GA-GE
GAIA
GEA -TELLUS -TERRA
Divinità precosmica greca, che nella “Teogonia” di Esiodo, appare all’inizio del mondo, subito dopo il Caos primordiale. Genrò da sola Urano (Cielo), Ponto (Mare) e Monti, e poi accoppiatasi con Urano; i Titani, i Ciclopi e gli Ecatonchiri. Figura più mitica che divina, non era compresa nel cànone degli dèi dell’Olimpo, tuttavia è documentato qualche sporadico culto in suo onore, soprattutto di carattere oracolare. Entra nella religione romana nel periodo repubblicano con il nome di Tellus.
GALATEA
(gr. di latte)
Bianca come il latte, ninfa del mare, figlia di Nereo e Doride; amata da Polifemo il quale uccise per gelosia il giovinetto pastore Aci da lei amato.
GALBA
Servio Sulpicio
(n.5 a.C.- m.69 d.C ), Governatore romano della Spagna, eletto (68 d,C.) imperatore per succedere a Nerone; vecchio ed invalido fu ucciso il 15 gennaio dell’anno successivo dai fautori di Ottone.
(Vedi in Vite dei 12 Cesari)
GALESO
L’uomo più ricco e più saggio d’Italia.(Eneide)
GALLIA
Nome dato dai Romani al paese tra il Reno, le Alpi, il Mediterraneo, i Pirenei e l’Oceano, abitato dagli antichi Galli, popolazione di origine celtica ivi stanziatasi a partire dal secolo VII° a.C., e diffusasi poi anche nell’Italia settentrionale. Cisalpina (al di qua delle alpi), transalpina (al di là). I Romani sottomisero la Cisalpina al finire del III° s.a.C., e la Transalpina, in parte nel 121 (Provenza), e il resto per opera di Giulio Cesare dal 58 al 50 a.C..
GALLO
Sacerdote di Cibele
(vedi CIBELE)
GAMELIA
(gr.nuziale). Epiteto della dèa Era (detta anche Gige o Sygygia)
GANIMEDE
Figlio di Troo e di Calliroe, era il più bello dei mortali, e fu rapito in cielo dagli dèi perché servisse da coppiere a Giove, in sostituzione di Ebe (dèa della giovinezza). Mitico principe Troiano; secondo altra versione: rapito da un’aquila inviata da Zeus, o dal dio stesso in forma d’aquila. Originariamente il luogo del rapimento era creduto la Troade, ma gradatamente la località si spostò dal l’Eubea a Creta, quando il mito viene ad assumere un carattere eroico, per cui diviene amico di Zeus.
GARGOREI
Popolazione presso cui si recavano le Amazzoni per perpetuare la razza.
GEA
o GEO
Gea (in greco antico: Γῆ) o Gaia (in greco ionico e quindi in omerico: Γαῖα) è, nella religione e nella mitologia greca, la dea primordiale, quindi la potenza divina, della Terra.
La Teogonia di Esiodo[1] racconta come, dopo Chaos (Χάος), sorse l'immortale Gaia (Γαῖα), progenitrice dei Titani e degli dei dell’Olimpo.
Da sola e senza congiungersi con nessuno, Gaia genera Urano (Οὐρανός, Cielo stellante) pari alla Terra[2], generò quindi, sempre per partenogenesi, i monti, le Ninfe (Νύμφη nymphē) dei monti[3] e Ponto (Πόντος, il Mare)[4].
Unendosi ad Urano, Gaia genera i Titani (Τιτάνες): Oceano (Ὠκεανός)[5], Coio (Κοῖος, anche Ceo), Creio (Κριός, anche Crio), Iperione (Ύπέριον), Iapeto (Ιαπετός, anche Giapeto), Theia (Θεία, anche Teia o Tia)[6], Rea (Ῥέα), Themis (Θέμις, anche Temi), Mnemosyne (Μνημοσύνη, anche Menmosine), Phoibe (Φοίϐη, anche Febe), Tethys (Τηθύς, anche Teti) e Kronos (Κρόνος, anche Crono).
Dopo i Titani, l'unione tra Gaia e Urano genera i tre Ciclopi (Κύκλωπες: Brontes, Steropes e Arges[7])[8]; ed i Centimani (Ἑκατόγχειρες, Ecatonchiri): Cotto, Briareo e Gige dalle cento mani e dalla forza terribile[9].
Urano, tuttavia, impedisce che i figli da lui generati con Gaia, i dodici Titani, i tre Ciclopi e i tre Centimani, vengano alla luce. La ragione di questo rifiuto risiederebbe, per Cassanmagnago[10], nella loro "mostruosità". Ecco che la madre di costoro, Gaia, costruisce dapprima una falce e poi invita i figli a disfarsi del padre che li costringe nel suo ventre. Solo l'ultimo dei Titani, Kronos, risponde all'appello della madre ed appena Urano si stende nuovamente su Gaia, Kronos, nascosto[11] lo evira. Il sangue versato dal membro evirato di Urano gocciola su Gaia producendo altre divinità: le Erinni (Ἐρινύες: Aletto, Tesifone e Megera[12]), le dee della vendetta[13], i terribili Giganti (Γίγαντες)[14] e le Ninfe Melie (Μελίαι)[15][16].
Ponto (Πόντος, il Mare) genera[17] Nereo (Νηρεύς) detto il "vecchio", divinità marina sincera ed equilibrata; poi, sempre Ponto ma unitosi a Gaia, genera Taumante (Θαῦμας)[18], quindi Forco (Φόρκυς)[19], Ceto (Κητώ)[20] dalle belle guance, ed Euribia (Εὐρύβια)[21].
Gaia e Tartaro[22] generano Typheo (υφωεύς, anche Tifeo) "a causa dell'aurea" di Afrodite. Questo essere gigantesco, mostruoso, terribile e potente viene sconfitto dal re degli dèi (Zeus) e relegato nel Tartaro insieme ai Titani e da dove spira i venti dannosi per gli uomini. Infine Gaia unendosi a Tartaro generò Pallante (Παλλάς) un gigante che tentò di violentare Atena durante la Gigantomachia nella quale perse la vita.
da Wikipedia.
GENIO
(lat.genius - della stessa radice di generare). Una delle più antiche divinità del Lazio, personificazione della forza generativa, inventiva ed intellettuale; era considerato un’entità intermedia tra gli dèi e gli uomini. Si presenta come lo spirito tutelare congenito o connaturato di una persona, di una collettività o di un luogo. In esso si proietta tutto ciò che della persona o della collettività o del luogo può presentarsi come incontrollabile da parte dell’uomo, ed attribuibile pertanto ad una potenza autonoma. Ogni individuo di sesso maschile aveva il proprio genio (le donne avevano uno personale), al quale sacrificava nel genetliaco e in altre occasioni particolari. Il genio degli imperatori divenne culto di stato. Pure oggetto di un culto era il genio del popolo romano, che veniva rappresentato in forma di uomo togato o in forma di serpente.
GERIONE
Mostro tricorpore della mitologia greca, il cui nome significa “urlante”. Figlio di Crisaore e della oceanina Calliroe, era un gigante con tre teste, tre corpi e sei ali, viveva nell’isola mitica di Eritea, dove possedeva giovenche che purpuree, custodiva dal feroce cane Ortro, e dal pastore Euritone. Qui lo raggiunse Ercole che lo uccise per impadronirsi delle sue giovenche; la leggenda è narrata da Apollodoro. Secondo altra leggenda Gerione, non come mostro, ma come consigliere, aveva il suo culto alle terme di Abano, presso Padova.
- Note
- Note - Gerione, Dante lo pone quale immagine della frode, nel cerchio dei fraudolenti.
GI-GR
GIACINTO
Divinità minoico - micenea, con culto localizzato ad Amicle (Sparta), poi sostituita da Apollo (Apollo Giacinzio). Secondo il mito, è giovane mortale bellissimo amato da Apollo, che involontariamente uccide e dal suo sangue nasce il fiore che porta il suo nome. (Vedi Apollo in Mito e Leggenda.)
- Note - Da "Le Grazie" di Ugo Foscolo -
Inno primo - Venere - vv. 178 / 180 - " E Amicle
Terra di fiori,
non bastava ai serti
Delle vergini spose ”...
GIAMBLICO
Filosofo greco (n. Calcide 250 circa – m. Celesiria.325 d.C. c/ca). Scolaro di Porfirio fu uno dei più eminenti seguaci della dot trina neo - platonia; anzi col suo prolungato insegnamento ad Apamea si fa iniziare la scuola neoplatonica di Siria, distinta da quella ateniese in cui predominò la figura di Proclo. Dei suoi numerosi scritti sono pervenuti a noi cinque trattati che facevano tutti parte della sua opera maggiore.”La silloge”,originariamente in dieci libri. Di molti altri scritti ci è noto solo il titolo e possediamo scarse citazioni. Godette d’immensa ammirazione presso i suoi successori, , che gli attribuivano persino dei miracoli (i cosiddetti “misteri platonici” da lui iniziati), narrati nei minimi particolari, che gli valsero l’epiteto di “divino”. Provvisto d’una vastissima ma non profonda erudizione, del tutto priva di critica satirica e filologica, è un’esponente di quell’ambiente sincretistico, tipico del più tardo platonismo. Filosofia plastica, pitagorismo, religioni orientali, oracoli, ritualismo misterico e magico, misticismo ecc., ne sono i fattori principali. Infatti l’aspetto più caratteristico della sua filosofia, l’inserzione nello schema emanatistico di Plotino e del neo platonismo, di una lunga serie di enti intermedi tra l’Uno e il mondo (mondo intelleggibile, mondo intellettuale, dèi, demoni, angeli, eroi) che sembrano suggeriti più dalla fantasia che non dalla ragione, e più per dare un fondamento alle pratiche mistiche, magiche e teurgiche, che per spiegare scientificamente la realtà.
