R - RU
RADAMANTO
o Radamannti
Dio dell’antica religione cretese; poi ritenuto figlio di Zeus e fratello di Minosse, fu fatto signore dei Campi Elisi e giudice infernale con Minosse ed Eaco.
(Vedi Europa)
REA
Nella mitologia greca cretese, divinità femminile, titanessa, figlia di Urano e Gaia (Cielo e Terra), simbolo della Terra Madre (analoga a Cibele). Divenuta moglie di Crono (Saturno), suo fratello, diede alla luce i grandi dèi che crebbero regnamdo sul mondo: Zeus, Posidone, Ade, Era, Demetra, Estia o Hestia, dèa del focolare domestico (la Vesta dei latini). A mano a mano che nascevano i loro figli, Crono li divorava, per paura di venir spodestato dal regno del mondo. Quando nacque Zeus, Rea diede da mangiare a Crono una pietra racchiusa nelle fasce al posto del figlio, il quale divenuto adulto,spodestò e uccise il padre e fece uscire dal ventre paterno tutti i suoi fratelli ingoiati! Rea rappresenta una delle denominazioni del culto alla “Grande Madre”sorto nell’epoca minoica, e diffuso sulle coste dell’Egeo.
A Efeso era chiamata Artemide e in Frigia, Cibele.
(Vedi Artemide)
.(Vedi Cibele)
(Vedi Titani)
RODI
(RODOS)
Isola delle Sporadi Meridionali, situata a circa 20 km. dalla costa anatolica del Mar Egeo, con una superfice di 1398 knq. (la più vasta del gruppo). Abitata sin dalla preistoria; grazie alla sua posizione geografica ebbe grande importanza per i commerci tra il mondo greco e l’oriente, e intrecciò intensi rapporti con la civiltà cretese - micenea. Al IX° s.a.C., si possono far risalire i resti dei santuari delle città di Ialiso, Camiro e Lindo, mentre una ricca documentazione della civiltà artistica di Rodi con prodotti artigianali, una raffinata plastica in pietra e terracotta d’ispirazione greca, e una ricercata oreficeria ci è stata tramandata dall’VIII° s.a.C., in poi. Nel 408 - 407 si ebbe un sincretismo fra Ialiso, Camiro e Lindo, che portò alla fondazione all’estremità nord orientale dell’isola della città di Rodi, attribuita ad Ippodamo di Mileto, in contrasto con la cronologia del grande urbanista. La città infatti è di impianto ippodamico con un incrocio regolare di strade NS - EO su terrazzamenti. Scarsi i resti delle mura ma ben conservati i templi dell’Acropoli sul colle di S..Stefano, dedicati ad Atena, Zeus, e Artemide. Più in basso sorgevano l’agorà, lo stadio, il teatro con il santua rio di Dioniso. Numerosi erano i porti con grandiose opere artificiali (all’ingresso del più importante v’era il “Colosso”, sotto cui passavano le navi), mentre vaste necropoli si estendevano a Sud della città. La massima fioritura di Rodi si ebbe nell’età ellenistica, quando l’isola divenne il più importante centro commerciale del Mediterraneo orientale e successivamente in epoca romana, sede di un’importante scuola artistica (vi uscirono il “Laocoonte”, il ”Toro Farnese”, il “Colosso di Rodi” ecc), e da una scuola di retorica frequentata da molti giovani romani, tra cui Cesare e Cicerone. Fu successivamente dominata dai “Giovanniti”o Cavalieri di Malta), dai Turchi e dagli italiani (1912–1934), rimanendo però sempre fondamentalmente greca.
ROMA
– La città antica (vedi Cesare)
Se alcuni ritrovamenti archeologici attestano la presenza dell’uomo nella zona di Roma sin dal II millennio a.C., i primi documenti di un insediamento a carattere stabile, risalgono soltanto alla prima metà dell’età del ferro (IX°–VIII° s.a.C.). Secondo gli studiosi il primo nucleo urbano ebbe sede sul colle Palatino, dove sono venuti alla luce fondi di capanne a pianta elittica.
Lo sviluppo della città fu certamente graduale, e non è possibile accertare la leggenda di una vera e propira fondazione, anche se la data di questa (754-753 a.C.), accolta più tardi dalla tradizione ufficiale, sembra concordare con il periodo in cui gli archeologi fanno risalire la formazione della più antica struttura urbana. Dal IV° s.a.C., la fisionomia della Roma antica cominciava a delinearsi su basi più sicure. In questo periodo la città dovette avere un’espansione notevole verso i colli prossimi al Palatino.
Vari argomenti infatti confermano sostanzialmente la notizia della divisione della città in quattro regioni; Suburbana, Esquilina, Collina, Palatina, i cui limiti abbracciavano un’area complessiva di circa 285 ettari, in parte occupati da boschi e paludi. All’espansione del territorio corrispose l’esecuzione di notevoli opere urbanistiche ed edilizie, come il prosciugamento della valle compresa fra il Palatino, il Campidoglio e l' Esquilino, che divenne il centro principale della vita cittadina e in cui più tardi sorse il Foro e l’erezione di numerosi edifici; la Curia Ostilia, Regia, Santuario di Vesta nella valle del Foro, templi della Mater Matuta e della Concordia, tra il Palatino e il Campidoglio, santuario di Diana sull’Aventino, e il tempio di Giove sul Campidoglio, inaugurato nel 509, dai primi consoli repubblicani.
Dopo la cacciata dei re, l’attività edilizia proseguì per qualche decennio, con la costruzione di numerosi templi, poi subì una lunga interruzione dovuta alle guerre e alle aspre lotte interne tra patrizi e plebei. Unico fatto urbanistico rilevante nel V sec., fu l’assegnazione alla plebe dell’Aventino (456 a.C.), che divenne uno dei più popolari quartieri di Roma. L’incendio appiccato dalle orde galliche nel 387 a.C., causò danni gravissimi, seguito da una ricostruzione affrettata e non coordinata ad alcun piano urbanistico.
L’invasione gallica aveva tuttavia posto la necessità di un più sicuro sistema difensivo, e nel 378 si diede inizio alla costruzione di nuove mura che più tardi la tradizione attribuì a Servio Tullio. La cinta muraria di cui si conservano alcuni avanzi, aveva un perimetro di 11 km. e comprendeva il Campidoglio, il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio, l'Aventino, e il Palatino, abbracciando una superfice di circa 426 ettari che faceva di Roma la più grande città della penisola. Dalla metà del IV° s.a.C.,si sviluppò un’infaticabile attività edilizia volta ad abbellire la città, divenuta ormai centro il più importante del Lazio. Si accentuò la funzione pubblica del Foro mentre le attività mercantili si trasferirono nell’attiguo Forum Piscarium, si iniziò la costruzione del Circo Massimo nel 329 a.C., e del primo acquedotto dell’Acqua Appia nel 312 a.C.; sorsero numerosissimi templi, fra i quali il tempio “C” dell’area sacra, oggi di largo Argentina, il più antico tempio in pietra di Roma i cui avanzi sono giunti sino a noi.
Dal II secolo a.C., fu profondamente influenzata dalla cultura ellenistica, e qundo una serie di incendi rese necessaria la ricostruzione, la città assunse un aspetto monumentale. Si edificarono basiliche (Porcia, Sempronia, Opinia, Emilia), archi trionfali e onorati, portici monumentali di ispirazione ellenistica (portico di Metello, rifatto in epoca augustea e dedicato ad Ottavia), e grandiosi magazzini (emporio e portico di Emilio, presso il Tevere), procedendo nel contempo alla pavimentazione delle strade (nel 173), ampliando la rete delle cloache e costruendo nuovi acquedotti. Il rinnovamento proseguì per tutto il primo secolo e l’architettura romana acquistò sempre più carattere di grandiosità.
L’abitato ebbe certamente un’incremento cospicuo, determinato dall’aumento della popolazione, che al tempo di Silla si calcola avesse raggiunto le 100.000 unità. Si accentuarono le differenze tra i quartieri aristocratici (Palatino), e popolari (Aventino, Celio). Appartengono a questo tempo il Tabularium (l’archivio di Stato) sul Campidoglio (78 a.C.), e il ponte Fabricio (62 a.C.), il complesso di edifici fatto erigere da Pompeo nella pianura del Campo Marzio, e le opere di Cesare, come, la basilica Giulia nel Foro Romano e il nuovo Foro. Dopo la morte di Cesare, una radicale trasformazione della città fu compiuta da Augusto e dai suoi collaboratori. Furono restaurati numerosissimi edifici preesistenti. Il Foro fu rinnovato ed inaugurato un altro (Foro Augusto), con al centro il tempio di Marte Ultore.
Opere imponenti, come i Saepta per lo svolgimento dei comizi, il Pantheon, le terme di Agrippa, l’Ara Pacis, il Mausoleo di Augusto, furono erette tra la via Flaminia e il Tevere. L’edilizia privata, per far fronte all’aumento demografico (nel V s.a.C.,si calcolarono circa 500 mila abitanti), creava intanto le insulae, abitazioni di tipo intensivo a più piani. La città fu divisa in 14 regioni, cinque delle qauli si trovavano completamente fuori dell’antica cinta muraria repubblicana,Scarsa invece l’attività degli imperatori della famiglia Giulio - Claudia, dopo il terribile incendio del 64 d.C., la ricostruzione della città fu eseguita seguendo un piano organico voluto da Nerone, il quale si fece erigere sul Colle Oppio la splendida Domus Aurea. Con Flavio o Vespasiano nel 88 a.C., si iniziò la costruzione del Colosseo, nella piana tra i colli Celio, Esquilino e Palatino, terminato poi nel 80 e inaugurato dall’iimperatore Tito. Domiziano impresse un nuovo vigoroso impulso al tessuto urbanistico di Roma, facendo ricostruire le zone del Campo Marzio e del Palatino, dove eresse la propria dimora. In questo periodo e durante tutto il secondo secolo,abbandonò in parte lo stile classicheggiante dell’età augustea per abbandonarsi a criteri funzionali. Esempi di questa evoluzione stilistica sono le monumentali costruzioni di Traiano, come il Foro, i Mercati e le Terme, che portano il suo nome. Gli imperatori successivi proseguirono l’opera di abbellimento della città; Adriano riedificò il Pantheon, fece innalzare oltre il Tevere il suo Mausoleo (oggi Castel Sant’Angelo), e progettò personalmente il grande tempio di Venere.
