LA - LE
LAA
Città rammentata da Omero già situata ad un miglio circa dalla spiaggia ovest del golfo di Laconia. In origine stava sulla vetta d'un monte chiamato Asia, ma posteriormente in un fondo fra tre montagne a nomi Asia, Ilium, Cnacadium.
LABDACO
Padre di Laio, e nonno di Edipo
LADONE
1.) Ladone – Dio fluviale della mitologia greca.
Nella mitologia greca, Ladone è un figlio di Oceano e Teti, citato nella Teogonia da Esiodo; si tratta di un dio fluviale, personificazione del fiume Ladone che scorre in Arcadia e si getta nel fiume Alfeo.
Vari autori gli attribuiscono diverse figlie; le naiadi Dafne e Metope (da sua moglie Stinfalide), Telpusa e Siringa.
(da:mitologia-mythos.blogspot.it/2012/09/ladone.html)
2.) Ladone – Drago della mitologia greca, il guardiano dell’albero dai pomi d’oro nascosto nel giardino delle ninfe Esperidi.
3.) Ladone – fiume del Peloponneso
LAGINA
Antica città dell’Asia Minore nella Caria meridionale; nota per un tempio di Ecate, il cui fregio scolpito è ora conservato nel Museo di Costantinopoli; il tempio risale al II -I s.a.C. Nel fregio sono rappresentate la nascita di Zeus, una scena di alleanza tra le personificazioni di Roma e Stratonica (la città da cui dipendeva il santuario), una battaglia di giganti, un’assemblea delle divinità protettrici della regione. Appare opera di un solo artista ellenistico, sensibile agli influssi sia della scuola di Pergamo, sia di quella di Rodi.
LAIO
Figlio di Labdaco, è re di Tebe e marito di Giocasta, padre di Edipo e di Polinice.
(Vedi EDIPO)
LAOCOONTE
Uno dei più ricchi e nobili troiani, figlio di Priamo e di Ecuba, sacerdote di Apollo o di Nettuno (tempio di Delfo, città della Focide, sede dell’Oracolo). Personaggio della leggenda troiana, la cui vicenda più nota è narrata nell’Eneide (libro II); essendosi opposto all’ingresso del cavallo di legno in Troia, la dèa Minerva fece uscire dal mare due serpenti che lo stritolarono nelle loro spire assieme ai figli.
CENNI SULLA VICENDA:
La tradizione eroica fa cadere la città di Troia, da dieci anni assediata, in mano dei Greci, mediante uno stratagemma. D’accordo con uno dei loro, il falso Sinone greco da Troia (così lo chiama Dante, che lo dice da Troia, per ché in quella città seminò le sue falsità, Finsero i greci di abbandonare l’assedio e se ne partirono lasciando dinanzi alle mura del la città un grosso cavallo di legno (opera dell’astuzia di Ulisse), entro il quale erano nascosti parecchi dei loro guerrieri. Dei tro iani usciti dalla città, stavano discutendo di quel che si dovesse fare del cavallo: chi lo voleva trarre in città, chi invece, temendo una frode, lo voleva bruciare o gettare in mare. Fra questi ultimi, tutto infervorato, era Laocoonte, ricordato da Virgilio nell’Eneide che così si esprime: ...”temo i greci anche se portano doni”, e scagliò la lunga sua lancia con forza ad infiggersi nel ventre ricurvo del cavallo (punta scellerata). Ma ecco si avanza Sinone che dice d’essere sfuggito ai greci suoi compagni, che l’avevano destinato in sacrificio agli dei, ed afferma che il cavallo fu un dono dei Greci alla vergine Minerva, per averla propizia al ritorno. Poco dopo Laocoonte cade con i suoi figli divorato da due serpenti usciti dal mare che si crede inviati da Minerva, per vendicare il colpo di lancia con cui egli aveva, in segno di sprezzo colpito il cavallo. Questo fatto conforta nell’animo dei Troiani il detto di Sinone; si fa una breccia nel muro e il cavallo è introdotto in città. Nella notte il Sinone apre il ventre del cavallo, vi scendono i guerrieri che vi si erano nascosti, aprono le porte della città ai Greci, che con il favore delle tenebre erano ritornati con le navi alla spiaggia sotto le mura, e la città fu presa e data alle fiamme.
- Fu questo:
- L’agguato del caval che fè la porta Ond’uscì de’ Romani il gentil seme.
- (Dante Inf.c. XXV versi 59 / 60 )
Per cui, uscì il fuggiasco Enea, da cui venne poi la prosapia dei Romani (dei Cesari). Questa la tradizione eroica tramandataci da Virgilio, che la raccolse da Stesicoro. Quella distruzione, di cui non si trova cenno in Omero, è posta molto in dubbio dai critici storici. Si opina da molti che Greci e Troiani si accordassero, ed a memoria del fatto, dedicassero un gigantesco cavallo.
LAODAMANTE
Nella mitologia greca, Laodamante ("domatore di popoli/del popolo") è il nome di quattro personaggi:
1.) Un giovane guerriero troiano, figlio di Antenore e di Teano. Nel corso della guerra che vide i Troiani assediati dagli Achei, Laodamante, che combatteva col grado di capitano, venne ucciso da Aiace Telamonio.
2.) Un figlio di Alcinoo e Arete
3.) Un figlio di Ettore e di Andromaca. Ancora fanciullo accompagnò la madre presso la tenda di Achille, allorché Priamo vi si recò per richiedere il corpo di Ettore. La notte della caduta di Troia, Laodamante sopravvisse al fratello, ucciso barbaramente dai vincitori; Neottolemo, infatti, dopo aver imprigionato Andromaca ne affidò il figlio superstite all'amico Eleno, il quale lo crebbe come sua progenie. Alla morte di Neottolemo, Andromaca sposò Eleno e allevò nuovamente il figlio.
4.)Un figlio di Eteocle, re di Tebe. Laodamante divenne re di Tebe dopo Creonte. Secondo alcuni venne ucciso da Alcmeone nel corso della battaglia degli Epigoni, sul fiume Glisas, dopo aver ucciso Egialeo, figlio di Adrasto. In seguito la città cadde in mano dei nemici. Secondo un'altra versione egli riuscì a fuggire la stessa sera della battaglia e si rifugiò in Illiria con una parte dell'esercito tebano.
LAODAMIA
(Se stai cercando l'omonima regina epirota, vedi Deidamia II.)
Figlia di Acàsto, o secondo altre versioni, di Meleagro e di sua moglie Cleopatra (in questa seconda leggenda avrebbe preso il nome di Polidora) e moglie di Protesilao. Quando il marito partì per la guerra di Troia, il giorno stesso delle nozze, si fece modellare una statua a sua immagine per poterla tenere sempre accanto a sé e con essa si coricava ogni sera nel talamo. Quando la flotta greca rimase bloccata ad Aulide nell'attesa dei venti favorevoli, Laodamia inviò una lettera a Protesilao, in cui lo metteva in guardia dagli eroi troiani, in particolar modo da Ettore, quasi presagendo il destino dell'amato.
- (LA)
- « Hectora nescio quem timeo; Paris Hectora dixit ferrea sanguinea bella movere manu; Hectora, quisquis is est, si sum tibi cara, caveto: signatum memori pectore nomen habe! Hunc ubi vitaris, alios vitare memento et multos illic Hectoras esse puta. »
- (IT)
- « Temo un certo Ettore: Paride disse che Ettore
con mano insanguinata conduce guerre spietate.
Guardati da Ettore, chiunque egli sia, se ti sono cara: tieni
impresso questo nome in petto e ricordalo.
E se riesci ad evitarlo, ricordati di evitare gli altri
e considera che lì ci sono molti Ettori. »
(Commento di Laodamia, nella lettera di Protesilao. Ovidio, Eroidi XIII, versi 63-68.)
Venuta a conoscenza della morte del marito, supplicò gli dei di offrire un conforto alla sua disperazione, concedendole di rivederlo un'ultima volta. Gli dei inferi, Plutone e Proserpina, permisero all'anima di Protesilao di risalire dagli Inferi per passare 3 ore con la moglie, incaricando Ermes di ricondurla sulla terra perché animasse il suo simulacro. Parlando con la bocca del simulacro, Protesilao le implorò di seguirlo nell'Aldilà allo scadere delle tre ore pattuite e Laodamia, quando vide il marito morire si pugnalò fra le braccia della statua. Altri sostengono che Acasto, il padre di Laodamia, la costrinse a risposarsi; ma Laodamia disperata trascorreva ogni notte abbracciata alla statua di Protesilao. Finché un giorno un servo, che portava le mele all'altare per il sacrificio mattutino, origliò attraverso lo spiraglio dell'uscio e scorse Laodamia distesa nell'atto di abbracciare qualcuno che suppose essere il suo amante. Subito il servo corse a mettere al corrente Acasto il quale, precipitatosi nella camera da letto della figlia, scoprì la verità.
(da: https://it.wikipedia.org/wiki/Laodamia)
LAUDAMIA (figlia di Bellerofonte)
Laodamia (Λαοδάμεια) è una figura femminile della mitologia greca.
Figlia di Bellerofonte e di Achemone, fu amante di Zeus, dal quale ebbe un figlio, Sarpedonte, da un mortale ebbe altri due figli, Claro e Temone. Per il suo orgoglio fu uccisa da Artemide.
Ancora giovane, Laodamia fu amata da Zeus, e da lui generò un figlio, il piccolo Sarpedonte. Gli zii del bambino, Isandro e Ippoloco, quando egli era ancora un bambino stabilirono di disputare una gara per vedere chi di loro sarebbe salito al trono. Insieme proposero di appendere al petto di un bambino un anello d'oro e di scoccare una freccia attraverso quel difficile bersaglio. Sorse tuttavia una lite a proposito del bambino da utilizzare come vittima; ciascuno di loro infatti reclamò il figlio dell'altro.
Per impedire una lotta fratricida, Laodamia intervenne, offrendosi di legare al collo del figlio Sarpedonte il fatidico anello. Di fronte a questo gesto di puro coraggio, i due fratelli rinunciarono alle loro pretese e affidarono il regno a Sarpedonte, il quale, cresciuto, regnò sul suo popolo associando poi al trono il giovane cugino Glauco, figlio di Ippoloco
Figlia di Bellerofonte e di Achemone, fu amante di Zeus, dal quale ebbe un figlio, Sarpedonte, mentre da un mortale ebbe altri due figli, Claro e Temone. Per il suo orgoglio fu uccisa da Artemide.
(Ritorna a PROTESILAO)
LAOMEDONTE
Re di Troia, figlio di Ilo e padre di Priamo, costruì assieme ad Apollo e Nettuno le mura della città, ma, avendo negata agli dei la mercede pattuita, la città fu colpita da una pestilenza e minacciata da un mostro marino, a cui fu offerta in espiazione la figlia stessa del re, Esione. Questa fu salvata da Ercole; defraudato a sua volta della ricompensa (i cavalli di Zeus), espugna Troia, uccide Laomedonte e i figli di lui tranne Priamo.
LAOTOE
Laotoe era figlia di Alte, re dei Lelegi. Fu moglie, come Ecuba, di Priamo, e divenne madre di Licaone e Polidoro (da non confondere con l'omonimo figlio di Priamo ed Ecuba). Entrambi i suoi figli furono uccisi da Achille nella guerra di Troia: ma mentre il cadavere di Polidoro poté essere onorato con esequie solenni, per Licaone non fu possibile alcuna cerimonia funebre, in quanto il suo assassino ne aveva gettato il corpo nello Scamandro.
LAPITI
Mitico popolo della Tessaglia, noto per la lotta intrapresa vittoriosamente contro i Centauri guidati,da Flegias e Issione. Dopo che questi si ubbriacarono alle nozze del re Piritoo con Ippodamia, tentarono di violentare le loro donne.
LARENZIA
(Acca Larenzia)
Si tratterebbe di una figura semidivina ereditata dagli Etruschi come prostituta protettrice del popolo umile. Secondo la mitologia romana, in una versione citata da Macrobio, dopo aver trascorso una notte di preghiere nel tempio di Eracle, fu compensata dal dio facendole incontrare e sposare un uomo ricchissimo di origine etrusca, Taruzio. Alla morte di quest'ultimo la donna ereditò una grande fortuna che a sua volta donò al popolo romano, che per gratitudine istituì in suo onore le festività dette Accalia o Larentalia, che si svolgevano il 23 del mese di dicembre nei pressi della sua tomba, si dice posta presso il Velabro.
Secondo un'ulteriore versione, citata anche da Lattanzio, Acca Larenzia è moglie del pastore Faustolo, che soccorse i gemelli Romolo e Remo, fondatori di Roma. In questa versione assume anche i nomi di Faula o Fabula, e viene detta "lupa" (termine con il quale i Romani indicavano le prostitute e dal quale viene il termine "lupanare").
Già madre di dodici figli, alla morte di uno di questi, Romolo ne prese il posto ed insieme agli altri diede vita alla confraternita dei cosiddetti Fratres Arvales (Arvali). Acca Larenzia si curò di allattare anche Romolo e Remo, che crebbero, ed una volta venuti a conoscenza della loro origine reale, decisero di vendicarsi: uccisero lo zio usurpatore Amulio, e rimisero sul trono il nonno Numitore legittimo re di Alba Longa. La lupa che allattò Romolo e Remo è, quindi, identificabile con costei, dato che aveva avuto un passato come prostituta.