GIANO
Dio indigete (eroe divinizzato) dei Romani, primo re del Lazio con sede sul Gianicolo. Da Saturno che ospitò, fu dotato di rara prudenza e della facoltà di indovinare le cose passate e avvenire. Veniva rappresentato bifronte e anche quadrifronte, guardante direzioni opposte: indietro, davanti, al passato, al futuro, alla vecchia e nuova condizione, protettore del suolo nativo e del suolo patrio. Giano è appellativo di alcuni dèi e specie degli eroi divinizzati trasformati in divinità. Delle due facce, inizialmente la barbuta rappresenta il sole, l’altra imberbe la luna, ma in seguito le facce si fecero ambedue barbute. I Romani lo veneravano come dio degli inizi (principio della vita, dell’anno ecc.). Divinità romana quindi che dava il nome al primo mese dell’anno; Ianuarius - gennaio. Oltre al primo giorno dell’anno (kalendae ianuarie), anche l’inizio di ogni singolo giorno era dedicato a lui, da cui l’appellativo di “matutinus” e così pure le era sacro il primo giorno di ogni mese. Tutti gli inizi erano in effetti in suo potere, tanto che ogni preghiera ed ogni sacrificio dovevano cominciare ritualmente con una invocazione al dio Giano. Era considerato l’iniziatore della civiltà latina e identificato con il dio greco Caos, quale essere primordiale posto all’inizi del mondo. Da lui sarebbe quindi scaturita ogni cosa, come l’acqua sorgiva, che, secondo la credenza romana, scaturiva grazie al suo potere. Era il dio che dava anche origine ad ogni nuova condizione e che presiedeva al passaggio da una condizione all’altra, onde gli era sacro ogni passaggio concreto o figurato. Tali erano la porta di casa (ianua), la strada (era detto ”signore delle strade - rector viarum) -, e certi passaggi obbligati che si aprivano nelle pubbliche vie (iani: specie di archi nella loro forma più rudimentale costituiti da due pali sormontati da un terzo). Quando si entrava in guerra, venivano aperte le porte del suo tempio presso il Foro, e non si richiudevano che alla fine delle operazioni militari: era un modo di rilevare sacralmente il passaggio dallo stato di pace a quello di guerra e viceversa, assicurando così al popolo romano la sua protezione nelle incertezze di quella condizione anormale, nonché un felice ritorno degli eserciti inviati contro il nemico. Per il suo culto era incaricato il “rex sacrorum”, considerato il primo in ordine gerarchico dei sacerdoti romani; si sacrificavano al dio un ariete nel giorno dell’Agonium; considerato un dio solare, e dotato di ogni veggenza. Il nome di uno dei sette colli di Roma (il Gianicolo), deriva da lui ed era considerata la sua mitica sede.
- Divinita' etrusche
- Sulla gamba destra della statuetta di bronzo (sopra), di epoca ellenistica rinvenuta a Cortona, è incisa una dedica a Culsans. Questa divinità, bifronte, è il corrispondente del dio romano Giano, ed è probabile che le due divinità corrispondessero anche nelle funzioni. In effetti il nome di Ianus deriva da ianua, ovvero "porta", così come Culsans può essere connesso al nome di Culsu, divinità che in Etruria custodiva le porte. In entrambi i casi si tratta dunque di divinità che vengono rappresentate con un doppio volto, come doppi sono i lati di una porta.(da: Wikipedia)
GIAPETO
1) GIAPETO Astronomia
Giapeto (nome sdrucciolo: Giàpeto) è il terzo satellite naturale di Saturno per dimensioni dopo Titano e Rea, e l'undicesimo satellite naturale più grande del sistema solare.[3] È il più grande corpo noto a non essere in equilibrio idrostatico e la sua peculiarità più nota è di avere la superficie divisa in due regioni all'apparenza molto differenti tra loro. Inoltre possiede altre caratteristiche insolite scoperte nel 2007 dalla sonda Cassini, come la grande cresta che percorre due terzi della lunghezza del suo equatore. Fu scoperto dall'astronomo italiano Giovanni Domenico Cassini il 25 ottobre 1671. Deve il suo nome al Giapeto della mitologia greca ed è anche noto come Saturno VIII. (da: Wikipedia)
2) GIAPETO Titano
Titano, figlio di Urano e Gea.
Giapeto è sposo dell'oceanina Asia (o Climene), figlia di Oceano e di Teti, ed è padre di Atlante, Epimeteo, Menezio e Prometeo.
I figli di Giapeto sono stati talvolta considerati come gli antenati del genere umano, si diceva infatti che alcune delle peggiori qualità dell'umanità fossero state ereditate da queste quattro divinità. Essi sono stati descritti con una particolare colpa morale che spesso ha portato alla loro rovina. Ad esempio lo scaltro e intelligente Prometeo potrebbe forse rappresentare la furbizia, l'inetto Epimeteo la stupidità, il durevole Atlante l'eccessiva audacia e l'arrogante Menezio la violenza.
Come la maggior parte dei Titani, Giapeto fu fatto precipitare nel Tartaro da Zeus. Egli rappresenta l'Ovest, inoltre il suo nome significa "il Perforatore".
(Vedi Titani)
Così Orazio sulla progenie di Giapeto:
- AUDAX IAPETI GENUS (Orazio Odi I, 3)
- "L'audace progenie di Giapeto": Il poeta parla di Prometeo, il dio dell fuoco, ma la definizione suol riferirsi al genere umano, e in particolare alla schiatta latina che con le sue arditezze, ne giustifica appieno le arditezze.
- (Odi, II, 10, 5)
- "AUREA MEDIOCRITAS" (mediocrità aurea) : nel contesto oraziano significa che la condizione media, pegno di tranquillità deve essere preferita ad ogni altra perchè:
"Ai voli troppo alti e repentini
Sogliono i precipizi esser vicini":
Ma il Divino Poeta condanna questo genere di vita, poichè non esita a relegare nell'Inferno (a rigore nel vestibolo dell'Inferno, III, 35) ... "l'anime triste di coloro
Che visser, senza infamia e senza lodo"
GIASONE
Figlio di Alcmeda e di Esone, re di Jolco in Tessaglia; educato dal centauro Chirone, reclamò dallo zio Pelia il trono paterno; questi gli promise la restituzione se avesse conquistato il vello d’oro, custodito nella Colchide. Con gli Argonauti vi si recò e con l’aiuto della maga Medea, innamoratasi di lui, riuscì nell’impresa. Ritornato in patria lo zio si rifiutò di cedergli il trono e Medea lo fece uccidere. Giasone riparò a Corinto dove sposò Creusa figlia del re e alleato coi Dioscuri e Peleo, combattè contro Astidamia, moglie del cugino Acasto, re di Jolco e distrusse la città. Morì schiacciato dalla poppa della nave Argo. Secondo altra versione mitica ebbe il regno, ma fu costretto ad emigrare con Medea in Corinto donde poi, resosi infedele, si partì ed andò errando finchè si uccise.
GIGANTI
Esseri mostruosi, col corpo terminante in serpente, di eccezionale forza, generati dalla Terra imbevuta del sangue dei Titani. Osarono dare la scalata al Cielo e combattere contro gli dèi, ma furono vinti da Bacco tramutatosi in leone dai fulmini di Giove e finirono parte agli inferi, e parte seppelliti sotto le montagne; ricordiamone alcuni: Encelado,Tifone, Allineo. Altra versione li vuole esseri mitici di statura e forza straordinaria, concepiti come forze caotiche primordiali in opposizione agli dèi. Figli di Gaia e, fecondati dal sangue del mutilato Urano, condussero contro gli dèi una guerra (gigantomachia) e tentarono di assalirli nelle loro sedi celesti, sovrapponendo all’Olimpo i monti Ossa e Pelio. Zeus mise fine alla loro impresa fulminandoli. I Giganti sono spesso personaggi delle fiabe popolari, ove appaiono come esseri stupidi, brutali e mostruosi, dotati di forza eccezionale e talora, come gli orchi, divoratori di uomini e bambini.
GIGE
Gigante figlio di Cielo e la Terra
(vedi Centimani)
GINNASIO
Nella Grecia arcaica il luogo dove giovani e adulti si esercitavano nudi in esercizi fisici. Divenne con la civiltà delle pòleis anche luogo, oltre che di esercitazioni atletiche, anche luogo di trattenimenti culturali. Istituzioni statali e pubbliche aperte a tutti. I ginnasi erano sorvegliati da un magistrato detto ginnasiarca; ospitavano feste e spettacoli di teatro, banchetti e conferenze, costituenti un fattore non secondario dell’educazione indiretta della cittadinanza. Talora venivano esposte nel ginnasio le spoglie di un insigne concittadino. I ginnasi divennero nel mondo greco sempre più numerosi e importanti, tanto che nel V° secolo tra i frequentatori abituali del ginnasio potevano contarsi cittadini d’ogni ceto sociale. Parallelamente venne a svolgersi la relativa architettura; dalla originale pista sabbiosa dell’età arcaica in cui vennero costruiti in Atene i Ginnasi dell’Accademia e del Liceo, poi, celebri nella storia della filosofia a una schematica palestra, quindi dalle seconda metà del IV° secolo a un edificio complesso e di rilevante valore artistico. Nell’età ellenistica il ginnasio (per esempio quello di Olimpia eretto nel III° s.a.C.), comprendeva diverse parti; oltre la palestra "l’ephebeon”,o ambiente degli efebi, il “lutron”, o bagno, il “konisterion”, in cui i lottatori si spargevano di sabbia,”l’elaiothesion”, in cui v’era l’olio per ungersi, il ”corikeyon”, con i sacchi di cuoio, vari portici, eccetera. Nella civiltà romana al ginnasio viene riservato un più ristretto ruolo; soltanto, igienico - fisico. Inizialmente è una istituzione di carattere privato, in seguito con Nerone, e poi Traiano, Adriano e altri imperatori acquista carattere pubblico. Lo stesso edificio viene quindi a trasformarsi nelle sue strutture a vantaggio della palestra e dei bagni, prototipo delle terme romane.
GIOCASTA
Figlia di Meneceo, moglie di Laio, re di Tebe e madre di Polinice e di Edipo, che sposò in seconde nozze, ignorando fosse suo figlio.
