europa. Nel 621 quasi tutto l'Impero bizantino era occupato dai persiani: ai bizantini rimanevano solo la Grecia, l'Anatolia e i lontani esarcati d'Italia e d'Africa.
L'offerta amichevole del generale persiano Shahin di condurre un'ambasciata da Cosroe II venne accettata dai Bizantini e il prefetto del pretorio, il prefetto della città e alcuni ecclesiastici chiesero umilmente la pace allo scià di Persia. Ma Shahin aveva fatalmente frainteso il suo re. Ecco infatti cosa disse Cosroe II quando l'ambasciata bizantina arrivò:
« Non era un ambasciatore - disse il tiranno d'Asia - era la persona di Eraclio, ridotta in catene, che sarebbe dovuto essere portato ai piedi del mio trono. Non concederò mai la pace all'Imperatore di Roma, fino a quando non avrà abiurato la fede nel suo Dio crocifisso, e non avrà abbracciato la fede nel Dio Sole. »
(Gibbon, Storia del declino e caduta dell'Impero romano, cap. 46)
Cosroe II condannò a morte l'ambasciatore. Comunque l'esperienza di sei anni di guerra aveva persuaso Cosroe a rinunciare alla conquista di Costantinopoli e di accontentarsi di un tributo annuale che i Bizantini avrebbero dovuto pagare ai Persiani; il tributo annuale consisteva in un migliaio di talenti d'oro, un migliaio di talenti d'argento, un migliaio di abiti di seta, un migliaio di cavalli e un migliaio di vergini. Eraclio accettò queste condizioni, ma stava nello stesso tempo organizzando la riscossa bizantina.
Due giorni dopo Pasqua (622), Eraclio lasciò Costantinopoli e con il suo esercito di 5.000 soldati giunse via mare in Cilicia e si accampò a Isso. In seguito penetrò in Armenia dove sorprendentemente sconfisse in varie occasioni i Persiani. La primavera successiva l'esercito bizantino distrusse inoltre il Tempio del Fuoco di Zoroastro, numerosi altri templi, delle statue di Cosroe e i resti di Thebarma o Ormia, il luogo di nascita di Zoroastro. In questo modo i Bizantini si vendicarono della deportazione della croce di Gesù Cristo ad opera dei Persiani quando essi occuparono la Palestina e Gerusalemme nel 614.
Cosroe, allarmato per i successi bizantini, richiamò dall'Egitto e dal Bosforo molte truppe. Nel frattempo nell'accampamento bizantino gli alleati della Colchide minacciavano di disertare e anche i soldati più esperti avevano paura dell'esercito persiano, che era molto più numeroso di quello bizantino. Ma Eraclio li rassicurò:
« Non vi fate spaventare dalla moltitudine dei vostri nemici. Con l'aiuto del Cielo, un Romano può trionfare su mille Barbari. Ma se sacrifichiamo le nostre vite per salvare i nostri fratelli, otterremo la corona del martirio, e la nostra ricompensa immortale verrà pagata da Dio e dai posteri. »
Incoraggiati i suoi uomini, Eraclio e il suo esercito continuarono a vincere molte battaglie sconfiggendo tre grossi eserciti condotti dai tre più forti generali persiani: Shahrbaraz, Shahin e Shahraplakan; nella battaglia del fiume Saro l'Imperatore sconfisse addirittura in un combattimento corpo a corpo un gigantesco guerriero persiano, come Davide sconfisse Golia. Cosroe II comunque non si diede per vinto e rispose alla controffensiva di Eraclio stringendo un'alleanza con gli Avari e formando tre grossi eserciti: il primo di 50.000 uomini, soprannominati le lance d'oro, fu mandato contro Eraclio e le sue truppe; il secondo aveva l'incarico di prevenire il ricongiungimento tra l'esercito di Eraclio e quello del fratello Teodoro, e il terzo aveva l'incarico di assediare, insieme agli Avari, Costantinopoli. Ma l'assedio della capitale bizantina, avvenuto nel 626, fallì grazie all'inespugnabilità delle Mura Teodosiane e a 12.000 cavalieri inviati da Eraclio per difendere la città. Tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, Eraclio strinse un'alleanza con il Khan dei Cazari, formò un esercito di settantamila uomini tra Bizantini e stranieri e riuscì a riconquistare in poco tempo le città della Siria, dell'Armenia e della Mesopotamia.
