SINOSSI DI MITOLOGIA

OC - OL

OCEANINE

o Oceanidi

Ninfe del mare, delle sorgenti e dei ruscelli; figlie di Oceano e di Tetide, erano rappresentate in figura di fanciulle dai lunghi capelli disciolti.

OCEANO

Nella mitologia greca,Titano, figlio di Gea e di Urano è l’unico dei Titani che non partecipò alla lotta contro Zeus. Dio del fiume che circonda la terra, generò con la moglie Tetide tutte le acque del mondo e gli astri che emergono da esso e a esso tramontano.

ODISSEA

Odissea, v. 285-289
E se ancora
qualcuno degli dèi mi schianti
tra i lividi flutti,
ancora nel petto
saldo resistera il mio cuore,
forte di molti dolori.

E’ la storia di Ulisse, figlio di uomini mortali, non di dèi. E’ la storia di un uomo solo a lottare contro la natura ostile, che era di pericolo in pericolo per terre e per mari ignoti e pieni d’insidie, con compagni stolti destinati a perire per loro colpa. E’ la storia di un uomo che desidera ansiosamente ritornare. Sogna la sua casa; ha in cuore l’immagine cara del suo figliolo, della moglie, del vecchio padre, della vecchia madre. Non sa che la madre è già morta; non sa che il suo regale padre s’è ritirato tristissimo a coltivare un podere; non sa che la moglie costantemente viene insidiata. Sogna il suo regno, i sudditi che lo amavano come un padre, ma non sa che ora esso è in mano all’anarchia, che l’ingiustizia trionfa, che la prepotenza è legge.
Il poema si svolge in due grandi drammatici atti:
- La drammatica lotta dell’uomo contro forze avverse della natura. Da una parte c’è l’uomo solo, senz’altro aiuto che la propria intelligenza e il suo coraggio (Atena, dèa amata della sapienza che aiuta Ulisse, simboleggia appunto questa intelligenza e questo coraggio). E’ l’uomo che resiste tenacemente ad ogni sventura, che non si piega mai, che non perde la testa nemmeno nelle situazioni più disperate, ma sempre riflette e ragiona. Dall’altraparte, immenso antagonista, il mare, simboleggiato da Nettuno, l’irriducibile dio ostile ad Ulisse. E’ una lunga impari lotta che vedrà alla fine l’uomo straziato ma vittorioso. Atri pericoli e insidie la natura presenta contro l’uomo: mostri spaventosi come i Ciclopi, i Lestrigoni, Scilla e Cariddi, o insidie sottili come quelle rappresentate dalle lusinghe dei Lotofagi, delle Sirene, di Circe, di Calipso che blandamente cercano di irretire l’uomo, e distoglierlo per sempre dal suo scopo.
Nello splendore del mito l’uomo Ulisse supererà tutti gli ostacoli, e questa lotta vedrà l’uomo vittorioso.
2 - La drammatica lotta dell’uomo Ulisse contro l’ingiustizia. Ulisse rappresenta l’uomo giusto. Egli si salva non solo perché è sapiente, ma perché è giusto. E quando finalmente approda alla sua isola Itaca, e vede il ripugnante spettacolo dell’ingiustizia trionfante dei Proci che hanno preso possesso della sua casa arroganti, superbi, empi, che calpestano ogni legge, che vìolano i sacri diritti dell’ospitalità, che irridono chi è giusto, allora Ulisse appare come il terribile restauratore della giustizia, come l’inesorabile punitore dei malvagi; implacabile giudice si leva minaccioso in mezzo a quella turba di uomini ingiusti,e ne fa strage spietata, salvando solo i pochissimi giusti; è qualche cosa di simile a un giudizio universale. Con questa apoteosi della giustizia si chiude il poema. Ora sarà possibile vivere in pace. L’isola tornerà ad essere operosa, serena, civile, rispettosa degli dèi e degli uomini; perché soltanto nella giustizia vi è pace e civiltà.

  • Note - All’inizio del poema c’è la parola uomo, Il protagonista è un uomo, totalmente uomo come noi, non un figlio degli dèi come l’invincibile Achille, non un beniamino dell’Olimpo. Di multiforme ingegno; la prima qualità di quest’uomo è l’intelligenza e tutto il poema risulta una esaltazione dell’intelligenza umana.
    La seconda che, come ogni uomo è viandante protagonista senza pace; e terza, la ricchezza e la vastità delle sue esperienze consistono in una conoscenza diretta della società umana, dei vari modi con cui gli uomini si organizzano e si governano, dei loro usi e costumi, della loro natura e carattere.
  • OICLE

    Oicle (in greco antico Οἰκλῆς, Oiklès) o Oicleo è un personaggio della mitologia greca, fratello di Amfalce e figlio di Antifate e Zeusippe, a sua volta figlia di Ippocoonte.
    Oicle discendeva dal veggente Melampo ed aveva sposato Ipermnestra (discendente della omonima danaide che aveva sposato Linceo) e da questa unione aveva avuto il veggente Anfiarao (che fu re di Argo e protetto da Apollo) e altre due figlie Ifianira e Polibea[1].
    Con Peleo e Telamone accompagna Eracle nella guerra di Troia.
    (da wikipedia)

    OLIGARCHIA

    Termine con cui veniva designato, presso gli antichi greci, il regime politico con cui il potere si trovava in mano di pochi uomini liberi, dotati di notevole ricchezza. Il loro governo era ritenuto contrario alle leggi perchè escludeva gran parte dei cittadini liberi dal godimento dei diritti politici e comportava normalmente, l’esercizio arbitrario dei pubblici poteri a loro esclusivo beneficio; successe quasi ovunque alle aristocrazie e alle tirannidi. Le oligarchie furono in seguito sostituite dalle democrazie che adottarono (p.es.) in Atene dov’ererano state famose le oligarchie dei quattrocento e quella dei trenta tiranni, misure assai rigorose contro ogni possibilità di degenerazione oligarchica. Nella storia posteriore il termine è stato ed è tuttora impiegato nel linguaggio politico ad indicare un governo o un potere politico, o comunque di rilevanza pubblica nelle mani di pochi, che lo adoperano a proprio beneficio, piuttosto che nell’interesse generale; si parla per esempio di oligarchia economica o finanziaria per indicare la concentrazione del potere nelle mani di pochi capitani d’industria o di poche aziende o grandi finanzieri. Di oligarchia di partito a indicare la posizione preminente e di comando di pochi uomini nell’ambito di un partito.

    OLIMPIA

    Antico centro religioso dell’Elide. Ivi aveva sede il celebre santuario dedicato a Zeus ove si svolgevano i famosi giochi quadriennali (Olimpiadi). Sull’Altis (zona sacra della città), sorgevano gli edifici destinati al culto; tra essi il più antico era l’Heraion, santuario del VII s.a.C., dedicato ad Hera, insieme con i cosiddetti “tesori”, edifici votivi delle città straniere. Il massimo splendore raggiunto l’ebbe con la costruzione, compiuta tra il 470 circa e il 456 a.c., del tempio di Zeus, costruito in calcare marino e conchiglifero, dall’architetto .Libone da Elide, che doveva contenere la statua crisoelefantina del dio, scolpita da Fidia. Di questo tempio si conservano le sculture dei due frontoni, e delle metope, opera di un ignoto autore chiamato appunto Maestro di Olimpia, che sono il più importante complesso di scultura severa, e, insieme al Partenone, il più importante complesso scultoreo di età classica a noi giunto. Nei frontoni sono rappresentati i preparativi della gara di Pelope ed Enomao, per la mano di Ippodamia, e la lotta dei Lapiti e dei Centauri al le nozze di Piritoo. Edifici ed impianti sportivi sorgevano in forme monumentali. Stadi, palestre, ginnasi e ampi portici subirono rifa cimenti anche in età ellenistica. In età romana vi fù una ripresa e un nuovo splendore.; poi,la decadenza. Nel 394 Teodosio I proibì la celebrazione dei giochi e il tempio di Zeus fù bruciato, ma la sua distruzione definitiva avvenne causa i terremoti del VI° secolo.
    (Ritorna Libone)