(vedi EDIPO)
(Ritorna a MENECEO)
GIOVE
(Iuppiter = Giove Padre)
L'Altitonante Dio, (che tuona dall'alto)sovrano del pantheon latino, derivato da un antico essere supremo celeste dei popoli in do europei, come attestano il suo nome (da una radice indicante il cielo luminoso), ed alcuni suoi epiteti; Lutezio - Folgoratore -Tonante, (perchè scagliava i fulmini cui seguiva il tuono), Pluvio, Termine, Egioco, (armato d’egida). Il suo culto è presente fra tutte le popolazioni che abitavano la penisola italiana quando venne fondata Roma. La sua posizione è sempre preminente. Sommo reggitore dell’ordine del mondo, era venerato sulla sommità dei monti, e con azione coercitiva, garantiva tutto ciò che quell’ordine supponeva a livello umano: patti, giuramenti, confini (termini), leggi, norme e regole profane e religiose (jus e fas). Nel suo nome si svolgevano trattative, si contraevano alleanze, si dichiaravano guerre, si stipulavano paci, In Roma risiedeva il collegio dei ”Feriali”,suoi sacerdoti. Nelle relazioni fra le città-stato del Lazio, fece sì che, quando formarono la Lega Latina, il dio venne assunto a simbolo e a garanzia di quella nuova unità politica superstatale costituita dalla confederazione. Con l’epiteto di Laziale ebbe un tempio sulla cima del monte Albano, (l’odierno Monte Cavo) dove ogni anno durante la cosìdetta festa Latina (Feriae Latinae), si riunivano i rappresentanti delle città confederate per celebrare un sacrificio al dio: le carni sacrificate venivano poi ripartite e consumate dai partecipanti. Quando Roma verso la fine del VI° s.a.C., diede inizio alla sua politica di espansione verso le altre città latine, molto accortamente volle identificare il proprio ordine civico con l’ordine universale di Giove e il proprio stato particolare con la super ordinata confederazione latina. Su questa via, religiosamente rilevata dall’assunzione di Giove come dio poliate, si giunse per gradi all’egemonia sul Lazio, alla conquista dell’Italia e alla costituzione del più vasto impero del mondo antico. In questa nuova visione politica prevalse il culto di Giove Ottimo - Massimo, nume tutelare della nuova grandezza romana, che sul campidoglio aveva il suo celebre tempio, in cui si conservavano tutti i trattati internazionali, dove i soggetti della cosa pubblica, andavano per decidere le guerre, e i duci vittoriosi si recavano a ringraziare il dio. In Roma aveva il suo sacerdote particolare ed era il “Flamine diale” il primo dei tre flamini che rappresentava il dio quasi come una immagine vivente; il diale improntava tutta la sua vita a questa specie di rappresentazione, ed era legato ad un continuo comportamento rituale da numerose costrizioni ed interdizioni religiose. Al diale ed ai già menzionati feriali, possono considerarsi sacerdoti di Giove anche gli “Auguri”, il cui compito consisteva nel riconoscere da segni obiettivi la volontà del dio, ne erano perciò detti ufficialmente interpreti di Giove Ottimo e Massimo. Il calendario romano celebrava Giove alle idi di ogni mese, che. come festa di plenilunio, si addicevano bene al dio luminoso per eccellenza. Alle idi di settembre e di novembre i festeggiamenti assumevano una grandiosità eccezionale; comprendevano un sacro banchetto (epulum Iovis) e duravano diverse giornate durante le quali si celebravano i ludi romani. I più antichi templi del dio erano, oltre al già menzionato tempio capitolino, quello di Giove Feretrio, sempre sul Campidoglio, nel quale venivano offerti i trofei di guerra, e quello di Giove Statore (cioè che dà all’esercito la forza di resistere al nemico) presso la porta Mugonia, sulla via per il Palatino. Le divinità con cui era collegato erano Giunone (la moglie), Minerva Marte e Quirino. Con Giunone e Minerva costituiva una triade venerata nel tempio capitolino. Con Marte e Quirino una triade ancora più antica, che sembra riflettesse una tripartizione della società comune a diversi popoli indoeuropei, in: sacerdoti, guerrieri (Marte) e agricoltori (Quirino). Due altri dèi,Termine e Libero, erano pure connessi con il campo d’azione di Giove; a volte assume persino entrambi i nomi, come suoi particolari epiteti (Iupiter Terminus – Iupiter Liber). Figlio di Saturno e di Gea, Zeus-Pater, Massimo, Tonante; dio del cielo e della luce, pre siedeva al fulmine e alle pioggie. Suoi emblemi; il fulmine foggiato da Vulcano e dai Ciclopi e l’aquila, che aveva fama di recargli il fulmine. Sposò la sorella Giunone, dalla quale ebbe Marte, Vulcano ed Ebe; innumerevoli altri amori e figli. (vedi in Mito e Leggenda )
GIOVENALE
Decimo Giunio Giovenale
- (Satire, X, 356)
- « Orandum est ut sit mens sana in corpore sano »
Decimo Giunio Giovenale, in lingua latina Decimus Iunius Iuvenalis (Aquino, tra il 50 e il 60 – Roma, dopo il 127), è stato un poeta e retore romano.
Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale.
Giovenale nacque ad Aquino, nel Lazio meridionale, da una famiglia benestante che gli permise di ricevere una buona educazione retorica poiché nella prima satira, databile poco dopo il 100 d.C., si definisce non più iuvenis (v.25) —il che implica che avesse almeno quarantacinque anni— la data di nascita si può indicare approssimativamente fra il 50 e il 60 d.C. Intorno ai trent'anni cominciò forse ad esercitare la professione di avvocato, dalla quale però non ebbe i guadagni sperati e ciò lo convinse a dedicarsi alla scrittura, alla quale arrivò in età matura, circa a quarant'anni.
- Giovenale (Satire, II, 63).
-
"Dat veniam corvis, vexat censura colombas".
- La censura (la critica) risparmia i corvi, e tormenta le colombe. Sentnza di spontanea applicazioine quando si vedono perseguitati gli innocenti e impuniti i malvagi.
Visse soprattutto all'ombra di uomini potenti, nella scomoda posizione di cliens, privo di libertà politica e di autonomia economica: è probabilmente questa la causa del pessimismo che pervade le sue satire e dell'eterno rimpianto dei tempi antichi. Scrisse fino all'avvento dell'imperatore Adriano e non si sa con certezza la data della sua morte, sicuramente posteriore al 127, ultimo termine cronologico ricavabile dai suoi componimenti.
Probabilmente falsa è la notizia di un suo trasferimento in Egitto all'età di 80 anni: l'imperatore Adriano lo avrebbe così allontanato da Roma, con il pretesto di un incarico militare, per punirlo di alcuni versi offensivi nei confronti di un suo protetto (forse il bellissimo Antìnoo, amante dell'imperatore). Tuttavia, dalla satira XV, emerge una conoscenza diretta dell’Egitto.
Giovenale considerò la letteratura mitologica ridicola in quanto troppo lontana dal clima morale corrotto in cui viveva la società romana del suo tempo: egli considerò la satira indignata non soltanto la sua musa, ma anche l'unica forma letteraria in grado di denunciare al meglio l'abiezione dell'umanità a lui contemporanea.
In quanto scrittore di satire, Giovenale è stato spesso accostato a Persio ma tra i due vi è una profonda differenza: Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini perché, a suo dire, l'immoralità e la corruzione sono insite nell'animo umano.
L'intento moralistico (così come in Persio) è una delle componenti più importanti della poetica di Giovenale, così come l'astio sociale: a suo dire, non ci sono più le condizioni sociali che possano portare alla ribalta grandi letterati come Mecenate, Virgilio ed Orazio nel periodo augusteo perché il poeta, nella Roma dei suoi tempi, è bistrattato e spesso vive in condizioni di estrema povertà tanto che spesso è la miseria che lo ispira.
Questa radicale avversione contro le iniquità e le ingiustizie, che lo portò anche a declamare versi di rabbia e protesta, è stata interpretata da alcuni come segnale di un atteggiamento democratico di Giovenale. Questo modo di intendere Giovenale è molto superficiale: al di là di qualche verso scritto in favore degli emarginati, l'atteggiamento di Giovenale è di inequivocabile disprezzo nei loro confronti, in quanto essi non hanno avuto l'intelligenza necessaria per uscire dalla loro condizione.
Più che un democratico solidale Giovenale fu un idealizzatore del passato, ovvero quel buon tempo in cui il governo era caratterizzato da una sana moralità "agricola". Questa utopica fuga dal presente rappresenta l'implicita ammissione della frustrante impotenza di Giovenale, dato che nemmeno lui era in grado di "muovere le coscienze".
Negli ultimi anni della sua vita il poeta rinunciò espressamente alla violenta ripulsa dell'indignazione ed assunse un atteggiamento più distaccato, mirante all'apatia, all'indifferenza, forse allo stoicismo, riavvicinandosi a quella tradizione satirica da cui in giovane età si era drasticamente allontanato. Le riflessioni e le osservazioni, un tempo dirette ed esplicite, divennero generali e più astratte, oltreché più pacate. Ma la natura precedente del poeta non andò distrutta completamente e tra le righe, magari dopo interpretazioni più complesse, si può ancora leggere la rabbia di sempre. Si parla di un "Giovenale democriteo", per designare il Giovenale degli ultimi anni, lontano dall'indignatio iniziale.
Bersaglio privilegiato delle satire di Giovenale sono le donne, in special modo quelle emancipate e libere tra le matrone romane, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore.
Quelli che egli considerava i vizi e le immoralità dell'universo femminile gli ispireranno la satira VI, la più lunga, che rappresenta uno dei più feroci documenti di misoginismo di tutti i tempi, dove campeggia la cupa grandezza di Messalina, definita Augusta meretrix ovvero "prostituta imperiale". Messalina viene presentata appunto come un'entità dalla doppia vita: non appena suo marito Claudio si addormenta, ne approfitta per prostituirsi in un lupanare fino all'alba, "lassata viris necdum satiata" (stanca di tanti, ma non soddisfatta).
Le descrizioni dei comportamenti delle matrone romane da parte di Giovenale sono infatti spesso aspre e crude: frequenti sono i tratti quasi irreali di scialacquatrici senza il minimo freno morale che non badano alla povertà alle porte perseverando in esistenze fatte dei più turpi misfatti. Si contano avvelenamenti, omicidi premeditati di eredi sebbene talvolta si tratti dei propri figli, superstizioni superficiali, maltrattamenti estremi della servitù nel segno di frustate e volontà di crocifiggere chi abbia commesso il minimo errore, e ovviamente tradimenti e leggerezze morali imperdonabili agli occhi di Giovenale. Significativa questa frase pronunciata da una matrona come riassuntiva di quanto esposto: "O demens, ita servus homo est?" ("Oh stupido, così uno schiavo sarebbe un essere umano?")[1].