Dopo l’incendio del 191 d.C., importantissima fu l’opera di ricostruzione di Settimo Severo che ampliò tra l’altro il Palazzo Reale. Dell’età dei Severi sono anche le grandiose terme di Caracalla, la cui erezione impose la trasformazione di un intero quartiere. Dal III secolo l’instancabile attività edilizia cominciò a declinare per le critiche condizioni politiche ed economiche dello Stato romano. per fronteggiare il pericolo di una eventuale invasione barbarica, Aureliano fece costruire nel 271-275 una nuova possente cinta muraria, del perimetro di circa 20 km.che, più volte restaurata si è conservata sino ai nostri giorni. Grandiosi impianti termali furono edificati da Diocleziano, sulla pianura presso il Quirinale. Sotto Massenzio fu ricostruito il Tempio di Venere e iniziata la grande basilica terminata poi da Costantino, che fece erigere anche le terme sul Quirinale e l’arco trionfale presso il Colosseo. Costantino fu l’ultimo imperatore che arricchi la città di opere di rilievo. Dopo di lui ci si occupò di conservare e restaurare i monumenti esistenti. Durante il regno di Onorio, Roma subì la prima invasione barbarica da parte dei Goti nel 410, cui seguirono con danni assai più gravi l‘invasione dei Vandali nel 455, e il saccheggio di Ricimeto nel 472. Dopo un primo tentativo di restaurare la Roma imperiale da parte di Teodorico, la guerra gotica (535-553) devastò definitivamente la città, che, tormentata anche dalla fame e dalle epidemie si andò spopolando. Molti edifici furono abbandonati, mentre altri vennero trasformati in chiese o fortilizi.
LEGGENDARI EROI DI ROMA (1/317) - PROFILO DI STORIA ROMANA
Il piccolo villaggio costruito primamente sul palatino dalle antiche genti rurali del luogo, era già assunto nel VI° s.a.C., con gli ultimi re di origine etrusca (re di Roma), a vera e propria città allorchè i patrizi, esponenti delle antiche genti, che avevano nell’agricoltura la ricchezza e nel Senato la forza pubblica, soppressero nel 510 la monarchia, instaurando un regime repubblicano, nel quale i poteri pubblici vennero delegati a due consoli. Questo mutamento indebolì lo Stato romano, ma la calata successiva di vigorosi popoli montanari dagli appennini, Equi, Volsci, Sabini, lo costrinse ad abbandonare una per una la posizione di forza raggiunta nel Lazio. Nella città, isolata e compressa, le condizioni di vita diventarono difficili per i ceti artigianali e imprenditoriali, costituenti, con gli altri ceti minori, la plebe. Invano essi reclamavano la loro parte di poteri pubblici, che il patriziato, depositario del “mos maiorum” di origine sacra, voleva tutti per sé. Le lotte aspre che ne derivarono misero in pericolo la stessa unità dello Stato (secessione della plebe sul Monte Sacro)
Solo verso la metà del V° s.a.C. con la codificazione delle XII° tavole che assicuravano alcune garanzie ai ceti plebei, il contrasto si attenuò. Quando poi fu proibito il divieto di matrimoni promiscui, gli esponenti della plebe entrarono a mano a mano nell’orbita del patriziato, tanto che, dopo il 367 a.C., anch’essi furono ammessi a ricoprire cariche pubbliche. L’accordo raggiunto tra gli ordini, liberò cospique forze sociali, allargando la base dello Stato. La politica di espansione nel Lazio fu ripresa, in forma sistematica.
La svolta decisiva fu la conquista di Veio, (196 a.C.) l’ opulenta città etrusca; Roma aveva ora più libertà di espandersi verso Sud. Dopo una minacciosa irruzione di bande di Galli da Nord, rinforzate le mura della città e allargati i quadri dell’esercito, in breve tempo i romani ristabilirono nella piana pontina la supremazia che già avevano raggiunto nell’età regia. Il patto di amicizia stretto nel 354 con i Sanniti, le grosse tribù dell’Apennino, e quello di navigazione rinnovato nel 348 con Cartagine, diedero mano libera per l’incorporazione del territorio della Lega Latina, dei Colli Albani e la penetrazione in Campania. Per compattezza di territorio (circa 6400 knq.), per popolazione (circa 600.000.ab.), e per la fedeltà dei popoli sottomessi, trattati con generosità e con il principio di dominare col consenso invece che con la forza, per un dosatissimo sistema di alleanze e rapporti con i popoli confinanti, e in grazia delle sempre più numerose fondazioni coloniali alla periferia del territorio cittadino, lo Stato romano era ora il più importante nell’Italia centrale. Le occasioni per un urto con i Sanniti non si fecero attendere. e la guerra che ne seguì fu lunga, dal 343 al 290 a.C., con alterne vicende, ma si concluse anch’essa con la vittoria di Roma. Un’altra grande vittoria riportarono i Romani a Sentinum nel 295, dove sconfissero una coalizione di Etruschi, Sabini, Unni, e Galli.
Queste successive campagne di guerra al Nord consentirono di allungare il territorio romano nella Sabina e nel Piceno fino a raggiungere la sponda adriatica; a Sud instaurarono rapporti con nuovi popoli minacciando gli interessi di altri Stati, tra i quali la greca Taranto che, per difendersi chiamò in aiuto Pirro, re dell’Epiro. Le vittorie da questi riportate ad Eraclea e ad Asculum in Puglia (279), non intaccarono la vitalità di Roma che aveva riserve militari cospicue. Dopo un breve passaggio in Sicilia, Pirro cercò la soluzione della guerra in una grande battaglia a Benevento; questa volta i Romani ebbero la meglio anche sul campo e a Pirro non rimase che ritornare in patria nell’Epiro. La Penisola italica era ora sotto la supremazia di Roma, che ne promosse l’unità politica e culturale.
Ma ogni conquista pone problemi di rafforzamento e di difesa e apre la strada ad altre guerre. Nel meridione i Romani vennero a trovarsi faccia a faccia con i Cartaginesi presenti in Sicilia dall’altra parte dello stretto. Scoppiò presto tra le due più grandi potenze del Mediterraneo centrale, terrestre l’una, marittima l’altra, la prima delle tre guerre dette puniche, dalle quali Roma ne uscì vincitrice. Per garantirsi da sorprese, ora Roma non poteva più disinteressarsi di ciò che avveniva da un capo all’altro del Mediterraneo, Di qui si sviluppò tutta quella serire di guerre e spedizioni che valsero la riduzione a provincia della Spagna, della Gallia Narbonese, della Macedonia, di parte dell’Asia Minore, l’assoggettazione della Grecia, dell’Africa punica, la distruzione di Corinto, di Cartagine (146). e di Numanzia (133).
La pax romana fu imposta in tutto il Mediterraneo, e Roma entrò nel grande circuito economico - culturale del mondo ellenistico, del quale divenne l’erede nell’opera di integrazione mediterranea. Il ruolo di potenza dominante le impose però grandiosi compiti di organizzazione cui non potevano reggere le sue strutture politiche, sviluppatesi sulla linea dello Stato - città, con poche magistrature e senza quadri amministrativi. Lo Stato entrò perciò in crisi e la crisi sfociò, un secolo dopo, nel principato. Nuovi ceti sociali erano emersi; le antiche ideologie contadine sconvolte, a contatto con le raffinatezze greco - orientali, contro cui invano Catone il Censore, che rappresentava il mondo del romano antico, aveva cercato di riportare ai costumi aviti le famiglie romane. La vita in Roma, con le ricche prede e con i tributi che vi affluivano, era notevolmete mutata; la città si era notevolmente ingrandita; turbe di coloni impoveriti, prima dalle guerre, e poi, dalle lunghe ferme militari, vi erano immigrati. Le campagne italiche si stavano spopolando, e i grandi proprietari, esponenti della nobiltà romana, ampliavano ancor più le loro tenute.
Il ceto contadino perdette così l’antica vitalità demografica, e le fonti del reclutamento militare si inaridirono proprio nel momento in cui bisognava montare la guardia in territori lontani. Fu a questo punto che nel 333 Tiberio Gracco, per ricostruire le forze rurali d’Italia, si battè per una grande riforma agraria, che urtò però gli interessi della nobiltà. Nei disordini che ne seguirono il tribuno venne ucciso. Uguale sorte toccò qualche anno dopo al fratello Gaio, fattosi promotore di un programma sistematico di riforma delle strutture dello Stato, per allargare le basi sociali, necessarie al governo di un impero immenso. L’intento politico uscì da queste lotte irrimediabilmente compromesso. Con l’impoverimento della classe media rurale, l’esercito lentamente decadde, e gli arruolamenti divennero volontari. Gli eserciti fatti di volontari, di regola, sono più fedeli al capo che allo Stato; si aprì così la strada alla formazione di un esercito personale e apparvero all’orizzone le guerre civili. E con un esercito di volontari Caio Mario, concluse prima la guerra contro Giugurta in Africa nel 205, e battè poi al Nord le imponenti torme di Teutoni, e Cimbri nel 201.