Poi decise di attraversare le montagne del Kurdistan, giungendo quindi a Ninive. Anche i Persiani comandati dal generale Rhahzadh all'inseguimento dei Bizantini valicarono questa catena montuosa ma, a differenza dei Bizantini che avevano realizzato il loro passaggio in perfette condizioni meteorologiche, essi dovettero affrontare violente tormente di neve e arrivarono a Ninive decimati.
Il 12 dicembre 627 si combatté la battaglia di Ninive; i Persiani, decimati dal gelo e dalla fame che avevano dovuto affrontare durante il cammino, non ebbero scampo e vennero massacrati dai bizantini. Eraclio trascorse il Natale a Ninive, ospitato nella tenuta di un nobile persiano.
Ormai per la Persia la guerra era perduta: Cosroe II dopo la sconfitta fuggì a Seleucia e, vedendo la propria fine vicina, decise di nominare suo successore Merdaza, il suo figlio preferito. Ma Siroe, un altro figlio di Cosroe, non approvò la sua decisione e cercò il consenso dei satrapi per preparare una congiura contro suo padre: ai soldati Siroe promise un aumento dei salari; ai cristiani la libertà di professare la propria religione; ai prigionieri la libertà; e alla nazione pace immediata e la riduzione delle tasse. Il 23 febbraio 628 Cosroe II, perso tutto il suo prestigio e il sostegno dell'aristocrazia, venne rovesciato e rinchiuso in un sotterraneo per ordine del figlio Siroe (che salì al trono con il nome di Kavadh II) e, dopo cinque giorni di torture, spirò; Kavadh II, salito al trono, firmò una pace con i Bizantini in cui si impegnava a ritirare le sue truppe dalle zone occupate durante la guerra e restituiva ai Bizantini la Vera Croce.
La leggenda vuole che all'apice del suo regno si fece costruire un trono sfarzoso tripartito: i tre scranni stavano ad indicare che egli era (o meglio, sarebbe dovuto diventare) imperatore romano d'Oriente, del Vicino Oriente e dell'Asia fino all'India.
Cosroe II mentre viene ucciso da Eraclio I,
in una placca francese del XII secolo - Louvre Parigi
COTTO
Gigante figlio di Cielo e della Terra (V. Centimani)
COTURNO
Calzare degli antichi; stivaletto a mezza gamba.
COTHURNATA
La fabula cothurnata è la tragedia latina di ambientazione ed argomento greco. Deve il proprio nome agli stivali a suola alta indossati dagli attori tragici greci, detti cothurni. È affiancata dalla fabula praetexta, la tragedia latina di ambientazione latina.
Mentre disponiamo per intero del testo di ventisei commedie, non resta niente più che un corpus di frammenti sparsi del repertorio tragico romano, fatta eccezione che per il corpus tragicum senecano; inoltre, il numero dei tragediografi latini risulta inferiore rispetto a quello dei commediografi: nel periodo di massima fioritura del teatro latino (III-II secolo a.C.) operarono Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio; soltanto gli ultimi due furono esclusivamente autori di tragedie, mentre i restanti scrissero anche alcune commedie. Anche in età imperiale continuò la produzione di opere tragiche; è oggetto di accesa discussione tra gli studiosi l'ipotesi secondo la quale la tragediografia di età imperiale fosse pensata per la lettura e non per la rappresentazione; tra gli autori si ricorda Seneca.
Secondo la testimonianza di Cicerone[1], la prima rappresentazione di una coturnata risalirebbe al 240 a.C., ad opera di Livio Andronico. La datazione è però ancora in gran parte discussa tanto che alcuni studiosi la posticipano di diversi decenni, sulla base della convinzione che una data tanto alta sia stata indicata da Cicerone non perché suffragata da reali prove ma perché avrebbe garantito alla letteratura latina una maggiore importanza.
La fabula cothurnata ebbe una maggiore fortuna della fabula praetexta. Le fabulae nascevano dalla rielaborazione artistica delle opere dei tragici greci, in primo luogo Eschilo, Sofocle ed Euripide. I temi prevalenti erano di carattere mitologico, soprattutto quelli connessi alle storie del Ciclo Troiano, di quello tebano e alla vita dei discendenti di Pelope, detti Pelopidi. Seppure il legame con i modelli greci fosse molto forte, è necessario sottolineare come profonde fossero le trasformazione che si rendevano necessarie, oltre che volute, per soddisfare i gusti di un pubblico molto diversi da quello greco. Le caratteristiche peculiari della tradizione tragica latina comprendevano un certo gusto per l'orrido e la violenza: abbondavano scene macabre, cruente e violente in particolare nella produzione di Accio, Pacuvio e di Ennio. È necessario notare come tale caratteristica, che arriverà poi sino a Seneca, era resa possibile dalla natura non sacra delle rappresentazioni teatrali, caratteristica precipua, invece, del teatro greco, che era praticato in occasioni di grandi feste pubbliche e portato su una scena che era considerata altare del dio Dioniso. Ulteriore caratteristica peculiare della fabula cothurnata era la riproposizione frequente della tematica del potere, di cui venivano mostrato le devianze tiranniche; tale tratto è da addursi alla forza con la quale tale tema era oggetto di discussione in abito politico: la repubblica romana nasceva nel 509 a.C. come liberazione da una forma di potere monarchica che aveva assunti tratti eccessivamente autoritari. Da quell'evento traumatico il potere nella forma monarchica venne considerato elemento nefasto da temere.