Altro comune bersaglio di Giovenale fu l'omosessualità, che si traduce per lui e per il mondo cui appartiene in una fatidica bolla d'infamia (si veda a questo proposito la Lex Scantinia). Giovenale conosce e distingue due diversi tipi di "omosessuale":
quello che per natura proprio non può dissimulare la sua condizione (quindi tollerato, poiché è il suo triste destino);
quello che per ipocrisia si nasconde di giorno pontificando rabbiosamente sulla corruzione degli antichi costumi romani, per poi sfogarsi di notte lontano da occhi indiscreti.
Entrambi questi tipi vengono condannati da Giovenale, poiché omosessuali, ma il secondo in modo particolare, per essersi reso ancora più odioso dall'alto del suo piedistallo di falso censore: ecco, quindi, che si ritrova quella carica anti-moralistica che è una cifra fondamentale della sua poetica. Il disprezzo per le convenzioni è bilanciato da una mitizzazione pressoché integrale del passato, secondo il tipico topos della perduta età dell'oro, quella dei popoli latini pastori e agricoltori non ancora contaminati dai costumi orientali: infatti Giovenale contrappone sempre l'omosessuale molle, urbano e sur-raffinato al ruvido e pio contadino repubblicano, in cui si concentrano per contrasto tutte le qualità di una civiltà guerriera gloriosa e perduta. Tanto lontani dovevano apparire ai suoi occhi quei tempi di rustica virtù, almeno quanto appaiano a noi vicine simili libertà di costume (I-II secolo d.C.), al punto che nella seconda satira Giovenale dice espressamente, riferendosi alle unioni tra omosessuali:
- (LA)
- « Liceat modo vivere; fient, fient ista palam, cupient et in acta referri »
- (IT)
- « Vivi ancora per qualche tempo e poi vedrai, vedrai se queste cose non si faranno alla luce del sole e magari non si pretenderà che vengano anche registrate. »
(Giovenale, Satira II, vv 135-136.)
Il disprezzo per gli omosessuali si spinge in Giovenale al punto da coinvolgere lo stesso imperatore, sfiorando il reato di lesa maestà (satira VII, 90-92) per via del quale si suppone sia stato esiliato in Egitto alla fine della sua vita: avrebbe infatti osato prendersi gioco della relazione tra l'imperatore Adriano e il bellissimo Antinoo, suo amante noto soprattutto per la sterminata quantità di ritratti pervenutici. Tuttavia, la notizia del presunto esilio di Giovenale ci è tramandata da un anonimo biografo addirittura del VI secolo.
(da wikipedia)
GIUNONE
HERA - IUNO
Moglie e sorella di Giove, regina del cielo e degli dèi, dal quale ebbe Marte, Vulcano, Ebe. Dèa della religione romana, corris pondente alla dèa greca Hera (Era), dèa del cielo, dell’aria, delle nozze e dei parti. Divinità lunare, presiedeva alle nozze ed alle nascite, ed era protettrice delle famiglie.(Giunonica: dicesi di alta persona formosa e di nobile portamento). Regina della Caria (regione dell’Asia Minore), è dèa latina,nella cui essenza si proiettava idealmente la condizione umana femminile, soprattutto nella raggiunta dignità di moglie. Era ella stessa il prototipo della moglie, quale sposa di Giove, e traeva significatamente nel nome della “iun” individuale della donna, una specie di forza o spirito tutelare congenito in ciascuna donna, corrispondente al “geniu” del l’uomo. Come tale proteggeva particolarmente il matrimonio (pronuba) e, con l’epiteto di Lucina, il buon andamento dei parti. Fra gli animali le era sacra la capra e il pavone (nel quale trasformò Argo, ucciso da Mercurio). A Lanuvio era venerata quale divinità poliade (protettrice delle città), col titolo di “Sospita Madre Regina ”. Tale culto passò a Roma dopo la conquista di Lanuvio, con l’obbligo dei consoli romani di celebrare un sacrificio annuo alla dèa nella sua antica sede. In Roma sacerdotessa di Giunone era la moglie del flamine Diale (flaminica), ed era venerata all’inizio di ogni mese,(calende) e il sesto mese dell’anno,giugno (Iunus) prendeva nome da lei; le feste più importanti si celebravano il primo di marzo (Matronalia) ed il 7 di luglio, (Nonae Caprotinae).
GLAUCO
Figlio di Posidone: pescatore divenuto divinità marina, è personaggio dell’Iliade, uno dei Lici, alleati dei Troiani, ed è compagno d’arme di Enea. Scambiò la sua armatura con quella meno ricca del nemico Diomede, perché legato a lui da vincoli di ospitalità. Innamorato di Scilla si rivolse a Circe per aiuto, ma questa, che amava lui, trasformò Scilla in un mostro. La leggenda lo vuole costruttore della nave Argo, che servì per la famosa impresa degli argonauti. Dio della mitologia greca era ricordato in un culto oracolare a Delo. Gli elementi più importanti del suo mito lo mettono in connessione con la sfera marina. Dopo morto fu trasformato in pesce o in altro essere acquatico.
A lui si devono l’istituzione dei giochi istmici.
GORGONEO
Testa di Medusa sull’egida (scudo) di Atena (Minerva).
GORGONI
Mostri infernali femminili della mitologia greca, dallo sguardo terribile che pietrificava chi le guardasse. Con chiome di serpente e artigli ai piedi e alle mani. Erano tre: Medusa (Sovrana), Steno (Forte), Euriale o Curiale (Vasto mare). Figlie di due esseri marini primordiali, Forco e Keto, avevano il volto bellissimo. L’unica mortale delle tre, la Medusa, fu decapitata da Perseo (Omero parla solo di lei). Dal suo corpo scaturirono l’eroe Crisaore e il cavallo alato Pegaso, che fu poi la cavalcatura di Bellerofonte. La Medusa divenne l’attributo della dèa Atena, sulla corazza e sullo scudo della quale veniva usualmente raffigurata. Secondo l’interpretazione naturalistica, esse simboleggiavano le tenebre: infatti abitavano regioni oscure o lontane e il loro sguardo capace di pietrificare era il simbolo della nera nube temporalesca, dalla quale usciva il fulmine sterminatore.
GRACCO
- Gracco Tiberio Sempronio.
- Gracco Tiberio Sempronio Tiberio N.
- Gracco Sempronio Tiberio N. Marito di Cornelia,
- Gracco Tberio e Caio.
Famiglia romana della gente Sempronia, plebea, che si rese importante specialmente nella storia interna di Roma. Fra i più illustri si ricordano:
Console nel 238 a.C., guerreggiò col suo collega P. Valerio Faltone nella Sardegna e in Corsica dopo l'insurrezione dei mercenari cartaginesi, restando vincitore.
Generale nella seconda guerra punica, edile curule e magister equitum dopo la battaglia di Canne. Vinse contro Magone in Lucania.
padre dei tribuni Tiberio e Caio Gracco, nato il 210 a.C. Fu tribuno della plebe, edile, console. Sottomise i Celtiberi e i Sardi dei quali trasse a Roma sì gran numero di prigionieri.che ne venne il proverbio: Sardi, venales.
Figli di Tiberio Sempronio Gracco e di Cornelia, figliola di Scipione Africano, furono due celebri tribuni della plebe in Roma. Allevati severamente e con molta diligenza, diventarono uomini di gran mente. Maggiore di età era Tiberio, che,giovane ancora, si illustrò combattendo in Africa e sotto Numanzia. Nel 138 a.C., fu eletto tribuno della plebe e tosto rivolse la mente a grandi riforme in senso popolare, intese sollevare la condizione economica disagiata della plebe e degli abitatori della campagna. Risusitò perciò la legge Licinia, che importava un'equa divisione delle terre pubbliche; ma la nobiltà, che di queste terre si era impadronita e le faceva coltivare da schiavi, si oppose con tutte le forze , e si assicurò l'aiuto di M. Ottavio, altro tribuno della plebe, il quale opponeva il suo veto a tutte le proposte di Tiberio. Lungo tempo cercò questi di vincere l'opposizione del collega, e finalmente, non riuscendo, lo fece deporre dalla tribù; e allora la legge passò, ed a vegliare sulla sua esecuzione furono eletti Tiberio, il fratello Caio e il suocero Appio Claudio. Così Tiberio godeva di immensa popolarità, che crebbe anche più quando, avendo Attalo, re di Pergamo, lasciato erede del regno e dei suoi tesori il popolo Romano, Tiberio propose di dividerli fra quelli che la nuova legge agraria ricevevano una porzione di terra. Ma scoppiò allora, più accanita che mai l'opposizione della nobiltà, e, in un tumulto, mosso per le nuove elezini dei tribuni, nel 133 Tiberio perdette la vita. Ne continuò l'opera il fratello Caio, che però non entrò risolutamente nella vita pubblica se non nel 123, quando fu eletto tribuno. Propose anch'esso leggi democratiche, e divenne in breve l'idolo della plebe. Anch'esso trovò armata contro sè l'opposizione della nobiltà, alla quale contrappose con aperta violenza la plebe, sicchè in un tumulto, scoppiato nel 121 a.C., inseguito dalle armi del console Opinio, si fece uccidere da uno schiavo.
GRAZIE
CARITI
Figlie di Giove e di Eurinome, dispensatrici di grazie agli uomini ed alle cose, inimiche delle guerre. Erano in numero di tre: Aglaia (Splendore–Ingegno); Eufrosine (gioia-allegrezza-beltà); Talia (floridezza-abbondanza-virtù); deità intermedie che concedono agli uomini tutti i beni che ricevono dai Numi. Secondo una versione, Eufrosine divenne sposa del dio Efesto, forse in riferimento alla sua arte sublime. In certe tradizioni si conoscevano due sole, e a volte messe in connessione con il novilunio e con il plenilunio. Rappresentate vergini, nude e avvinte a ghirlanda, in greco dette Charites, erano personificazioni della grazia e della bellezza, protettrici del l’amore coniugale. Altra versione le vuole figlie della più bella delle Naiadi, Egle e dei suoi amori con il dio sole, Elio Anche in Atene dinanzi l'accesso per entrare nell'Acropoli, sono presenti le tre Grazie. Pamfo, per quanto ci è noto, fu il primo a cantare delle Grazie, ma del numero e dei nomi di esse non fece parola.