Altre versioni della leggenda, meno maligne, dicono invece che i gemelli furono salvati da una lupa vera e propria e che il pastore Faustolo, trovatili, li portò alla moglie Acca Larentia, che li allevò.
La tomba di Acca Larenzia veniva indicata nella zona di transizione fra Foro Romano e Palatino, dietro il tempio di Vesta, esattamente dove si vede oggi l'Edicola di Giuturna. Probabilmente si trattava di un sepolcro arcaico, resto dell'antica necropoli che un tempo occupava gran parte della valle del Foro.
LARI
Divinità romane della casa, custodi di ogni famiglia. Dei lari domestici le immagini erano con servate nel larario situato nel vestibolo o accanto al focolare ove si facevano loro offerte in occasione di nascite, passaggi all’età adulta, matrimoni, lutti, liberazione di schiavi, congedo militare, e quindi, oggetto di culto, proteggevano il focolare domestico. In origine divinità rustiche, in onore delle quali si celebravano le ”feste compitali” ; i lari cittadini proteggevano la città Nell’ambito dello Stato agivano i “lari praestites” e in quello del territorio statale i ”lari compitales” , venerati in sacrari situati nei crocicchi detti compita. Chi lasciava il territorio romano si rivolgeva ai “lari - viales” (viaggi - terrestri), o ai “lari marini” (nei viaggi marittimi), e ai “lari militares” (nelle spedizioni belliche).
- Note
- - Dalle tombe uscivano le risposte, dette responsi, perchè date da esseri divinizzati delle anime dei trapassati (Lari), che dimoravano nella casa per proteggerla. E questi dèi e queste anime erano appunto i Lari domestici, da distinguersi dai Lari cittadini che proteggevano la città. Il Foscolo a questo luogo annota: "Manes animae dicuntur melioris meriti quae in corpore nostro Genii dicuntur; corpori renuntiantes, Lemures; cum domos incursionibus infestarent, Larvae; contra si faventes essent, Lares familiares (Apulejo, De deo Socratis)".
- - Da "Dei Sepolcri" di Ugo Foscolo v.v. 97- 100
- ..."Testimonianza a' fasti eran le tombe, Ed are a ' figli; e uscian quidi i responsi De ' domestici Lari, e fu temuto sulla polve degli avi il giuramento: "...
-
- Nell’Impero, il culto dei Lari fu associato a quello del “genio” dell’imperatore.
- Figurato: tornare ai patri lari: tornare in famiglia, in patria.
LARISSA
Città della Grecia settentrionale (Tessaglia). Già nota ad Omero, fu alleata dei Persiani all’epoca delle guerre persiane. poi sottoposta al dominio macedone e più tardi fedele a Roma. Si conosce poco dell’antica città, in quanto l’abitato moderno si trova esattamente sopra l’antico e scavi quindi impossibili. Si ha notizia di vari templi e culti di cui il più importante era il tempio di Atena Poliàs. I reperti archeologici più notevoli sono i resti del teatro (si conservano in parte tre file di gradini) ricordato come uno dei più grandi e belli di tutta la Grecia.
LARVA
All’opposto dei Lari, erano le anime dei malvagi che dopo la morte, erano tormentate e tormentavano i vivi. Forme descritte come spettri spaventosi, come nudi scheletri, fantasmi, ombre.
- Note
- - (Figurato): oramai è ridotto a pura larva;
- è la larva di sé stesso;
- voler larvare di generosità la sua perfidia.
LATONA
Dèa greca (gr. Leto), figlia del titano Ceo, a cui generò Apollo e Artemide (assimilata dai Romani a Diana e come il fratello, armata d’arco, vergine cacciatrice, correva con seguito di ninfe per le selve). Il culto è forse originario della Licia ove sono localizzati alcuni suoi miti. Vari erano i luoghi che venivano messi in rapporto con lei, tappe di una lunga peregrinazione che avrebbe preceduto la nascita dei due divini figli. Il più celebre è l’isola di Delo, che avrebbe visto la nascita di Apollo. Era questa un’isola vagante, che dopo il rifiuto di molte altre terre ed isole, accettò di ospitare la dèa. e fu degnamente ricompensata: ebbe il proprio tempio di Apollo e fu ancorata al mare con fondamenta d’oro. Nell’Asia Minore donde proveniva il suo culto originario, era venerata come protettrice dei sepolcri,e dei giuramenti. Il suo culto era diffuso anche a Roma dove aveva statue sul Palatino e nel tempio della Concordia.
- Note
- - Latona presso a sgravarsi di Apollo fu perseguitata dall'ira gelosa di Giunone, la quale le impediva il partorie avendo posto Marte ed Iride in terra perchè vietassero alle città e ai luoghi tutti di ospitarla. Così errò di luogo in luogo, finchè giunse ad Asterie, isola che poi fu chianata Delo, e quivi ebbe il figlio.
LAURENTO
Laurentum (gr. Λαύρεντον, Strab. et al.; Λωρεντόν) fu una città del Latium vetus, già scomparsa nella tarda età repubblicana.
Situata sulla via Laurentina a 10 miglia romane dal centro di Roma, e a sei miglia dalla vicina Lavinium. La via Severiana la collegava a Ostia. Secondo Plinio i resti della città si trovavano nella sua villa, i cui ruderi oggi si trovano all'interno della tenuta presidenziale di Castel Porziano pur essendone ancora controversa l'esatta ubicazione.
Il suo nome derivava dalla pianta del lauro (Laurus) che prosperava nel suo territorio. Chi era originario di Laurentum si chiamava nell'antica Roma Laurentiius, da cui derivano i nomi moderni di Lorenzo/Lorenza.
Nell'Eneide Enea,dalla sua fuga da Troia, dopo che gli Achei l'avevano conquistata incendiandola, fino al suo approdo nel Lazio, presso l'antica città di Laurento, dove avrebbe dovuto sposare la figlia di Latino, Lavinia, già promessa al re dei Rutuli, che è appunto Turno.
LAURION
Regione greca nell’estremità Sud dell’Attica, celebre nell’antichità per le miniere di piombo argentifero. Le miniere erano perfetta mente organizzate e seguirono nel loro sviluppo le vicissitudini della politica e del commercio ateniese, finchè nel IV° s.a.C., la conquista di Alessandro, con la brusca introduzione in Grecia dei metalli preziosi delle miniere macedoni, non ne segnò la decadenza irrimediabile.
LAUSO
Lauso è l'unico figlio del tiranno etrusco Mezenzio di Caere (o Agylla): in seguito all'esilio del padre, cacciato dai sudditi per la sua condotta crudele, è costretto anch'egli a lasciare la città, nonostante sia un ragazzo molto buono e sensibile, oltre che bello d'aspetto. Il giovane Asture, divenuto re al posto di Mezenzio, riesce a tirare dalla sua tutti gli altri sovrani etruschi, cosicché l'ex tiranno e suo figlio per sottrarsi alla cattura si rifugiano presso Turno, il re dei Rutuli, che nel frattempo ha dichiarato guerra ai troiani di Enea sbarcati nel Lazio. Questi ultimi hanno ottenuto l'appoggio degli Etruschi ostili a Mezenzio, il quale ancora una volta deve così vedersela con gli oppositori interni.
La morte
Nei combattimenti Lauso uccide Abante, uno dei comandanti della flotta troiana, limitandosi per il resto a proteggere da tergo il padre, che in segno di riconoscenza gli dona la corazza e l'elmo predati a un nemico cui egli ha amputato la gamba. Ma il destino è in agguato: Enea affronta in duello Mezenzio, atterrandolo dopo avergli inferto una brutta ferita; vedendo il padre in serio pericolo Lauso si frappone silenziosamente tra lui ed Enea. Mentre Mezenzio si allontana per medicarsi, Lauso fa capire a Enea di voler battersi con lui. Il capo troiano cerca di scoraggiare il giovane ma questi reagisce con un sorriso altezzoso; ciò manda su tutte le furie Enea che fulmineo trafigge Lauso con la spada. Il giovane etrusco si accascia privo di vita al suolo, dopo aver mandato un debole lamento. Vedendolo morto, Enea fa subentrare la commozione alla rabbia, adagia delicatamente Lauso sul suo scudo e lo restituisce al padre. Questi monta allora sul suo cavallo Rebo per vendicare la morte di Lauso, ma Enea abbatte il quadrupede causando il disarcionamento di Mezenzio. Prima di venire ucciso il vecchio chiede come ultimo desiderio quello di poter essere sepolto nella stessa tomba del figlio.
- Ecco il passo virgiliano con l'uccisione del principe etrusco:
-
« Gemette gravemente per amore del caro padre, appena lo vide, Lauso, e lagrime gli rigarono il volto. Qui non tacerò di certo il caso di una dura morte, e le tue gloriose gesta, e te, o giovane memorabile, se pure i posteri accorderanno fede a una così grande impresa. Mezenzio, ritraendo il piede, si allontanava indebolito e impacciato, e cercava di strappare la lancia nemica dallo scudo. Il giovane irruppe e si gettò in mezzo alle armi, e sottentrò alla lama di Enea che già si ergeva con la destra e vibrava il colpo e, facendogli ostacolo, lo trattenne. I compagni lo assecondano con grande clamore, finché il padre s'allontani protetto dal piccolo scudo del figlio, e lanciano dardi, e respingono da lontano il nemico con proiettili. Infuria Enea, e si tiene coperto. Come talvolta precipitano nembi a rovesci di grandine, ed ogni aratore si disperde nei campi, ed ogni contadino e viandante si nasconde al sicuro sotto la ripa d'un fiume o l'arco d'un alto macigno, finché piove sulla terra, per potere, riapparso il sole, impiegar la giornata: così Enea, avvolto di dardi da tutte le parti, sostiene la nube di guerra, aspettando che tutta si scarichi, e grida a Lauso e minaccia Lauso: - Dove corri a morire, e osi oltre le forze? T'insidia incauto l'amore. - Ma quello, ugualmente, esulta, folle; e già al condottiero dardanio crescono crudeli le ire; le Parche raccolgono gli ultimi fili di Lauso: infatti Enea vibra la valida spada sul corpo del giovane, e tutta l'affonda. La punta attraversa lo scudo, leggera arma all'audace, e la tunica, che la madre aveva tessuto con flessibile oro, e colma le pieghe di sangue; allora la vita per l'aria fuggì mesta ai Mani, e abbandonò il corpo. Ma appena l'Anchisiade vide lo sguardo e il volto del morente, il volto pallido in mirabile modo,gemette gravemente, pietoso, e tese la destra, e gli strinse il cuore il pensiero dell'amore paterno. »
(Virgilio, Eneide, X, trad. di Luca Canali)
LATINO
Latino (in latino Lătīnŭs) era il re eponimo dei Latini, l'antico popolo italico pre-romano dell'Italia centrale. Si sposò con Amata, da cui ebbe Lavinia, futura sposa di Enea.
Sulla sua genealogia le tradizioni sono molto intricate e parecchio contraddittorie; tuttavia numerosi mitografi, tra questi soprattutto Virgilio, si sono impegnati a conferire a questo re un carattere indigeno.
Di conseguenza esistono due versioni riguardanti la sua nascita. La cosiddetta versione "ellenizzante" pone comunque diverse ipotesi:
Una lo vuole figlio di Ulisse e della maga Circe;
C'è chi afferma che Latino era non un figlio, ma un nipote di Ulisse, quindi figlio di Telemaco e di Circe;[1]
In altri autori lo si considera figlio di Telegono e Penelope[2],
Secondo una tradizione molto più antica era fratello gemello di Greco, uno dei figli di Zeus e della prima donna, Pandora.
La versione ideata da Virgilio e riportata nell'Eneide fa di Latino un figlio di Fauno, dio locale indigeno, e della dea di Minturno, chiamata Marica.
Ma anche questa tradizione è finita per dare spazio ad un'altra. Secondo la leggenda legata al culto del dio Ercole, Latino era frutto di uno dei suoi amori con una fanciulla del Lazio, a seconda delle versioni:
Palanto, una prigioniera Iperborea che l'eroe aveva ricevuto come ostaggio dal padre di lei. Essa sarebbe l'eponima del colle Palatino.
la moglie del re Fauno, che il dio aveva concesso all'eroe;
la figlia del dio, secondo un'ulteriore versione.
Latino in Ab Urbe Condita
Tito Livio riporta due diverse versioni dell'incontro tra il re Latino ed Enea, avvenuto dopo che gli esuli troiani erano sbarcati nel territorio di Laurentum[3].
Per una ci fu uno scontro con gli abitanti del posto, vinto dai troiani, in seguito al quale il re Latino fece la pace con i troiani. Per un'altra versione, il re Latino, con gli eserciti già schierati, volle sapere dal comandante avversario, chi fossero e quale fosse la loro storia. Venuto a conoscenza della loro identità e della loro storia, pieno di ammirazione, tese la mano ad Enea in segno di pace.
Al patto pubblico, il trattato di alleanza tra il re Latino ed Enea, segue un patto privato, per il quale Latino concede, in moglie ad Enea, sua figlia Lavinia[3].