Sono ad oggi noti i titoli di quasi cento fabulae cothurnatae, di alcune delle quali rimangono pochissimi frammenti;[2] di altre non ci è pervenuto che il titolo. Rimangono i titoli di otto cothurnatae di Livio Andronico, di cui cinque sono legate al ciclo troiano: Achilles (Achille), Aegistus (Egisto), Aiax mastigophorus (Aiace armato di frusta, che racconta la storia dell'assegnazione delle armi di Achille ad Odisseo ed il conseguente suicidio di Aiace Telamonio), Equos troianus (Il cavallo di Troia) ed Hermiona (Ermione). Le restanti tre, che si caratterizzano per un particolare gusto per l'avventura e per gli aspetti romanzeschi, sono l'Andromeda, la Danae e il Tereus, che narrano la storia, rispettivamente, di Andromeda, Danae e Tereo, Filomela e Procne. Non si conserva alcun frammento.
Di Nevio, che contribuì all'elaborazione linguistica del genere, si conservano circa cinquanta frammenti e sei titoli:[3] Aesiona (Esione), Danae (Danae), Equos troianus (Il cavallo di Troia), Hector proficiscens (La partenza di Ettore), Iphigenia (Ifigenia) e Lucurgus o Lycurgus (Licurgo), che è l'unica opera di cui si possa ricostruire, seppur con una certa approssimazione, la trama.
Di Ennio si conservano venti titoli e circa 400 frammenti;[3] la maggior parte è riconducibile alle vicende del ciclo troiano: Achilles, Aiax, Alexander (Paride Alessandro), Andromacha aechamalotis (Andromaca prigioniera di guerra), Hectoris lutra (Il riscatto di Ettore), Hecuba (Ecuba), Iphigenia, Telamo (Telamone), Telephus (Telefo). Tra le altre opere si ricorda la Medea, di cui si conserva un certo numero di frammenti.
Altri tragediografi contemporanei di questi furono Marco Pacuvio e Lucio Accio.
Di Seneca ci sono giunte per intero, caso unico in tutta la letteratura latina, nove cothurnatae: Oedipus, Phaedra, Hercules furens, Phoenissae, Troades, Agamemnon, Thyestes, Medea ed Hercules Oetaeus. Sulla reale paternità senecana di quest'ultima tragedia si è a lungo discusso in ambito scientifico.
CRATERE
Vaso usato dai Greci sin dall’età omerica per mischiare il vino e l’acqua, dato il grandissimo grado alcoolico dei vini prodotti nell’antichità. Erano usualmente abbastanza grandi, con larga bocca e poggiava ad una base di sostegno.
CRATILO
Filosofo greco nato ad Atene, vissuto nel V s.a.C. La tradizione lo vuole essere stato uno dei maestri di Platone (Cràtilo si intitola uno dei dialoghi platonici), al quale egli avrebbe insegnato le dottrine eraclitee di cui era seguace. Tuttavia nel pensiero di Cràtilo, la dottrina di Eraclito prende piuttosto l’aspetto di una teoria del generale divenire di tutte le cose, rimanendo affatto in ombra quell’elemento dell’opposizione intrinseca ad ogni aspetto della realtà, che della dottrina di Eraclito era più particolarmente carat terizzato. Così, se per Eraclito non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, perché la seconda volta è sì lo stesso fiume (nel no me, che per Eraclito è un’aspetto sostanziale della cosa stessa), ma insieme non è più lo stesso (l’acqua di prima è ormai passata), per Cràtilo invece, per il quale il fiume è il simbolo dello scorrere di tutte le cose, non è possibile bagnarsi neppure una sola volta nello “stesso” fiume; e coerentemente egli si limita a indicare le cose solo con il gesto di un dito, il nome e il linguaggio rimanendo sempre gli stessi, non rispecchiano infatti il perenne divenire di tutte le cose. La modificazione della dottrina del maestro, rende infine problematico, come con ciò si possa poi accordare la tesi a lui attribuita nel Cràtilo platonico.della validità naturale(e non convenzionale dei nomi), e che pure è certamente dottrina di ispirazione eraclitea.