(Ritorna a Perito)
Omero (ch'egli pure mentovò le Grazie) dice che una è moglie di Vulcano, e le dà il nome di Grazia; e che lo stesso Vulcano è innamorato di Pasitea (Iliade XIV 324-6 Monti); nei discorsi che mette in bocca al Sonno fa un verso che dice così "La più giovane fra le Grazie mi darai in sposa Pasitea"; per la qual cosa ad alcuni si affacciò il sospetto che Omero abbia forse conosciuto altre Grazie più antiche. Esiodo nella Teogonia (sia pur di qual si voglia altro autore), fa le Grazie figlie di Giove e della Eurinome e ad esse mette i nomi di Eufrosina, Aglaia, Talia. Lo stesso si legge nei versi di Onomacrito. Antimaco, senza indicare il numero e i nomi, dice che sono figlie di Egle e del Sole. Ermesianatte, l'autore delle Elegie, non ripete nelle sue poesie ciò che pensarono gli antecessori, quando scrisse che Pito (la Persuasione), era una delle Grazie. E seguita a discorrere sul modo con che, nella plastica o nella pittura furono rappresentate ignude o vestite.
(Ritorna a Ermesianatte)
I Beoti dicono che Eteocle sacrificò prima di chiunque altro alle Grazie e che statuì essere tre le Grazie a tutti noto, ma quali che fossero i nomi dati da lui ad esse non si riscontra.
(Ritorna a Perito)
I Lacedemoni pretendo no che le Grazie siano due; affermano che dedicassele Lacedemone, figlio di Taigete, e le nominasse Clito e Faenna; nomi convenienti alle Grazie certamente anche questi, ma adatti sono pure i nomi dati ad esse dagli Ateniesi, i quali ab antico venerarono le Grazie con i nomi di Auxo, ed Egemone...( noi, istruiti da Eteocle figlio di Orcomenio abbiamo per uso di far preghiere non a due ma a tre Grazie). E Angellione e Tecteo che scolpirono ai Delii il simulacro di Apollo confermano facendogli in mano tre, le Grazie .
- Note
- Foscolo, così avvertiva
-
"...dopo d'aver mostrato nella pittura della Grecia l'amabile influsso delle Grazie sulle nazioni (Inni alle Grazie), presenta la loro azione della grazia negli individui che ne sono ornati, e comparte a tutte tre la beltà. l'ingengo e la virtù, ma assegna più particolarmente alla suonatrice le grazie che spirano d'un animo temprato di dolce pietà e le simboleggia negli effetti della musica; l'amabilità della parola; l'eleganza delle forme nei moti del ballo. Tuttavia le Grazie non dispensano direttamente agli uomini i loro benefici, ma si servono alla loro volta delle belle donne. In questi Inni ho tentato di rappresentare cio che ho osservato io medesimo nelle amabili donne, che senza saperlo mi mandarono prima al cuore e poscia all'ingegno alcune immagini delle Grazie; ed io per gratitudine voglio, se non altro, tentare che i giovinetti italianai imparino leggendo i miei versi a sentire o discernere le Grazie e adorarle con versi più accetti de' versi d'un poeta che dopo avere sacrificato alle sacerdotesse e all'emulatrici di quelle delicate divinità, si è ritirato pria d'invecchiare per non offenderle con versi impuri.
(Ritorna a PRITO) - All'apparire delle Grazie, la terra si coperse di fiori; ma quelli esseri divini non se ne adornarono: Venere solamente: " Mille habet ornatus, mille decenter habet". - Le Grazie sono sempre ignude, adorne di loro natia amabilità, protette dall'in nocenza propria e dalla innocenza che ispirano: - (Gratia cum Nynphis geminisque sororibus audet ducere' nuda choros) - Intrecciano viole e rose bianche e quelle trecce avvolgono a un ramoscello di cipressso e aggiuntevi delle perle (le perle che coronavano Venere quando emerse dal fondo dell'oceano), offrono siffatta ghirlanda alla madre loro. D'allora in poi i Greci usarono sempre di cantar inni alle Grazie all'ombra del cipresso e di offrire sul loro altare una tazza di latte inghirlandato di bianche rose, di perle e viole. - Dal romanzo pastorale di – Longo - appare che offerte di tortore, colombe e frutta, Dafni e Cloe porgono alle tre Grazie, debbono essere innovazioni di età posteriore. Secondo i riti più antichi, i sacrifici alle Grazie erano di latte in memoria della introdotta vita pastorale, le cui pacifiche arti eran succedute alle selvagge abitudini della caccia; e si usavano ghirlande di cipresso per ciò che il cipresso era fra gli emblemi della morte, non obliata mai dagli antichi nelle festive adunanze: e quella mesta allusione che spesso incontrasi nei canti dei conviti e nelle giulive canzoni di Anacreonte e d'Orazio, non solamente ha in sè un proposito morale, ma fa ancora in poesia l'effetto di un chiaroscuro. - “Viaggio sul monte Ida (Viaggio in Olimpo)”. Dal Sommario reso in prosa dal l’autore stesso del Carme “Le Grazie“ Ugo Foscolo:
(Ritorna a PRITO) - Venere nel momento di lasciar la terra per rendersi all’abitazione degli dèi, menò le Grazie sulla cima del monte Ida, e pervenuta a quell’altezza dove le creste del monte apparivano colorate d’un roseo celeste e dalle stelle pareano effondersi fiumi di aurea luce, accomiatossi dalle sue figlie dicendo loro che, le regioni celesti, essendo felici abbastanza, le Grazie doveano rimanere sulla terra, dov’erano assai sventure che domandavano conforto, e il cielo affiderebbe loro molti beni da dispensare agli uomini. Quando gli dèi, continuava Venere, avranno deliberato di non sopportare più a lungo le iniquità degli uomini, ma di far loro sentire quanto pesi la punizione, io vi ritrarrò nel cielo, framezzo ai turbini e alle folgori che circondano mio padre e voi li mitigherete. Ora io vi lascio, ma tosto che sarò giunta alle stelle, voi udirete scendere dal Cielo l’armonia, la cui virtù solo da voi potrà essere diffusa fra gli uomini. Essa ispirerà, dirigerà la mente degli uomini, per alleggerirne i travagli e le pene, e liberarli dal timore della morte. I campi Elisi vi saranno anch’essi gradevole albergo; colà rallegrerete del vostro sorriso i poeti che colsero allori con mani incontaminate, prìncipi che regnarono benigni, giovani madri che non diedero mai da suggere il latte di una straniera, modeste fanciulle che non tradirono mai il segreto del loro amore, ma nel fior della vita lo si recarono inviolato nella tomba e giovani valorosi che caddero combattendo alla difesa della patria. Siate immortali ed eterna sia la vostra bellezza. Mentre proferiva queste ultime parole, e fissi gli occhi intentamente nelle figlie, la Diva impartì loro la carnagione e la freschezza dell’aurora e lasciolle. Le Grazie continuarono a riguardare verso di lei cogli occhi soffusi di lagrime; ed ella, quando ebbe quasi raggiunto le celesti magioni, si volse a guardar le sue figlie e disse: il destino vi sta apparecchiando afflizioni che vi renderanno degne di gloria immortale. Non appena la Dea ebbe ripreso albergo nel suo pianeta, tutto quanto il cielo fu commosso dalle note giulive dell’armonia dell’universo.
(Ritorna a PRITO) (Vedi Mito e Leggenda) - Il Silenzio è allievo delle Grazie, perchè denota finezza d'ingegno nell'animo di chi tace osservando.
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In questo gruppo lo scultore si scostò dagli antichi, i quali rappresentavano le tre fanciulle in una sola linea. Egli poi vi pose vicino un'ara, e per velare i sostegni, ghirlande di fiori. Il Foscolo giudica questo gruppo, la men terrestre forse delle creazioni del Canova; spera che si ispirerà un giorno la fantasia di qualche poeta con la più universale e meno metafisica nozione di quanto v'ha di amoroso e bello nella natura.
(Ritorna a PRITO)
GRECIA
Stato dell’Europa meridionale che occupa l’estrema porzione della penisola balcanica tra il Mar Jonio a Ovest, il Mar Mediterra neo a Sud,e il Mar Egeo a Est; comprende pure gli arcipelaghi del Mar Egeo. (Sporadi, Cicladi, le isole Ionie, Creta, Eubea, e varie altre), estendendosi su una superfice complessiva di 131.944 kmq. di cui circa 1/5 occupato da isole.
(Ritorna a Peleponeso)
STORIA
La storia della Grecia nell’età antica, non coincide esattamente con la storia dei greci, che occuparono un territorio molto più vasto di quello della Penisola Ellenica. Nel IV° s.a.C., i greci avevano occupato molti territori oggi compresi politicamente nei confini della Bulgaria, e della Romania, le coste del Ponto Eusino (oggi Mar Nero) col Chersoneso (oggi Crimea), le coste del l’Asia Mi nore e, nel Mediterraneo occidentale, si erano spinti in Sicilia, nell’Italia meridionale e sulle coste francesi, spagnole e africane, formando una compagine singolarissima, unita da profondi vincoli di religione, di lingua, di civiltà, ma al tempo stesso frantumata in un numero incalcolabile di più o meno piccole o piccolissime entità politiche, le - città stato - o pòleis (polis), gelosissime della propria indipendenza, e spesso in guerra fra loro per l’egemonia sulle altre. Per cui la storia dei greci antichi, pur nel solco di una comune linea di sviluppo, non è neppure una storia unitaria, ma piuttosto la storia delle rivalità e delle lotte che le divisero, e poi li indebolirono al punto da lasciarli indifesi e incapaci di opporre seria resistenza ad attacchi esterni. I greci arrivarono nella Penisola Ellenica ad ondate successive, nella seconda metà del I° millennio avanti.Cristo, Ma già prima del loro arrivo Creta, e successivamente Micene, nell’Argolide, erano stati centri di quelle luminose civiltà che conosciamo coi nomi di minoica o cretese - micenea. Sulla fine del II millennio a.C., la civiltà micenea entra in crisi Secondo la tradizione storica la crisi sarebbe stata determinata dall’invasione dei Dori, giunti in Grecia dopo gli Ioni, stabilitisi nell’Attica, e gli Eoli, che occuparono gran parte della Grecia centrale e del Peloponneso I Dori giunti per ultimi, sarebbero penetrati nel centro dei territori occupati dagli Eoli, occupando quindi l’Argolide e la Laconia. Tra il XIV° e il XII° s,a,C,. inizia la colonizzazione delle isole dell’Egeo e delle coste dell’Asia Minore, stimolata da esigenze d’ordine economico, sociale e forse demografico. Seguirono alcuni secoli oscuri di assestamento e di maturazione, i cui frutti più evidenti furono, a partire dall’VIII° s.a.C., un nuovo e più grandioso movimento di colonizzazione della Penisola Calcidica, nella Tracia, sull’Ellesponto, sulle coste della Propontide, e del Ponto Eusino, e, in occidente, lungo le coste dell’Italia meridionale e in molti punti del litorale franco - spagnolo e dell’Africa Settentrionale.