Il matrimonio tra Enea e Lavinia scatenò la rabbia di Turno, re dei Rutuli, cui, precedentemente lo sbarco dei troiani, era stata promessa Lavinia. Pertanto Turno entrò in guerra contro sia Enea sia Latino contemporaneamente. I Rutuli furono vinti, ma nello scontro il re Latino morì.[4][5]
Latino nelle Antichità romane di Dionigi
Per la versione di Dionigi, il re, Latino già impegnato in una guerra contro i Rutuli, e temendo la forza degli invasori troiani schieratisi alla greca all'apparire dei Latini, dopo aver parlamentato con Enea, gli propose un'alleanza, per la quale i Troiani sarebbero stati alleati dei Latini nella guerra contro i Rutuli, in cambio delle terre necessarie per fondare una propria colonia.[6]
Nel racconto di Dionigi, il re Latino morì due anni dopo l'arrivo di Enea, quattro anni dopo la presa di Troia, prima che si arrivasse allo scontro definitivo con i Rutuli.[7]
Latino nell'Eneide
Secondo l'Eneide di Virgilio, poema che esalta il nuovo Impero Romano e in particolare Augusto, Latino accoglie Enea in fuga da Troia, quando approda sul litorale dell'attuale Lazio (dalla regione deriverebbe pertanto il nome). Per creare un'alleanza con l'eroe troiano gli offre la mano della figlia Lavinia, suscitando il risentimento di Turno, un principe locale, cui la fanciulla era stata promessa in sposa. La causa scatenante della guerra nel Lazio è però l'uccisione di Almone, giovane cortigiano del re, durante una rissa scoppiata tra Latini e Troiani.
LAVINIA
Lavinia (in latino Lāuīnĭa) fu una leggendaria principessa italica del circa 1100 a.C., figlia del re Latino e della regina Amata.
Lavinia da una miniatura del codice De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio
Secondo la tradizione epica latina, Lavinia fu la terza sposa di Enea[1], al quale diede un figlio Silvio, capostipite dei re latini, una serie di leggendari sovrani del Lazio e Alba Longa che, nella mitologia romana, collegano Enea e la fondazione di Roma da parte di Romolo e Remo nel 753 a.C.
- La leggenda
-
« Come quando si colora la rossa porpora con avorio indiano,
o come il rosseggiare di puri gigli, insieme
a tante rose, questi colori la vergine mostrava nel volto »
(Publio Virgilio Marone, Eneide XII 67-69)
Secondo Virgilio e Tito Livio, Lavinia era figlia di Latino, re eponimo dei Latini, antico popolo dell'Italia Centrale, e di Amata, sua moglie.
Inizialmente Lavinia era stata promessa in sposa a Turno, re dei Rutuli. Dopo lo sbarco di Enea nel Lazio, fuggito da Troia in fiamme col padre Anchise e il figlio Ascanio[2] detto anche Iulo, e la protezione accordata dal Re Latino a Enea, Lavinia fu data in sposa al capo troiano per suggellare la nuova alleanza[1]. Re Latino, con l'arrivo di Enea, ruppe i patti precedenti, di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, anche perché suo padre, il dio italico Fauno, gli aveva preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa[senza fonte]. I Troiani fondano una città che chiamano Lavinium, in onore della sposa di Enea[1].
Come scrive Livio, la rottura della promessa coniugale fece scoppiare il conflitto fra i troiani-latini e i rutuli di Turno. La guerra si concluse con la disfatta di Turno, e la vittoria di troiani e latini, i quali però persero in battaglia re Latino. In seguito Turno, alleatosi con gli Etruschi di Mezenzio, re di Caere, scese di nuovo in guerra contro i latini, i quali vinsero ancora una volta i nemici[3].
Secondo Virgilio, invece, Latino fu costretto dai suoi sudditi a schierarsi con Turno contro Enea dopo l'uccisione di un suo cortigiano, il giovane e grintoso Almone; ma non intervenne personalmente nei combattimenti.[4]
Dopo la morte di Enea, Lavinia continuò a regnare su Lavinio e sui latini[5]. Essendo poi sorti contrasti col figliastro Ascanio, si rifugiò prima in un bosco, poi nella capanna del pastore Tirro (il padre di Almone), dove diede alla luce Silvio, capostipite dei re di Roma. Qualche tempo dopo, Ascanio, che era malvisto dal popolo per l'atteggiamento ostile verso la matrigna, si riconciliò con Lavinia cedendole la città di Lavinio, e fondò per sé una nuova città, sui Colli Albani, che fu chiamata Alba Longa. Silvio, figlio di Enea e Lavinia, succedette al fratellastro Ascanio come re di Alba Longa.
Da Iulo, figlio di Enea e Creusa, la tradizione romana fa discendere la gens Iulia, che portava il cognomen "Caesar", alla quale apparteneva Gaio Giulio Cesare considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della storia. La ricerca storica moderna sembra riconoscere un qualche fondamento a questa discendenza. Numerosi storici fra i quali Massimo Pallottino (in Le Origini di Roma), sostengono, sulla base di studi linguistici, che la gens Iulia sia effettivamente originaria del sito di Alba Longa. I suoi nobili esponenti, da sempre annoverati fra i patrizi, si sarebbero insediati a Roma in periodo monarchico, secondo un'usanza seguita da altre famose gentes patrizie.
Fonti
Le più autorevoli fonti che ci tramandano le sue vicende sono Ab Urbe condita, opera storica di Tito Livio, e l'Eneide poema epico di Publio Virgilio Marone in cui Lavinia compare solo marginalmente nei libri VI, VII, XI e XII, pur avendo tanta parte, come causa involontaria, nel susseguirsi degli eventi. Il mito è narrato anche da Marco Porcio Catone detto il Censore, nelle Origines, e da Dionigi di Alicarnasso.
LAVINIO
Antica città del Lazio, a 40 km da Roma, dove oggi è il centro di Pratica di Mare. La sua importanza è dovuta al suo carattere di centro religioso, e al ruolo che ebbe nella leggenda troiana delle origini di Roma, secondo cui fu fondata da Enea e così chiamata dal nome della moglie Lavinia, figlia del re Latino. I supremi magistrati romani sacrificavano ai penati e a Vesta in Lavinia quando assumevano o deponevano la carica..
LEARCO
Learco nella mitologia greca era figlio di Atamante e di Ino.
La sua storia fa parte del ciclo di Tebe narrata per esempio nelle Metamorfosi di Ovidio. Fu ucciso ancora fanciullo dal padre che era stato fatto impazzire da Giunone come punizione di aver accolto e allevato Bacco, figlio illegittimo di Zeus avuto dalla sorella di Ino, Semele.
Il padre, accecato dalla pazzia, scambiò il piccolo Learco per un leoncino (o secondo altre versioni per un cerbiatto) e lo uccise, mentre la madre si gettò da una rupe con l'altro figlio Melicerte. Ovidio insiste su alcuni particolari patetici della sua storia, come quello che il bambino aveva spontaneamente allungato le braccia verso il padre per abbracciarlo, non sapendo che egli era impazzito e voleva ucciderlo.
Dante cita la sua storia come esempio di pazzia in Inf. XXX, 7-12.
(da: Wikipedia Learco)
- Inferno Canto trentesimo
-
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano, ............6
gridò: "Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco";
e poi distese i dispietati artigli, ...............9
prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco. ........12
LEBES
plurale LEBETE
Conca, bacino di rame, bronzo, talvolta in terracotta, o argilla, variamente decorato, usato dagli antichi greci ed etruschi per riscaldare e mantenere calda l’acqua, specie per le abluzioni rituali.
LEOCARES
Scultore greco (IV s.a.C.) Autore del “Apollo del Belvedere ”
(vedi Apollo del Belvedere)
LEANDRO
LEBENA
Antica città dell’isola di Creta sulla costa meridionale, nel luogo dell’odierna Lentas. Scavi italiani dal 1900 al 1910 misero in luce la città ellenistico - romana con un grande santuario ad Asclepio; scavi Greci posteriori hanno rivelato una città minoica finora sconosciuta, con tombe intatte che hanno sollecitato importanti deduzioni relative alla cronologia e a problemi architettonici
LEDA
Mitica eroina greca, figlia di Testio, re dell’Etolia, e moglie di Tindaro, re di Sparta. Zeus si unì a lei sotto forma di cigno e la rese madre di due gemelli: Castore e Polluce, detti i Dioscuri e di Elena, tutti usciti da un uovo. Un’altra versione vuole Elena e Polluce figli di Zeus nati dall’uovo, mentre Castore e Clitemnestra sarebbero figli di Tindaro.
- - Dei Sepolcri del Foscolo i versi:
- "...perché di mirti ombrato
- al pescator era lavacro al bel corpo di Leda
- e della sua figlia divina (Elena)
- Per quanto riguarda l'attribuzione Berenson ritenne l'opera oggi fiorentina come autografa leonardesca, ma la critica odierna converge invece sull'opera di allievi, forse Francesco Melzi (Hoogewerff, 1952), con una possibile collaborazione di Joos van Cleve per il paesaggio. La datazione è in genere assegnata alla fine del soggiorno milanese del Melzi, prima della partenza col maestro in Francia.
LEMNO
Isola dell’Egeo settentrionale a 50 km dalla costa turca, in cui fiorì nell’età del bronzo una splendida civiltà connessa con quelle di Troia e di Lesbo. Per gli storici greci (Erodono e Tucidite) era abitata dai Tirreni o Pelasgi, che, secondo alcuni studiosi, sono da mettersi in rapporto con gli Etruschi, per quello che si può dedurre dall’iscrizione di una stele di Kaminia. Due erano le città di Lemno: Marina ed Efestia, che pagavano tributo ad Atene.
- Note
- - Nel 1937/1939 è stato messo in luce il Kabirion, santuario di età tirrenica, sede di culti misterici.
LEONIDA
LEONIDA
Nome di due re di Sparta della famiglia degli Agiati, dei quali è il più famoso il primo,figlio di Anassandrida e fratello di Cleomene I°, al quale succedette nel 488 a.C., circa. Per la difesa del passo delle Termopili contro i Persiani di Serse, trovò morte gloriosa assieme ai suoi trecento eroici guerrieri nel 480 a.C.. Il secondo Leonida succedette ad Atreo II° nel 248 a.C. e regnò con una burrascosa parente si fino al 235.
LEONIDA di Taranto
Poeta greco di epigrammi (IV° - III° s.a.C.Visse ramingo e povero, diede suggestiva espressione alla grama, monotona vita degli umili (pescatori, pastori, artigiani, filatrici, flautiste), e ne pianse la squallida morte. La sua poesia, a torto accusata di convenzionalismo, e di retorica, alterna toni di malinconico idillio a un cupo pathos drammatico, ed è tutta percorsa dal sentimento della desolata sorte dell’uomo.
LESBO
Lesbo era una colonia eolica, colonizzata nel II° millennio a.C.; fu divisa in vari stati oligarchici (tra i sovrani ricordiamo Melancro, Mirsilo, Pittaco). Lesbo fu famosa nell'antichità soprattutto per la sua intensa attività culturale; nel VII° sec. a.C. diede i natali a due tra i maggiori esponenti della lirica greca arcaica: Alceo e Saffo. A quell'epoca i principali centri di creazione e propagazione della cultura erano circoli culturali, chiamati Eterìe (quelli frequentati dagli uomini) oppure Tiasi (quelli frequentati dalle donne), nei quali poeti e scrittori, tutti provenienti da famiglie facoltose, si riunivano per discutere riguardo temi comuni ed esprimere liberamente la loro vena creativa.
All'interno di questi circoli elitari, frequentati solo dai loro membri, si respirava un clima di forte armonia e di spiccato senso dell'indipendenza della figura del poeta e della sua superiorità su coloro che non esercitavano l'arte della letteratura. Tanto erano forti i legami che esistevano tra i membri (soprattutto nei, nei quali le ragazze venivano preparate a diventare future mogli), che, a quanto pare, era diffusa già nell'antichità la credenza (supportata, forse, da Anacreonte) che, all'interno del tiaso, le ragazze consumassero rapporti iniziatici di natura sessuale con le insegnanti; da ciò, il termine "lesbica".
I principali centri dell'isola furono Mitilene, Metimna (Mithymna), Ereso, Pirra e Arisba.
Durante il Medioevo l'isola appartenne all'Impero bizantino. Nell'803 l'imperatrice Irene d'Atene, prima donna ad aver governato da sola l'Impero bizantino, vi fu esiliata e, per sopravvivere e potersi mantenere, dovette adattarsi a filare la lana. Morì nell'isola, ma fu sepolta, quale imperatrice che era, nella Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli.
Dopo l'aggressione veneziana durante la Quarta Crociata (1202-1204), l'isola passò a far parte del neocostituito Impero latino, ma fu riconquistata dai Bizantini nel 1247. Nel 1355 essa fu assegnata alla famiglia genovese Gattilusi per ragioni economiche e politiche. L'isola fu conquistata dall'Impero ottomano nel 1462 e cambiò il suo nome in Midilli, fino al 1912, quando fu presa dalle forze greche nel corso della Prima guerra balcanica. Nell'isola nacque il famoso corsaro e ammiraglio ottomano Aruj Barbarossa, Sultano di Algeri.
Le città di Mitilene e Metimna sono diocesi fin dal V° secolo.