    OLIMPIADI

    Complesso di gare atletiche che si disputavano ad Olimpia in onore di Zeus, in occasione delle Olimpie, cioè una delle quattro feste agonistiche panelleniche. Le alttre tre erano i giochi Pitici, disputati a Delfi, i giochi Nemei a Nemea, e i giochi Istmici a Corinto.
    La data tradizionale dell’inizio della regolare celebrazione dei giochi è fissata nel 776 a.C; da allora si ripeterono ogni quadriennio per 294 edizioni, lungo un arco di undici secoli, fino al 394 d.C., anno in cui i giochi furono proibiti dall’Imperatore Teodosio I°.
    Per la prima celebrazione dei giochi fu costruito a Olimpia il famoso stadio capace di quasi quarantamila spettatori e dalla cui lun ghezza (192 mt), derivò una delle misure lineari fondamentali dell’antichità; lo “stadio”. Nel 776 fu disputata una sola gara, la corsa a piedi, della lunghezza dello stadio, e vinse Corebo. Nel programma della XIV° Olimpiade,nel 724, figurò per la prima volta la corsa della lunghezza del doppio stadio vinta da Ipeno da Pisa. Alla XV° edizione si corse anche il “dolico”, sulla distanza di ventiquattro stadi di 4608 metri e vinse Acanto di Sparta. Nel 708, comparvero nei giochi il pentathlon ( lotta, salto in lungo, lancio del giavellot to, corsa sulla distanza dello stadio). Onomasto di Smirne fu il primo vincitore delle gare di pugilato nel 688, mentre Pagonda di Tebe, trionfò nella prima corsa a quadriglie disputata nella venticinquesima Olimpiade del 680. Sul finire del VII° secolo il programma delle gare olimpiche era oramai molto ricco.Vi erano comprese anche corse a cavallo, il sollevamento pesi e il pancrazio; (lotta atle tica mista di lotta e pugilato), il limite di età per la partecipazione alle gare più pesanti e brutali era stato abbassato a 17 anni. Insieme con gli atleti si disputavano l’onore della corona d’ulivo selvatico, poeti e oratori. Per la celebrazione dei giochi era oramai tradizio ne infrangibile la sospensione di ogni guerra e di ogni contesa tra i popoli ellenici. L’idea guida dell’oracolo di Delfi (che aveva spin to Ifito, re di Elide a istituire i giochi) di una festa religiosa nazionale che servisse ad esaltare l’unità ellenica in un ideale supremo di civiltà, di coraggio e di agonismo, superando le divisioni e le rivalità delle città Stato, aveva assunto una forza grandissima che influenzò tutte le popolazioni del Mediterraneo, oramai ammesse alle celebrazioni dei giochi, e sopravisse anche al declino dello sport dilettantistico durante l’impero romano. L’indirizzo utilitaristico dato alla pratica sportiva dalla società romana, i ludi gladiatorii, gli spettacoli circensi,sempre più numerosi in tutte le provincie romane e il professionismo esteso anche alle competizioni di atletica, ridussero le Olimpiadi ad una delle tante manifestazioni agonistiche.

  • Note - La Chiesa cattolica dei primi secoli, decisamente avversa alle forme degradate a cui era giunto lo sport, e non dimentica degli ideali pagani che le avevano sostanziate, ottenne la sospensione delle Olimpiadi. Nel 393 l’imperatore Teodosio,per ottenere da S. Ambrogio il perdono per la strage di Tessalonica, proibì lo svolgimento dei giochi olimpici, giunti alla CCXCIV° edizione. Otto anni dopo (384) Teodosio II° faceva distruggere Olimpia. Il fascino delle Olimpiadi non perì; già all’inizio del Medio Evo esse ripresero a suscitare vivo interesse,specie sotto il profilo umanistico. Tuttavia si dovette giungere alla fine del secolo XIX° e ad un alto grado dello sviluppo dello sport moderno, perché lo spirito olimpico potesse essere assunto come strumento per l’universale affermazio ne dello sport dilettantistico. Fu il barone Pierre de Coubertin che promosse la ripresa dello spirito olimpico come principio ispirato re delle Olimpiadi moderne. Studioso di lettere, pedagogo e sociologo, nel de Coubertin maturò l’idea della ripresa olimpica nel pe riodo in cui la missione archeologica tedesca diretta da Ernst Curtius otteneva una serie di clamorosi successi nella zona di Olimpia.
    Dopo un ciclo di conferenze tenute in Francia, Stati Uniti e Inghilterra, il 25 novembre del 1892 il de Coubertin annunciò alla Sorbona che le Olimpiadi sarebbero nate in edizione moderna. Il 23 giugno 1894, a conclusione di un congresso durato sei giorni,e al qua le parteciparono rappresentanti di quindici paesi, venne formalmente proclamata la ripresa delle Olimpiadi. La prima edizione si svolse ad Atene nel 1896 dal 24 marzo al 2 aprile con 285 atleti partecipanti in rappresentanza di quattordici nazioni concorrenti in 42 specialità di dieci diversi sport. A differenza delle Olimpiadi antiche che si svolgevano tutte con assoluta precisione ogni quattro anni, (ritardò di due anni solo la CCXI° edizione per decreto imperiale di Nerone), Le Olimpiadi moderne, per ben tre volte non ebbero luogo. Fu in occasione della VI, della XII° e della XIII° edizione le quali caddero nel corso delle guerre mondiali, e a differenza delle antiche, che si svolgevano sempre ad Olimpia, le moderne cambiano ogni quattro anni la loro sede e, aspetto nuovo delle gare olim piche,la partecipazione delle donne che comparvero ai giochi olimpici per la prima volta nella seconda edizione dell’età, moderna a Parigi nel 1900.
    (Vedi Pelope).
  • OLIMPO

    Il gruppo montuoso più alto della Grecia (m.2918), situato tra la Tessaglia e la Macedonia. La vetta più alta era ritenuta la sede di Giove e degli altri dèi celesti, detti perciò anche olimpii, che abitavano in palazzi costruiti da Efesto (Vulcano per i romani), e circondati da cortine di nubi.Tali dèi celesti, erano in qualche modo opposti alle divinità telluriche, come simbolo dell’ordine cosmico e politico - sociale. Alle falde dell’Olimpo, (Pieria), sorgevano numerose scuole di *aedi (dal greco -,cantore), che cantavano le gesta degli dei e degli eroi accompagnandosi con uno strumento musicale; usualmente la cetra.

  • Note - *Aedo: poeta della grecia antica che viveva nelle corti componendo e cantando ballate epiche; per estensione,vate e poeta.
  • L'Olimpo
  • “L’Olimpo” – Dipinto di Luigi Sabatelli – Palazzo Pitti -.Firenze
  • OLINTO

    Città greca della penisola calcidica presso il golfo di Torone. Invasa dai persiani nel 480 a.C., e ripopolata dai Greci in seguito, la città divenne il centro della Lega Calcidica e rasa al suolo dal macedone re Filippo II°, nonostante gli sforzi di Demostene che, con le sue violentissime orazioni (Olintiache) incitava gli Ateniesi ad intervenire in aiuto della città alleata. Olinto conobbe due periodi di rapida espansione; subito dopo il 479 e il 432, nei quali si sviluppò, secondo una pianta stradale regolare, con arterie principali da Nord a Sud, tagliate da altre minori, molto regolari nelle misure e nei sistemi costruttivi. Scarsi i resti degli edifici monumentali, a parte alcune ville interessanti per i loro mosaici a ciottoli. Sistematicamente scavata dal 1928 al 1938, con importanti risultati specie per la definizione e conoscenza dell’urbanistica del V° s.a.C.

    OM - ON

    OMERO

    Poeta greco fiorito tra il IX° e l’VIII° s.a.C. La sua persona reale è avvolta dalla leggenda; sono incerti il luogo e l’epoca della sua nascita (Smirne ?,Chio ?), e la sua stessa esistenza. Fu rappresentato come cieco, in seguito alla falsa attribuzione di un ”Inno ad Apollo", in cui l’autore si presenta come un cieco di Chio. La tradizione gli ha assegnato la paternità dei due grandi poemi epici; l’Iliade e l’Odissea con cui si inaugura per noi la letteratura greca, e per i quali Omero è ritenuto il padre della poesia occidentale. Ma tale attribuzione, e la stessa unità dei due poemi sono state oggetto di controversie.Omero ci tramandò la memoria del sepolcro d'Ilo (Il.XI° 166. E' celebre nel mondo la povertà e l cecità del sovrano poeta.