CREONTE
Mitico re di Tebe, prima e dopo di Edipo; fratello di Giocasta. È padre di Cressida.
CRESSIDA
Figlia di Creonte, e moglie di Trailo.
CRETA
(Candia – Kréte)
Isola greca del Mediterraneo, situata a circa 100 km. a Sud Est del Peloponneso; si estende per circa 8331 kmq., ed è costituita dalle provincie di Candia, Lasiti, Rétimo e La Canea. Di forma stretta e allungata per circa 250 km.. in direrzione Ovest-Est. con coste alte e rocciose, ove si aprono varie insenature, quali la baia di Kissamos, quella di La Canea, il Golfo di Rétimo (o Almiro), la baia di Màlia, e il Golfo di Mirabella. E’ prevalentemente montuosa, raggiungendo la massima altezza col monte Ida di 2456 m Sulle coste la temperatura è mite tutto l’anno, ma all’interno d’inverno il clima diventa più freddo. La rete fluviale è poco sviluppata per la scarsità delle precipitazioni, per la vicinanza alle coste dello spartiacque, e per la permeabilità delle rocce calcaree che hanno favorito lo sviluppo di un vasto sistema idrografico sotterraneo di carattere carsico. Il clima è di tipo mediterraneo, carat ùterizzato dal l’alternarsi di una lunga stagione secca estiva, con un periodo piovoso nei mesi invernali. I centri principali sono: Candia (Hérakleion o Iràklion), denominazione estesa in passato a tutta l’isola; la Canea (Khanìa o ,Chanìa), sulla baia omonima che, nonostante le gravi distruzioni subite nel corso della seconda guerra mondiale, conserva parte del nucleo urbano più antico ; comprendente gli im pianti portuali, un castello e i bastioni costruiti dai Veneziani, men tre vario materiale archeologico è raccolto nell’interessante museo. Infine Rétimo (Réthymnon o Réthymni), antica cittadina della costa settentrionale, anch’essa come Canea con molti monumenti veneziani (cittadella, bastioni, palazzi, ecc.)
Cenni storici
Le più antiche testimonianze della storia e della civiltà Cretese (detta anche minoica), dal nome del mitico re Minosse, ci sono state rivelate dall’archeologia, ed in particolare dai primi scavi condotti dall’inglese sir Arthur Evens, a Cnosso. L’isola appare abitata fin dalla più lontana preistoria (almeno dal VI millennio a C.), e già dal III millennio, la terra veniva regolarmente coltivata; vi si praticavano le prime tecniche metallurgiche e sorsero attività marinare. A partire dal 2000 a.C., si sviluppò un primo periodo di grande splendore (Minoico Medio), che quantomeno, nel campo artistico, costituì forse l’apogeo della civiltà cretese. I rapporti commerciali con l’Asia Minore, con l’Egitto e la Fenicia arricchirono notevolmente le città, specialmente di quelle sulla costa orien tale dell’isola, e sorsero i primi e caratteristici palazzi.
Cnosso sembra divenire, fra tutte la città, dominatrice; il suo palazzo ha un’importanza regale. Ma nel XVIII s.a.c., attraversò un periodo difficile, le relazioni con i porti del vicino Oriente furono compromessi dall’invasione Ittita, financo nell’isola stessa, come attesta lo strato di ceneri apparso nel corso degli scavi; caddero in rovina le principali città. Ma dopo circa un secolo, si riapri un nuo vo periodo di prosperità. Il dominio di Cnosso appare ora incontrastato. La città, il suo palazzo, sono al centro di un vasto impero marittimo che si estende sull’Egeo, toccando forse, anche le coste greche, che starebbe a significare la leggenda di Teseo e il Minotauro. Una nuova catastrofe nel 1400 si abbatte sull’isola, tanto che i palazzi sono rasi al suolo e incendiati. Ed anche questa volta, come le altre, è difficile stabilirne le cause (probabilmente un’inva sione di Achei, decisi a stroncare la dominazione minoica). In ogni caso, con la rovina di Cnosso, si esaurì la storia antica di Creta, la cui splendida civiltà continuò a Micene, in un così stretto rapporto con quella cretese, da essere entrambe conglobate nella definizione di civiltà cretese-micenea o anche conosciuta come civiltà egea. In età classica e in periodo ellenistico, seguì le sorti della Grecia, finchè, dilaniata dalle rivalità e dalle lotte fra città e fazioni, nel 67 a.C.,cadde sotto il dominio romano. Sul finire del IV secolo, entrò nell’orbita di Bisanzio, di cui subì profondamente l’influenza.