Dimora del mitico Màcare, figlio del re dei venti Eolo (Iliade)
(da wikipedia)
LESTRIGONI
Popolo di giganti antropofagi che nell’Odissea (libro X), guidati dal re Antifate, distruggono le navi dei compagni di Ulisse; forse abitanti la Sicilia presso il luogo della odierna Lentini.
LETE
Uno dei fiumi inferni, passato il quale i morti scordavano la vita trascorsa; è dunque il fiume che significa la dimenticanza.
- Note
- - Dante lo pone in cima al Purgatorio.
LETO
o Latona
(in greco antico: Λητώ, Lētṑ) è una figura della mitologia greca.
Figlia dei titani Febe e Ceo,[1] possedeva i poteri del progresso tecnologico, vegliando sulla tecnologia e sui fabbri.
I suoi poteri erano molto simili a quelli di Efesto (Vulcano). Generò da Zeus i gemelli Apollo e Artemide cacciatrice, personificazione della luna identificabile anche in Selene ed Ecate. La mitologia spesso accosta il nome di Latona al continente originario degli Iperborei, popolo nordico emigrato in diverse ondate dalle zone artiche fino all'Europa e all'Asia.
Esiodo narra che Zeus - che pure l'amava, ma temeva le ire e la gelosia della moglie Era - allontanò da sé Latona poco prima che essa partorisse. Nessuno voleva darle ospitalità, temendo le ritorsioni di Era; così Latona, inseguita dal serpente Pitone, vagando attraverso il Mar Egeo, trovò rifugio presso l'isola egea di Ortigia (Delo), dove nacquero Artemide e Apollo. I figli di Latona in seguito uccisero il serpente, sul monte Parnaso, per vendicarsi delle sofferenze inflitte alla madre.
Leggermente diversa la versione fornita da Ovidio, secondo cui fu Orione, accorso in difesa di Latona, ad avere la peggio, morendo, in uno scontro con Scorpione, avverso alla dea. Resta il fatto che, partoriti Apollo e Diana, Latona in segno di gratitudine fissò l'isola a quattro pilastri emergenti dal fondo marino per darle stabilità.
Dediche
Gli asteroidi 68 Leto e 639 Latona prendono il loro nome da questo personaggio.
LEUCOSIA
Il nome di una delle tre Sirene
(Vedi Sirena)
LEUCOTEA
Ino traformata da Era in divinità marina, salvò Ulisse. Dai Romani. identificata poi con la Mater Matuta.
Leucotea (in greco antico: Λευκοθέα, Leukothéa; letteralmente "Dea bianca", da intendersi, forse, come "La dea che corre sulla bianca spuma") è una dea marina dell'antica Grecia, già in antichità identificata con Ino
(Vedi INO)
- (cfr. Odissea, V, 333:
- «Lo scorse allora la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie, Leucotea, che era mortale un tempo, con voce umana e ora tra i gorghi del mare ha in sorte onori divini»).
La più antica attestazione giunta a noi del culto di Leucotea è una stele in marmo rinvenuta a Larissa, risalente al III° secolo a.C. e conservata all'Athanasakeion Archaeological Museum di Volos.
LEUCOTOE
Figlia del re di Babilonia Orcano, amata da Apollo, e sepolta viva dal padre per punirla del suo fallo. Da Apollo trasformata nell’albero dell’incenso.
Leucotoe (latino: Leucǒthǒē) è un personaggio presente nel IV Libro delle Metamorfosi del poeta latino Ovidio. È, nella narrazione di Ovidio, figlia di Orcamo il re achemenide, settimo discendente di Belo e padre di Leucotoe.
Il mito
La vicenda narrata da Ovidio si avvia con gli amori adulteri tra il dio virile della guerra, Marte (Ares), e Venere (Afrodite), la dea compagna di Vulcano (Efesto) questo figlio per partenogenesi di Giunone (Hera) [1].
Sol (Helios), il dio Sole che tutto vede, scorge il divino adulterio e lo denuncia al figlio di Giunone, il legittimo consorte di Venere il quale, maestro e divino artigiano di ingegno, predispone una rete di lacci per incatenare sul letto i due amanti esibendoli in questo modo all'intero consesso degli dèi e quindi al pubblico ludibrio.
Venere infuriata intende vendicarsi di Sol e, in qualità di divina potenza dell'Amore, lo induce ad appassionarsi perdutamente di Leucotoe, la bellissima vergine figlia di Orcamo e di Eurinome.
Sol, perdutamente innamorato della figlia di Orcamo e di Eurinome, prende le forme di quest'ultima e si introduce nel talamo di Leucotoe invitando le ancelle ad allontanarsi e quindi, mostrando il suo divino splendore, induce Leucotoe a subire violenza senza protestare.
La ninfa Clizia, già perdutamente innamorata di Sol, osserva gelosa la vicenda e denuncia al padre Orcomeno la figlia Leucotoe, il quale, per punirla, si decide a seppellirla viva nonostante ella protestasse la subita violenza.
A nulla occorre l'intervento del Dio quando Leucotoe lo invoca con le mani tese al cielo, disperde la terra dal volto della fanciulla, ma invano. Nulla di più terribile vide Sol, racconta Ovidio, dal rogo di Fetonte. Così si decide a cospargerne il corpo di aromi divini e tali operarono finché dalla zolla di terra sorse la pianta dell'incenso.
Lo scrittore latino Igino[2] inserisce tra gli argonauti Tersanone, figlio di Sol e Leucotoe, proveniente dall'isola di Andro.
(da: Wikipedia_Leucotee)
LI - LU
LIBERO
Dio romano il cui culto fu introdotto ufficialmente, secondo la tradizione, nell’anno 495 a.C., assieme a quello di Cerere, e di Libera (sua sposa). La festa cadeva il 17 marzo, detta Liberalia, quando i giovani che avevano compiuto i 15 anni, indossavano la toga virile o libera, passando così nel numero degli adulti. In questo stesso giorno, vecchie donne incoronate d’edera, sedevano per le vie della città, intente a cuocere e a vendere certe focacce a chi volesse offrirle a Libero, che nella interpretazione romana presto si fuse con il dio greco Dioniso.
LIBIA
CENNI STORICI
– Solo alla fine del secolo XIX, ad opera di studiosi italiani, il nome Libia è ritornato nell’uso ad indicare il terri torio compreso tra la Tunisia e l’Egitto, cioè la Tripolitania e la Cirenaica, che hanno avuto per secoli uno sviluppo storico indipen dente. Abitate entrambe fin dai tempi preistorici, le due regioni sono entrate successivamente nell’orbita dei Fenici (la Tripolitania) dei Greci (la Cirenaica) che fra VIII° e il VI° secolo vi fondarono Cirene, Barce, Euesperide (oggi Bengasi),Teuchira.ecc.Mentre la Tripolitania restava nell’orbita della supremazia Cartaginese, per passare dopo la seconda guerra punica sotto il dominio del re di Numidia e infine, verso la metà del I° se.a.C., sotto il controllo romano. La Cirenaica cadeva, verso la fine del VI° sec.a.C., sotto l’in fluenza persiana e quindi, dopo la creazione dell’impero di Alessandro Magno, sotto quella del regno ellenistico di Egitto. Nel 75 a. C., i Romani, ai quali Tolomeo Apione l’aveva lasciata per testamento, ne presero possesso, organizzando la nuova provincia di Creta e Cirene. Poco dopo (46 a.C.), la Tripolitania venne organizzata nella provincia d’Africa. Durante la dominazione romana, che non penetrò mai in profondità nelle due regioni, queste ebbero momenti di prosperità particolarmente sotto gli Antonini. Nell'interno, vivevano sempre tribù indigene in assoluta libertà (berberi) bellicosissime che poco dopo la conquista vandala della Tripolitania (455), inflissero fra il 484 e il 496 gravi sconfitte agli invasori. Con Giustiniano le zone costiere della Tripolitania ritornarono sotto il dominio di Roma, ma per breve tempo. Nel 642 - 643, la Cirenaica, e tra il 669 e il 675 la Tripolitania furono conquistate dagli Arabi e da quel momento vennero sottratte definitivamente all’influsso della civiltà occidentale.
LIBONE
Architetto greco –
(Vedi Olimpia)
LIBURNIA
Regione dell’Illiria (oggi detta Croazia) e Liburni gli abitanti. Note - Liburnia era detta un’antica nave in legno di forma allungata munita di uno o due ordini di remi, i Viburni (popolo dell’Illiria) usavano questo scafo leggero, manovriero e veloce per le loro scorrerie contro le coste adriatiche e ioniche. Copiata dai romani e molto diffusa, fu adoperata con successo da Ottaviano nella battaglia di Azio, contro la flotta di Antonio e Cleopatra. Col tempo divennero anche navi da trasporto, diverse per forma e grandezza dal tipo originario.
LICAONE
Re dell’Arcadia; padre di Callisto.
LICIA
Antica regione dell’Asia Minore corrispondente alla zona bagnata dal Mar di Lervante, traversata dal fiume Xanto.
CENNI STORICI:
Antica regione dell’Asia Minore, corrispondente alla zona bagnata dal mar di Lervante, tra il golfo di Macrì e il golfo di Adalia, traversata dal fiume Xanto (odierno Escen), occupata in gran parte dalla catena del Tauro (elevazione fino a 3.200 metri). Nell’antichità, confederazione di 23 città. con capitale Xanto, passata nel 545 a.C., sotto sovranità persiana, quindi sotto Alessandro il Macedone; dal 277 sotto i Tolomei e, dal 43 a.C., sotto i Romani come parte della provincia della Panfilia.
LICOMEDE
Re dei Dolopi a Shiro, padre di Deidamia, nascose Achille, inviatogli da Teti perché non partecipasse alla guerra di Troia.
LICOS
Lico (in greco antico: Λύκος) è una figura della mitologia greca, figlio di Poseidone.
Fu esiliato assieme al fratello Nitteo per l'uccisione di Flegia, il figlio di Ares. Si stabilirono a Tebe, dove Lico divenne re e sposò Dirce.
Da re accolse sua nipote Antiope, cacciata da Nitteo, ma la trattò al pari di una schiava. Quando Antiope diede alla luce due gemelli, Anfione e Zeto, Lico ordinò di abbandonarli sul monte Citerone, affinché morissero. I neonati furono trovati casualmente da un pastore, che li allevò come figli.
Nel frattempo la moglie di Lico, Dirce, trattò Antiope ancor più crudelmente, costringendola alla fuga. Trovò rifugio presso i figli abbandonati che, divenuti adulti, vendicarono la madre, uccidendo Lico e facendo trascinare Dirce da un bue.
I due gemelli si impossessarono del regno tebano e costruirono una nuova città ai piedi della Cadmea.
Lico ebbe un figlio anch'egli chiamato Lico.
(da wikipedia)
LICURGO
Antichissimo e probabilmente leggendario legislatore spartano, al quale, secondo tradizione. era attribuito l’antico ordinamento di Sparta. Le notizie sulla sua persona e sulla sua vita sono quanto mai incerte. Si dice che sia stato re o tutore di re, contemporaneo dell’invasione dorica (XII° secolo a.C.); secondo Aristotele, fondatore dei giochi olimpici (776 a.C.), e che abbia viaggiato in Creta, in Egitto, nella Ionia, fino in Spagna e India, e che le sue leggi le siano state date dall’oracolo di Delfi o che le abbia desunte egli stesso dalle leggi cretesi e che si sia suicidato a Cirra o a Creta dopo aver fatto giurare agli spartani che le avrebbero osservate fino al suo ritorno.
Altri personaggi greci portarono il nome di Licurgo; fra di essi uno fu oratore e uomo politico ateniese (IV° s.a.C.), che rinnovò l’aspetto edilizio della città e assieme a Demostene lottò contro l’egemonia spartana. Di lui ci rimane l’orazione “Contro Leocrate”.
Con tale nome si chiamò anche un re di Sparta della fine del III° s.a.C., (pare che abbia regnato dal 219 al 212), discendente di una linea collaterale degli Euripontidi. Fu un deciso avversario dei macedoni, ma non riuscì ad impedire l’avanzata di Filippo V di Macedonia, dal quale venne sconfitto anche presso Sparta. Dopo la pace di Naupatto (217), liberatosi del collega Agesipoli, conservò il regno consolidando anche notevolmente la sua posizione interna.
LIDIA
Antica Regione dell’Asia Minore sul Mar Egeo, confinante con la Misia al Nord, con la Frigia ad Est,e con la Caria a Sud. Al momento della sua massima estensione, verso la metà del VI° s.a.C., nei suoi confini rientrava quasi tutta la Ionia, con l’isola di Chio, esclusa soltanto Mileto; capitale fu Sardi. Dei suoi abitanti, i Lidi, poco si sà e del periodo di maggior splendore degli imperi sumeri, ittita e frigio. Secondo Erodoto, gli Etruschi sarebbero stati dei Lidi emigrati nell’Italia centrale: ipotesi di cui è parso di trovare comunanza in alcuni elementi linguistici. Comunque sembra certo che una dinastia indigena detta degli Eraclidi, cioè discendente di Eracle, abbia regnato sulla regione tra il XII° e il VII° s.a.C. Secondo la tradizione, l’ultimo sovrano di questa dinastia Candaule sarebbe stato ucciso da Gige, intorno al 687, dando così inizio alla nuova dinastia dei Mermnadi. Questi attuarono una energica politica di espansione territoriale combattendo contro i greci della Ionia e contro i Cimeri. All’inizio del VI° secolo divamparono aspre guerre contro i Medi, finchè un trattato stipulato intorno al 585, stabilì che il fiume Halis, avrebbe segnato il confine tra i due Stati.