    Note - Annota il Foscolo e cita la pittura fattane dal Manzoni nei Versi 188/196 " In morte di Carlo Imbonati":
    "... Nè lodator comprati avea quel sommo
    D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
    Che per la Grecia mendicò cantando:
    Solo d'Ascra venian le fide amiche
    Esulando con esso, e la mal certa
    Con le destre vocali orma reggendo:
    Cui poi tolto alla terra, Argo ad Atene,
    E Rodi e Smirna cittadin contende,
    E patria e' non conosce altra che il cielo..."
  • Nota - Secondo le cognizioni di Omero la terra era ristretta alla superficie di tre antichi continenti ed anche questi alla parte più prossima al bacino del Mediterraneo, ed era circondata dal fiume Oceano.
  • Così da Eschilo; Prometeo:
    ... " l'antico padre Oceano, che con insonne flutto
    tutta cinge la terra".
    E da Catullo carm.XXX:
    - "Oceanusque mari totum qui amplectitur orbem".

    LA QUESTIONE OMERICA

    Il contenuto parzialmente storico dei poemi,ha consentito di metterli in relazione con le scoperte archeologiche, ma i riscontri fra la civiltà ivi cantata, e quella emergente dai reperti di scavo, sono stati variamente interpretati, anche per la mescolanza nei poemi, di aspetti di civiltà cronologicamente diversi. L’ipotesi di un Omero miceneo, cioè di una contemporaneità dei due poemi rispetto al fiorire della civiltà cretese - micenea o alla sua crisi, culminano nell’Asia Minore con la distruzione di Troia. fine del II° millennio a.C. si è rivelata fallace. E’ prevalsa l’opinione che il fulgore della civiltà micenea sia per chi scrisse i poemi omerici un passato favoloso, rievocato e rappresentato con un continuo arcaizzare (donde la contaminazione d’usi remoti e prossimi)..Si è infine legittimamente postulata una diuturna elaborazione epica anteriore alla composizione dei due poemi, la cui redazione non deve essere neppure con temporanea.Tutti questi problemi ed altri di difficile soluzione hanno dato origine alla spinosa“questione omerica”, uno dei temi più dibattuti dalla filosofia. Mentre già nell’età ellenistica (III° - II° s.a.C.). si era affacciata l’ipotesi che il vero Omero fosse autore della sola Iliade, e che l’Odis sea dovesse essere attribuita ad un autore più recente, in età moderna fu sostenuta prima dal francese d’Aubignac, poi, con diversa penetrazione dal Vico,l’opportunità di identificare Omero col popolo greco poetante, cioè con un’idea, ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano cantando le loro storie, convinto che fra l’autore dell’Odissea e quello dell’Iliade, ci fosse un divario di generazioni, non solo per la diversità d’ambiente sociale e di costumi, ma per una sostanziale diversità d’atteggiamento di fronte alla vita. Il Vico negò l’esistenza di Omero, anche in base alla presunzione dell’inesistenza della scrittura nei tempi omerici.Tale opinione dimostratasi poi affatto erronea, ebbe anche Friedrich August Wolfe, considerato l’iniziatore del cosiddetto metodo analitico che, attraverso Hermann Kirchhoff, Lachmann e altri, smontò i due poemi per isolarne o un “nucleo”, o una serie di “piccoli canti” originari, affini per argomento. A tale teoria si opposero i sostenitori della tesi unitaria, la quale esclude che un’opera d’arte potesse mai risultare da rattoppi meccanici. Una soluzione di compromesso è quella di chi distingue l’autore poeta dell’Iliade e quello dell’Odissea (molto più tardo) e ammette interpolazioni e rielaborazioni,anche d’interi canti (il X° dell’Iliade e l’XI° dell’Odissea) nella stesura a noi pervenuta dei due poemi. Un problema non piccolo è quello della composita lingua omerica ove confluiscono e convivono elementi eolici (cronologicamente più antichi, frequenti sopratutto in formule), ionici (grande maggioranza), e attici (più recenti). E’ certo impossibile dedurne una collaborazione di poeti diversi, giacchè le forme disparate si giustappongono nel medesimo verso, e resta l’incognita della formazione (nel luogo e nel tempo) di questa lingua, che appare una lingua d’arte stratificata. Né l’assetto dei versi in nostro possesso è immune da una problematica sottile; i filologi (o grammatici) ellenistici, ordinando in libri e pubblicandoli con rigore critico, sceverando cioè il troppo e il vano, in una congerie di recensioni, resero un servizio prezioso a Omero e ai posteri; ma quanto attendibili siano le loro lezioni e le loro scelte, non è facile dire Mentre da un lato il lavoro analitico non può essere trascurato, si rischia secondandone le conclusioni, di vedersi sfuggire Omero di mano. D’altra parte se ci si pone davanti ai testi superstiti, cercandovi un’emozione unicamente estetica, si rischia di cadere nella faciloneria sentimentale del detto: “Amo Homerum, ergo extat - Amo Omero, dunque esiste” La posizione agnostica è forse quella che la prudenza consiglia.

    Note - Così il Foscolo nei “Dei Sepolcri”
    Epodo: dal verso 279 al verso ultimo 295
    …..Un dì vedrete
    Mendico un cieco errar sotto le vostre
    Antichissime ombre brancolando
    Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
    E interrogarle. Gemerammo gli antri
    Secreti e tutta narrerà la tomba.
    Ilio raso due volte e due risorto
    Splendidamente sulle mute vie
    Per far più bello l’ultimo trofeo
    Ai fatali Pelidi. Il sacro vate
    Placando quelle afflitte alme col canto
    I prenci argivi eternerà per quante
    Abbraccia terre il grand padre Oceano,
    E tu onore di pianti,Ettore,avrai
    Ove fia santo e lagrimato il sangue
    Per la patria versato, e finchè il Sole
    Risplenderà sulle sciagure umane.
  • Note - Seccondo Omero la Terra era ristretta alla superfice di tre antichi continenti, e anche questi alla parte più prossima al bacino del Mediterraneo, ed era circondata dal fiume Oceano.
  • Omero
  • - “Omero” – Busto – Museo Nazionale – Napoli .
  • ONIROMANZIA

    Divinazione per mezzo di sogni, interpretati da appositi indovini. Pratica, universalmente diffusa e istituzionalizzata in forma tipica in quei santuari del mondo antico dove si consultava la divinità dormendo la notte e facendo interpretare il giorno dopo, dai sacerdoti, i sogni che si erano avuti.
    (Vedi INCUBAZIONE)

    ONOMACRITO

    (Onomacritus). - Poeta e profeta orfico di Atene (seconda metà del sec. VI° e primi decennî del sec. V° a. C.). È il più noto rappresentante di quel momento religioso che al tempo di Pisistrato e dei Pisistratidi portò all'inserzione dell'orfismo nella religiosità ufficiale (Vedi Orfismo). Fu redattore dei poemi e oracoli attribuiti a Orfeo e a Museo: del sistema con cui egli compì la redazione ci dà un'idea l'essere stato sorpreso in flagrante falsificazione di un oracolo di Museo e perciò cacciato dalla corte d'Ipparco, figlio di Pisistrato. Più tardi si riconciliò con i Pisistratidi, perché fu con loro alla corte di Persia intorno al 485 a. C. per sollecitare una nuova spedizione contro la Grecia: spedizione ch'egli da par suo incoraggiò con oracoli.
    Sappiamo pure che compose con proprio nome oracoli, poemi, scritti misteriosofici. La tradizione più tarda lo fa uno dei quattro compilatori della redazione pisistratea di Omero: gli si attribuiva anche la falsificazione di un verso dell'Odissea (XI°, 604). Sulle sue teorie sappiamo pochissimo. Una notizia c'informa che egli fu il primo a mettere in relazione i Tebani con Orfeo, nel che si è voluto vedere una delle manifestazioni del sincretismo dell'orfismo con la religione olimpica tradizionale. Rivela l'influenza del pensiero ionico il fatto che egli ponesse all'origine delle cose terra, acqua e fuoco. Nella forma e nella sostanza dei suoi versi è riconoscibile l'efficacia della Teogonia esiodea.(da Treccani)
    Nelle Grazie si evince che nell'opere sue confermasse il numero e i nomi delle Grazie in Aglaia, Eufrosina, Talia.