La necessità di accasare tanti volontari riaprì la questione agraria, e questa volta insorsero gli alleati italici reclamanti la cittadinanza romana per aver titolo anche essi alle assegnazioni di terre. Roma vinse anche questa guerra, detta sociale, ma estendendo la cittadinanza anche ai vinti. Ma l’ammissione di tanti nuovi ceti nel corpo cittadino, suscitò nuovi problemi per la loro integrazione, donde altri torbidii che sfociarono presto in atroci guerre civili tra Silla, esponente dell’oligarchia senatoria chiusa negli interessi e privilegi propri e Caio Mario, campione dei ceti affaristici e popolari. Silla che aveva condotto un’energica guerra contro Mitridate in Oriente, rimase alla fine padrone del campo, e governò per alcuni anni da dittatore, sistemando i propri veterani sulle terre tolte ai vinti avversari e dando allo Stato una rigida costituzione oligarchica che, sorpassata dai profondi mutamenti politici e sociali, fù smantellata pezzo per pezzo, dopo la sua morte nel 79. Fuochi si accendevano intanto qua e là in Spagna; venne domata la rivolta di Sertorio, sognante uno Stato romano generoso con i provinciali. In Italia fu repressa con atroci rappresaglie la minacciosa insurrezione capeggiata da Spartaco, alla testa degli schiavi disseminati nei latifondi della nobiltà.
In Oriente Mitridate ritornò a far parlare di sé e Pompeo, dopo averlo vinto a Nicopoli e costretto al suicidio sottomise con campagne ardimentose tutta l’Asia Anteriore, la Siria. la Palestina, organizzandole in provincie. A Roma la lotta per il potere era sempre accesa, le fazioni erano pronte alle armi. Le tradizionali questioni, soprattutto quella agraria, erano periodicamente sfruttate dall’ambizione dei singoli. Nel 63 a.C., toccò a Cicerone di reprimere la congiura ordita da Catilina, per impadronirsi del potere. Cicerone cercò la concordia negli ordini per rintuzzare le ambizioni personali. Allora Pompeo avversario della nobiltà, Crasso, forte delle sue immense ricchezze e Cesare, con l’abilità dell’autentico uomo politico, si intesero segretamente per divenire arbitri della vita dello Stato romano e Cicerone venne messo in disparte. Ma, dopo la conquista delle Gallie da parte di Cesare, e la morte di Crasso nella guerra contro i Parti, Pompeo sofferente che altri sopravanzasse nella gloria militare, si riconcilio con la nobiltà.e troncò con Cesare, ma questi, invitato a cedere il comando delle sue truppe, rispose passando in armi il Rubicone (49 a.C.). Le sue campagne di guerra per affermare il primato personale furono irresistibili; ormai il mondo romano era ai suoi piedi, Con poteri didattoriali a vita, esercitati però con generosità ed equità, impostò un programma lungimirante di riforme costituzionali e amministrative; distribuì terre ai veterani e promosse opere pubbliche grandiose. Ma la vecchia oligarchia capeggiata da Bruto e Cassio, insofferente della supremazia di uno solo, ordì una vasta congiura nella quale il dittatore venne ucciso (Idi di marzo del 44 a.C.).
La morte di Cesare non risolse le difficoltà dello Stato romano; anzi si aprì al contrario una nuova fase di lotte tra fazioni opposte. Le forze della congiura furono battute a Filippi nel 42 da Ottaviano e Marco Antonio, che in seguito combatterono per il primato. Ottaviano aveva con sé tutte le forze dell’Occidente romano e Antonio, legatosi a Cleopatra regina d’Egitto, quelle d’Oriente ellenistico. Il cozzo grandioso di due mondi contrapposti si concluse nelle acque di Azio nel 31 a.C., con la vittoria del mondo romano. Ottavisano allora si pose al di sopra delle fazioni, assumendo il cognome di Augusto (colui che sopravvanza tutti per autorevolezza e prestigio). Pur conservando allo Stato la forma esterna di repubblica, tenne nelle sue mani l’imperium, che impegnava le forze militari ai suoi ordini (donde il titolo di imperatore), e la potestas tribunizia, che, con l’inviolabilità, gli assicurò la superiorità su tutte le magistrature. Con tali poteri a vita, Augusto si identificò con lo Stato e fu la nascita del principato. Dopo la sua morte nel 13 d.C., per mezzo secolo succedettero nel principato esponenti della sua famiglia: Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone. Il principato dinastico non riuscì tuttavia ad affermarsi, specie per i modi dispotici con cui governarono Caligola e Nerone. Dopo un periodo di lotte per la successione, si ebbe un altro tentativo dinastico con Vespasiano, cui succedettero Tito e poi Domiziano, che, autocrate e crudele, venne ucciso. Iniziò dopo di lui finalmente una felice serie di imperatori, che si succedettero per adozione. Sotto di essi (età degli Antonini), il mondo romano, in cui si sentiva sempre più l’apporto positivo delle borghesie provinciali in esso integrate, raggiunse il suo apogeo: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, sono figure di grande rilievo umano fissi e di senno all’ideale del principe nutrito di divinità. Tutti presi al compito essenziale di promuovere la sicurezza militare; procurare una soddisfacente amministrazione, favorendo il progresso culturale. Durante la lunga pace i commerci si intensificarono per mare e lungo le grandi strade, di cui Roma aveva dotato i Paesi conquistati; le industrie artigianali si svilupparono; le città in cui solitamente si esprime la civiltà, si moltiplicarono arricchendosi di monumenti fastosi. L’impulso universalistico proprio dell’azione di Roma e del suo senso del diritto, ebbe modo di spiegarsi in tutte le sue possibilità, con un grandioso processo di livellamento politico, che innalzò la vita delle provincie, fino a porle sul piano dell’Italia, centro dell’impero.La cittadinanza concessa da Caracalla nel 212 a tutti i sudditi del l’impero, suggellò il processo di integrazione, nel grande Stato nazionalizzato. Ma proprio mentre questo avveniva, segni forieri di tempesta si profilarono all’orizzonte. Con l’avanzare delle provincie più fertili e più ricche iniziò la decadenza dell’Italia; i poteri comiciarono allora a decentrarsi, premessa a movimenti separatisti. Lo Stato soffriva della sua smisurata grandezza. La politica dell’esteso benessere aveva superato le possibilità produttive dell’economia antica, si che Stato e città andavano gradualmente indebolendosi. Lo Stato, per trarsi d’impaccio inflazionò il ”denarius”, la moneta d’argento che dal III s.a.C., era la base del sistema monetario romano, provocando un rialzo dei prezzi che si fece vertiginoso quando l’instabilità politica si accompagnò alle difficoltà economiche e sociali. La classe media, tradizionalmente anticamera delle aristocrazie di governo, perdette l’antico vigore e la classe dirigente fu sempre più reclutata dall’esercito. Ma nell’esercito entravano sempre più soldati estranei al mondo romano, così la spada, dopo essere passata alle provincie più romanizzate, veniva ora impugnata dagli elementi barbari, a mano a mano accolti nell’impero per difenderlo. Il principato finì così per trasformarsi in monarcato militare, degenerando spesso in anarchia per l’indisciplina delle soldataglie, che facevano e disfacevano gli imperatori a loro talento. Solo con gli imperatori illirici, alla fine del secolo, l’anarchia ebbe fine. Una nuova classe dirigente si venne a formare; ebbe inizio con Aureliano prima e Diocleziano poi, una poderosa restaurazione che riportò ordine e unità allo Stato romano e ne rafforzò le difese contro i barbari, su linee di confine più adatte. Diocleziano divise in quattro parti l’impero per meglio governarlo, e avviò grandiose riforme in campo amministrativo, economico fiscale e militare. Non vi fu settore dove lo Stato non intervenisse con la sua organizzazione burocratica. La figura stessa dell’imperatore fu circondata da un fastoso cerimoniale che lo pose in un alone mistico. Diocleziano abdicò nel 305. Gli successe Costantino, che liberatosi dei concorrenti, rovesciò la politica religiosa del predecessore, per inquadrare a profitto dello Stato anche le forze cristiane fattesi vieppiù numerose. L’ordine ristabilito all’interno, e la difesa assicurata ai confini, favorirono una nuova ripresa economica, che fù però di breve durata. L’imponente apparato burocratico attuato con le riforme di Diocleziano, la dilatata organiizzazione militare, il dispendio delle corti, il fasto delle capitali della tetrarchia, tra le quali, novella Roma, era Costantinopoli (fondata da Costantino), cominciarono a costare più di quanto potesse produrre l’economia del tempo. Il fisco si fece più esigente e il danno maggiore cadde sui piccoli contribuenti indifesi, che, rovinati, erano costretti a svendere i propri beni. Questi vennero in possesso dei grandi proprietari favoriti dal corso di una moneta forte, Essi riuscirono ad ottenere immunità ed esenzioni da una burocrazia corrotta e connivente, allargando così sempre più le loro tenute, sfruttando al massimo il lavoro dei coloni, che, obbligati ai campi, si stavano trasformando in servi della gleba. Questo obbligo ai posti di lavoro venne in seguito imposto dallo Stato, nel supremo sforzo di rimediare ad un’eco nomia allo sfascio, anche agli addetti ai servizi pubblici, all’esercito, alle manifatture statali, sorte in gran numero per far fronte alle esigenze dei consumi.