Sotto il re Creso (560 – 546) raggiunse il massimo della potenza e dello splendore, di cui è rimasto il ricordo nelle leggende greche, che esaltavano la ricchezza e il fasto orientale di quel re. Ma l’invasione persiana, e la conquista di Sardi ad opera di Ciro il Grande, pose termine all’indipendenza della Lidia che rimase tuttavia, permeata com’era della cultura e della civiltà greca, al ponte di unione tra quest’ultima e la civiltà orientale. Ridotta a semplice satrapia dell’impero persiano, fu conquistata nel 333 da Alessandro Magno e successivamente contesa tra i vari diadochi, quindi dai Seleucidi, e dagliAttalidi , finchè nel 133 a.C.,fu ereditata assieme al regno di Pergamo dal popolo romano e aggregata alla provincia d’Asia.
SUNTO STORICO:
regione antica dell’Asia Minore, sulla costa nord occidentale del mar Egeo, limitata a sud dal Gran Meandro. Sede nell’antichità di un regno fiorente, costituito in unità politica da Gige (VII° s.a.C.). ed ingrandito dai suoi successori, fino ad estendere il suo dominio quasi a tutta l’Asia Minore; fu sottomessa dai Persiani nel 546 a.C., e passò in dominio di Roma nel 132 a.C. Lungo le coste della Lidia, le colonie eoliche e ioniche di Smirne, Efeso, Mileto. Il "lidio", era la lingua parlata nell’antichità; non ancora decifrata del tutto.
LIEO
Così detto Bacco dai Greci.
- Note
- - Presso i Greci antichi le libazioni si facevano in tazze d'oro, come appare ancora da Omero: tutte le cose d'oro erano sacre ad Apollo, come pure si vede nell'Inno omerico "Ad Apollo"; e coronavano di fiori e d'arbusti sacri (alloro) le tazze per le libazioni.
Nei sacrifici di Apollo si usava l'alloro, come testimonia Apollonio nell'Argonautica:
"E coronate hanno le bionde tempia di verde alloro".
La libazione consisteva nell'assaggiare moderatamente e riverentemente il vino, spargendone poi il resto.
Cerimonia religiosa per propiziarsi gli dèi.
LIGEA
Ligea (in greco antico: Λιγεια, Ligeia) è una figura della mitologia greca dal canto ammaliatore, raffigurata con busto di donna e con corpo di uccello con coda e ampie ali; è una sirena che con le sue doti canore e di seduzione attrae e uccide ignari gli uomini, trascinandoli nel mare.
Nella tradizione figurativa e in quella letteraria le sirene sono generalmente tre, si tratta delle sorelle: Partenope, Leucosia e Ligea.[2] La mitologia classica ha fatto costantemente riferimento alle sirene come una sorta di "muse del mare" dal dolcissimo e ammaliante canto che attirava i naviganti prima nell'oblio della loro patria e dei loro più cari affetti e poi conducendoli alla rovina[3] Il mito venne introdotto sulle coste tirreniche dai coloni greci che vi si stabilirono a partire dall'VIII secolo a.C. Esse erano compagne di giochi di Persefone, alla quale stavano insieme anche quando Ade, dio degli Inferi, l'aveva rapita. Fu Demetra a trasformarle in sirene, come punizione per non aver cercato di impedire il ratto della figlia.[2] La storia della sirena Ligea e delle sue consorelle Partenope e Leucosia è narrata dal poeta ellenistico Licofrone nel poema Alessandra. Nei suoi versi racconta la tragica fine della sirena che si gettò in mare dall'alto di una rupe in seguito al passaggio di una nave uscita indenne dal suo canto ammaliante.[4]
Ligea e Terina
Le onde del mar Tirreno avrebbero rigettato il corpo di Ligea sulla riva tirrenica della Calabria, presso Terina. Terina, città della Magna Grecia, eretta dai Crotoniati nel VI secolo a.C., storicamente vide i suoi abitanti dispersi da Annibale nel 203 a.C., e la sua vera e propria fine ad opera dei Saraceni nel 950 circa, allorquando distruggendo Lamezia e Aiello, distrussero anche Terina, posta proprio nel mezzo, tra le due.
Sulle splendide monete coniate a Terina, alcune delle quali sono ritenute dei capolavori della numismatica antica, c'è la più antica testimonianza delle acque termali di Caronte. Infatti, sul dritto c'è impresso il dolce profilo di una fanciulla alata mentre riempie un vaso d'acqua ad una sorgente che sgorga dalla testa di un leone, chiara simbologia iconografica di una fonte sacra. Si tratta della rappresentazione del simulacro della sirena Ligea (la melodiosa), la cui salma, sospinta dalle onde del Tirreno, fu gettata sulla spiaggia del golfo lametino dove ricevette onorata sepoltura dalle pietose mani dei naviganti e a cui più tardi i terinei elevarono culto religioso.
La sirena avrebbe rappresentato la personificazione della città di Terina (che significa ‘la tenera’). La sirena Ligea, raffigurata con un busto di donna con le braccia nude ed il corpo di uccello con coda e ampie ali, compare in varie monete di Terina, seduta su un cippo mentre gioca con una palla, oppure mentre riempie un'anfora con l'acqua che sgorga dalla bocca di un leone. Inoltre Ligea compare in statue isolate ed in rilievi ad ornamento di tombe, in genere mentre suona la cetra, oppure in vasi dipinti, mosaici, pitture e sarcofagi romani.
Sulle monete di Terina, la figura alata di Ligea è accompagnata da alcuni attributi caratteristici di Afrodite, evidentemente attributi della divinità trasferiti alla sacerdotessa della stessa. Infatti su una faccia c'è una fanciulla alata che reca in mano una colomba o una lepre e un ramoscello di mirto, sull'altra faccia una figura muliebre alata, assisa su un poggio e volta a sinistra, che stringe nella mano sinistra un caduceo e con la destra tiene un'anfora appoggiata sulle ginocchia, nella quale cade l'acqua che scorre da una testa di leone (simbolo di una fonte) situata su una muraglia di pietre e ai piedi si vede un cigno nuotante nella fontana. La colomba, la lepre e il ramoscello di mirto sono i simboli di Afrodite attribuiti alle sue alate sacerdotesse (dette ierodule). Alla schiera delle ierodule si possono ascrivere le sirene, ossia le fanciulle che incantavano col fascino della loro voce e dei loro amorosi richiami i naviganti.
- « E Ligea pertanto sarà sbalzata presso Terina sputando acqua di mare;
- e i naviganti la seppelliranno nella sabbiosa spiaggia presso le rapide correnti dell'Ocinaro;
- e questo, forte nume dalla fronte cornuta, con le sue acque bagnerà il sepolcro
- e tergerà il busto dell’alata fanciulla […]. Altri, stanchi di vagare penosamente di qua e di là,
- si stanzieranno nel paese di Terina, dove bagna la terra l’Ocinaro versando le sue limpide acque nel mare. »
In questi versi il nome di Ligea e quello di Terina appaiono associati e la fonte e l'anfora simboleggiano il fiume Ocinaro (l'attuale Bagni) che attraversa Caronte e che con le sue acque tergeva il sepolcro della sirena. Dunque, il mito di Ligea, cantato da Licofrone, è legato all'esistenza di Terina, portata alla luce nell'area denominata Jardini di Renda posta a sud di Caronte a poca distanza, interrata dalle piene del Bagni dopo la sua distruzione ad opera di Annibale.[5]
Nel 1998 nella Piazzetta S. Domenico, a Nicastro è stata inaugurata una statua, opera dell'artista Dalisi, dedicata alla sirena Ligea.
(da wikipedia)
Ninfa dei boschi; una delle tre Sirene.
LINDOS
Città sulla costa meridionale dell’isola di Rodi, la cui antichissima data di fondazione non è precisabile. Conobbe nell’età classica un notevole periodo di prosperità, ma decadde dopo la fondazione della città di Rodi (408 - 407 a.C.), che instaurò ben presto la sua egemonia su tutta l’isola. L’importanza maggiore della città nella vita ellenica fu dovuta, sin dai tempi più remoti, al santuario di Atena Lindia. che è ricordato da numerose fonti letterarie,e raggiunse il massimo splendore agli inizi del II secolo, durante il periodo più florido di tutto lo Stato rodio. Sono stati trovati negli scavi del tempio due importanti iscrizioni, una lista dei sacerdoti annuali (utile per la definizione della cronologia rodia dal 375 a.C., al 25 d.C.), e una “cronaca” del tempio. I monumenti più importanti si trovano sull’acropoli dove furono scavati tra il 1902 e il 1914 da una missione Danese. Si tratta di un tempio di Atena, di cui ci sono pervenuti gli avanzi della ricostruzione dopo che quello originario venne distrutto da un incendio nel IV s.a.C., di uno splendido porticato e di una gradinata monumentale che porta al terrazzo ove si affaccia il tempio.
LINO
Leggendario eroe greco figlio della musa Calliope e di Apollo, è ricordato insieme con il fratello Orfeo, come l’inventore della musica, e del canto. Il mito suo passò probabilmente in Grecia dal vicino Oriente semitico, dove la sua figura era collegata con la coltivazione della pianta. Furono spesso ricordati vari leggendari episodi della sua vita, di cui quello, il più noto, della sua morte giuntoci in diverse versioni: ucciso da Eracle (già suo maestro); dalle frecce di Apollo col quale aeva osato porsi in gara poetica; infine, sbranato dai cani.
(Vedi Urania)
(Vedi Calliope)
LIRA
Strumento musicale dell’antica Grecia. La leggenda la fa risalire ad Ermete, il quale l’avrebbe fabbricata con il guscio di una tartaruga, le corna di un ariete e i nervi dei buoi rubati ad Apollo; strumento molto popolare, come accertano documenti iconografici greci e la sua storia si limitò al mondo classico.
LISANDRO
Generale spartano (V° - IV° s.a.C.). A lui va il merito della definitiva vittoria di Sparta su Atene nella guerra del Peloponneso. Nominato nel 408 navarco, cioè comandante supremo della flotta, ancora disorganizzata in seguito alla disfatta di Cizico del 410, Lisandro la riordinò e nel 407 riuscì a riportare una notevole vittoria sulla squadra ateniese nei pressi di Nozio, ritogliendo ad Atene la supremazia sul mare. Senonchè l’anno seguente,il suo successore Callicratida si lasciò sconfiggere dagli Ateniesi alle Arginuse, e gli alleati d’Asia e delle isole, in un congresso tenuto ad Efeso, chiesero a Sparta di ridare a Lisandro il comando dell’armata. Poichè la costituzione spartana vietava l’iterazione a Lisandro, fu dato alla fine dell’estate del 405, il comando effettivo della flotta sotto la navarchia nominale di Araco. Lisandro non perdette tempo, raccolse e riordinò l’armata ad Efeso, assicurandosi l’appoggio del re Persiano Ciro, e dopo essersi impadronito di Lampsaco, sorprese,alla fine di quello stesso anno, la flotta Ateniese presso i fiumicelli noti col nome di Egospotami sull’Ellesponto annientandola. Subito dopo, fra atrocità mostruose (fra l’altro fece uccidere tre o quattromila prigionieri ateniesi fatti nella battaglia di Egospotami), costrinse alla resa tutte le città alleate di Atene, tranne Samo, e occupata Egina, pose l’assedio dal mare alla stessa Atene, mentre i re Agide e Pausania, l’assediavano da terra. Atene si arrese e Lisandro entrò con l’armata spartana e con i fuoriusciti ateniesi nel Pireo, imponendo quindi il governo oligarchico detto dei Trenta Tiranni. Poi costretta alla resa anche Samo, a metà dell’estate del 404 tornò trionfante a Sparta. Nel 395 gli venne poi affidata la direzione della guerra contro i Beoti, che infrangendo il divieto spartano, avevano invaso la Focide, conquistò allora Orcomeno e puntò su Aliarto, ma mentre sttendeva i rinforzi condotti da Pausania, fu sorpreso dai Beoti e cadde nella battaglia, che vide la rotta delle milizie spartane.
LISIA
Oratore greco (Atene circa 440 - 380 a.C.). Di ricca famiglia siracusana, sotto i Trenta Tiranni ebbe dispersi i beni, ucciso il fratello Polemarco, e costretto alla fuga. Tornato in patria con la restaurazione democratica di Trasibulo I, esercitò per vivere l’attività di logografo. Dei suoi innumerevoli discorsi ne restano 34 (non tutti autentici); offrono un vivo quadro di un’Atene in preda a discordie, avvisaglie, sospetti ,arbitrii, e sono percorsi dall’anelito verso un’ordinata società democratica, presidiata dalla giustizia. I suoi discorsi offrono un vivido quadro della società ateniese del tempo. Per l’amore della concretezza Lisia è portato a caratterizzare con acuta penetrazione psicologica i personaggi. Ricordiamo «l’orazione per l’invalido», dove un invalido rivendica con toni patetici il suo diritto a un sussidio, mettendo in ridicolo l’accusa; la sua comica scabrosa «Contro Simone»; la potente difesa di un marito omicida per ragioni d’onore, che è il discorso «Per l’uccisione di Eratostene»; la denuncia della violenza politica «Contro Eratostene», che pronunciò a nome proprio contro l’uccisione del fratello; il veemente pathos di una madre che accusa un disonesto tutore del figlio orfano «Contro Diogitone». Lo stile chiaro, semplice ed insieme essenziale fece di Lisia un modello a cui si richiamarono gli atticisti romani.