    OP - OV

    OPI

    Arcaica divinità romana connessa con la ricchezza e l’abbondanza del raccolto. Il calendario registra due sue feste ”Opinconsivia”al 25 agosto e “Opalia” al 19 dicembre. La prima, come dice il suo stesso nome, era comune a Opi e al dio Conso (antica divinità romana campestre o infernale),con cui Opi era in stretta relazione. In Roma erano presenti due santuari, ai quali avevano accesso solo le vestali, ed un sacerdote. I devoti pregavano la dèa stando seduti, e toccando la terra con le mani E’ da lei che deriva il termine opulenza. La grande Opi quindi, è la grande terra pietosa cui gli antichi consacravano il fanciullo deponendolo appena nato.
    (ritorna a Conso)

    OPLITA

    L'oplita (o oplite; in greco antico: Ὁπλίτης, hoplìtes), al plurale opliti, era un soldato della fanteria pesante dell'antica Grecia. L'armatura completa di un oplita "tipo", definita con il termine panoplia, era costituita da un elmo, in greco kranos (famoso il modello corinzio, preferito dalle popolazioni doriche, ma diffusi anche modelli meno protettivi, e al contempo meno limitanti per la vista e l'udito come il calcidico, l'attico e il beotico), da una corazza in lana o lino e cuoio lavorati (linothorax) che proteggeva efficacemente dalle frecce o da delle corazze più elaborate in bronzo (le thorax in epoca arcaica diffuse erano quelle "a campana", più costosi e, inizialmente più rari, i torax "anatomici"), da schinieri in bronzo (molto scomodi, per questo non sempre usati o utilizzati solo sulla più esposta gamba destra, spesso sostituiti da schinieri in cuoio o da un'ocrea), da una corta spada in ferro (xiphos, anche se in età arcaica pre falangitica erano utilizzati molti tipi di lama, inclusi il kopis e la makhaira, in seguito proprie della cavalleria), da una lancia (dory ) ed infine da uno scudo bronzeo rotondo (hoplon) fornito di un passante centrale e di un'impugnatura lungo il bordo (antilabē). In verità era lo scudo che definiva l'oplita, non tutti gli opliti disponevano di una panoplia completa (specie il thorax era molto costoso), ma se utilizzavano lo scudo rotondo hoplon erano opliti. Il termine però può essere talvolta (specie nella Beozia arcaica) anche associata a delle fanterie pesanti armate di scudi a dipylon, simili per molti versi a degli hoplon alleggeriti e ridotti di dimensione, e che, in beozia ("scudo beota") rimasero popolari nei combattimenti a ranghi più aperti.
    Questo tipo di scudo, che consentiva una tenuta molto salda in posizione di difesa contro gli assalitori, costituì un'innovazione decisiva e sembra da mettere in relazione con il sorgere della falange, formazione compatta di combattenti che con gli scudi si coprivano a vicenda.
    L'innovazione consisteva nelle dimensioni dello scudo, che variavano dai 60 cm ai 90 cm, sufficienti a proteggere le parti del corpo più vulnerabili. Inoltre lo scudo era munito di una correggia di cuoio, per permettere anche alle spalle di sostenerne una parte del peso, di un'altra correggia in lino da fasciare sull'avambraccio e da una manopola sul bordo in cui si saldava la mano. Lo scudo non era solo un'arma difensiva, ma permetteva di generare delle spinte utili nel corpo a corpo e negli scontri tra falangi, oltre a menar fendenti in caso di rottura o perdita del dory e dello xiphos.
    Oplita selinuntino
    Il termine oplita indica i soldati di fanteria pesante greca provvisti del caratteristico scudo chiamato oplon, variante argiva dell'aspis.
    A partire dal 1300-1200 a.C. (anche se probabilmente queste innovazioni si generalizzarono solo secoli più tardi, verso il X° o XI° secolo a.c. in Caria e Licia) alcune popolazioni anatoliche iniziarono ad utilizzare, presto imitate nell'Egeo, armature pesanti e ampi scudi, atti a ripararsi adeguatamente dalle armi degli arcieri a cavallo, dei carri da guerra e dalle avverse fanterie. Questi guerrieri iniziarono anche ad utilizzare ben presto lunghe lance, invece di corti giavellotti e lance leggere, sebbene in epoca arcaica (e fino al 600 a.c. circa) gli opliti spesso siano raffigurati sui vasi con giavellotti e spade, ma senza la tipica dory.
    Lo scudo di legno e di vimini che copriva l'intera persona fu sostituito da quello di metallo (anche se i più antichi scudi di tipo hopolon non riscalgno a prima dell'VIII° secolo a.c.), il quale copriva tre quarti del guerriero. Le parti esposte venivano protette con armature specifiche per le gambe, le braccia e la testa. Il complesso di queste armi, compresa la spada, costituiva la panoplia. Essa era meno costosa della dotazione del cavaliere (specie in un territorio, come quello di ampie parti della Grecia, in cui l'allevamento di cavalli era molto costoso per la scarsità di pascoli pianeggianti) e quindi poteva essere posseduta dai cittadini della classe media. Gli opliti spartani erano tenuti ad avere armature tutte uguali (o almeno scudi tutti uguali), mentre nelle altre polis si stabiliva solo il tipo di dotazioni necessarie ed ogni singolo oplita se le procurava in base ai suoi gusti ed alle sue possibilità.
    Gli opliti in battaglia operavano in ranghi serrati costituendo un muro di metallo da cui spuntavano le lunghe lance e tale formazione fu tanto efficace che il ruolo della fanteria leggera, della cavalleria e dei carri da guerra, fu notevolmente ridimensionato in Grecia. La filosofia bellica dell'oplite si basava sulla moderazione e l'aiuto reciproco e non sulle gesta valorose di un eroe, non esistono infatti opliti nei poemi omerici. Altri scudi, come la leggera pelta e il diplyon (poco più leggero dell'hoplon) rimasero comunque in uso, e ai margini del mondo greco, così come in ruoli specializzati, mentre alcune realtà elleniche (Rodi, Creta occidentale, Tessaglia) videro lo sviluppo di fanterie leggere specializzate (arceri, frombolieri, peltasti) o della cavalleria leggera (popolare anche in Sicilia).
    Una delle prime guerre in cui fu utilizzato un numero congruo di opliti (anche montati su carro, ma poi confluiti nella falange) fu quella la guerra lelantina tra Eretria e Calcide (verso la fine del VIII secolo a.c.), soprattutto fu una delle prime occasioni in cui i contingenti di opliti invece di combattere in modo simile a quello degli eroi dell'Iliade formarono, presumibilmente, qualcosa di simile a delle falangi. La guerra lelantina fu una delle poche guerre arcaiche che coinvolse molte polis anche lontane dalla principale zona del "fronte" (per esempio Megara e Corinto) e che si allargò rapidamente anche alle colonie (per esempio determinando il fallimento della colonia di Pitecusa, che era comune tra Eretria e Calcide), diffondendo in tutta la Grecia non solo il modello di oplita, ma anche il combattimento a falangi serrate. Che ebbe una conferma poco dopo, nelle guerre tra Sparta e Messene. In particolare nella seconda guerra messenica (iniziata nel 685 a.c.) i soldati spartani furono inizialmente battuti dagli argivi, alleati dei messeni, che avevano formato un esercito in cui tutti i soldati combattevano uniti in flange con un armamento oplitico (e in particolare con uno scudo hoplon). Sparta fu lesta a copiare questa innovazione (del resto già in corso di attuazione nei suoi ordinamenti militari), superando presto la maestra. Infatti in precedenza (come ben dimostrato dalla pittura vascolare) gli opliti combattevano mescolati agli arceri, oppure in mischie poco organizzate e a ranghi poco serrati (la panopila stessa nacque per difendersi dai dardi e dai colpi alla schiena, anche se funzionò meglio in falange); inoltre in età arcaica gli opliti non sempre combattevano con la lancia, ma erano anche lanciatori di giavellotti, una specializzazione che rimase propria degli opliti "di marina" (celebri quelli ateniesi e siracusani) usati nel combattimento navale (che riuscivano a tirare dardi stando seduti dietro i loro scudi), ma che si perse nei combattimenti terrestri.
    Nei sec. VII°-VI° a.C. gli opliti divennero la forza preponderante negli eserciti di Atene, di Sparta e di altre città greche, e tale struttura militare si diffuse in Occidente sia nelle comunità della Magna Grecia, sia attraverso la società etrusca a Roma, dove furono valorizzati politicamente nella metà del VI° secolo a.C. con la costituzione centuriata di Servio Tullio. In seguito, con il decadere dei regimi aristocratici, gli opliti rimasero il corpo militare per eccellenza, nel quale venivano però arruolati, ormai a spese dello stato, anche cittadini delle classi meno abbienti. Anche nel mondo punico si sviluppò un modello di fanteria oplitica, anche per l'uso diffuso di mercenari ellenici (specie pelenoponnesiaci).
    La struttura militare dell'esercito oplitico venne superata prima dagli eserciti organizzati sempre in falange, macedoni (molto duttili per altro nell'impiego congiunto di fanteria pesante, leggera e cavalleria), e infine dai romani, la cui tecnica militare si era evoluta nella tattica manipolare e poi nelle coorti di fanteria pesante mariane (che però potevano utilizzare tattiche di fanteria leggera utilizzando i giavelloti e la frombola).
    Opliti spartani
    Gli Spartiati consideravano se stessi gli unici veri opliti.