L’impero, questa grandiosa macchina dirigista apparve ancora sul finire del IV secolo con Teodosio, come una compatta unità politica, ma era un colosso dai piedi d’argilla. Se ne ebbe la prova agli inzi del V secolo quando gli si avventarono contro ondate di barbari, Goti, Vandali, Suchi, Burgundi, non più contenuti dagli eserciti romani, ormai costituiti solo di barbari, Roma fu presa e saccheggiata prima, nel 410 dai Goti di Alarico, poi nel 455 dai Vandali di Genserico. Nel generale marasma si affermò sempre più la Chiesa, e nacquero i regni romano - barbarici. E’ vero però che essi si inserirono nella tradizione romana; il nome di Roma continuò ad evocare ricordi di grandezza. Nel 476 Odoacre re barbaro, si trovò padrone d’Italia, ma rimise le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente, dichiarando di voler governare a Roma come suo luogotenente.
Questa data è quella adottata convenzionalmente per fissare la fine dell’impero romano d’Occidente.
RELIGIONE
La religione distinse Roma dalle altre città latine nella stessa misura con cui la distinsero la sua forma politica e la conseguente “vocazione” all’impero e ciò la portò a seguire una via propria e originale nel corso della storia antica. La religione pubblica, realizzando alcuni principi fondamentali, contribuì all’instaurazione dello Stato romano. Uno di questi principi fu quello di adeguare la propria azione, all’azione sovrana di Giove, quasi rivendicando la facoltà di instaurare nel mondo l’ordine del dio, in difesa di certe idee fondamentali quali ,la giustizia, il diritto, la lealtà, che finirono per identificarsi con la particolare giustizia romana, con il diritto romano, con la lealtà verso Roma, a tutto vantaggio dei popoli vicini. Giove nella concezione dei latini, aveva assunto la funzione di dio giudice, ed arbitro nelle controversie tra città e città, e dunque estraneo agli interssi particolari dei singoli Stati. Egli in tal modo garantiva i patti, i confini, e in genere tutto quel che concerneva i rapporti interetnici. Giove era pienamente un dio interetnico e, come tale, non appariva mai in funzione di dio poliate, o protettore di una singola città. Tutte le città latine, che in un certo momento si unirono in una confederazione (Lega Latina), lo veneravano allo stesso modo, con un culto comune sul Monte Albano; l’odierno Monte Cavo. In seguito Roma con un atto rivoluzionario fece di Giove il suo dio e volle onorarlo sul Campidoglio con il titolo di Ottimo e Massimo, ossia il migliore ed il più grande. Un secondo principio religioso conseguente al primo fu quello che portò alla rinuncia del mito. Il mito, in genere orienta una religione, legandola a certi eventi primordiali, che bastano a giustificare e garantire la realtà come qualcosa di immutabile. Ciò si basa sull’idea che il tempo presente certe cose, come gli eventi primordiali, hanno dato origine al mondo, agli dei, agli uomini, e alle loro istituzioni, non accadono più, mentre nel tempo del mito tutto poteva accadere e la realtà era ancora aperta a tutte le possibilità. La religione romana demitizzata, si fonda tutta sul principio che tutto può accadere purchè gli dei e Giove loro sovrano lo voglino. Il cosmo, ossia l’ordine del mondo, è sentito non come qualcosa di statico, ma come un equilibrio dinamico. E in esso, Roma si presenta in un’attiva funzione equilibriatrice, movendosi nell’ordine della volontà di Giove. L’equilibrio è espresso dal concetto di ”pax deorum”. La pace o il “patto” fra gli uomini e gli dèi, che tutte le funzioni culturali romane tendono a mantenere o restaurare quando sembra rotto, e ad instaurare quando certe circostanze, lasciano supporre la necessità di una modifica dei rapporti precedenti. L’attività esercitata in tal senso, prende prevalentemente la forma di una ”sacratio”, ossia l’uso di dichiarare “sacer” (sacri), un’istituzione, una legge, un tempio o luogo di culto, una qualsiasi cosa che appaia indicativa per stabilire la presenza divina, e i limiti di tale presenza. allo scopo di adeguare ad essa il futuro comportamento.
Il tutto non poteva essere fatto secondo l’arbitrio della comunità umana, ma richiedeva l’assenso divino di Giove, il dio sovrano. A tale scopo, indovini specializzati avevano la funzione di scoprire la volontà divina. Vi erano aruspici che la leggevano nelle viscere delle vittime sacrificali, vi erano sacerdoti (quindecemviri sacris faciundis), che la leggevano nei Libri Sibillini, una raccolta oracolare di origine greca, vi eerano soprattutto gli àuguri costituiti in collegi sacerdotali, i quali interpretavano la volontà dello stesso Giove. La dinamicità della concezione politico - regligiosa romana richiedeva, per una garanzia d’ordine, una continua ricerca, oltre che della volontà divina, della definizione del diritto e delle fonti del diritto. Occorreva distinguere quel che era lecito (ius et fas), dall’illecito (iniustum nefastum),com’era necessario concretare la sovranità terrena che corrispondeva alla sovranità celeste di Giove), in una formula (l’imperium), trasferibile da una persona all’altra secondo le necessità del momento. Garanti del diritto, sia divino che umnano (alle origini senza distinzioni), erano i pontefici, sacerdoti riuniti in un collegio retto dal pontefice massimo. Dalla loro azione intellettuale nacque la giurisprudenza. Ricordiamo al riguardo che il più antico codice romano, quello delle “leges regiae!", fu redatto dal pontefice Papirio. E si chiamò “ius Papirianum”. Una emanazione del collegio pontificale fu quella dei “septempiri epulones”, che sostituirono i pontefici nella direzione delle “epulae Iovis" , banchetti sacri in cui Giove entrava in diretto contatto, tramite il pasto sacro, con i più autorevoli rappresentanti della città. Aggregati al collegio pontificale erano: il “rex sacrorum”, che svolgeva in età repubblicana le funzioni sacrali, un tempo riservate ai “rei Flamini” (3 maggiori più 12 minori), sacerdoti addetti ciascuno al culto di un proprio dio, le vestali, sacerdotesse di Vesta custodi del fuoco perenne e di altri simboli (pignora), dello Stato romano. Oltre ai collegi operavano in campo sacrale quattro sodalizi (sodalitates) o confraternite; gli arvali, i salii, e i lucerci, l’azione dei quali si svolgeva esclusivamente in alcune feste periodiche, e i “Feriali”, ai quali incombeva l’esecuzione dei riti di guerra e di alleanza. Tutti e quattro i sodalizi operavano in sostituzione del popolo romano (pro populo Romano), sollevando i singoli cittadini da certi obblighi religiosi nella sfera del sociale. Il Pantheon romano conosceva tre raggruppamenti divini che rappresentavano lo Stato nel suo complesso: l’arcaica triade; Giove, Marte, Quirino, la triade capitolina (più recente, forse di origine etrusca) Giove, Giunone, Minerva e i dodici dèi (raggruppamento
di origine greca), Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana, Venere, Marte, Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo. Un quarto gruppo; Cerere, Libero, Libera, rappresentava l’organizzazione plebea, quasi uno Stato nello Stato romano. I luoghi e i tempi dell’azione divina, erano fissati in templi e sacrari (ades, templa, fana, delubra, sacella), e in feste occasionali periodiche, mobili e fisse; queste ultime componevano un calendario festivo che costituisce il più antico e il più importante della religione romana. Il calendario festivo, legato alle origini, come ogni altro calendario,al ciclo agricolo, conservava dell’antica funzione soltanto un certo schema; come pure manteneva convenzionalmente nei mesi lo schema delle lunazioni con rilievo, pure convenzionale di due fasi, il novilunio e il plenilunio, nei giorni detti rispettivamente calende e idi, ( il primo del mese e il tredici o il quindici a seconda dei mesi brevi o lunghi). Il calendario, sottratto ai suoi concreti scopi originari, soltanto per esigenze religiose, dividendo e organizzando il tempo in funzione dei vari dèi. Per esempio la parte ”oscura”del mese, quella che culminava col novilunio convenzionale (calende), era sacra a Giunone, mentre la parte "luminosa" ,quella culminante col convenzionale plenilunio (idi) era sacra a Giove. I vari mesi poi, erano dedicati a qualche dio, a parte le singole giornate festive, messe sempre in relazione con una divinità. Un gruppo di sei mesi da gennaio e giugno, costituiva una particolare fase dell’anno, che cominciava con l’attiva presenza di Giano (il quale dava nome al primo mese), e finiva con quello di Vesta (l’ultima festa di giugno), così come in ogni azione sacrificale si cominciava col nome di Giano e si finiva col nome di Vesta. A giugno seguiva una seconda serie di sei mesi senza nome, che venivano indicati con un numerale (quintile, sestile, settembre, ecc), si cominciava con un quintile (che si chiamava luglio, da Iulius, in onore di Giulio Cesare), perché il computo era fatto a partire da marzo considerato il primo mese del l’anno sacro. I mesi di febbraio e di dicembre che rispettivamente precedevano il capodanno di marzo e quello di gennaio erano caratterizzati da feste ”caotiche”, di fine d’anno. Vi era infine un altro capodanno, il 21 aprile i (Pariglia), natale di Roma, considerato capodanno dei pastori. Bastano questi rilievi per far comprendere la complessità del calendario romano, che non era certo uno strumento per computare il tempo a qualsiasi fine pratico, ma era una sapiente elaborazione religiosa, per poter dare una migliore esecuzione al culto divino. Il culto privato non presenta rispetto agli altri popoli antichi caratteri originali. Il capo famiglia (pater familias) aveva la responsabilità dei riti, per lo più rivolti alle divinità domestiche (lari – penati). Ogni individuo poi coltivava il suo genio personale. Le idee della morte e sull’oltretomba non espressero mai una escatologia che improntasse a suo modo la religione. Bastava fornire al morto le dovute onoranze (iusta). Il morto si trasformava in larva o lemure ed entrava a far parte dei ”mani”, gli dèi dello stato di morte .Se ne riconosceva la funzione di antenato in certe feste di febbraio, (Feralia), durante le quali ciascuno ”parentava” (ossia proclamava parens ”progenitore”) i propri morti. Esisteva una fossa sacra, il “mundue” su cui si hanno notizie imprecise, che, scoperchiata ritualmente tre volte l’anno, permetteva ai morti di ritornare in terra.