Presa d’assalto e conquistata dai Saraceni nell’826. I bizantini se ne reimpadronirono circa un secolo dopo, nel 961. Nel 1204, durante la crisi del l’impero d’Oriente, conseguente alla IVa crociata, cadde in mano ai Veneziani che la fortificarono e ne fecero un’attivissimo centro commerciale. Restò alla Serenissima per oltre quattrocento anni, finchè al termine di una lunga e dura lotta, fu presa dai Turchi nel 1669. Malgrado numerose rivolte, particolarmente cruenta quella dell’anno 1896, soltanto nel 1913 l’isola potè liberarsi del dominio turco, per essere integrata alla Sovranità della Grecia.
CIVILTA'CRETESE MICENEA
Con questo termine si definisce la civiltà sviluppatasi tra il III millennio e XI s.a.C., dapprima nell’isola di Creta e poi nella gran parte dell’Egeo e della Grecia continentale, dove ebbe uno dei centri principali in Micene. Dalle origini, al 1800 a.C., si svolge il periodo Minoico Antico, caratterizzato da forti influenze culturali del vicino Oriente, e della regione balcanico-danubiana; segue il Medio Minoico,(1800–1400 a.C.), o periodo protopalaziale, in cui si costruiscono e ricostuiscono i grandi palazzi, probabilmente in relazione con la rovina di Troia; l’ultimo perioo (Tardo Minoico), ha un limite cronologico più breve (secoli.XII-XI a.C.), e coincide con la fine della civiltà. Il valore di questa schematizzazione cronologica, è ovviamente convenzionale e passibile di tutte le modificazioni e rettifiche che possono emergere dagli scavi, l’inizio dei quali risale al secolo XIX, e le cui campagne vennero condotte annualmente da varie “scuole archeologiche” di diverse nazioni d’Eu ropa e d’America. I centri urbani di maggior importaza si stabilizzarono ora a Cnosso, ora a Festo e a Màlia. I grandi palazzi ne rappresentano sotto tutti gli aspetti, il centro vitale; la loro grandezza e la loro monumentale floridezza testimoniano la potenza, il saldo regime politico, l’intensificarsi dei rapporti di Creta con le civiltà dell’Egitto e di vari centri culturali e commerciali della Grecia continentale. Ove la loro posizione lo richieda, le città si circondano di mura, e opere di fortificazione. La ricchezza delle abitazioni private e del vario materiale di scavo, aiutano a comprendere i caratteri e gli aspetti della religione, della vita politica e artistica. Alla prima distruzione violenta dei palazzi, segue,verso il 1700 a.C., una riedificazione dei medesimi, che risorgono, modificando le loro forme ed arricchendo la loro pianta di ambienti nuovi.
Acquistano importanza Tilisso, Haghia Triada e altre città. Innovazioni notevoli si osservano nel l’architettura, pittura, ceramica e glittica (arte di incidere o di incavare), E’un periodo di particolare splendore per Cnosso, che elimina una ad una le città rivali, che le contendevano il potere e si afferma decisamente sull’isola, diventando il centro del pote re. In questo periodo si distribuiscono in tutto il bacino del Mediterraneo elementi di cultura, civiltà e moda cretese. L’influsso politico oltre che culturale della massima città cretese si estende ai centri di Micene e Tirinto, del resto già notevolmente ricettive nell’adottare elementi difensivi ed architettonici nella costruzione dell’acropoli e dei palazzi espressi dall’architettura minoica. A partire da questo momento, anche le città della Beozia e della Tessaglia subiscono il dominio di Creta. La distruzione dei secondi palazzi cretesi intorno al 1400, e le modificazioni di fondo che seguono queste distruzioni (ed inoltre il crollo definitivo e contemporaneamente a Cnosso, dei fiorenti centri di Zacro, Paleokastro e Gournià), fanno pensare ad una invasione dall' esterno e più propriamente da una di quelle città del continente, la cui potenza si consolida proprio con la fine della civiltà cretese.
Il fulcro del mondo egeo si sposta verso l’Argolide; una sorta di linguaggio comune di netto stampo cretese, ma con innovazioni che si possono definire micenee, per le manifestazioni di civiltà e di cultura di tutte le città che si trovano in rapporti con i centri guida che ora si affermano in Grecia, estendendo con rapide e fortunate conquiste le loro sfere di dominio su varie isole.