    Oplite
  • Oplite Spartano
    Vinkhuijzen Collection of Military Costume Illustration.
    New York Public Library
  • Infatti i bambini venivano educati alla guerra e all'uso delle armi da una apposita struttura voluta da Licurgo e definita agoghé.
    Tale sistema venne introdotto a Lacedemone intorno al 669 a.C. dopo aver subito una durissima sconfitta ad opera di Argo, precursore dell'utilizzo della falange e la conseguente rivolta messenica. L'ordinamento che ne seguì, l'eunomia, permise l'affermazione, sul piano militare prima e su quello sociale poi, dell'oplita spartano. Gli uguali, “homoioi”, vivevano solo per la guerra e la politica, i lavori umili erano affidati agli iloti.
    Di etnia dorica erano gli unici abitanti della città che detenevano diritti civili e politici, avevano l'obbligo di coltivare l'arte della guerra e, partecipare alla syssitia. Il significato letterale era “comunità dei pasti”: si trattava di pasti comuni ai quali era severamente vietato mancare, tuttavia non erano semplici banchetti, il valore dei sissizi era di natura quasi sacrale, poiché rinsaldava i legami tra gli spartiati. Agli spartiati era vietata qualsiasi forma di attività commerciale a cui si dedicavano i perieci, i quali partecipavano alla guerra al fianco degli opliti spartiati in qualità di opliti leggeri o di membri di altri contingenti, mentre gli iloti, lavoravano la terra degli spartiati, ed erano obbligati a servire i “signori” spartani in guerra accompagnandoli portando loro la panoplia e le vettovaglie (e in rari casi tardivi, venivano armati per la guerra anche come opliti).
    Gli opliti spartani non erano famosi solo per l'addestramento e la disciplina, ma anche per il modo di combattere; soltanto loro, ad esempio, aprivano le ostilità marciando cadenzati al passo della musica dei flauti (i suonatori di flauti, all'interno della società spartana godevano di particolare rispetto) in « "A questo punto le armate avanzarono i primi passi; gli Argivi e gli alleati si spingevano avanti con il cuore in tumulto, fremendo: gli Spartani con fredda disciplina, al suono regolato di molti flautisti, come usa tra loro, non per devozione al dio, ma perché la marcia di avvicinamento proceda misurata e composta, ad evitare lo scompiglio che suole nascere tra le file dei grandi eserciti nella fase di attacco." »

    (Tucidide. La guerra del Peloponneso, Libro 5 paragrafo 60)
    Demarato, rispondendo a Serse I, disse:
    « “E così i Lacedemoni, che ad uno ad uno non sono inferiori in combattimento ad alcun popolo, uniti insieme sono i più valorosi uomini del mondo” » (Erodoto, Storie VII 104 4,5)
    « La vista dei mantelli scarlatti e dei lunghi capelli degli uomini di una falange spartana instillava la paura nell'animo di quasi tutti i nemici » (Senofonte, Repubblica Lacedemone 10.3.8)
    gli stessi ateniesi, soldati di grandissimo valore, non erano esenti da ciò: poiché Cleone, comandante degli ateniesi ad Anfipoli nel 422:
    « “si diede alla fuga non appena vide la “Lambda” scarlatta che brillava sugli scudi degli spartani dall'altra parte della piana” »
    ((Eupoli, F. 359:99))
    Infine, per citare Plutarco:
    « “era uno spettacolo grandioso ed insieme terrificante vederli avanzare, al passo cadenzato dei flauti, senza aprire la minima frattura nello schieramento o provare turbamento nell'animo, calmi e allegri, guidati al pericolo dalla musica.” »
    ((Plutarco, Vita di Licurgo 22.2.3))

    Non deve sorprendere, dunque, che Sparta sia stata, per secoli, l'esempio da seguire e da imitare per ciò che riguardava ogni aspetto della marzialità e della capacità militare.
    Opliti greci
    In Beozia l'oplita praticava il culto del proprio corpo praticando quotidianamente ginnastica e allenamenti che lo preparassero alla guerra. Al contrario degli altri fanti il soldato beota (talvolta) combatteva completamente nudo, cosa che gli permetteva una maggiore elasticità; la panoplia, quindi, consisteva nel paio di stivaletti che gli permettevano una aderenza maggiore in fase di spinta durante lo scontro tra falangi. Dopo le guerre del peloponneso gli opliti beoti furono particolarmente ben addestrati e armati, in particolare il battaglione sacro. Comunque in Beozia erano esistite formazioni d'èlite di fanteria oplitica anche in precedenza, come, in epoca arcaica, gli opliti montati su carro, che raggiungevano il campo di battaglia trasportati da carri per poi scendere e combattere a piedi davanti o sul lato destro dello schieramento.
    Gli altri contingenti al contrario combattevano a piedi scalzi, ma rivestiti della pesante e costosa panoplia.
    Anche ad Atene come a Sparta l'oplita veniva seguito da un attendente chiamato SKENOPHOROS o da un parente più giovane al fine di fare esperienza.
    Opliti ificratei
    Nel IV secolo a.C., durante la Guerra di Corinto, lo stratega ateniese Ificrate riformò l'armamento dei suoi opliti cercando di superare il modello dominante imposto dai continui successi bellici degli spartani. L'oplita ificrateo era armato di una picca più lunga rispetto alla dory tradizionale, un accorgimento molto probabilmente derivato dall'osservazione delle armi in uso presso i soldati d'Egitto che spesso gli strateghi professionisti greci erano chiamati a comandare per conto dei faraoni[1]. Per impugnare quest'arma più lunga, l'oplita necessitava di entrambe le mani, motivo per il quale Ificrate abbandonò l'uso del pesante aspis ed adottò la pelta in uso presso le truppe degli schermagliatori (i peltasti); la corazza venne alleggerita e l'elmo corinzio sostituito con uno di tipo beotico conico, a forma di Pileo. Obiettivo della riforma dell'armamento era mettere le truppe ificratee nella condizione di poter bloccare la carica degli opliti spartani e vanificarne l'urto pesante, tenendo i fanti pesanti nemici a distanza con le lunghe picche per farne poi facile bersaglio agli attacchi rapidi degli arcieri (toxotes) e dei peltasti.
    Opliti macedoni
    La riforma ificratea dell'armamento oplitico fu un passaggio fondamentale verso il successivo sviluppo della falange macedone creata da Filippo II di Macedonia. La falange macedone era composta da 8000 fanti su 16 file con opliti dotati di lance lunghe da 5 a 7 m, a seconda della fila che occupavano.
    (ritorna a Clipeo )

    OPUNTE

    Capitale della Locride è residenza del padre di Patroclo (Iliade)

    ORACOLO

    Comunicazione divina data talvolta in forma ambigua, in luoghi determinati (grotta - bosco - santuario e simili), da persona consacra ta al sacrificio di una divinità determinata e investita di una missione legittima. E’forma di divinazione praticata presso vari popoli antichi. Era considerato oracolo anche il luogo sacro in cui il responso del dio veniva reso. Nella Grecia classica, celebre tra gli altri l’oracolo di Apollo a Delfi, di Zeus a Dodona, di Esculapio ad Epidauro, e in Italia, quello della Sibilla a Cuma.