LISIMACO
Generale di Alessandro Magno (Pella, tra il 360 e il 355 – Corupedio 292 a.C.) Seguì il grande macedone in Asia e alla sua morte partecipò con altri diadochi alla divisione dei territori conquistati da Alessandro, assumendo il governo della Tracia (323) che gli venne confermato al convegno di Triparadiso del 321 e nella pace del 310 seguita alla prima fase delle lotte fra i diadochi. Due anni più tardi fondò la nuova capitale Lisimachia sull’Ellesponto e nel 306 - 305 assunse con i colleghi il titolo di re. Divampata nuovamente la guerra contro Antigono, vi prese parte e, dopo la battaglia di Ipso (301), ebbe notevoli ingrandimenti territoriali, riunendo sotto il suo dominio quasi tutta la regione dell’Asia Minore ad occidente del Tauro, ch’egli sottrasse a Demetrio Poliorcete, figlio di Antigono, con l’aiuto di Tolomeo, di cui aveva sposato la figlia Arsinoe. La riscossa di Demetrio, nel 298 - 297, lo impegnò in una nuova guerra, nella quale ebbe l’appoggio di Tolomeo, di Selenco e di Pirro. Quindi, vinto il figlio di Antigono, si rivolse contro quest’ultimo, sottraendogli la Macedonia e alleandosi con gli Etoli e con Atene. Il suo regno, uno dei maggiori del suo tempo, si estese così dal Danubio al Tauro, comprendendo la Macedonia, la Tessaglia, la Tracia e gran parte dell’Asia Minore. Rivalità e dissapori di varia natura provocarono la rottura con Seleuco, col quale si scontrò a Corupedio, nella Frigia, dove fu sconfitto, perdendo nella battaglia la vita e il regno che passò interamente al vincitore.
LISIPPO
Scultore greco soprattutto bronzista (Sicione IV s.a.C.). Fu lo scultore prediletto e il ritrattista ufficiale di Alessandro Magno. Purtroppo, delle sue numerossime opere (Plinio parla di 1500), non è conservato alcun originale e le copie marmoree di originali bronzei, con la necessità dei puntelli, riproducono interrotto lo scattante ritmo delle figure in movimento; potenziale caratteristica è anche la tridimensionalità delle sue figure, come per esempio nel famoso ”Apoxyòmenos” (l’atleta che si deterge), con le braccia posate in avanti, opera questa della maturità dell’artista. Analoga posizione tridimensionale si vede nella sua opera giovanile dell’”Eros che incorda l’arco” . Notevolissima la statua dell’atleta Agias di Delfi. in cui si nota nell’ Apoxyòmenos il contrasto fra la pagana bellezza del corpo atletico e la pensosità del volto. Solo repliche di piccolo formato esistono dell’ “Alessandro con la lancia”, in cui il difetto fisico del sovrano, che irrispettosamente diremmo ”collo torto”, viene sfruttato come conclusione del ritmo ascensionale della figura. A lui si deve anche la ricostruzione di un ritratto di “Socrate seduto”. Anche l’ ”Eracle Farnese” deriva nel suo ritmo instabile da un originale lisippeo, con l’elemento nuovo della stanchezza sul volto dell’eroe al termine delle sue imprese, che affiora anche dall’opacità delle sue copie.
LUCIO VERGINIO
Lucio Verginio (Roma, ... – ...) è stato un politico e militare romano, padre di Verginia da lui uccisa nel 449 a.C., per impedire che cadesse nelle mani del decemviro Appio Claudio.
Il racconto di Livio
L'assassinio di Virginia
Il racconto di Tito Livio, inizia così:
- « A questo orribile episodio ne seguì in città un altro, nato dalla libidine. Le conseguenze non furono tuttavia meno disastrose di quelle che, a causa dello stupro e del suicidio di Lucrezia, avevano in passato portato alla cacciata dei Tarquini dal trono e da Roma. »
- (Livio, III, 44.)
Virginia era una bella giovane di famiglia plebea di cui si invaghì il decemviro Appio Claudio, durante il secondo decemvirato.
Appio Claudio prima tentò con denaro e lusinghe di corrompere la giovane, già fidanzata al tribuno della plebe Lucio Icilio, la quale tuttavia resistette, poi convinse un suo cliente, Marco Claudio, a sostenere che Verginia fosse una sua schiava, contando anche sul fatto che il padre Lucio Verginio in quel momento fosse impegnato nella campagna contro gli Equi sul monte Algido.
Marco, quando la ragazza era nel foro, cercò di rapirla sostenendo davanti alla folla che ella fosse una sua schiava, ma la gente, che conosceva il padre di lei per fama, non gli credette e mise in salvo la giovane. Allora Marco portò la causa in tribunale, presieduto dal proprio mandante Appio Claudio. I difensori della ragazza, testimoniarono la paternità romana di Verginia, e chiesero che ogni decisione fosse sospesa fine al ritorno del padre.
In un primo tempo Appio Claudio decise che la sentenza sarebbe stata aggiornata al ritorno del padre della ragazza, che però avrebbe dovuto seguire Marco Claudio fino a sentenza definitiva, poi temendo la reazione della folla in subbuglio, per l'ingiustizia della decisione, e per l'intervento del fidanzato Icilio, pronto a venire allo scontro con i Littori, e dello zio Publio Numitorio,, permise alla ragazza di tornare a casa, prima di ripresentarsi in giudizio per il giorno successivo, quando Claudio avrebbe emesso la sentenza definitiva.[1].
Subito il fratello di Icilio e il figlio di Numitorio furono mandati ad avvertire il padre di Virginia di tornare a Roma entro il giorno successivo, e i due furono così veloci, che Virginio ottenne dal proprio comandante il permesso di tornare a Roma per difendere la propria figlia, prima che allo stesso comandante arrivasse l'ordine di Appio Claudio odi trattenere sul campo il padre.[1]
Il giorno dopo mentre la folla si raduna per assistere al processo, e il padre si aggirava tra di essa sollecitandone l'aiuto, la giovane arrivò nel foro, accompagnata dalle matrone.
- « Ma il pianto silenzioso delle donne che li accompagnavano commuoveva più di qualsiasi discorso. »
- (Livio, III, 47.)
Il processo iniziò con le dichiarazioni di Verginio, che però fu interrotto da Appio Claudio, che confermando la sentenza del giorno precedente, accordò la schiavitù provvisoria a Marco, rendendo evidente il proprio scopo, e inducendo così a Virginio a reagire con la minaccia di un'azione di forza.
- « Mia figlia, Appio, l'ho promessa a Icilio e non a te, e l'ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi! »
- (Livio, III, 47.)
Appio Claudio reagì intimando ai Littori di intervenire per sedare la rivolta, e a quel punto la folla si disperse dal foro, lasciando sola la ragazza. A quel punto Verginio, ottenuto con uno stratagemma il permesso di appartarsi nel tempio di Venere Cloacina con la figlia, la uccise.
- «Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell'unico modo a mia disposizione! »
- (Livio, III, 48.)
Mentre il padre riusciva a lasciare il foro prima che fosse arrestato dai Littori richiamati dal decemviro, Icillo e Numitorio, sobillavano i presenti, prima di fuggire a loro volta, per evitare di finire nelle mani dei littori.
- « Icilio e Numitorio sollevarono il corpo esanime della ragazza e lo mostrarono al popolo, lamentando la scelleratezza di Appio, la bellezza funesta di Verginia e la necessità che aveva portato il padre a un simile gesto. »
- (Livio, III, 48.)
La minaccia di secessione
Verginio, raggiunto il campo a cui era stato assegnato, con le mani ed il coltello ancora insanguinati, accompagnato da almeno 400 compagni, raccontò degli avvenimenti che lo avevano visto protagonista.
- « Verginio raccontò l'accaduto secondo l'ordine dei fatti. Poi, alzando le mani al cielo come se stesse pregando, e rivolgendosi ai commilitoni, li supplicò di non attribuire a lui il crimine, ma a Appio Claudio, e di non respingerlo alla stregua di chi aveva ammazzato i propri figli. La vita della figlia gli sarebbe stata più a cuore della sua, se la ragazza avesse avuto la possibilità di vivere libera e pura. »
- (Livio, III, 50.)
Colpiti dal racconto del commilitone, ed esasperati dal comportamento fin lì tenuto dai decemviri, i soldati decisero di marciare su Roma fino all'Aventino, dove si accamparono, invitando tutti i civili plebei che incontravano ad unirsi a loro. Lì i rivoltosi decisero di eleggere 10 tribuni militari per condurre le trattative con i senatori, e Verginio venne eletto tra questi.[2]
Raggiunti da queste notizie, anche i soldati che conducevano la campagna contro i Sabini decidono di abbandonare il campo, e di tornare a Roma, per riunirsi ai rivoltosi. A questo punto, soldati e civili plebei si spostano sul monte Sacro, minacciando concretamente di abbandonare la città.
Solo sotto la minaccia di una nuova secessione, i Senatori recuperarono le proprie prerogative, portando avanti i negoziati con i secessionisti, giacché i decemviri, largamente impopolari tra la plebe, temevano per la propria vita. Al termine dei negoziati, i decemviri furono convinti a rinunciare al proprio magistero, furono indette le elezione dei tribuni popolari, e dopo un breve interregno, anche quelli dei consoli.[3]
Il tribunato
Verginio fu il primo tribuno popolare rieletto, a seguito della decisione dei Senatori. Ristabilite le prerogative dei Tribuni della plebe, dai consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato, come suo primo atto incriminò Appio Claudio per aver falsamente accusato una cittadina romana, la figlia Virginia, di essere una schiava.[4].
Nonostante gli interventi dei familiari, che cercarono di intercedere per Appio Claudio presso la plebe, e nonostante lo stesso Appio volesse far ricorso al diritto di appello, da lui negato quanto era in carica come decemviro, Lucio Virginio mantenne viva la memoria dei torti subiti, personalmente ma anche dalla plebe di Roma, ed ottenne che Appio Claudio fosse tradotto in carcere, dove si suicidò, non volendo attendere il giudizio.[5].
( Ritorna a Claudio)
(da wikipedia)
LOCRESI
o LOCRI
Locri Epizefiri (in greco Λοκροὶ Επιζεφύριοι, Lokroi Epizephyrioi) fu una città della Magna Grecia, fondata sul mar Ionio, nel VII secolo a.C., da greci provenienti dalla Locride. Locri Epizefiri fu l'ultima delle colonie greche fondate sul territorio dell'attuale Calabria. I coloni, giunti all'inizio del VII secolo a.C., si stabilirono inizialmente presso lo Zephyrion Acra (Capo Zefirio), oggi Capo Bruzzano, e solo più tardi si insediarono pochi chilometri a nord della città storica conservando però l'appellativo di Epizephyrioi, che significa appunto "attorno a Zephyrio".
- Scrive il geografo greco Strabone su Locri Epizefiri:
-
« Dopo il Promontorio di Eracle[1], si trova quello di Locri, detto Zefirio, che ha il porto protetto dai venti occidentali e da ciò deriva anche il nome.
Segue poi la città detta Locri Epizefiri, che fu colonizzata da quei Locresi che stanno sul golfo di Crisa, condotti qui da Evante, poco dopo la fondazione di Crotone e Siracusa. Eforo, perciò, non è nel giusto quando afferma che si tratta di una colonia dei Locresi Opunzi. Questi coloni, dunque, abitarono per tre o quattro anni presso lo Zefirio e c'è là una fonte, chiamata Locria, dove i Locresi posero il loro accampamento. Poi trasferirono la loro città, con l'aiuto dei Siracusani. Da Rhegion a Locri vi sono 600 stadi[2]; la città sorge sul pendio di un colle detto Epopis. »
(Strabone, Geografia, VI, 1, 7C259)
Le fonti riguardo alla fondazione di Locri Epizefiri sono quindi discordanti. Secondo il passo di Strabone, qui riportato, la città fu fondata dai Locresi del golfo di Crisa, guidati dall'ecista Evante. Altre fonti, tra cui Polibio,[3] dicono che i coloni sarebbero venuti dalla Locride Opunzia (Locride orientale) di fronte all'isola Eubea, e questa testimonianza è confermata da Eforo, con cui polemizza Strabone, e da Virgilio, che chiamò i fondatori della colonia Narici.[4] Altre testimonianze parlano di una provenienza dalla Locride Ozolia, sul golfo di Corinto.