(Ritorna a Peleponeso)
Promosse dall’iniziativa privata e dallo Stato, le colonie erano Stati indipendenti, benchè nominalmente vincolati alla madre patria da obblighi di assistenza e di aiuto reciproco in caso di necessità. Ma molto spesso, e specialmente nell’Italia meridionale, che venne addirit tura chiamata Magna Grecia, cioè Grande Grecia, le colonie, del tutto svincolate dalla madrepatria, raggiunsero uno sviluppo e una potenza superiore a quella di quest’ ultima. In Grecia intanto si attuavano profonde trasformazioni politiche e sociali. Organizzata inizialmente in minuscoli staterelli a regime monarchico, questi, tra l’VIII° e il VI° s.a.C., si trasformarono,senza gravi scosse,in repubbliche aristocratiche. Solo Sparta conservò il regime monarchico, ma nel VI° secolo, mentre venivano costituendosi le prime leghe a carattere religioso, e sotto l’egemonia politica di una città (Atene nell’Attica, Sparta nella Laconia, Argo nell’Argolide ecc.), la reazione dell’elemento popolare portò alla caduta dell’aristocrazia e al successo di una forma politica nuova, la tirannide, in cui il potere veniva spesso esercitato con oculatezza, per il progresso effettivo del popolo.
(Ritorna a Peleponeso)
Ma già allo scadere del secolo le tirannidi erano quasi del tutto scomparse, sostituite da regimi oligarchici, e in qualche caso, particolarmente notevole Atene - democraticamente veniva a delinearsi irriducibile l’antagonismo tra Sparta, a capo della lega peloponnesica (che riuniva quasi tut te le città del Peloponneso ad eccezzione di Argo e dell’Acaia), e Atene, egemone nell’Attica. Ma proprio sullo scorcio del VI° s.a.C., che vede i Greci predominare su tutti i popoli mediterranei nelle arti, nelle lettere, nel diritto, oltre che nel progresso civile ed economico, le cosiddette guerre persiane sospesero temporaneamente quella rivalità. offrendo a tutti i Greci, (purtroppo mancata) l’occasione della concordia e dell’unità. Le splendide vittorie di Maratona (490), di Salamina (480). e di Platea (479), e la stessa gloriosa sconfitta delle Termopili, sancirono definitivamente la superiorità dei Greci sui Persiani, ma, scongiurato il pericolo, risorse l’antica rivalità fra Atene e Sparta. Nel 478, allo scopo di dichiarar guerra alla Persia, per la libertà delle altre città greche dell’Asia Minore, promosse una nuova lega, detta Delio - Attica, da Delo, dov’era custodito il tesoro della lega, e dove si riunivano i confederati, presto si trasformò in un vero e proprio impero ateniese, che, sotto Pericle attraversava intanto il perodo più florido della sua storia. Nel 431 dopo quasi mezzo secolo di tensione, scoppiò tra Atene e Sparta e le rispettive leghe la disastrosa guerra detta del Peloponneso, che in ventisette anni dal 432 al 404 doveva procurare alla Grecia perdite immani di uomini e di ricchezze, prostandola irrimediabilmente. La vittoria di Sparta ottenuta mediante l’appoggio della Persia disgregò il dominio ateniese, e segnò il tramonto della supremazia di Atene in Grecia, non riportò la pace e l’equilibrio nella Penisola Ellenica, E appena dieci anni più tardi la guerra riarse e la pace seguente di Antalcida nel 386, fu praticamente imposta dal re dei persiani, che garantendo l’autonomia delle città greche, teneva per sé le città elleniche dell’Asia Minore. Era l’inizio dell’ormai decadenza innarrestabile dei greci, che in meno di mezzo secolo, persero finanche l’indipendenza. Sparta continuò ad esercitare la sua autonomia, ma intanto una nuova potenza andava sorgendo in Beozia; Tebe, che insieme ad Atene, ne ostacolava la supremazia spartana. La rottura avvenne nel 371, seguita da una nuova guerra tra Tebe e Sparta, che vide i tebani guidati da Epaminonda, nettamente vincitori nella battaglia di Leuttra.
(Ritorna a Peleponeso)
La supremazia tebana non superò la prova della morte di Epaminonda, caduto nella battaglia di Mantinea (362), Nel 356 una nuova guerra detta terza guerra sacra, coinvolse ancora una volta la maggior parte degli Stati greci, bruciandone le residue forze e di ciò ne approffitò Filippo II° di Macedonia, per inserirsi nelle vicende interne della Grecia.e prepararne la conquista. Nel 343- 340 Filippo invase il Chersoneso, e assediò Bisanzio provocando la guerra aperta con Atene che fu gravemente sconfitta nella battaglia di Cheronea del 338. Da quel momento si può considerare tramontata l’indipendenza della Grecia. La morte di Filippo fece rinascere le speranze dell’indipendenza, ma il suo successore Alessandro non tardò a frustrarle. Con la distruzione dell’impero persiano ad opera di Alessandro, e lo spostamento del baricentro della politica internazionale in Asia, dove dalle contese fra i generali del grande macedone, stava nascendo un nuovo ordine politico, La Grecia pur conservando il prestigio che le derivava dalla sua cultura e dalla sua civiltà divenne un’entità politica di secondo piano legata al carro macedone, dal quale tentò invano più volte di liberarsi. Nel 215 scoppiò la guerra tra Roma e Filippo V° di Macedonia, che battuto duramente a Cinocefale nel 19, dovette accettare le dure condizioni di pace impostele. L’anno dopo ai “Giochi Istmici” il console romano vincitore Quinto Flaminio, proclamò la libertà di tutti gli Stati greci, che in realtà erano passati dall’egemonia macedone a quella romana. Le condizioni stesse di fatto spingevano Roma a tramutar in dominio l’egemonia e nel 146 la Grecia – escluse Atene, Sparta e la Tessaglia, nominalmente libere, passò sotto la diretta soggezione di Roma, annessa alla provincia di Macedonia. Seguirono anni di prosperità e di pace per la Grecia, nei quali fu solo una breve parentesi la sollevazione antiromana del 88 a.C., promossa da Mitridate VI° e domata da Silla che nell’86 prese d’assalto Atene dopo un lungo ed estenuante assedio. Cesare istituì la provincia di Acaia, e nel quadro delle riforme di Augusto, la Macedonia e l’Acaia furono disciplinate come le provincie senatorie, cioè non soggette a governatori militari. Nel III s.d.C., cominciò tuttavia la decadenza, parallelamente a quella dell’impero. Nel 393 si celebrarono per l’ultima volta i Giochi Olimpici. Aggregata all’impero d’Oriente (395), la Grecia non ebbe più storia; dapprima la rigida amministrazione bizantina, e poi le continue invasioni barbariche, ne accentuarono la decadenza. La quarta crociata (1202 - 1204) la smembrò in più stati, cosa di cui si avvantaggiò Venezia. Nel 1453, caduta Costantinopoli, anche la Grecia divenne dominio turco; oppressione e miseria caratterizzarono la vita della Penisola per molti secoli. Solo al cadere del XVIII° secolo cominciò a delinearsi un movimento nazionalista; la società segreta Eteria guidò la rivolta nel 1820 che si risolse nel 1822 con la proclamazione dell’indipendenza. Ma tre anni dopo i Turco - Egiziani erano di nuovo padroni della Penisola, e solo nel 1930 (protocollo di Londra), le Grandi Potenze riconobbero il Regno di Grecia. libero e indipendente.
(Ritorna a Peleponeso)
UNO SGUARDO AL PASSATO.
All’ombra dell’acropoli
Sulla carta geografica, così in fondo alla Penisola Balcanica, è tutta frastagliata e rotta in penisolette. e isole innumerevoli, tra il Mar Egeo e il Mar Ionio, non par che questa terra si stacchi e voglia fuggire dal continente? E’ la Grecia, si restringe giù giù dopo la Macedonia per la catena del Pindo, nell’Epiro, nella Tessaglia e nell’Etolia; si raffina al passo delle Termopili, procedendo nella Beozia, e nell’Attica dove sorge Atene; poco più a nord di Atene si distacca a occidente un’altra regione, legata al continente soltanto da un braccio di terra, l’Istmo di Corinto ch’è ora tagliato. E’ questo il Peloponneso, con l’Acaia, l’Elide, la Messenia, l’Argolide, la Laconia dov’è Sparta. Assai curiosa la figura del Peloponneso; sembra proprio un nanerottolo, stranamente incappucciato. in atto di scappare.
(Ritorna a Peleponeso)
GLI SPARTANI.
Due re governavano contemporaneamente nell’antica Sparta, perché l’uno fosse di freno all’altro, ed erano anche vigilati da cin que Efori, supremi magistrati dello Stato, eletti dal popolo ogni cinque anni e assistiti da vent’otto Geronzi o Senatori, nominati dal popolo a vita. In tre classi era divisa la popolazione spartana: Spartani propriamente detti i discendenti dei primi conquistato ri del Paese; Perieci, gli antichi abitanti sottomessisi volontariamente; gli Iloti, coloro che s’erano dovuti ricorrere all’bbedienza con la forza. Solo gli Spartani, passati i trent’anni potevano partecipare al governo della cosa pubblica, intervenire alle assemblee eleggere o essere eletti. I Perieci erano liberi di esercitrare solo le loro professioni e i loro mestieri, di commerciare e di possede re. Gli Iloti erano come servi della gleba. Gli Spartani erano chiamati anche Lacedemoni; il loro legislatore Licurgo, aveva voluto ch’essi fossero forti e perciò fu loro bandito il lusso, gli agi, le raffinatezze, le mollezze e la vita comoda. Gli uomini mangiavano insieme in gruppi di dieci o quindici; ognuno portava pane, cacio, fichi e vino; la carne dei sacrifici si lasciava ai più giovani, e ai vecchi si dava un brodetto nero, con della farina abbrustolita.
(Ritorna a Peleponeso)
- Come fate, chiese un giorno uno straniero, a buttar giù codesta roba?
La condiamo con l’appetito; fu la risposta!
Durante il pasto si doveva parlare solo di cose serie e importanti, e anche i re erano in dovere di mangiare all’aperto fuori casa.