  • - Note - Aristodemo, re dei Messeni (731 a.C.), combattè contro Sparta; secondo la leggenda sacrificò la propria figlia per ottenere la vittoria promessa dall’oracolo a tali ondizioni. Poi (724), si uccise sulla tomba di lei.ed è argomento della tragedia di Vincenzo Monti; ”Aristodemo”(1786).
  • - Raccolta di oracoli attribuiti alla Sibilla Calidea o Eritrea, si avevano già in età Alessandrina col nome di oracoli Sibillini. E’rimasta una raccolta,formatasi in ambiente giudaico - cristiano in periodi diversi (II° s.a.C.– III° s.d.C.) di violenta polemica contro il paganesimo.
  • ORAZI

    (ORAZI e CURIAZI)

    Protagonisti di un leggendario episodio dell' antica storia romana che sarbbe accaduto durante ilo regno di Tullio Ostilio (VII° s.a.C.) mentre era in corso una guerra tra Roma e Albalonga. Le due città avevano stabilito di far dipendere le sorti della guerra da un combattimento fra tre guerrieri dell'una e dell'altra parte. Al primo scontro caddero uccisi due dei tre campioni romani, i fratelli Orazi. superati dai campioni albani, i tre fratelli Curiazi. Il terzo Orazio però, fingendo di darsi alla fuga, riuscì a distanziare tra loro i tre inseguitori, ad affrontarli separatamente e ad ucciderli ottenendo così la vittoria per Roma. Il vincitore poi uccise la propria sorella, trovata in pianto per la morte di ubno dei tre Curiazi. In epoca augustea erano indicate ancora tracce di questo episodio in alcuni monumenti: una colonna del Foro cui sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi, e, ad Albano Laziale le supposte tombe dei fratelli Orazi.

     Orazi
  • Il giuramento degli Orazi (1784),
    di Jacques-Louis David,
    Museo del Louvre.
  • ORAZIO

    FLACCO QUINTO

    Orazio si dice sacerdote delle Muse: Musarum sacerdos. Poeta latino (Venosa 65 - Roma 8 a.C). Figlio di un liberto, dovette ai sacrifici e alla sagace guida del padre un' educazione letteraria degna di un nobile e una solida formazione morale. A Roma fu scolaro di Orbilio Pupillo; poi ebbe contatti con i circoli epicurei campani, dove ascoltò Filodemo. Recatosi ad Atene, fu sorpreso dagli eventi seguiti alla morte di Cesare e si arruolò tra le file dei tirannicidi, coi quali combattè a Filippi nel 42, comandando una legione col grado di tribuno. La sconfitta dei repubblicani e un infortunio personale (abbandono dello scudo sul campo) ebbero decisive ripercussioni sulla sua vita e sulla sua psicologia. Perduto il poderetto paterno, e ridottosi ad un modesto ufficio di scrivano, Orazio concepì ogni irriducibile avversione oer ogn gesto irrazionale e si sforzò di regolare la propria esistenza secondo i dettami del buon senso, e secondo gli orientamenti dettati dai filosofi, non solo epicurei, ma d'ogni corrente. Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate, a cui si lego di stretta amicizia. Allora Orazio realizzò il sogno di possedere per munifico dono dell'amico un podere in Sabina, luogo d'evasione dalla convulsa vita di Roma; di quest' ultima tuttavia il poeta seguì sempre gli aspetti e i fermenti. Entrato nelle grazie di Augusto, rifiutò gli incarichi ufficiali e preferì gli ozi meditativi dedicati alla filosofia senza pretese, alla lettura, alla poesia. Molte donne passarono nella sua vita, ma egli non ebbe mai, come Catullo, passioni esclusive e sconvolgenti; le figure femminili che trascorrono nella sua lirica con nomi fittizi sono amate talora con intensità, ma sempre con la consapevolezza d'una precarietà di legami, con la cautela d'un autocontrollo ignaro d'abbandoni. Nell'amicizia con Virgilio, Quintilio, Aristio, Mecenate e molti altri fu schietto, ardente, fedele. Facile all'ira, ma, rapido nel deporla; ebbe coscienza della propria grandezza, ma, difronte ai vizi e ai difetti degli altri,ebbe piuttosto comprensiva bonomia che astiosa acrimonia.. L'esercizio della ragione e l'impegnata ricerca dell'atarassia epicurea concorsero a fare di Orazio un uomo apparentemente sereno, ma non si può dire che abbiano assopito le sue inquietudini. Nel libro degli "Epodi o Giambi",ci sono impetuose invettive personali, politiche, letterarie sul lontano modello di Archiloco o d'Ipponatte: c'è ancora l'inquieto palpito dell'animo giovanile che tuttavia già tende a imporsi nel sogno di una distesa concordia conviviale d'amici, mentre le denuncie di macerazioni tendono a placarsi in un distacco esperto e amaro. Nelle "Satire" (18 componimenti in due libri) si rivela già il limpido temperamento oraziano, suscettibile ma bonario, vivacemente demolitore ma incapace d'aggressioni spietate e d'umor nero, sia che il poeta presenti un tacccuino di viaggio, sia che contrapponga senza prosopopea il modelo della sua vita antieroica e piena di difetti, ma conscia e proba, al confuso dibattersi d' una società viziosa, equivoca, irresponsabile sia che enunci i propri assunti letterari discutendo i caratteri del "genere " satirico e i concreti aspetti del suo impegno poetico, sia che sbalzi caratteri immortali, sia che disegni veri e propri mimi con efficaci ambientazioni scengrafiche e con incalzante impiego del dialogo. La liricità d'una poesia scritta senza pretese in un esametro discorsivo assai prossimo al "sermo merus", è data dalla presenza imponente d'un io che offre attraverso mille sfaccettature un'immagine estremamente comunicativa di sè. Un diverso impegno espressivo si manifesta nelle "Odi", 4 libri, dei quali i primi tre pubblicati insieme e l'ultimo scritto e reso noto più tardi. Vi si ravvisano due principali fonti d'ispirazione: quello civile celebrativo e quello conviviale-amoroso. Nel primo è stato colto da taluno, ma erroneamente l'Orazio maggiore ed è l'autore che convertito agli ideali etico-politici augustei, ha preso coscienza della grandezza romana e dei suoi presupposti; ma i toni epico encomiastici sono i meno congeniali. Le memorie sgomentanti delle guerre civili, il terrore del minaccioso tentativo di Cleopatra e Antonio, cedono il posto all'entusiasmo per la vittoria aziaca e per una pace sicura. Nelle prime sei odi del terzo libro, le cosìdette "odi romane", il poeta canta la virtus, e in genere le risorse del principe e del suo popolo, interpretando i disegni dei governanti, esaltando e ammonendo col piglio e la coscienza del vate. L' esaltazione di Roma si compie nel celebre "Carme secolare", un mediocre componimento per coro, scritto nel 17, per l'istituzione dei "ludi" secolari. Nel Libro IV l'intento celebrativo si appunta su imprese particolari dei membri della famiglia imperiale e diiventa adulazione. Di gran lunga più autorevoli appaiono le liriche, in cui il male di vivere è medicato dal "carpe diem", cioè dall'anelito di illuminare di gioia l'attimo che fugge, sottraendolo alla tenebra del mistero e dalla morte, sempre incombente. Queste poesie, ora brillanti, ora spregiudicate, ora percorse dal brivido dell'ignoto, o persino da lugubri rintocchi, ricche ovunque di massime d'equilibrio, sono forse una sola poesia; somigliano alle variazioni di un tema di musica intonato con un nitore che non ha parti nell'antica poesia Molte le esperienze letterarie riconoscibili dalla lirica eolica di Alceo e di Saffo, alla grande lezione di Callimaco e dei poeti nuovi accompagnate da un altissimo rigore formale, dalla perfetta tornitura dei versi e delle strofe dalla sicurezza d'un gesto persino freddo e accademico in apparenza. Nelle Epistole, opera della piena maturità in due libri, è programmaticamente ripreso l'intento d'un anti-lirismo, il gusto già evidente nelle "Satire" della conversazione moralizzante. Ma, nella cornice delle lettere (ciascuna delle epistole è dedicata ad un amico), e nel tono sentenzioso e parenetico si rivela la tipica compresenza d'un istanza razionale e di un' intensa ricchezza sentimentale. Le tre epistole del Libro II hanno carattere letterario. La III° ai Pisoni, è l'Arte Poetica considerata un operetta autonoma, pur essendo un compendio di idee aristoteliche, essa ha avuto in ogni tempo un enorme fortuna.