Il crollo della potenza di Micene avviene intorno al XII-XI s.a.C. nel delicato periodo che segna in Grecia l’inizio dell’età del ferro, che coincide con l’invasione dorica, nel turbine della quale si dissolverà rovinosamente la civiltà micenea.
In questo quadro cronologico e storico, si sviluppano le diverse tappe percorse dall’arte in ambiente cretese, prima, miceneo poi, si configurano attraverso i monumenti, i dati essenziali della civiltà.
Lo sviluppo delle citta, l’organizzazione topografica dei grandi palazzi, la loro architettura dalle forme complesse, mettono a punto molti elementi tramandati dalle fonti letterarie, chiarendo l’uso e la funzione di determinati oggetti, simboli, e manifestazioni di vita civile e religiosa. La problematica tecnico artististica, trova la sua spiegazione nelle forme architettoniche (caratteristiche le colonne che adornano gli ambienti dei palazzi e l’uso di materiale di costruzione migliore), nel gusto delle decorazioni pittoriche, attraverso il quale l’architettura dei palazzi risulta chiaramente esemplificata. Manifestazioni di vita politica e sociale, di riti, occupazioni o mode, in uso nell’isola emergono dalle fresche pitture dalla ricca policromia,e dalla linea elegante, ove l’amore che l’artista mostra per il dettaglio, giova alla comprensione dell’iconografia, ed alla ricostruzione, anche se somma del gusto di un certo ambiente artistico. Gli esempi assai noti di Cnosso, Festo ed Haghia Triada (dalle ultime fasi del Medio Minoico in poi), presentano spesso motivi e soggetti noti attraverso la plastica e la ceramica contemporanee; si pensi alla caratteristica figura della “Dea dei serpenti”. Dovizia di motivi decorativi e geometrici, compare nella produzione delle due successive scuole ceramichee dell’isola: gli stili di “Kamares”e di “Palazzo”. La libertà ed il senso naturalistico che guidano l’artigiano a decorare il vaso, richiamano la grande pittura parietale, la diffusione dei prodotti ceramicei, segna in mo do chiaro l’area di competenza del commercio cretese. Quanto alla glittica e all’oreficeria, Creta presenta un repertorio decorativo e un livello stilistico inferiori rispetto agli analoghi prodotti in ambiente miceneo; sigilli,“cretule”, laminelle di metallo prezioso, va si di varie fogge, armi con decorazioni ageminate, sono peraltro numerosi e raffinati. Assai adottata per particolari vasi figurativi (ryta), la stestite, insieme al bronzo. Vari oggetti e piccole figure bronzee e di avorio, sono gli unici esempi della plastica cretese. che mai raggiunse il monumentale. L’architettura di questa civiltà presenta due obiettivi fondamentali: una valida difesa con la costruzione di mura e un adeguato sistema di fortificazioni; un sempre maggior sviluppo al palazzo reale, agli edifici culturali e funerari annessi (specchio evidente dell’organizzazione politica). Grandi blocchi sovrapposti formano le saldi torri ed i passaggi e i corridoi delle mura. Le tombe (fra le quali particolarmente notevoli per la pianta e i ricchi corredi, il cosiddetto tesoro di Atreo, ed in genere quelle dei “circoli ” della stessa Micene, sono a carattere gentilizio. Continua anche il costume, diffusissimo a Creta, della sepoltura in “pythoi” (giare di terracotta). La novità essenziale del l’arte micenea, è il crescente interesse per i problemi della scultura di grandi dimensioni. L’esempio migliore si coglie a Micene nella lastra scolpita che riempie l’arco di scarico al di sopra della “Porta dei leoni”.
Le consuete scene di processioni, cacce, riti di vario genere, sono oggetto delle decorazioni pittoriche, che non possono essere datate che dopo il XII secolo. La produzione della ceramica è totalmnente industrializzata (uso esclusivo della ruota); influssi ci cladici ed isolani (orientali), s’innestano sul sostrato cretese originario. Il libero naturalismo delle decorazioni distribuite dall’arti giano cretese sulla superficie del vaso, si perde ora sulla stilizzazione di oggetti a scene naturali e umane, in chiave geometrica.