La religione di Roma nella sua realizzazione dello Stato romano, si muove dialetticamente dagli arcaici culti gentilizi, verso culti di portata interetnica. La dialettica impone una precisa distinzione tra; culto pubblico e culto privato, caratterizzato il primo dal concetto di ”sacer”, (consacrato per decisione pubblica), e il secondo dalla più generica ”religio” (timore reverenziale per il sovrumano). Nella dialettica si inserì in parte, la lotta tra patrizi e plebei, che, con l’ingresso di questi ultimi nella vita pubblica, portò al superamento delle ultime resistenze dell’antica religione gentilizia.
ARTE ROMANA
Le prime espressioni artistiche dell’antica Roma, manifestano, fino a tutto il IV° s.a.C., l’influenza della più evoluta arte etrusca. Non solo i monumenti architettonici, civili e religiosi presentano caratteri tipicamente etruschi, sia per impostazione culturale, sia per tecnica costruttiva, ma opere quali, il “Ritratto di Bruto”, e la “Lupa Capitolina”, sono considerate opere di botteghe di artisti etruschi, come la famosa scuola coroplastica di Veio, cui apparteneva quel maestro Vulca che decorò nel VI° s.a.C., il Capitolium. Pure all’influenza etrusca deve riferirsi l’ispirazione delle pitture cosiddette “trionfali”, di cui si hanno i primi ragguagli a partire dal III° s.a.C., e che rappresentano i più antichi esempi a noi noti di pittura romana. Tali pitture, che venivano portate per le vie dell’Urbe durante i solenni trionfi dei generali romani, illustravano i fatti più salienti delle vittoriose campagne militari. A partire dal III° s.a.C., Roma, nel corso della sua espansione lungo la penisola italica, allaccia i prmi rapporti con la cultura della Magna Grecia, che subentra poi a quella etrusca, esercitando una profonda suggestione sull’evoluzione dell’arte romana. Centinaia d’opere d’arte greche, sculture e pitture, vengono razziate dalle città dell’Italia Meridionale che cadono sotto il dominio di Roma. Per soddisfare le esigenze estetiche e gli esibizionismi di un pubblico sempre più assetato di cultura greca, non sono più sufficienti le opere oginali, che in gran numero affluivano nell’Urbe, è acquista grande importanza il mestiere di copista, ufficialmente riconosciuto ed apprezzato. E proprio nella produzione di questi ignoti copisti, che si riscontrano le prime espressioni di quella che sarà una caratteristica costante di tutta l’arte romana; l’eclettismo, cioè la tendenza a sincretizzare in una stessa opera gli elementi formali provenienti da diverse varie tradizioni artistiche, quali quella etrusca, quella greca e quella italiana.
Il I° s.a.C., soprattutto per l’impulso della dittatura sillana, segna l’inizio della prima stagione artistica romana. L’architettura ha una straordinaria fioritura, si svincola definitivamente dall’influenza etrusca, e, sintetizzando elementi, forme e criteri stilistici di ispirazione ellenistica (come è visibile nell’impianto scenografico del santuario di Palestrina), inizia un processo di sviluppo antonomo che produrrà le sue opere più significative durante l’impero. In questo periodo, grande diffusione ed importanza acquistò in Roma la pittura parietale, che ripropone gli schemi iconografici dei grandi maestri greci, ripetendo spesso, con notevole percfezione tecnica, ma senza originalità i soggetti di ispirazione prevalentemente mitologica. Ma la grande novità del I° s.a.C., fu, nella
scultura, il ritratto di gusto veristico, che, attraverso la minuziosa narrazione dei particolari, raggiunse effetti di impressionante verità psicologica, come per esesmpio nel “Velato”, al Vaticano. Accanto ad esso, continuò a permanere una ritrattistica legata intimamente alla spiritualità ellenistica, che si esprime in forme più serene e distese. Una testimonianza notevole della ritrattistica romana è offerta anche dalle monete, a volte di fattura pregevole, su cui il console che le emette fa effigere un suo antenato, poichè la legislazione romana, proibiva vi fosse impresso il ritratto del monetario. Sotto Augusto, l’arte romana assume un livello di splendore e di raffinatezza prima sconosciuti, restando improntata però ad un carattere di rigida e fredda austerità, così congeniale al temperamento dell’imperatore e al mutato clima politico di Roma. Esempio tipico del gusto artistico dell’età augustea, è l’Ara Pacis (consacrata in Campo Marzio il 9 a. C.) in cui convivono senza raggiungere un’armonica compenetrazione, elementi stilistici locali e di derivazione ellenistica (specie nei rilievi della processione dell’ara centrale). La scultura mostra l’assimilazione ormai completa dei cànoni stilistici dell’arte greca, soprattutto nella serie di ritratti di Augusto, in cui schemi accademici di ispirazione classicheggiante si fondono con un’acuta sensibilità veristica. La pittura del periodo Augusteo continua a svolgersi sotto l’egida della cultura ellenistica, come Ludius o l’anonimo illustratore della villa di Livia a Prima Porta. L’ascendenza ellenistica è altresì enidente nella decorazione della casa della Farnesina e nei dipinti della Villa dei Misteri a Pompei. Occorre anche segnalare di contro a queste manifestazioni più rappresentative, la presenza soprattutto nelle provincie di correnti artistiche popolari, volte a fini più pratici, che propongono dipinti o rilievi funerari, insegne di negozi eccetera. Questo filone popolare che in età Augustea è interessante soprattutto come fresca testimonianza di costume, diverrà importante dopo la crisi del III° s.d. C., espressione dell’avvento al potere di una nuova classe sociale. Dal periodo che va da Augusto ai Flavi. si accentua soprattutto a Roma in architettura, il gusto per le imponenti costruzioni di impianto scenografico, già visibili nel teatro di Marcello, ultimato nel’XI° a.C. Vengono eretti in questo periodo alcuni dei più caratteristici monumenti onorari romani, archi e colonne istoriate, e anfiteatri, come quello di Verona e quello di Flavio (Colosseo, iniziato nel 88 a.C., e inaugurato da Tito nel 80) a Roma. Tecniche nuove permettono ora la costruzione di più complesse strutture architettoniche, come la cupola emisferica (Pantheon e Domus Aurea), e la volta a crociera (Colosseo).
La scultura comincia ad affrancarsi dalla tutela del gusto greco per raggiungere un’autonomia quasi completa nei bassorilievi del l’Arco di Tito e in quelli ritrovati sotto il Palazzo della Cancelleria, in cui le figure sono collocate in una nuova dimensione prospettica di illusoria spazialità. A questo periodo risalgono le testimonianze più importanti di tutta la pittura romana: gli affreschi del cosiddetto quarto stile, conservati nelle case di Pompei.Sotto Traiano l’arte romana acquista un carattere di austero e sobrio classicismo; ciò è visibile sia nelle ornamentazioni architettoniche del Foro, che nei bassorilievi della colonna Traiana, nei quali ultimi, la scultura romana acquista un livello di consapevolezza artistica mai conosciuta. Per tutti i 200 metri in cui si sviluppa la narrazione, l’ignoto autore riesce a rappresentare i personaggi e le vicende delle guerre contro i Daci, con una straordinaria potenza espressiva e una penetrazione psicologica perfettamente consona alla rinnovata spiritualità dell’epoca. Con Adriano si riafferma in Roma il gusto ellenizzante, penetrato ora di intensa malinconia, raffinato e perfetto ma estenuato. Tra i monumenti degni di menzione, la Villa Adriana, presso Tivoli, il tempio di Venere a Roma presso il Foro Romano e il Pantheon, ricostruito definitivamente dopo incendi e restauri. La scultura che viene esercitata in modo particolare sulla raffigurazione di Antinoo, segna la ripresa di modi fidiaci. Un già vibrato classicismo si rivela nella produzione artistica, soprattutto della scultura dell’erà degli Antonini. Non è trascorso un secolo dalla erezione della Colonna Traiana, che la Colonna Antoniana, eretta in onore di Marco Aure lio mostra quanto la concezione artistica si sia trasformata; i soggetti sono gli stessi, ma il rilievo è più plastico e deciso, la
compattezza organica delle figure si rompe in deformazioni espressive. Sotto Commodo l’arte romana segna un’importante tappa della sua laboriosa evoluzione, raggiungendo il dominio dei propri mezzi espressivi. Nei bassorilievi inseriti nell’Arco di Costantino illustranti episodi salienti del regno di Marco Aurelio, la rinnovata concezione spaziale, già emersa in età flavia, si afferma in tutta pienezza, animata da un vivo pittoricismo, attraverso il quale le figure sembrano sbalzare dal fondo. L’epoca di Settimio porta a una chiara visione delle articolazioni stilistiche operanti nel mondo romano, confrontando la visione realistica occidentale, presente nei rilievi dei due archi eretti a Roma, quello a tre fornici del Foro, e quello degli Argentari del Velabro, con il
classcheggiante idealismo dei rilievi rinvenuti a Leptis Magna. In questo periodo furono costruiti nelle provincie africane molti edifici tra cui primeggia la basilica di Leptis Magna, che prelude alla basilica cristiana.