Per quel che concerne la cronologia della fondazione della colonia, Pausania e Polibio la collegano alla prima guerra messenica, in una data quindi molto alta rispetto al quadro generale della grecizzazione del golfo ionico.[5] Eusebio di Cesarea nelle Cronache indica il 673 a.C.,[6] e Girolamo, che curò la traduzione latina dell'opera di Eusebio scritta in lingua armena, colloca l'avvenimento nel 679 a.C. Secondo Strabone essa seguì di poco quella di Siracusa (733 a.C.) e di Crotone (710 a.C.), dunque sarebbe avvenuta alla fine dell'VIII° secolo a.C. Aristotele sostiene che i fondatori fossero dei servi fuggiti con le mogli dei loro padroni, impegnati con Sparta nella guerra contro i Messeni. Tale asserzione, negata più tardi da Timeo, fu confermata da Polibio che raccolse le testimonianze dirette dei discendenti locresi.[7]
Locri Epizefiri fu famosa nell'antichità per la particolare usanza che conferiva validità alla discendenza per linea materna e per essere stata la prima città nel 660 a.C. a dotarsi di un codice di leggi scritte, attribuito al mitico legislatore Zaleuco che per ogni delitto prescriveva pene specifiche superando così la discrezionalità nelle sentenze dei giudici, spesso fonte di discordie sociali.
Il primo insediamento venne fondato nel luogo indicato dall'oracolo di Delfi, presso capo Zefirio (l'attuale capo Bruzzano), ma dopo alcuni anni i coloni - insoddisfatti della località occupata pur corrispondente all'indicazione dell'oracolo - si spostarono verso nord di circa venti chilometri, dove fondarono una nuova città alla quale diedero lo stesso nome del primo insediamento, probabilmente per sentirsi sempre sotto la protezione del dio Apollo.
I coloni si trasferirono sul colle Epopis, dove però trovarono insediate popolazioni indigene di Siculi, che sarebbero state scacciate dai locresi con uno stratagemma molto astuto: i coloni giurarono che fin quando avrebbero calcato la stessa terra e portato la testa sulle spalle sarebbero stati fedeli, ma a giuramento fatto essi si liberarono della terra messa in precedenza nei calzari e delle teste d'aglio, scacciando i Siculi dalla zona.
Nel corso di un secolo la polis di Locri Epizefiri estese la propria presenza dalla costa ionica al versante tirrenico dell'attuale Calabria, probabilmente per tenere lontana la minaccia di un'espansione della nemica Kroton (Crotone); così i locresi fondarono tra il 650 a.C. ed il 600 a.C. le due colonie di Medma (oggi Rosarno) e di Hipponion (oggi Vibo Valentia), probabilmente su preesistenti centri abitati, ed occuparono Metauros (oggi Gioia Tauro), centro già fondato come propria colonia da Zancle (Messina) o Rhegion (Reggio Calabria).[8]
Verso il 560 a.C.-550 a.C. Locri Epizefiri ebbe alleata Reggio nella vittoriosa battaglia avvenuta al fiume Sagra che fermò la volontà espansionistica verso sud di Crotone.
Secondo la leggenda, i 15.000 uomini dell'alleanza locrese-reggina sbaragliarono ben 130.000 crotoniati, e Zeus avrebbe sorvolato la battaglia sotto forma di aquila, mentre i suoi figli (i Dioscuri) sarebbero apparsi a cavallo prendendovi parte.[9]
In seguito a tale vittoria nelle due poleis italiote di Reggio e Locri Epizefiri iniziò ad essere praticato il culto dei Dioscuri; in particolare presso gli scavi del tempio ionico di "Marasà" a Locri Epizefiri sono state rinvenute due statue, gli acroteri in marmo, che potrebbero raffigurare i gemelli figli di Zeus (oggi custodite a Reggio presso il Museo nazionale della Magna Grecia).
L'esito della battaglia della Sagra confermò Locri Epizefiri come una nuova potenza della Magna Grecia.
Successivamente, con il crescere della potenza di Reggio governata dal tiranno Anassila, Locri Epizefiri dovette respingere l'egemonia della città dello stretto, ricorrendo all'aiuto di Siracusa.
Dal V secolo a.C. Locri Epizefiri stabilì alleanze con la Siracusa di Dionisio I e del figlio Dionisio II, entrando nell'orbita dei tiranni della polis siceliota. Erodoto riporta di un arrivo nel 493 a.C. di profughi samii a Locri.[10] Nel 477 a.C. Anassila di Reggio durante la sua campagna espansionistica attaccò Locri, che si rivolse a Dionisio I di Siracusa. Successivamente, quando Atene organizzò la spedizione in Sicilia, Locri Epizefiri si schierò dalla parte di Dionisio nella sua personale guerra contro Reggio (alleata di Atene).
L'alleanza tra Locri e Siracusa venne consacrata dal matrimonio tra Dionigi e la locrese Doride. Quando nel 389 a.C. il tiranno siracusano sconfisse la Lega Italiota, donò a Locri Epizefiri le terre di Kaulonia (presso Monasterace marina) e di Scolacium (nei pressi di Squillace), che delimitavano il confine nord con Crotone, mentre a sud il confine con Reggio era delimitato dal fiume Halex (presso Palizzi). Il IV° secolo a.C. fu per Locri Epizefiri un periodo di grande splendore artistico, economico e, soprattutto, culturale. In particolare, di questo periodo storico, vanno ricordate le figure della poetessa Nosside e dei filosofi Echecrate, Timeo ed Arione, fondatori di una fiorente scuola pitagorica (introdotto a Locri all'epoca di Dionisio I°): lo stesso Platone, secondo quanto attesta Cicerone, si sarebbe recato di persona a Locri per apprenderne i fondamenti.[11]
Dopo la morte di Dionigi I°, Locri Epizefiri ospitò fra le proprie mura Dionigi II il quale, esiliato da Siracusa, instaurò tra il 357 e il 347 a.C. la tirannide nella polis italiota. Ma la sua politica contro gli aristocratici locali mirava solo al ritorno in patria e dunque, una volta che ebbe svuotate le casse della cittadina calabra, il popolo insorse uccidendo tutta la sua famiglia e cacciandolo ancora. Venne dunque instaurata la democrazia.
Nel 280 a.C. Locri Epizefiri si alleò con Pirro, re dell'Epiro, nella guerra tra Romani e Sanniti, sia per esigenza militare che per far fede a un'alleanza stabilita da tempo con Taranto.
Dopo qualche anno però i locresi passarono dalla parte dei Romani e Pirro nel 266 a.C. devastò la città e saccheggiò il tempio di Persefone.[12]
Nella seconda guerra punica Locri si schierò con Annibale e fu conquistata dai Romani nel 205 a.C..
In seguito la città declinò e nell'VIII° secolo fu abbandonata dagli abitanti che si ritirarono nell'entroterra.
Personaggi illustri
Agesidamo, figlio di Archestrato, vinse da ragazzo ai Giochi olimpici nel pugilato, probabilmente alla LXXIV° Olimpiade. Pindaro lo celebra nella X° e nell'XI° Olimpica.[13]
Erasippo, poeta e musico, appartenente insieme a Mnasea e alla poetessa Teano alla scuola poetico-musicale locrese fondata da Senocrito.[14]
Eunomo (Εὒνομος), celebre citarista. Secondo la leggenda riportata da Strabone una corda della sua cetra si ruppe durante i giochi pitici, ed una cicala, posandosi sullo strumento, supplì con le sue note alla rottura. Strabone afferma che nella città c'era una statua del citaredo con una cicala posata sulla cetra.[15]
Eutimo (Euthymos), figlio leggendario di Astycles o del dio fluviale Caecinus. Era famoso per la sua forza e la sua abilità nel pugilato. Vinse più volte ai giochi olimpici (LXXIV,° LXXVII° e LXXVIII° Olimpiade). Secondo la leggenda è l'uccisore del mostro di Temesa.[16]
Filistione, celebre medico. Nato a Locri secondo Galeno.[17] Altri autori lo dichiarano nativo della Sicilia.[18]
Nosside, soave poetessa, emula italica di Saffo.[19]
Onomacrito, considerato il più famoso dei poeti orfici, diffusore dell'orfismo in Attica, redattore dei poemi omerici al tempo dei Pisistratidi, secondo Aristotele sarebbe nativo di Locri.[20]
Timeo di Locri, fu magistrato, astronomo, fisico, filosofo di scuola pitagorica. Cicerone parla di suoi stretti rapporti con Platone.[21] Tuttavia è assai dubbia la stessa esistenza storica di questo personaggio.[22]
Zaleuco, primo legislatore del mondo occidentale. Secondo Aristotele sarebbe maestro di Caronda di Katane, altro importantissimo legislatore vissuto nel VI sec. a.C.[23]
La storia di Eunomo nasconde un motivo che nel corso del tempo, a più riprese, riaffiora nella tradizione leggendaria di Locri e si collega alle contese territoriali tra Locri e Reggio.[24]
Diodoro Siculo[25] tramanda un episodio accaduto ad Eracle durante la sua sosta sul fiume Halex, al confine tra Rhegion e Locri. Mentre riposava per la fatica del viaggio, l'eroe molestato dalle cicale pregò gli dei di fare sparire quelle che lo disturbavano. Accadde allora che queste scomparvero non solo in quel momento, ma anche nel tempo a venire.
Secondo una versione più antica della leggenda che riguarda le cicale sul fiume Halex (forse l'odierna fiumara Galati), quelle che dimoravano sulla sponda locrese erano canore, mentre quelle sulla sponda rhegina quasi mute. Già Timeo[26] era a conoscenza di tale storia e, a suo parere, alludeva a una contesa poetica tra Aristone di Reghion ed Eunomo di Locri, vinta peraltro da quest'ultimo. Eliano[27] parla di una controversia tra gli abitanti di Reghion e quelli di Locri a proposito del diritto di transitare o lavorare i campi appartenenti al territorio di confine. A questa leggenda potrebbe riferirsi quanto riporta Aristotele[28] che dice di rifarsi a Stesicoro circa un proverbio, noto ai locresi, che raccomandava di temere il canto delle cavallette, volendo alludere con questo al pericolo di un'invasione dei Reghini. Va ricordato che la notizia del silenzio delle cicale reggine, che si contrapponeva al canto di quelle di Locri, compare pure in Plinio.[29]
Strabone dà una spiegazione del fenomeno in termini razionalistici sostenendo che, siccome le cicale locresi si trovavano al sole, le loro membrane potevano asciugarsi dalla rugiada e quindi permettere il canto, mentre quelle reggine, poste in una zona d'ombra, avevano sempre le membrane umide.[30]
La zona archeologica dell'antica Locri Epizefiri si trova nel comune di Portigliola, circa 3 km a sud dell'attuale centro abitato del comune di Locri, si estende nel territorio pianeggiante compreso tra la fiumara Portigliola, la fiumara Gerace, le basse colline di Castellace, Abbadessa e Manella, e il mare. Il fatto che tale area si trovi a distanza dagli odierni centri abitati ha preservato quasi integralmente la città antica: tuttavia, nel corso dei secoli, sono state usate pietre prelevate nell'area per edificare nuove case nei dintorni.[31]
Gli scavi archeologici portati avanti da Paolo Orsi (tra il 1908 ed il 1912), da Paolo Enrico Arias (tra il 1940 ed il 1941) e da Giulio Jacopi (nel 1951), hanno rivelato che l'abitato, organizzato con un impianto urbanistico regolare, è attraversato da una grande arteria che ancora oggi conserva il nome greco di "dromo".
La città antica, che era difesa da una cinta muraria di 7 km, in molti tratti ancora visibile. All'esterno delle mura si estendono le necropoli, mentre la maggior parte delle aree sacre sono disposte in prossimità della cinta. I santuari all'interno delle mura sono dotati di edifici templari monumentali e risalgono al periodo arcaico, mentre quelli situati immediatamente all'esterno presentano un aspetto meno monumentale, pur essendovi state rinvenute abbondanti offerte votive.[32]
Tra i monumenti ancora oggi visibili c'è il teatro, risalente al IV secolo a.C. con rifacimenti in età romana: è l'unico edificio pubblico non sacro riportato alla luce a Locri. Si tratta di una costruzione realizzata sfruttando una conca naturale situata ai piedi dell'altura di Casa Marafioti. Rimangono, oltre alle fondazioni dell'edificio scenico, parte dei gradoni in arenaria della cavea, che potevano accogliere circa 4.500 spettatori. In età romana imperiale l'edificio fu trasformato eliminando le file più basse delle gradinate e costruendo un alto muro semicircolare in blocchi di calcare, in modo da proteggere gli spettatori durante le lotte tra gladiatori o tra uomini e animali.