I centri dell’Oriente e dell’Occidente, con i quali il mondo miceneo si trova in relazione, ne conservano esemplari. L’aspetto più noto ed apprezzato di questa civiltà è.forse.la glittica e la gioielleria. I corredi delle tombe presentano una tale varietà ed abbondanza di materiale, ed un livello artistico così alto da far pensare a scuole assai raffinate, che prendono spunti e motivi dall’Oriente, rielaborando e rinnovando pertanto i reperti cretesi. Vasi figuranti di grande importanza sono le coppe di Vahpiò (auree). Nè meno famosi sono altri reperti; armi, gioielli, sigilli, lamelle figurate provenienti da diversi centri della cultura micenea.
L’elemento tecnico più notevole è il grado di perfezione raggiunto dall’ageminazione e gli effetti luministici degli sbalzi ritoccati e sottolineati a bulino. Non meno importante è l’uso di una scrittura lineare, la prima scrittura sillabica che si riconosca nel Mediterraneo, documentata in Creta. Decifrata in epoca abbastanza recente, essa permette di approfondire lo studio delle manifestazioni politiche ed economiche nei centri che ne conservano i document; si tratta di tabelle di archivio contenenti varie ed interessanti notizie e liste di materiali e di oggetti. Questa nuova possibilità di ricostruire attraverso documenti scritti, elementi di vita politica e della storia del costume, si affianca ai dati archeologici e storici per suffragare, chiarire o eliminare elementi sulla base di dati sicuri e di prima mano.
CREUZA
Moglie di Enea; non segue il marito nella fuga da Troia, anzi lo incita a seguire il suo luminoso destino voluto dagli dèi e scompare nell’incendio della città.
- Note - ENEIDE lIBRO III°:
-
..."la chiamai ancora e ancora.
E mentre la cercavo e m'aggiravo furioso
senza fine per tutte le case della città,
m'apparì la sua immagine infelice - l'immenso
suo fantasma - più alta e maestosa di come
non l'avessi mai vista. Ne sbigottii: i capelli
mi si drizzarono in testa, la voce mi morì in gola.
- perchè ti lasci andare ciecamente al dolore,
caro marito? - mi disse Creùza calmando un poco
i miei affanni - Ciò che accade l'ha deciso
la ferma volontà dei celesti; il destino
e il re dell'altissimo Olimpo,
non vogliono che tu porti Creùza con te.
Dovrai affrontare un lunghissimo esilio,
dovrai solcare largo spazio di mare,
e infine arriverai al paese d'Esperia
dove il Tevere lidio tranquillamente scorre
con un lene sussurro tra i campi fecondi
degli uomini."...
CRIO
Titano figlio di Urano e Gea.
(Vedi Titani)
CRISA
Città della Troade in cui si trovava un tempio dedicato ad Apollo; lì era sacerdote Crise (Iliade)
CRISAORE
Padre del mostro Gerione
(Vedi Gorgoni)
CRISE
Nell' Iliade sacerdote di Apollo, padre della schiava di Agamennone Criseide, a cui implora invano il suo riscatto. La sua preghiera:
Libro I°
"O Atridi. ei disse, o coturnati achei,
gl'immortali del cielo abitatori
concedanvi espugnar la Priameia
cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.
Deh! mi sciogliete la diletta figlia,
ricevetene il prezzo, e il saettante
figlio di Giove rispettate. Al prego
tutti acclamar, doversi il sacerdote
riverire, e accettare le ricche offerte".
CRISEIDE
Tocca in sorte ad Agamennone, che non la rende al padre, se non quando Apollo, adirato, semina la peste nel campo greco.Figlia di Crise, sacerdote di Apollo (nell’Iliade); caduta in mano dei greci.