Dal baroccheggiante espressionismo dell’epoca dei Severi si hanno inoltre, documenti in rilievi e sarcofaghi che variano dalle rappresentazioni simboliche dei giochi degli amorini, a quelle realistiche delle corse delle bighe nel circo. Nel cinquantennio che va dai Severi a Diocleziano, l’arte romana subisce una tormentata evoluzione, soggetta, come essa è, dall’ipoteca della movimentata vita politica e ai contrastanti umori delle personalità degli imperatori che si succedono al potere, e che pretendono di stabilire gli indirizzi culturali dell’arte. Così, mentre con Massimo Trace, Filippo Arabo, e Traiano Decio, la ritrattistica romana percorre fino in fondo l’esperienza espressionistica (deformando le figure fino a conseguire effetti di barbarica violenza), con Galieno si ritorna ad una visione plastica chiaroscurale, allo stile adrianeo; mentre nella seconda metà del III s.d.C., si ha una semplifica zione della forma di un rigoroso ed essenziale realismo, quale appare nelle monete di Aureliano. Grande importanza assumono in questo periodo i sarcofagi istoriati che finiscono ben presto per sostituire i rilievi storici. Parallelamente all’arte pagana cominciano ad apparire le prime manifestazioni dell’arte cristiana. Diocleziano svolge una instancabile attività edilizia, che si concretizza nella realizzazione delle terme, che portano il suo nome e che costituiscono il più grandioso complesso termale di Roma, e in quella del chiuso palazzo di Spalato, concepito come un accampamento permanente circondato da mura, che racchiudono un tempio, un peristilio, un mausoleo e delle abitazioni. Esemplari della scultura in questo periodo sono, i quattro gruppi in porfido, due dei quali a Venezia e due alla Biblioteca Vaticana, raffiguranti ciascuno una coppia di imperatori. In queste sculture ogni residua soggezione alla tradizione plastica ellenistica scompare per lasciare il campo ad una completa libertà di espressione che interpreta fedelmente il gusto artistico dell’epoca. Tra i più importanti monumenti architettonici di Roma è la Basilica di Massenzio (modificata e portata a termine da Costantino), splendido edificio a tre navate con nicchie laterali, ricoperto con una volta a crociera, finemente decorata con stucchi. Costantino, per celebrare la sua vittoria a Ponte Milvio, fece erigere un arco di trionfo a tre fornici, riccamente decorato con rilievi di età precedenti o eseguiti.appositamente eseguiti. Rappresentazioni simboliche e precisione narrativa, insieme alla raffigurazione frontale, alla simmetria e alle proporzioni gerarchiche (per cui la figura dell’imperatore campeggia sulle altre), sono i mezzi stilistici che caratterizzano questi fregi. Sul finire del IV° secolo il centro dell’arte romana si sposta da Roma a Costantinopoli, in cui si trovano la base dell’obelisco di Teodosio, la colonna di Marciano, e, dove fu distrutta nel XVIII° secolo, la colonna di Arcadio, nota da disegni. Testimonianza assai importante di quest’ultima stagione artistica romana resta il mosaico, che, elevatosi a dignità d’arte dal II° sec.d.C., raggiunse grande diffusione, mentre la pittura, dopo la fine di Pompei, si è conservata in alcune tombe ostiensi, e di riflesso nei dipinti cristiani delle catacombe.
UNO SGUARDO AL PASSATO
La nostra Italia, sette od otto secoli prima di Cristo, era divisa in tanti popoli diversi, per origini, costumi e lingua. Nella parte meridionale s’erano insediati i Greci, i quali contendevano ai Cartaginesi anche il possesso della Sicilia; alla parte settentrionale guardavano cùpidi i Galli, i quali ne avrebbero poi scacciato gli Etruschi. Le piccole popolazioni Italiche del centro della penisola, avrebbero finito probabilmente per l’essere sommerse o schiacciate dalle vicine potenti e invadenti tribù straniere, se non fosse sorta Roma.
LE LEGGENDE
Chi fondò Roma? E quando, e come sorse la grande città? Fiorirono le leggende, né tante mai se ne contarono, come su quella che doveva divenire la conquistatrice del mondo! La dominatrice dei popoli; la città Eterna!
Intorno al gran nome di Roma, scrisse un antico storico greco, la cui gloria è distesa sopra tutte le genti, non s’accordano gli scrittori, in asserire chi lo abbia dato a quella città. Alcuni dicono che i Pelasgi, dopo essere andati vagando per la maggior parte del mondo, e aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi a stazionare ivi. e che dal loro valore nelle armi diedero nome alla città. Altri vogliono che, essendo stata presa Troia, alcuni guerrieri, trovate a caso delle navi, fossero spinti dai venti in Etruria, ed approdassero alle foci del Tevere, dove, essendo le loro donne già stanche e depresse e non potendo più tollerare il mare, una d’esse che chiamavasi Roma e che per nobiltà e prudenza sembrava superare di gran lunga tutte le altre, abbia suggerito alle compagne di bruciare le navi. Dapprima gli uomini se ne crucciarono, poi per necessità si collocarono intorno al Palatino, avendo sperimentata la fertilità del terreno, iniziarono la costruzione della città, dandole il nome della stessa donna che era stata la causa di tanto fatto. Altri affermano che abbia dato il nome alla città un’altra donna, pure chiamata Roma, figlia del re Italo e di Leucaria; oppure un’altra, nipote di Ercole, e moglie di Enea. Altri ancora vogliono che il fondatore sia stato Romano, figlio di Ulisse e della maga Circe, o di Romo di Ematine, da Diomede là mandato da Troia, o Romo, signore dei Latini. Altri narrano che Romolo fosse figlio di una troiana, sposatasi al re Latino. Altri narrano che la madre di Romolo fosse Emilia, figliola di Enea e di Lavinia, sposata al dio Marte. Certuni infine raccontano un evento portentoso, cioè, che nel focolare di Tarchezio, re degli Albani, apparisse un fantasma per molti giorni. Interrogati gli àuguri d’Etruria, costoro risposero che, se una vergine figlia del re si fosse sposata al fantasma, sarebbe stato un eroe formidabile per virtù, per forza e per fortuna!
“ Una vergine odunque, figlia del re, fu scelta per il sacrificio, ma ella invece di sottoporvisi, mandò una schiava. Conosciuto l’inganno, il re mandò tutte e due le donne a morte; di poi, avuto un sogno della dèa Vesta, le chiuse in carcere, ordinando di non liberarle, finchè non avessero tessuto una lunga tela. Ma più esse di giorno tessevano, di notte il re sfaceva la loro tela. La schiava ebbe tuttavia due gemelli, che il re consegnò ad un certo Teramo, perché li uccidesse. E qui la leggenda si riallaccia a quella che comunemente corre sulla bocca di tutti, ch’è la seguente: dai re che nacquero in Alba, discendenti di Enea, il regno pervenne a due fratelli, Numitore e Amulio. Amulio scelse le ricchezze e l’oro degli avi. Numitore preferì la corona e lo scettro, Amulio allora approfittando dei maggiori mezzi che aveva, spodestò il fratello e costrinse la sua figliola a farsi sacerdotessa della dèa Vesta. Da lei che si chiamava Ilia o Rhea o Silvia, il dio Marte ebbe due gemelli, grandi e belli oltre ogni misura, ragione per cui Amulio comandò che fossero gettati nel Tevere. Il servo incaricato di questa bisogna chiamavasi Faustolo, ma altri invece asseriscono che Faustolo fu colui che li trovò. Il fatto è, che i due bambini furono abbandonati in un luogo, che oggi chiamasi il Germalo, presso ad un fico selvatico, detto il Ruminale, Una lupa li allattava,e insieme con un picchio li custodiva.
Narrasi ancora che un guardiano di porci li trovò e li portò a sua moglie, Acca Larenzia, in onore della quale i Romani, ancor’oggi celebrano la festa detta, Larenziale.
Essi erano Romolo e Remo.
Così l’antico storico greco Dionigi di Alicarnasso che visse a Roma ai tempi dell’Impero.
LA FONDAZIONE DI ROMA
Il resto è noto; i due fanciulli crebbero tra i pastori, animosi e forti. Vengono a sapere chi erano ed allora assalgono Amulio in Albalonga, lo vincono e rimettono sul trono il nonno Numitore e chiedono per sé e per i compagni un luogo ove costruire una città, sulla riva stessa del fiume dov’erano stati salvati. Remo voleva che sorgesse sull‘Aventino, e Romolo sul Palatino. Il primo voleva darle il proprio nome; Romolo il suo e incominciarono a litigare, Rimessisi alfine al volo degli uccelli, Remo vide prima sei avvoltoi, e subito dopo Romolo ne vide dodici. Gli alterchi continuarono. Finalmente Romolo ruppe ogni indugio, e ordinate tutte le cose che a ricevere il popolo e a fare i acrifici parevano servire, come venne il tempo determinato, egli primieramente sacrificando agli dèi e comandando agli altri che facessero lo stesso, secondo il loro mezzo, osservato le aquile e poi ordinato che si accendessero i fuochi, trasse fuori il popolo, facendolo saltare sopra le fiamme, per purgarlo dei peccati, quindi, aggiogati due bovi, maschio e femmina ad un aratro, con il vomero di rame, copertosi il capo con la veste come d’un manto sacerdotale, cominciò a tracciare il solco in quadrato intorno al colle Palatino. E fù questo giorno, dice lo storico antico Dionigi il greco di Alicarnasso all’età mia, la città di Roma solenneggia ogni anno, con festa, a nessun’ altra minore, chiamasi Palilia.