Una volta che il re Agide, tornato a Sparta dopo aver vinto gli Ateniesi, chiese di pranzare con sua moglie, ma gli Efori non gli per misero. Piedi nudi e rozzi sandali, una corta tunica di lana, e un mantello per l’inverno; tale era il loro abbigliamento.Affinché non si accumulassero ricchezze, usavano monete di ferro così grosse e pesanti che abbisognava un par di bovi per trasportare il par valore di dieci – mine. Perché i giovani non incorressero nel turpe vizio dell’ubriachezza, mandavano in giro talvolta, a far triste spettacolo di sé un Iloto ubriaco.
Appena nati i banbini spartani venivano esaminati, se mai fossero gracili, storpi o deformi; nel qual caso si buttavano nei burroni del Taigeto (Catena montuosa). Lo scudo paterno era la loro prima culla; fino ai sette anni erano educati dalla madre, abituati a camminare nel buio senza paura, e a sopportare disagi, Dai sette ai diciott’anni erano affidati a pubblici educatori, vivendo anch’ essi in comune come gli anziani. Corsa, lotta. salto. esercizi militari erano i loro giochi e il loro libro l’Iliade di Omero, e i figli dei re venivano educati a parte. Tutto doveva servire per la guerra; permessi erano anche i piccoli furti, ma…guai a farsi scoprire!
(Ritorna a Peleponeso)
- Si racconta di un fanciullo il quale aveva rubato una volpe, ma per la strada incontra il padrone. La volpe, nascosta sotto il mantello, mordicchia il fianco del fanciullo e questi non dà un gemito! Si batteva talvolta i fanciulli atrocemente, in gara e in prova; qualcuno moriva, ma non fiatava. Dovevano camminare seri, composti, silenziosi e a capo chino. Se ammessi ai conviti, ascoltavano e rispondevano solo se interrogati e nel modo più breve possibile.
Anche gli anziani dovevano esprimersi con poche parole, e ne derivò quello stile che dalla Laconia fu detto: laconico.
Terminata una lunghissima guerra contro Atene, il generale Lisandro scrisse a Sparta: Atene è caduta! Un altro, interrogato quanti fossero gli Spartani, rispose: quanti bastano a tener lontani i nemici! Ad un ambasciatore che chiedeva rifornimenti di viveri, e che aveva all’uopo pronunziato una prolissa orazione; “ del tuo discorso non ricordiamo il principio; il mezzo non l’abbiamo capito, e la fine non ci piace!" “ L’ambasciatore ritornò con dei sacchi vuoti e disse: empiteli! E fu accontentato!
In guerra erano armati di picca, lancia e corta spada. Fregiavano gli scudi di motti e di emblemi. Uno vi dipinse una minuscola mosca e: “mi farò così vicino al nemico ch’egli possa vederla!
“O con questo, o su questo” – dicevano, quando davano lo scudo al figlio. Cioè: o torni con questo, dopo aver combattuto valorosamente con le tue armi, o morto recato a me sullo scudo che tu non avrai abbandonato. Se un figlio moriva in guerra: “ sapevo bene ch’egli non era immortale! ”Come dire: tanto, doveva pur morire.
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GUERRE MESSENICHE.
Confinante con Sparta era Messene. Si venne presto ad una guerra tra i due popoli. Messene fu vinta. Si ribellò e minacciò da presso la rivale. Gli Spartani intimoriti ricorsero all’oracolo di Delfo e ne ebbero per consiglio di cercare un condottiero in Ate ne. I beffardi Ateniesi mandarono un poeta zoppo, di nome Tirteo. Ma che fece costui? Compose dei carmi, i quali suscitarono un tal entusiasmo tra i combattenti spartani che questi si lanciarono contro i nemici con impeto irresistibile. Messene fu nuovamente presa e diroccata: il territorio spartito tra i vincitori, gli abitanti ridotti alla condizione di Iloti e altri si rifugiarono in Sicilia, nella colonia greca di Zancle, che da essi ebbe il nome di Messena Messina)
COLONIE GRECHE.
Molte colonie avevano stabilito i Greci o ne stabilirono poi in Italia, e in tutto il bacino del Medi terraneo, dal Mar Nero alla Spagna, sulle coste d’Europa, d’Asia e d’Africa. Quando la popolazione sovrabbondava, se ne mandava una parte lontano. Si consultava l’oracolo, si toglieva dal tempio un po’ del fuoco sacro, dalla rocca un pugno di terra, e si andava.Giunti sul luogo stabilito, s’innalzava un altare, vi s’immolava la vittima, si costruivano le case, i templi, le fortificazioni, le nura; sorgeva così e fioriva altrove con le conquiste, un nuovo lembo della madre patria.
Così diventarono greche tutte le isole dell’Arcipelgo, così sorsero tante città sulle coste dell’Asia Minore, del Mar Mero e del l’Italia, Marsiglia in Francia e Segunto nella Spagna. Tutte colonie che si reggevano libere ed indipendenti, a monarchia o a repubblica, legate alla madre patria soltanto dalle comuni origini, dalla stessa lingua e dagli stessi costumi, dalla religione per cui avevano sempre sacri gli dèi e gli antichi e venerati oracoli. Si aiutavano in caso di bisogno e intervenivano ai Giuochi tradizionali: Istmici di Corinto, Pitici di Delfo, Nemei dell’Argolide, Olimpici di Olimpia nell’Elide, i quali ultimi, si celebravano ogni quadriennio, ed erano così importanti che da essi i Greci numeravano gli anni.
Greci erano solo i popoli della Grecia e delle colonie, tutti gli altri venivano chiamati Barbari.
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ATENE.
(Vedi ordine alfabetico)
Fondata a poca distanza dal mare, da un migliaio d’anni si dice prima di Roma, e un secolo dopo di Sparta, era stata elevata al grado di capitale del mitico Teseo. Si era retta prima a monarchia poi a repubblica con un Arconte sottoposto all’autorità del popolo e d’un Areopago di Anziani. In un primo tempo la carica di Arconte era stata a vita ed ereditaria, né più né meno di una monarchia. In un secondo tempo era divenuta elettiva e aveva avuto la durata di dieci anni; in ultimo si elessero nove arconti insieme, ed ogni anno. Ma che differenza da Sparta! Ad Atene tutto era lusso, vivacità, chiasso, gaiezza; si amavano le cose belle, i bei templi, i sontuosi edifici, i brillanti oratori, i quadri e le statue, le cerimonie sfarzose, i ritrovi, i teatri; scrittori e artisti erano onorati e glorificati; tenevano scuola i filosofi e da ogni dove i più begli ingegni venivano ad Atene; accorrevano quanti desideravano imparare e perfezionarsi .Vi nacquero e vi abitarono Demostene, il più grande degli oratori; Fidia, il sommo degli scultori, i tragedi Eschilo e Sofocle, il commediografo Aristofane, lo storico Tucidite, i pittori Polignoto e Apelle.
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-” Chi è quello che va intorno trasandato e cerca con una lanterna per terra?
- E’ Diogene, il Cinico; se l’interrogate vi dirà che cerca un uomo; fra poco si ritirerà in una botte da cui non sarà capace di smuoverlo con tutta la sua autorità neanche Alessandro Magno
- E l’altro, all’apparenza così brutto, contro cui dalla finestra lo sgrida la moglie, e lui neppure si volge ed è guardato in cagnesco dai magistrati benché sia salutato con gran rispetto da tanti discepoli e riceveva omaggio dallo steso Platone?
- E’ Socrate! Sarà condannato per la sua filosofia, a bere la cicuta.Vedete che magnificenza; i Propilei, l’Eretteo, il Teseion, il Partenone. Qui si insegnano le belle arti in tutto il mondo!
Ecco un monumento di Callicrate; la marmorea mucca di Mirone, sul cui piedestallo fu scritto: “Pastore, passa lungi da qui perchè la mucca di Mirone non segua il tuo branco ”.
- Ecco in Atene o nelle altre città greche il celebre “Discobolo” di Mirone, la“Niobe” di Prassitele, i capolavori di Fidia, ”Apollo”e “Diana” a Delfo, “Minosse” a Platea, “Pallade” sull’Acropoli, la “Nèmesi” a Maratona, e il famoso “Giove” a Olimpia tutto avorio e oro ispirato a Fidia dai ver i di Omero:
- ...Il gran figlio di Saturno.
I neri sopraccigli inchinò; sull’immortale
Capo del Dio le divine chiome
Ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo...-
Note: Omero! Greco anche lui, il primo e il più grande dei poeti greci, che fu per la Grecia quel che Dante fu per l’Italia; colui che con i suoi poemi diede unità di lingua e di spirito ai popoli greci. e da cui scaturirono tutte le forme della civiltà, della poesia e delle arti greche.
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LE LEGGI SCRITTE COL SANGUE.
Come a Roma fra patrizi e plebei, così ad Atene infierirono per molti secoli le lotte fra nobili e popolani, finchè l’Arconte Dracone, verso la metà del XIII s.a.C., bandì delle leggi così - draco niane - che, si disse,le avesse scritte col sangue. Anche l’ozio era punito di morte e diceva che nessuna colpa gli pareva così leggera da non meritare la morte, e nessuna così grave da meritare più della morte. Allora gli Ateniesi si rivolsero a Solone, uno dei sette savi della Grecia. Egli mitigò le leggi di Dracone, divise la popolazione a seconda degli averi in 4 classi; lasciò i nove Arconti, che, usciti di carica formavano l’Aeropago; quattrocento Senatori. Le proposte del Senato dovevano essere approvate dal popolo, ciò che meravigliò assai uno straniero venuto a visitare Atene;
- Come – disse: i savi propongono e gli stolti decidono?
Ma l’Aeropago poteva anche annullare le decisioni popolari.
Chi tentava di cambiare le forme di governo era punito con la pena di morte, e chi diventava troppo potente era condannato al bando (ostracismo).In caso di rivoluzione, perché non prevalessero i prepotenti, tutti dovevano schierarsi da una parte o dall’altra, secondo il suggerimento della loro coscienza. Gli stranieri dovevano scegliersi un patrono, e non contavano nulla. I figli non erano obbligati a mantenere il padre, se questo non li avesse avviati a una professione o a un mestiere. Nella legislazione di Solone, anche i suicidi venivano puniti, mutilando il loro cadavere della mano destra, e seppellendoli ignobilmente. Per i parricidi invece nessuna pena era contemplata, sembrando impossibile che qualcuno potesse arrivar sino a tal punto da uccidere il padre o la madre.