    "Ab ovo" (Orazio - Arte poetica 147).
    Dall'uovo, cioè dalle prime origini; nel linguaggio comune si suol citare quando qualcuno incomincia a raccontare una storia, molto alla lontana, risalendo magari ad Adamo ed Eva.
    "Carpe diem"- Approfitta del giorno presente.- (Orazio, Odi I, 11, 8)
    Si puo prendere in senso epicureo; oppure in senso buono:
    approfittiamo delle buone occasioni che oggi ci si presentano, senza aspettare quelle future, che forse non verranno.
    "Caveant consules"
    - I consoli stiano attenti.
    Era la formula del decreto con il quale il Senato conferiva al console o ad altri magistrati il potere dittatoriale quando la salvezza dell Stato era in pericolo; provvedimento gravisssimo al quale si ricorse per la prima volta nel 121 contro Caio Gracco, e per l'ultima sul finire della Repubblica, nel 49 a.C., e continuava :
    "ne quid respubblica detrimenti capiat
    (che la Repubblca non riceva danno).
    Generalmente adattando la sentenza ai casi della vita quotidiana, si citano solo le due prime parole, per ddire:
    "Provveda chi è alla testa; chi ha gli onori, si assuma anche gli oneri".
    "Caelo tonantem credimus Iovem Regnare" - (Orazio, Odi, III, 5, 1)
    - Noi abbiamo creduto che Giove regnasse in cielo quando l'abbiamo sentito tuonare. E' una massima che si applica a coloro che diventano religiosi solo quando si trovano in qualche necessità, come si suol dire dei marinai che fanno voti durante la burrasca: promesse da marinaio.
    "Dente lupus, cornu taurus petit" - (Orazio, Satire, I , 1, 52)
    Il lupo assalta con i denti, il toro con le corna.Ossia in questo mondo, ciascuno si difende con i propri mezzi, ed adopera le industrie e le armi fornitegli da natura.
    "Dente superbo" ( Orazio, Satire, 6, 87).
    Con dente sdegnoso. E' una frase figurata in cui il Poeta dipinge lo sdegno col quale il sorcio cittadino mangiava alla mensa frugale del sorcio campagnolo.
    "Dimidium facti, qui coepit, habet" - Orazio, Epist., I, 2, 40)
    Chi comincia (bene) ha già metà dell'opera. Corrisponde al nostro: "Chi ben comincia, è alla metà dell'opera.
    Statua_di_Orazio
  • Statua di Quintus Horatius Flaccus (Orazio Flacco), Venosa (PZ)
    Data 	23 aprile 2008
    Fonte 	Opera propria
    Autore 	D.N.R.
  • ORCO

    Tenebroso regno dei morti; l'oltretomba.

    ORCOMENO

    di Beozia

    Antichissima città della Grecia situata sul lago Copaide, alle pendici del monte Akondion. Fu la principale città della Beozia occidentale sino a quando non si scontrò con la volontà egemonica di Tebe. Distrutta due volte dai Tebani, fu ricostruita da Filippo re di Macedonia. Abbondanti sono i ritrovamenti archeologici, specialmente ceramiche di età neolitica, ma il monumento più famoso è dell’età micenea; una grande tomba a cupola nota a Pausania, come il tesoro di Minia. Le decorazioni della camera funeraria, rosette, spirali ricorrenti e fiori, sono di un raffinato gusto orientale. Restano poderose tracce della cinta muraria (in tecnica poligonale) della città ellenistica che sorgeva in posizione elevata.

    - Note - “Le Grazie” del Foscolo,
    Inno I ”Venere”, dal verso 204 al verso 208:
    …ivi non lunge
    Stà sull’immensa minièa pianura
    La beata Orcomèno, ove il primiero
    Dalle ninfe alternato e da garzoni,
    Amabil Inno udirono le Grazie …"

    - Plutarco asserisce che le pianure d'Orcomeno erano le più spaziose di tutta la Beozia. Più di una cittò in Grecia ebbe tal nome, ma Plutarco nelle "Olimpiche", e Omero nel Catalogo danno a quella di Beozia l'aggiunta di Miniea , da Minia, che regnò in quella condrata, e fu padre d'Orcomèno, che fondò la città. E Pausania nel VI° Libro dice che uno dei più ragguardevoli edifici che vedevasi in essa, era il tempio delle Grazie ,alle quali gli Orcomèni si vantavano di averlo edificato i primi, ancorchè i Lacedemoni contrastassero loro tale onore. E Strabone nel libro IX° dice che Etèocle, figlio del fiume Cefiso dedicasse il primo altare alle Grazie presso il fonte Acidalio: all'onor delle quali, secondo Pausania le fanciulle sacrificavano le chiome prima di andare a marito

    ORE

    Le Ore (o Stagioni; in greco: Ὧραι) sono figure della mitologia greca, figlie di Zeus e di Temi.
    Le Ore erano sorelle delle Moire e venivano considerate le custodi dell'Olimpo.
    In origine erano tre e simboleggiavano il regolare scorrere del tempo nell'alterna vicenda delle stagioni (primavera, estate e autunno fusi insieme, inverno); poi ne fu aggiunta una quarta (allusione all'autunno); in epoca romana finirono col personificare le ore vere e proprie, divenendo 12 e da ultimo 24. Le ore si presentano in duplice aspetto:
    in quanto figlie di Temi (l'Ordine universale) assicuravano il rispetto delle leggi morali;
    in quanto divinità della natura presiedevano al ciclo della vegetazione.
    Questi due aspetti spiegano i loro nomi:
    Eunomia, la Legalità;
    Diche, la Giustizia;
    Irene, la Pace; oppure:
    Tallo, la Fioritura primaverile;
    Auso, il Rigoglio estivo;
    Carpo, la Fruttificazione autunnale.
    Le Ore sorvegliavano le porte della dimora di Zeus sull'Olimpo (le aprivano e le richiudevano disperdendo o accumulando una densa cortina di nuvole), servivano Hera - che avevano allevata -, attaccavano e staccavano i cavalli dal suo cocchio e da quello di Elio; inoltre facevano parte del corteo di Afrodite - insieme con le Cariti - e di Dioniso.
    Gli antichi le rappresentavano come leggiadre fanciulle stringenti nella mano un fiore o una pianticella, immaginandole peraltro brune e invisibili con riferimento alle ore della notte; ma, se si eccettua un presunto matrimonio di Carpo con Zéfiro, non ne fecero le protagoniste di alcuna leggenda. Le onoravano con un culto particolare ad Atene (dove fu loro consacrato un tempio), ad Argo, a Corinto, a Olimpia.
    (da wikipedia)

    - Note - Così il Foscolo:
    "Ore e stagioni
    tinte a vari colori, danzano belle
    per l'aureo lume tuo misuratore
    de' secoli e de' secoli correnti".

    -Il Foscolo ha con Pindaro, Euripide, Teocrito ed altri celebri poeti dette le ore, invece di tempo; le ha cioè personificate, come han fatto tanti classici greci, latini, italiani, inglesi ecc., e com'è dell'indole della poesia le ha immaginate danzanti con mille lusinghe agli occhi suoi, perchè appunto, il tempo avvenire ci si mostra alla fantasia, coi dolci allettamenti di belle speranze.

    Ore
  • Dioniso e le Ore
    (Museo del Louvre)
    (Vedi Temi)
  • OREADI

    Nome generico delle ninfe abitatrici dei monti; distinte talvolta a seconda dei monti in cui hanno sede: peliadi (del Monte Pelio): dittee (di Creta) ecc.
    (Vedi NINFE)

    ORESTE

    Figlio di Agamennone e di Clitemnestra; il suo mito s’impernia sull’uccisione della madre per vendicare la morte del padre; ciò facendo, egli compie un atto di pietà rispetto a questi, ma di empietà rispetto a quella. L’uccisione di Clitennestra porta automaticamente lo scatenarsi delle Furie (Erinni), che perseguitano Oreste, finchè non le placherà una sentenza dell’Aeropago (tribunale ateniese per i delitti di sangue), e l’intervento della dèa Atena. Il poema ciclico, accanto a Oreste pone Pilade, un eroe della Focide, per cui i due sono divenuti simboli di fedeltà nell’amicizia. Altra versione lo vuole perseguitato dalle Furie, ma assolto dal matricidio dagli dèi riunitisi nell’Areopago di Atene. Si reca in Tauride con il cugino Pilade per rapire il simulacro di Artemide, e quale straniero sta per essere sacrificato dalla sorella Ifigenia, sacerdotessa della dèa, ma riconosciuto da lei, si salva e può portare ad Atene la statua.
    (Vedi ESCHILO).