Era il giorno 21 aprile come narra la leggenda dell’anno 753 a.C.
Tutta la natura era in festa, gli alberi s’erano rinverditi di nove fronde, sbocciavano i fiori, nidificavano gli uccelli, tutti gli uomini e le cose sembravano presi come nei giorni solenni, da una tripudiante allegrezza.Gli italiani bene farebbero a celebrare questa data ch’è forse la più grande dopo quella della nascita di Cristo, nella storia del genere umano.
ROMOLO
Prosegue la leggenda raccontando che Remo che seguiva la cerimonia con dispregio, saltò irridendo il fosso, e Romolo lo uccise. Questi, rimasto solo, fu il primo re di Roma. Chiamò nella sua città quanti giovani dei luoghi vicini fossero desiderosi di nuove sorti, e di nuova vita e molti vi accorsero; pastori, guerrieri e avventurieri, ciascuno portando una piccola quantità di terra del paese donde era venuto e tutti gettandola e mescolandola insieme in un unico pozzo, detto “mundus”, come per fare di tante terre e di tante patrie una patria sola.
Quanta verità in questo simbolo!
Non doveva diventare Roma patria di tutte le genti?
Mancavano le donne; Romolo allora bandisce una festa, ed ecco gran folla dai vicini paesi. Sul più bello, Romolo dà un segno e i suoi, già avvertiti, si lanciano sulle fanciulle, e le rapiscono. Gli uomini vengono cacciati da Roma e fu la guerra che i vicini Sabini ritornarono in armi. I due eserciti stavano per azzuffarsi; le fanciulle oramai divenute spose dei Romani, e madri si intromettono tra i combattenti ed ottengono che si faccia la pace. Romani e Sabini s’uniscono così in un sol popolo. Molti dei Sabini vennero ad abitare a Roma che crebbe così più grande e più forte. Allora Romolo può abbattere Fidene, Crustumerio, Amtemna; risparmia però i vinti e li conduce cittadini a Roma. Primo esempio di quella politica che, proseguita poi dai suoi successori, re, cconsoli e imperatori, doveva fare tutto il mondo… romano!
Anche Acrone, re dei Ceninesi, fu vinto e ucciso da Romolo in combattimento. Romolo lo spogliò delle armi, racconta la leggenda, e, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo e v’acconciò con ordine le armi di Acrone. Quindi, cintasi la veste ed inghirlandatosi il capo di alloro, caricatosi diritto sulla spalla il trofeo, camminava cantando un inno di vittoria, seguito da tutto l’esercito armato, e accolto con gioia e ammirazione da tutti i cittadini. Fu l’espressione del primo trionfo. Anche le case dei Ceninesi vennero rase al suolo, e gli abitanti costretti a trasferirsi a Roma.
A sedici anni dalla fondazione, la popolazione s’era raddoppiata.
Ed ecco un fatto nuovo! Poco dopo anche Camerio è vinta e Romolo trasferisce metà degli abitanti a Roma ed altrettanto fa con i Romani mandandoli a Camerio. Così l’Urbe si espandeva oltre le sue mura. Il sangue ch’ella riceveva da tutti, a tutti distribuiva e sempre più si fondevano popoli e razze, e il mondo cominciava a diventare romano.
IL DIO QUIRINO
Tale fu l’opera del primo grande fondatore e re di Roma: diede leggi savie e forti, divise la popolazione in patrizi e plebei; fra i patrizi scelse duecento senatori, che con il loro consiglio lo coadiuvassero nell’opera di buon governo. All’età di cinquantacinque anni, narrrano sempre gli antichi scrittori e storici, dopo averne regnato trentasette, a dì sette del mese, che oggi si chiama Luglio e allora Quintile, in un giorno che ancor presentemente si commemora con meste cerimonie detto "Populifugio" improvvisamente e misteriosamente durante un’assemblea o una rivista d’armi, scatenatosi un gran temporale con meravigliosi e strani sconvolgimenti e mutazioni incredibili dell’aria, oscurandosi il lume del Sole, e venendo una notte con tuoni spaventosi e con venti impetuosi che dappertutto menavan tempesta, si che la turba qua e là dispersa si pose a fuggire, Romolo scomparve.
I senatori non ritrovando il suo corpo, o sottrattolo alla vista del popolo, per non allarmarlo, dissero ch’egli era stato rapito in cielo sul carro di suo padre Marte. A Roma gli eressero un tempio, e lo adorarono col nome di Dio Quirino.
I SUCCESSORI DI ROMOLO
II RE SABINO NUMA POMPILIO
LA NINFA EGERIA
Romolo era morto e, come dopo ogni scomparsa di un grande fondatore di uno Stato, o della potenza di una Nazione, seguì a Roma una specie di sbandamento d’animi e di stupore. Chi sarebbe successo al Padre della Patria, al divino Romolo? Dopo un’anno di interregno i patrizi, i senatori, e il popolo s’accordarono e venne scelto Numa Pompilio, d’origine sabina, uomo virtuosissimo, riferiscono gli antichi storici, e pieno di quella grave e serena disciplina, della qual gente nessun’altra fu più integra e incorrotta. Lo chiamarono dunque, e Numa Pompilio desiderando che al favore degli uomini si unisse quello degli dèi, affinché ciò apparisse chiaro e manifesto, volle essere accompagnato dal Sacerdote, in un luogo sacro. Quivi, narrano le leggende, volle sedere sopra una pietra, con le spalle volte a settentrione, e il Sacerdote che aveva il manto calato sugli occhi e il lituo, cioè un bastone dal manico ricurvo pulito e senza nodi, impugnato in una mano, gli pose l’altra sul capo. Tracciò col lituo, dopo aver pregato, dei segni nel cielo, dividendo lo spazio dal levante al ponente, dal mezzogiorno alla mezzanotte e disse: “O Giove Padre! S’eglì è giusto che questo Numa Pompilio, di cui io tengo il capo tra mano, sia re di Roma, io ti prego che tu l’accenni entro quei limiti ch’io ho dianzi tracciati!"
Favorevoli furono a giudizio del Sacerdote i segni celesti, e Numa Pompilio fu re.
Comiciò con l’edificare al dio Giano un tempio, che dovesse essere chiuso in tempo di pace, e aperto in tempo di guerra. Rassicurò i popoli vicini con patti d’amicizia e d’alleanza, mostrando che i Romani non erano nati solo a battagliare per cupidigia di conquiste. Divise l’anno in dodici mesi secondo il corso della luna, stabilendo quali fossero i giorni fasti e quali i nefasti, quando cioè si potesse rendere o non rendere giustizia, istituì diversi ordini di sacerdoti, ed estese il collegio delle Vergini Vestali, e determinò tutto ciò che si dovesse fare per i sacrifici, per gli àuguri, per le cerimonie del culto, sì per i vivi che per i morti. E tutte queste cose, Numa asseriva, gli venissero suggerite dalla Ninfa Egeria, ch’egli andava di notte a visitare in un boschetto, in una spelonca presso la città. In breve, i Romani si trasformarono a segno che un giuramento e il rispetto della parola data, valesse più che il comando e il timore di una legge. Morì dopo 43 anni di regno e gli successe, eletto dai patrizi e dalla plebe, terzo re, Tullo Ostilio.
- Il miele deposto nei favi dalle api, simboleggia l'eloquenza persuasiva e la poesia.
TULLO OSTILIO
Romano d’origine, discendente dei primi valorosi guerrieri che s’erano illustrati con le gloriose gesta di Romolo, fu re bellicoso. Prendendo a pretesto un’incursione degli Albani nel territorio romano, spedì invano ambasciatori a chiedere soddisfazione, e non avendola ricevuta, bandì contro Albalonga la guerra.
Era dittatore degli Albani, Mezio Fuffezio. I due eserciti erano di fronte alle cosidette Fosse Cluilie, fra Alba Longa e Roma. e i soldati stavano per azzuffarsi quando Mezio uscì dalle file, e chiese di parlamentare. Disse al re Ostilio:
Tu sai quanto sia grande intorno a noi la potenza degli Etruschi, e com’essa sia più minaccevole a Roma, vicina al Tevere che non ad Albalonga sui monti. I nostri uomini che stanno per combattersi, hanno lo stesso sangue. Perchè gli Etruschi, che intanto ci guardano contenti, finiscono poi per sterminare tutti, vincitori e vinti? Troviano il modo di recarci il minor danno possibile col minor spargimento di sangue!
Facciamo combattere solo tre uomini, dell’una e dell’atra parte; dal loro duello si decida a chi spetti la vittoria. C’erano per caso tre fratelli tra i Romani e tre fra gli Albani, di eguale età, forza e sperimentato valore.La proposta di Mezio Fuffezio venne accettata e suffragata secondo le sacre formule stabilite dal re Numa Pompilio.
Disse un Sacerdote Feciale: mi comandi e vuoi tu o re Tullo Ostilio che io faccia l’accordo con il Padre patrato del popolo Albano?
Voglio!,rispose il re Ostilio.
Io ti chieggio allora l’erba sacra!
Prendila pure!
L’erba sacra era un pugno di gramigna, che doveva essere strappata sul Campidoglio; e potrato voleva dir l’eletto.
Avuta l’erba il Feciale domandò:
- Fai me, o Re, tuo nunzio e mandato reale del popolo romano, con i miei arredi e i niei compagni?
- Così faccio.,.rispose Tullo Ostilio, e ciò sia senza frode e senza danno, ne mio ne del popolo romano.
Allora il Feciale, toccando con della verbena il capo e i capelli d’un uomo virtuoso, che si chiamava Spurio Fusio. lo nominò padre patrato dei Romani.