Esposte al pubblico le sue leggi: esse son tali disse Solone, che nessuno avrà interesse a violarle. Invece fu tanta la ressa a casa sua, perché aggiungesse o togliesse o modificasse, ch’egli se ne partì. Tornato dopo dieci anni vide ch’era peggio di prima; il popolo voleva più libertà, e i nobili più privilegi. A capo dei popolani si era messo Pisistrato, che spadroneggiava a suo piacimento; fu scacciato, poi richiamato, scacciato ancora e ancora richiamato e ricevuto in trionfo. Tenne il potere fino alla morte e gli successero i figli Ipparco,e Ippia. Il primo fu assassinato in una congiura ordita da Armodione e da Aristogitone i quali furono a loro volta massacrati dal popolo; e Ippia fuggì in Persia.
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MARATONA.
Proprio in quei tempi i Persiani avevano sottomesso molte colonie greche dell’Asia Minore. Essendosi queste ribellate, ed essendo i Greci della Madrepatria accorsi in loro aiuto, il re persia no Dario giurò di vendicarsi; egli ordinò che tutte le mattine alzandosi glielo ricordassero.
- I Greci avevano incendiata la sua città di Sardi? - Ed egli doveva distruggere Atene!
- Ed ecco ora, anche Ippia a incitarlo; il re Dario arma un poderoso esercito al comando del generale Mardonio.
- Dateci la terra e l’acqua, intimano gli araldi agli Spartani!
- E questi,per accontentarli li buttano in un pozzo!
L’esercito di Mardonio fu disfatto dai Traci; e la flotta dalle tempeste; vennero allora i generali Artaserne e Dati, con più gran numero di uomini e di navi. Arrivarono fin nei pressi di Atene, e precisamente a 42 km. dalla città, nella pianura di Maratona. Qui erano schierati 10.000 ateniesi al comando del generale Milziade; era il 26 settembre del 490 a.C. I Persiani erano 100.000; si iniiziò la battaglia e a sera venne correndo ad Atene da Maratona un guerriero; 42 chilometri tutti di corsa e tutti d’un fiato.
- Abbiamo vinto, esclamò, e cadde a terra morto esausto!
Ecco perché le gare di corsa per lo stesso percorso di 42 km. si chiamano ancora maratona e i partecipanti, maratoneti.
Un bel blocco di marmo che i Persiani avevano portato seco per erigere un monumento alla loro vittoria, fu scolpito da Fidia, il quale ne trasse una ”Nemesi” (la vendetta divina). Artaserse e Dati si salvarono con la flotta e Milziade corse a inseguirli, ma non vi riuscì, ragione per cui fu multato, ma non avendo di che pagare, messo in prigione, dove morì; Aristide, suo valoroso compagno d’armi, perchè troppo ammirato e amato dal popolo, fu condannato all’ostracismo, sebbene fosse onestissimo e integro cittadino.
- Si dice che, votandosi per la sua condanna, un tale, analfabeta, gli si avvicinasse: scrivi per me, contro Aristide! Ma che male ti ha fatto?
-Non lo conosco, ma mi dà noia il sentirlo chiamare “il giusto”.
Primeggiò allora un altro, che pure, aveva combattuto a Maratona: Temistocle.
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ALLE TERMOPILI.
Il re Dario era morto lasciando erede il figlio Serse con l’incarico di far pagar cara ai Greci la sconfitta di Maratona. Egli si preparò radunando dai cinquantasei popoli d’Asia, d’Europa e d’A frica, in tre anni, un’armata formidabile: Arabi su cammelli, Indiani ed Etiopi coperti di pelli leonine, tribù nomadi del Settentrione e cacciatori selvaggi armati di soli lacci di cuoio traversarono l’Asia Minore; gettarono un ponte di barche sullo stretto dei Dardanelli, e poiché il mare lo sfasciò, Serse per impressionare i suoi Barbari fece prendere le acque a bastonate.
- Avranno i tuoi, coraggio di aspettarmi? Chiese egli baldanzosamente a uno Spartano!
- Certo! Ei rispose: noi abbiamo l’ordine di vincere o morire!
In sette giorni lo stretto fu passato; invasa la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia, nessuno poteva pensare di resistere, e anche la Locride si piegò all’intimazione di ceder la terra e l’acqua, e anche la Beozia alle porte di Atene. In tanto pericolo Temistocle assunse i pieni poteri; Aristide è richiamato dall’esilio. Avendo l’oracolo profetato che la salvezza degli Ateniesi era nelle mani di legno, imbarcarono sulle navi, donne, fanciulli e ricchezze; trecento navi da guerra si appostano sulla punta settentrionale dell’Eubea. Settemila guerrieri tra cui trecento Spartani con il loro re Leonida si pongono a sbarrare il passo per terra nelle gole delle Termopili. Arrivano le avanguardie nemiche; cedi le armi! Mandò ad intimare Serse a Leonida.
-Vieni a prenderle, fu la risposta.
I Persiani ci sovrastano, annunciano le vedette.
- Anzi noi, sovrastiamo loro, rispose Leonida dall’alto.
- Ma son tanti, esclama un altro, che le loro freccie oscureranno il sole!
- Meglio, combatteremo all’ombra!
Compagni, furono le ultime parole di Leonida, stasera v’invito a pranzo dal Dio Plutone.
E resistettero, finchè un traditore non insegnò ai nemici un passaggio segreto alle spalle!
Quasi tutti i Greci allora abbandonarono le posizioni, ma Leonida con i suoi trecento non indietreggiò, anzi, a notte inoltrata si scagliò a capo basso contro i nemici e con tutti i suoi eroicamente dopo aver fatto strage di Persiani, cadde!
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LE BATTAGLIE DI SALAMINA; PLATEA, E MICALE.
Pchi giorni dopo Atene era in fiamme. La flotta greca terrorizzata stava per disperdersi. Disperato Temistocle manda un messaggio al re Persiano Serse.
- Corri ad annientarla unita d’un colpo, prima che divisa, faccia guerra lunga e alla spicciolata.-
Era uno stratagemma per mantenere compatta la flotta ed ottenere sul mare la rivincita. Infatti si presentarono le triremi del re Serse e lo scontro avvenne nelle acque di Salamina, il 19 ottobre del 480 a.C., e l’Armata Navale persiana fu vinta. Allora i greci si rianimarono e il 19 settembre 479 sconfiggono un’altra volta la flotta nemica al largo del promontorio di Micale, nelle acque dell’Asia Minore e il giono stesso battono in terra sul campo di Platea l’esercito lasciato indietro da Serse e composto da più di centomila combattenti. Serse morì assassinato, e suo figlio Artaserse dovè lottare contro i Greci, i quali, condotti da Aristide da Cimone, e dallo spartano Pausania, vincitore a Platea, schiantarono la dominazione dei Persiani in Europa e portarono vittoriosamente la guerra anche in Asia, e in Africa, dove le colonie greche e l’Egitto si erano ribellate. Fu Cimone che, sulle rive dell’Eurimedonte, sconfisse una terza flotta Persiana. Impadronitosi delle navi, e vestiti i suoi con le armature nemiche, sbarcò e sorprese un’esercito, mandandolo in isbaraglio. Vinse i Persiani in Egitto, passò a Cipro e costrinse Artaserse alla pace. Fra le condizioni imposte fu, che nessuna nave da guerra persiana avrebbe più veleggiato nel Mare Egeo e nel Mediterraneo. E Pausania intanto, accusato di aspirare al trono di Sparta, a scapito del figlioletto di Leonida, veniva condannato a morte.
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LA DECADENZA DELLA GRECIA
Con l’immenso bottino strappato ai Persiani, Atene risorse più bella dalle sue ceneri. Sotto la guida e il governo di Pericle diventò la più splendida citta della Grecia. Allora per gelosia e rivalità di predominio nacque una guerra tra essa e Sparta. Il territorio dell’Attica è straziato dagli eserciti spartani e le coste del Peloponneso devastate dalla flotta ateniese. Segue in Atene una terribile pestilenza, che miete vittime anche nella famiglia di Pericle. Questi, caduto in disgrazia, è accusato dal popolo di avere mal amministrato i danari dello Stato. Egli ne muore e la guerra fratricida fra Spartani ed Atenie si continua. Infuria la lotta anche in Sicilia dove Annibale attacca le colonie spartane, e in tutte le isole dell’Egeo e nell’Asia Minore. Finalmente lo spartano Lisandro riesce ad affondare, dinanzi alla foce dell’Egospòtamos quasi tutta la flotta ateniese, composta di 180 navi, di cui solo 8 si salvano; assedia Atene, e la occupa e ne smantella i forti, le mura, e le proibisce navi armate, e altre umiliazioni. e le impone un governo dei trenta oligarchi detti “Trenta Tiranni”. Sparta dunque trionfa, ma anche lì, dimenticate le antiche severe leggi di Licurgo, abbandonati i severi costumi dei padri, cominciò una lenta ma progressiva decadenza. I Tebani le si sollevarono contro e con la guida di Pelopida e di Epaminonda le imposero una guerra micidialissima Gli Spartani furono sconfitti a Tegida e a Nasso per terra e per mare, e poi di nuovo sgominati a Léuttra e a Mantinea. Ma neppure Tebe seppe conservare il predominio sui Greci, che le si volsero contro i Focesi. Nuova lotta quindi a sterminio di Spartani, Ateniesi e di altri, e a seguire la guerra fra Tebe e la Focide. Della contesa aprofittò il re Filippo di Macedonia, che, a poco a poco, assediata e distrutta Olinto, occupata l’Eubea e varcate le Termopili, invasa la Focide, e umiliata Atene e Sparta, ridusse ai suoi voleri tutta la Grecia. Vincitore nel 338 a Cheronea egli lasciò ai Greci la facoltà di reggersi sotto un loro governo, ma volle per sé la supremazia religiosa e il comando di tutte le forze militari. Estese poi le sue conquiste fino alla Tracia, all’Illiria, e al Chersoneso, fino al Danubio e all’Adriatico. Meditava una vasta spedizione per terminare il gran duello tra la Grecia e la Persia, la lotta secolare tra l’Europa e l’Asia, quando il pugnale d’una sua guardia gli troncò la vita. Il suo disegno fu ripreso dal giovane figlio Alessandro.
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