CRISIPPO
Filosofo greco nato a Soli o Tarso in Cilicia tra il 281 e il 287 a.C., morto in Atene tra il 208 e il 204 a.C. Appartiene alla fase antica dello stoicismo, di cui può essere considerato il vero sistematore. Gli antichi gli attribuirono fin 705 scritti e ne ammirarono il valore dialettico. Conformemente ai principi generali dello stoicismo, per Crisippo esiste solo il mondo corporeo, che cade sotto i nostri sensi, nella infinita molteplicità e varietà dei singoli corpi. Questi so no quindi il solo oggetto del nostro conoscere, afferrabili mediante quella ”rappresentazione catalettica” in cui risiede per lo stoicismo il criterio di verità. Il primato fra tutti i corpi spetta al corpo umano, la cui conoscenza ci rivela l’eccellenza della ragione e del sapiente che la realizza. La figura del sapiente si pone così in primo piano nella filosofia di Crisippo, dove l’etica ha una parte preponderante rispetto alle altre due sezioni, (logica e filosofica della natura), in cui era ripartita la dottrina stoica, e in genere, tutta la filosofia ellenistica. Nella sua pura vita razionale, nel realizzato possesso della scienza, il sapiente è il solo veramente felice; bene supremo è infatti la virtù (cioè l’azione virtuosa), e non la semplice contemplazione come asserisce Platone, ma che discende da quella scienza e il suo contrario è il male maggiore.Tutto ciò che non è bene nè male (vita e morte – salute e malattia – bellezza e bruttezza ecc.), va ritenuto indifferente e il sapiente non se ne preoccupa. Gli appetiti e gli affetti corporei vanno estirpati radicalmente e tra la virtù e la malvagità, non c’è mediazione (anche se qualche volta Crisippo tenta di mitigare questo drastico dualismo introducendo il concetto di “conveniente”). La felicità consiste quindi nella virtù e la virtù, nel vivere secondo natura, cioè secondo ragione (logos). Questa, in conformità con le dottrine eraclitee è concepita materialisticamente come fuoco traformantesi nei vari elementi, principio di un mondo ordinato o di un “animale razionale”. Ma il cosmo è destinato a scomparire in una conflagrazione universale per rinascere poi identico; tutto quindi è determinato dal fato (onde è possibile prevedere il futuro, e questo è inteso come provvidenza e garanzia di bene. Il che non toglie che poi Crisippo si trovasse nella inestricabile difficoltà di conciliare questo determinismo con la libertà del volere che pure strenuamente difendeva, e senza la quale lo stesso concetto di sapiente non avrebbe potuto avere nessun valore di ideale.
CRONO
Divinità greca corrispondente al latino Saturno, figlio di Urano e Gea. Secondo il mito questi, istigato da Gaia, evirò il padre Urano e divenne signore dell’Universo. Andato sposo a Rea ne ebbe figli; Vesta, Poseidone e Giove. Poiché gli era stato predetto che un figlio lo avrebbe spodestato, ingoiò tutti i figli che gli partoriva la moglie, meno Giove, perché nascosto dalla madre fecendo ingoiare a Crono una pietra in sua vece. Divenuto adulto, Giove, vinse il padre relegandolo nel Tartaro e lo costrinse a vomita re i figli divorati. Divinità identificata da molti con il dio Baal, importato in Grecia dall’Asia Minore, era concepito come il primo re degli dèi (forse il suo nome significa appunto - sovrano). Nella ideologia greca rappresentava la caotica libertà di un mondo primordiale, contrapposto all’ordine di Zeus. Così, certe feste intitolate a Crono (i Kronia), realizzavano ritualmente, prima che cominciasse l’anno nuovo; un’effimero “regno di Crono”, che riconduceva il mondo alla mitica età dell’oro, quando gli uomini non erano soggetti al lavoro, alle leggi, ai doveri. L’anno nuovo ristabiliva solennemente l’ordine civile garantito dal regno di Zeus, e tutto tornava alla normalità; una normalità quasi rinnovata da quella fugace immersione nel primordiale e coscientemente contrapposta alla “inciviltà” di quella parentesi caotica.
CUPIDO
Figlio di Zeus e di Venere; (altra versione lo vuole figlio di Marte e di Venere). E’ nome latino del dio dell’amore, corrispondente per natura e poteri divini all’ Eros greco. Il suo culto venne introdotto in Roma dai poeti e dagli artisti alessandrini; rappresentato come un fanciullo che apriva dolorose ferite nel cuore degli amanti, divertendosi a colpirli con le sue infallibili frecce. Tale raffigurazione era ben lontana dalla concezione primitiva dell‘Eros greco, forza di attrazione degli elementi per combinarli in nuove forme di vita, ma ben si adattava a quel periodo d’influenza greca a Roma, dove i costumi perdevano l’antica severità e il tessuto morale si disfaceva nelle mollezze. Talvolta rappresentato bendato, sempre armato d’arco e frecce.
CURETI
Divinità minori della mitologia greca, concepiti ora come un popolo, ora come dèmoni dalla figura giovanile. Narrava un mito che quando Rea partorì Zeus, i Cureti eseguirono attorno al neonato una danza armata, con grande strepito per coprire i vagiti del neonato. L’espediente serviva a tener celata la nascita al padre Crono, che altrimenti lo avrebbe divorato, come aveva già fatto con tutti gli altri suoi figli. Talvolta i cureti erano confusi con i coribandi, seguaci della dèa Cibele.
CURIALE
Madre di Orione
(Vedi ORIONE)
NOTE