    -Nota - Il caso di coscienza, che per altro ripete una situazione mitica tutt’altro che insolita, ispirò i grandi poeti tragici ateniesi, che rappresentarono l’eroe, combattuto e pur deciso a uccidere la madre, esitante però al compimento materiale dell’atto.
  • - “Scena del mito tragico di Oreste”- Oreste uccide Clitemnestra - Particolare di urna cineraria – II s.a.C. Dipinto su cratere dal pittore dell’Iliumpersisi – Museo Nazionale - Napoli.
  • ORFEO

    Mitico poeta greco figlio della musa Calliope e fratello di Lino, per ragioni religiose (orfismo), gli si attribuiva una grande quantità di poemi di varia epoca e di vari autori. Narra il mito che Orfeo, cantore tracio, col suo canto e il suono della sua lira commoveva le pietre ed aveva preso parte alla spedizione mitica da eroe degli Argonauti. Scese agli Inferi per ritrovare l’amata Euridice, uccisa dal morso di un serpente; qui con i suoi canti conquistò anche le divinità infere, che gli permisero di riportare con sè Euridice dall’Ade, ma a patto che lungo il percorso non si volgesse a guardarla prima di aver raggiunto la superficie della terra. Orfeo non seppe resistere e si voltò non ottemperando a ciò, ed Euridice scompaarve per sempre tornando definitivamente tra i morti. Pellegrino per la Tracia, finì sbranato dalle baccanti; donne invasatte del dio Dioniso (mènadi), che non aveva consentito ad amare, ovvero secondo altra versione, fulminato da Giove mosso a pietà del suo dolore.

    Orfeo
  • -“Orfeo e gli animali”- Mosaico romano – Museo Nazionale - Palermo
    ("Ritorna a Menadi")
  • ORFISMO

    Nome convenzionale moderno dato ad una tendenza religiosa greca che sembra distinguersi, e a volte per una posizione antitetica dagli schemi ideologici e culturali della religione classica dell’antica Grecia; l’orfismo si manifesta infatti in pienezza di forme proprio in epoche post classiche, quando tali schemi vennero gradualmente a mancare. E’difficile definire la sostanza dell’orfismo, sul quale gli studiosi hanno costruito le teorie più disparate, considerando alcuni, come una vera e propria religione importata da paesi stranieri, altri una setta, altri una corrente d’origine greca ma con influssi stranieri, ed altri ancora una tarda formazione dell’ambito culturale greco – mediterraneo - asiaticao. In generale si può affermare che l’orfismo ponesse un particolare accento sulla natura divina dell’uomo e quindi sulla sua immortalità e sopravvivenza ultraterrena, superando così i limiti che la religione classica greca fissava tra gli dèi e gli uomini. Il mito più diffuso a sostegno di questa ideologia narrava come i Titani avessero sbranato e divorato il dio Dioniso fanciullo (detto Zagreus nei testi orfici), e fossero stati per questo delitto inceneriti dal fulmine di Zeus; dalle loro ceneri sarebbe nata l’umanità, composta perciò da una natura titanica e da una natura divina. L’ideologia era sorretta da una prassi sostanzialmente rivolta a far vivere questa vita senza contaminazioni, per poter portare poi integra la propria sostanza divina oltre la morte; da ciò derivano pratiche purificatorie e astensioni rituali tra cui, il divieto di mangiar carne. Le componenti dell’orfismo tradizionale sono:
    1. - una letteratura ”orfica”; poemi composti o rielaborati in epoche diverse da diversi autori, comprendente miti, inni, formule, prescrizioni ec., di cui ci sono giunti i soli titoli e un buon numero di frammenti.
    2. – L’attività degli “orfeotelesti”, ossia, in dovini, guaritori, purificatori, ecc., che.vagavano operando in nome di Orfeo.
    3. – un’ideologia soteriologia e misticheggiante che affiora talvolta in poeti (tra cui Pindaro) e in filosofi (tra cui lo stesso Platone), e può essere riferita all’orfismo sia per la esplicita attribuzione al mitico Orfeo, sia per l’analogia con altri testi orfici.Tutti i documenti e le antiche testimonianze sull’orfismo sono stati raccolti e studiati negli “Orphicorum fragmenta” di Otto Kern (Berlino 1922).
    A questi vanno aggiunte numerose laminette auree funerarie di varia epoca (sec.IV -II a.C. e provenienza (Italia meridionale, Roma, Creta, Farsalo) recanti scritte, istruzioni e formule soteriologiche destinate al morto. La loro natura va considerata orfica, anche se il nome di Orfeo non vi compare mai perché esprimono concetti facilmente inquadrabili nell’orfismo.
    ( Ritorna a Onomacrito)

    ORIONE

    E’ gigante cacciatore bellissimo della mitologia greca, figlio di Posidone e di Curiale, o, secondo altra versione, nato dalla Madre Terra (come tutti i giganti); innamorato dell’Aurora. La tradizione più diffusa lo vuole ucciso da Artemide, ch’egli aveva tentato di violentare; da ciò la sua trasformazione nella costellazione omonima.

    Orione
  • Note - Astronomia - Orione; costellazione a sud dello Zodiaco, sull’equatore celeste; le sue stelle principali sono: Beltegeuse (visibile,fra le più grandi, dal diametro di circa 300 volte quello del Sole; Righel (visibile, doppia), la cui componente gialla è di gr.0.3; Bellatrix (visibile); Delta; Eta; Zeta; di seconda grandezza, a sud delle quali si estende la nebulosa di enormi dimensioni (distante circa 10.000 anni luce), in parte luminosa e in paerte oscura, detta, Testa di Cavallo.
    (Ritorna a Curiale)
  • ORIZIA

    Figlia di Eretteo, re di Atene.
    (Vedi BOREA)

    ORONTE

    (ORODE)

    Guerriero Licio fedele compagno di Enea, ucciso da Mesenzio (Eneide).

    OROPO

    Antica città della Beozia

    ORTRO

    Ortro (anche Otro,Orto; dal greco Ορθρος) è una figura della mitologia greca, fratello di Cerbero, della Chimera e dell'Idra. Secondo le fonti più accreditate è figlio di Tifone ed Echidna. Generò con la madre la Sfinge e il Leone di Nemea.
    Gli si attribuiscono talvolta diverse teste, altre volte un corpo di serpente, ma la descrizione che si usa più spesso è quella di un grosso cane bicefalo con un serpente come coda.
    Ortro era un custode, insieme al pastore Euristeo, della mandria di Gerione. Fu ucciso da Eracle nella sua decima fatica.

    ORTRO
  • Ortro morto ai piedi di Gerione e di Eracle,
    kylix a figure rosse, 510-500 a.C.,
    Staatliche Antikensammlungen - Monaco di Baviera
    (Vedi Sfinge)
    (ritorna a Gerione)
  • OTO

    Oto (in greco antico: Ὦτος, Ôtos) è un personaggio della mitologia greca, un capo epeo di Cillene citato nell'Iliade nel libro XV° il Contrattacco dalle navi (XV,° v. 518-519).
    (Vedi EFESTO)
    (Vedi ALCEO)

    OVIDIO

    Ovidio Nasone, Publio (n.43a.C..- m.18 d.C.). Poeta latino, nato a Sulmona, visse a Roma sino al 8 d.C., quando fu relegato da Augusto a Tomi, sul Mar Nero, forse per essere stato implicato in uno scandalo riguardante Giulia Minore per la composizione ”Dell’Arte di Amare”, elegante didattica amorosa, giudicata immorale dall’Imperatore.
    Sue opere importanti:
    ”Metamorfosi” poema mitologico in 15 libri sulla trasformazione di 246 umani in pietre, animali e piante.
    “Fasti” - Illustrazione in distici eleganti delle feste dell’anno (compiuta in sei libri per i primi sei mesi).
    ”Amore” - Raccolta di elegie.
    ”Eroidi”- Cinque lettere di eroine ai loro amanti.
    ”Tristia” (cinque libri)
    “Epistole dal Ponto" (quattro libri)
    ”Elegie dell’esilio” (inutilmente invocanti il ritorno a Roma).
    All’Arte di amare si ricollegano i
    “Rimedi d’amore”
    Ovidio è di vena poetica esuberante e di gusto alessandrino, efficacissimo nei toni delicati, meno nei tragici.

    Metamorphosi
  • Frontespizio di una edizione della Metamorfosi, datata 1632
    Autore 	Publio Ovidio Nasone
    1ª ed. originale 	ultimato nell'8 d.C.
    Genere 	poema epico
    Lingua originale 	latino
  • NOTE

    1. Dory