Per quel che concerne il periodo arcaico va menzionato il santuario di Zeus che nel corso del tempo ebbe un'articolazione sempre più ricca. In base alla scoperta a metà altezza della collina della Mannella di un deposito di iscrizioni, così importante per la più tarda amministrazione della città, si è congetturata la presenza dell'agorà ai suoi piedi.[33]
E sempre all'interno della cinta di mura sulla collina della Mannella fu apprestato, con ogni probabilità nel VI secolo a.C., un luogo di culto per un'altra divinità olimpica, Atena.[34] Altri luoghi di culto, sorti a mano a mano fuori dalla cinta muraria, come il santuario delle ninfe in Contrada Caruso o quello di Demetra in Contrada Paparezza (cf. infra), oltre a diverse installazioni domestiche vanno a completare e arricchire il quadro di una colonia, dove dalla molteplicità di costumanze religiose ben trapela anche la differenziazione della cultura cittadina.[35]
L'area sacra di Afrodite si trova nei pressi dell'abitato di Centocamere, situato vicino alla costa, ed è un complesso formato da un tempietto, da una serie di ambienti con portico a "U" e da un cortile centrale; la sua costruzione, avvenuta in due tempi, è da collocarsi tra la fine del VII e la metà del VI° secolo a.C., mentre il suo utilizzo si è protratto fino alla metà del IV secolo a.C. In località Marasà sud, immediatamente all'esterno delle mura, e a contatto con l'area delimitata dalla stoa ad U sorgono un sacello tardo arcaico (databile tra il 500 e il 480 a.C.) dedicato senza dubbio ad Afrodite e la cosiddetta casa dei leoni, dove avevano luogo celebrazioni private delle Adonie, improntate allo "stile" di culto ateniese, tenute da tiasi femminili.[36]
La necropoli locrese più nota è quella di Lucifero, dove sono state rinvenute circa 1.700 tombe databili tra il VII e il II secolo a.C. e spesso segnalate da vasi di grandi dimensioni, di buona fattura e pregio, opera di ceramografi ateniesi di fama, oppure da "arule", piccoli altari in terracotta decorati con immagini del mondo dell'oltretomba.
Uno dei templi interni alla cinta muraria è il Tempio ionico di Marasà, una costruzione databile attorno al VI-V secolo a.C.
Tra i maggiori rinvenimenti statuari vi è il gruppo marmoreo dei Dioscuri a cavallo, esposto nel Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Si tratta di una imponente scultura raffigurante un Dioscuro che scende da un cavallo impennato sorretto da un tritone con la barba, il busto umano coperto da un panno e il resto del corpo con sembianze di pesce. Nello stesso Museo, oltre ai numerosi reperti provenienti dagli scavi effettuati nella zona dell'antica colonia greca, sono esposte alcune antefisse a testa di sileno, che forse coronavano a scopo decorativo la scena del Teatro. Nella cella tesauraria del santuario della Mannella dedicato a Kore-Persefone sono state trovate numerose tavolette fitilli (Pinakes), scolpite con la tecnica del bassorilievo, risalenti per la maggior parte alla prima metà del V secolo a.C. Alcune fanno riferimento alla pratica della prostituzione sacra delle vergini, in uso presso la società locrese.
I banchetti erano molto diffusi e frequentati dagli uomini. Le donne partecipavano solo in veste di cortigiane o schiave. Per bere si usavano dei vasi e delle coppe (kylikes) oppure delle tazze (skyphoi).
Locri è insieme alla città di Sparta una delle pochissime città greche in cui le donne partecipavano alle gare atletiche. Gli atleti usavano uno strumento ricurvo in metallo (strigile) per pulirsi dal sudore e dagli unguenti ed oli profumati alla fine delle gare.
In alcuni corredi per bambini si trovano delle bamboline in terracotta con arti snodabili, palline di bronzo e terracotta ed oggetti in miniatura, come ad esempio delle piccole lampade.
In cucina venivano usati vasellami a vernice nera (coppe per bere, piatti e coppette). Venivano inoltre usati dei contenitori per cibi cotti e crudi e per i liquidi. Soltanto i più ricchi potevano permettersi vasi in vetro o metallo. Per la conservazione o trasporto di vino, olio, olive e salse venivano usate delle anfore.
Il sostentamento della popolazione era basato su cereali e legumi, sulla caccia alle lepri, cervi e cinghiali. Veniva praticata anche la pesca con lenza e reti. Nel museo sono visibili degli ami da pesca.
I latticini erano forniti da capre, montoni e suini. Infine la frutta era composta da mele, melograni, fichi, mandorle, uva e miele.
All'esterno della città vi sono diverse necropoli, presso le contrade Monaci, Russo, Faraone, Lucifero, dove sono state ritrovate oltre 1.700 tombe.
La Necropoli di contrada Lucifero, in uso dall'VIII secolo a.C. al III secolo a.C. comprende tombe di tre tipi: tomba a fossa, tomba a cappuccina e tomba a semibotte.
Vi sono stati trovati oggetti di valore e pregiati, importati dalla Grecia o dalla Magna Grecia (IV secolo a.C.), tra cui vasi, specchi, ornamenti di bronzo e monili in metallo prezioso.
Gli oggetti da toletta per donna erano per la cosmesi personale (pissidi e lekànai, dal greco λεκάνη, vassoio).
Nella necropoli di Lucifero sono stati trovati specchi in bronzo (prodotti da artigiani locali), e fibule (spille di bronzo per abiti, prodotti locali del VI e V secolo a.C.).
In tutte le tombe sono state trovate delle lekythoi, al sing. lekythos, ovvero vasi per contenere oli profumati per toeletta, usati anche dagli atleti prima degli esercizi sportivi e per i rituali funebri.
Gli specchi, produzione tipica locrese, esportati in Magna Grecia ed in Sicilia, erano fabbricati in bronzo con manici a figura maschile o femminile.[37]
La Necropoli di contrada Parapezza, a sud-ovest di Lucifero, comprende oltre 200 tombe. Fu usata intensamente in età arcaica (VI° secolo a.C.) e in età ellenistica (III° e II° secolo a.C.).
In una tomba ad inumazione sono stati trovati piccoli contenitori importati da Corinto, dall'oriente greco (Asia Minore) e dall'Attica.
Nel VI° secolo a.C. erano usati grandi contenitori di ceramica (anfore per il trasporto del vino e dell'olio), molte delle quali erano state importate da Corinto o da Atene. Vi sono inoltre delle anfore importate dalla Laconia; questo tipo di ceramiche fu prodotto nel VII° e VI° secolo a.C. La ceramica laconica, diffusa in tutto il Mediterraneo, veniva fabbricata usando un'argilla rosata, coperta da ingubbiatura giallina, sulla quale si dipingevano figure in nero.
Sono state ritrovate delle hydriai, vasi a tre anse per attingere e trasportare acqua. I vasi più grossi venivano usati per contenere i corpi senza vita di piccoli bambini. Altri vasi venivano usati per le ceneri dei defunti.
I giardini di Adone (IV secolo a.C.) erano realizzati nelle anfore da trasporto, opportunamente spezzate e capovolte. Venivano coltivati finocchi e lattughe, innaffiati con acqua calda per accelerarne la crescita.
La Necropoli di contrada Faraone è posizionata nel nord-est dell'area urbana. Durante gli scavi è stato trovato un piccolo frontone in calcare con fregi dorici (frontone del naiskos), datato tra il IV° e III° secolo a.C.
Nel santuario della Mannella sono stati trovati molti pinakes: quadretti in terracotta decorati con scene a rilievo policrome. I pinakes (ex voto) illustrano aspetti del mito e del culto di Persephone. Sono stati realizzati nella metà del secolo V° a.C. I pinakes sono di forma rettangolare o quasi quadrata, ed hanno una dimensione massima di 30 cm di lato. Questi quadretti avevano dei fori, utilizzabili per appenderli.
Il soggetto raffigurato più frequentemente è il rapimento di Kore. Kore è la figlia di Demetra, che diventa Persefone (regina degli inferi) e sposa di Ade (dio dell'oltretomba). Secondo Helmut Prueckner, Afrodite è la dea più venerata a Locri nel V° secolo a.C. Altre divinità venerate sono Ermes e Dioniso.
Il celebre Santuario di Persefone situato a mezza costa del colle della Mannella è stato definito da Diodoro Siculo come "il più famoso tra i santuari dell'Italia meridionale" (ma escludeva la Sicilia).[38] Non è ancora stato compreso quale culto si praticasse in questo santuario, ma sembra si tratti delle divinità dell'oltretomba, principalmente Persefone.[39] Le ricchezze del Persephoneion locrese furono depredate da Dionisio II (360 a.C.), Pirro (276 a.C.) e dal comandante romano Pleminio luogotenente di Scipione dopo la cacciata da Locri Epizefiri durante la seconda guerra punica (205 a.C.). Gli oggetti votivi rinvenuti nel complesso architettonico (terrecotte figurate, frammenti di vasi, arule, pinakes, specchi e iscrizioni con dedica alla dea) si datano tra il VII° e il II° secolo a.C.[40]
Riguardo al Tempio Ionico in contrada Marasà si sa che nella prima metà del V° secolo a.C. i locresi abbatterono il tempio arcaico e lo sostituirono con uno più grande in stile ionico in calcare. Orsi pensa che il tempio sia stato importato da Siracusa.
Il tempio di Marasà fu realizzato da architetti e maestranze siracusane operanti a Locri Epizefiri nel 470 a.C. su iniziativa del tiranno Ierone di Siracusa (alleato e protettore dei locresi). Il nuovo tempio ha la stessa ubicazione ma è orientato diversamente.
Il tempio è stato distrutto nel XIX secolo ed i ruderi mostrano oggi un solo rostro di colonna.
La dimensione del tempio era di 45,5 m per 19,8 m. La cella, libera da sostegni sull'asse centrale, era preceduta da un pronaos (vestibolo) con due colonne fra le ante, che si ripetevano anche fra le ante dell'opistodomo, il vano retrostante la cella, non comunicante con questo. Nello spessore dei muri tra pronaos e cella erano inserite le scale di servizio, per accedere al tetto, come in alcuni templi agrigentini.
Al centro della cella tre grandi lastre di calcare, infisse verticalmente nel terreno, rivestivano un bothros (fossa sotto il livello del pavimento), che doveva essere di notevole importanza per il culto.
Il tempio aveva 17 colonne ioniche sui lati lunghi, e 6 colonne sulla fronte. Le colonne dovevano essere di circa 12 m di altezza, con base a capitello ionico a volute. L'epistilio (blocchi sulle colonne) con architrave a tre fasce e dentelli in sostituzione del fregio, non era molto sviluppato in altezza, così come i frontoni dall'inclinazione assai poco accentuata.
Questo tempio era molto più alto dei templi dorici (rapporto altezza e larghezza 1:1), ed è uno dei pochi templi ionici della Magna Grecia.
Da un esame preliminare risulta che a Locri Epizefiri vi fosse un Tesmophorion, un Iatreion di Demetra (Grotta Caruso), e un Persephoneion che apparentemente veniva adibito a Telesterion per i Misteri "Eleusini".[41]
La connessione di Locri con il culto occidentale di Afrodite e Adone è stata evidenziata dall'analisi di Torelli che ha identificato il bothos del tempio di Marasà con la cassa-tomba del giovane dio.[42] Si tenga conto che nella stoà ad U sono stati rinvenuti 356 bothroi con resti di pasti, evidentemente destinati alla celebrazione di banchetti sacri. La casa dei leoni che sorge in zona limitrofa a questo complesso è un luogo destinato all'omaggio rituale privato nei confronti di Adone. Di questo culto locrese ci dà notizia anche la poetessa Nosside, che forse faceva parte di uno dei thiasi femminili che onoravano il dio.[43]
Identificato nel XX secolo da P. E. Arias, il teatro greco di contrada Pirettina sfrutta una concavità naturale ai piedi del pianoro Cusemi ed è stato scavato tagliando i gradini nell'arenaria tenerissima. La prima fase del teatro risale alla metà del IV secolo a.C.
L'edificio conteneva fino a 4.500 spettatori. Dalla cavea (koilon) costituita da gradoni tagliati in parte nella roccia ed in parte sistemati con lastre della stessa arenaria, si godeva un notevole panorama della città e del mare.
La gradinata era divisa in sette cunei (kerkìs, in greco κερκίς) mediante 6 scalette (climax, in greco κλῖμαξ). Una partizione orizzontale (diazoma) separava le gradinate da altre (epitheatron) oggi rovinate. Si pensa che il teatro servisse anche per riunioni politiche.
(da wikipedia)
LUDI
Tra i giochi rituali dell’antica Roma, v’erano i Ludi periodici, che si eseguivano annualmente a date fisse e occasionali, votati solennemente in particolari circostanze, per chiedere l’aiuto di qualche divinità, sì come ai ludi periodici la tradizione attribuiva un’origine votiva. I giochi eseguiti consistevano in corse di carri, in finti combattimenti, e finte cacce (combattimenti con belve feroci); e questo era l’origine del contenuto dei ludi Circensi. Più tardi si ebbero nel circo anche spettacoli teatrali, forse verso la fine del III s,a.C., per influsso greco, che furono detti Ludi scenici. Sei, erano le maggiori celebrazioni annuali:i Ludi Romani (o Magni) , istituiti, secondo la tradizione, da Tarquinio Prisco, eseguiti in settembre e connessi con Giove; iLudi Plebei , che in novembre ripetevano quasi lo schema dei Ludi Magni; i Ludi Ceriali in onore di Cerere, celebrati in aprile; i Ludi Floreali dedicati alla dèa Flora dal (28 aprile al 3 maggio), che, quasi una parodia dei Ludi normali erano eseguiti da prostitute; i Ludi Apollinari in onore di Apollo, istituiti nel 212 a. C., ed eseguiti in luglio; i Ludi Megalesi di aprile, istituiti nel 204 e dedicati alla Grande Madre (in greco Megale Mater, donde il nome di Megalesi); i Ludi degli dèi, nei quali per la prima volta pare si eseguissero spettacoli teatrali.
NOTE