E andò Spurio Fusio al campo degli Albani, lesse i patti dell’accordo, quindi soggiunse: Ascolta o Giove, ascolta Padre patrato del popolo albano, alscolta tu popolo albano; il popolo romano non sarà il primo che mancherà a questi patti, se mancherà per consiglio pubblico o fraudolento, allora tu o Giove, in quello stesso giorno, così percuoti e ferisci il popolo romano, come io ferisco ora questa vittima, anzi tanto più ampiamente feriscilo e percuotilo, quanto tu sei più forte e potente Così dicendo Spurio Fusio colpì ed abbattè la vittima con una selce, e altrettanto fecero gli albani, dopo di chè in mezzo ai due eserciti schierati, il combattimento fra i tre Orazi romani e i tre Curiazi Albani incominciò.
- Voi sapete già come si svolse la lotta; al primo scontro, due romani morti ed il terzo incolume; tutti e tre gli Albani feriti. Allora l’Orazio superstite finge di fuggire; i Curiazi lo inseguono, ma, essendo diversamente feriti, si distanziano fra loro. Improvvisamente il Romano si volge ed affronta il Curiazo più vicino e lo stende a terra; ansia fra i suoi. Affronta il secondo e lo rovescia, urli di gioia tra i Romani, va contro il terzo e l’uccide. Delirio da una parte, sgomento e angoscia negli altri.
Roma aveva vinto! Alba Longa diveniva vassalla della giovane città.
Tullo Ostilio comandò a Furio Fuffezio di non disciogliere l’esercito per marciare presto insieme, ai suoi ordini, contro i vicini Etruschi.
Si additano ancor oggi sulla strada di Albano, fuori Roma, gli avanzi delle tombe, che si disse aver retto i Romani ai due prodi Orazi caduti, e al tempo dell’impero esistevano i pili o colonne ove si credeva che il terzo Orazio avesse appeso come trofeo le armi dei due fratelli albani.
Scoppiò la guerra contro Veio ed era Fufferio Mezio, favoreggiatore del nemico in quanto gli rincresceva il vassallaggio impostogli da Roma. Marciò con Tullo Ostilio, ma non partecipò alla battaglia, che si combattè alla foce del Tevere, stando invece ad aspettare da qual parte pendesse la bilancia della vittoria.
Questa fu dei Romani. Venne allora Mezio Fuffezio a congratularsi, e Tullo Ostilio lo invitò al bnchetto per il sacrificio. Mentre gli eserciti erano schierati e i legionari romani stavano disposti alle spalle degli Albani, Mezio Fuffezio, accanto a Tullo Ostilio, era tenuto d’occhio da alcuni centurioni.
Ad un certo punto Tullo Ostilio parlò e disse:
- se vi fu mai guerra difficile per noi Romani, essa è quella che abbiamo vinto, contro i Veienti, poiché soli ci trovammo di fronte a loro. Di ciò non han colpa gli Albani perchè essi obbediscono al loro re! Ora io ho stabilito: per le comune fortune, tornino gli Albani e i Romani a formare un popolo solo, verranno gli Albani a Roma e avranno gli stessi nostri diritti di cittadinanza, con seggi nel Senato. In quanto a te, traditore, Mezio Fuffezio, come fra due fu diviso il tuo animo scellerato, così sia del tuo corpo. Fece un segno ai centurioni i quali apprestate due squadriglie in direzioni opposte, vi legarono in mezzo Fufferio. Poi, sferzarono i cavalli e il corpo del miserabile andò strappato in due parti.
La popolazione di Alba Longa fu trasferita a Roma e quella città spianata dalle fondamenta. Roma si raddoppiò e tutte le alture del Celio vennero occupate dai nuovi abitanti. Tra le loro case Tullo Ostilio eresse la sua reggia, si fabbricò una nuova più ampia Sede per il Senato, la quale dal nome del re fu detta “Curia Ostilia”. Dopo 12 anni di regno Tullo Ostilio morì. Si disse, per un fulmine che sterminò tutta la sua famiglia, avendo egli celatamente fatto un sacrificio a Giove, senza le cerimonie prescritte dalla religione. Si convocarono i comizi e il popolo elesse un nipote di Numa Pompilio; Anco Marzio.
ANCO MARZIO
Prima volle che tutti pubblicamente conoscessero i dettami religiosi ordinati dal suo avo Numa Pompilio e li fece incidere su al cune tavole ed esporre al popolo. Poi comandò che anche le guerre si bandissero secondo alcune norme religiose per avere favorevoli e consenzienti gli dei. Andava un Sacerdote, il Feciale, con il capo velato sul confine nemico e diceva: ascolta o Giove, ascoltate confini, ascoltino la giustizia e la ragione! Io sono pubblico ambasciatore del popolo romano e vengo giustamente e religiosamente mandato; sia dunque prestata fede alle mie parole.
Esponeva i suoi reclami e quindi chiamando Giove testimonio:
“ s’io empiamente o ingiustamente opero, o Giove, fa ch’io non possa più tornare a goder della mia patria":
e oltrepassava il confine e ripeteva le stesse parole al primo che incontrava, e davanti alla porta e sulla piazza della prima città.
Se in trentatre giorni non aveva soddisfazione, così s’esprimeva: -“ Odi, oh Giove; udite Giunone e Quirino e voi tutti idii del cielo, della terra,e dell’inferno. Io vi testifico che questo popolo è ingiusto, e non dà ragione, e di ciò giudicheremo a Roma.
E tornava a Roma. Il re convocava il Senato e se era caso di guerra, il Feciale di nuovo, tornato sul confine nemico, alla presenza di almeno tre testimoni di età non inferiore ai 14 anni, brandendo una lancia diceva: "poichè questo popolo ha operato e peccato contro il popolo romano, e il popolo romano ha voluto e comandato che si faccia guerra, e il Sanato del Popolo Romano ha giudicato, confermato e consentito che la guerra si faccia, per questa ragione io e il popolo romano annunziamo e protestiamo e facciamo guerra contro di voi".
E scagliava la lancia oltre il confine. Dopo di che muovevasi gli eserciti.
Anco Marzio combattè e vinse molte città latine, ne trasportò gli abitanti a Roma e coprì di case il Colle Aventino e la Valle Murcia fra l’Aventino e il Palatino. Fortificò il Gianicolo e l’unì con un primo ponte di legno a Roma. Tolse ai Veienti la selva Mesia fino al mare, dove, alle foci del Tevere fondò Ostia!
Or ecco che viene a stabilirsi a Roma un certo Lucumone di Tarquinia etrusca, il quale, nipote d’un fuoriuscito greco e sposato si con Tanaquilla di nobile stirpe, si faceva chiamare Lucio Tarquinio Prisco.
TARQUINIO PRISCO
Colto, ambizioso, spronato dalla moglie più ambiziosa di lui, ricchissimo, Tarquinio Prisco divenne presto l’amico e consigliere del re Anco Marzio, tanto che questi, dopo 24 anni di regno, morendo lo lasciò tutore dei suoi figlioli. Ma Tarquinio Prisco brigò in modo che fu egli stesso elevato al trono.
In quel tempo gli Etruschi erano assai più innanzi nella civiltà che non i Romani. Tarquinio Prisco venuto dall’ Etruria costruì il Circo Massimo, fece colmare la valle tra il Campidoglio, il Palatino e il Quirinale prosciugandola con la famosa Cloaca Massima spianandola per costruirvi il Foro; vi edificò d’intorno delle botteghe e gettò sul Colle Capitolino le fondamenta del tempio a Giove - Ottimo - Massimo, ed iniziò col cingere di mura la città. Nello stesso tempo guerreggiava contro Sabini, e Latini.
Fu allora che si celebrarono nel Circo Massimo per la prima volta i “Giochi Romani o Giochi Grandi”. con corridori e pugili fatti venire dall’Etruria. Aveva già accolto nella reggia, narrano sempre le antiche leggende, un figlioletto del vinto re di Corniolo, Servio Tullio, il quale, trattato dapprima come un servo, seppe accativarsi la benevolenza del re in tal misura che questi lo scelse come suo successore, e gli diede la propria figlia in isposa. Di ciò infuriati, i figli di Anco Marzio, che ancora vivevano e spera vano di recuperare il trono dell’avo, ordirono una congiura e fecero assassinare Tarquinio Prisco. Ne nacque un trambusto. Uscì la moglie Tanaquilla che ingannò il popolo dicendo che il re non era morto. Contemporaneamente spinse Servio Tullio a farsi avanti. Comparve questi vestito delle insegne reali, con buona guardia e coi littori. Il Senato lo riconobbe prima ancora che il popolo l’acclamasse, e i figli di Tarquinio fuggirono a Spessa Pomezia.
SERVIO TULLIO
Continuò i lavori e le guerre intraprese da Tarquinio Prisco, Da lui ancora una volta furono vinti i Veienti. Distribuì le terre con quistate, alla plebe. Istituì il censimento dividento la popolazione in sei classi, che a detta dell’antichissimo storico Fabio Pittore vivevano a Roma non meno di 80.000 cittadinini atti alle armi. La città si era enormemente ingrandita, e Servio Tullio la cinse di solide mura in pietra. di cui restano ancora avanzi, ed è straordinario rilevare come quelle mura non siano costruite sull’alto dei colli ma a mezza costa, secondo le concezioni della tecnica bellica moderna, e sull’Aventino gli avanzi delle mura sono alte anco ra 13 metri. Per non incorrere nello stesso pericolo del suo predecessore, il quale si era trovato contro i figli di Anco Marzio, il nuovo re aveva sposato le sue due figlie ai figli di Tarquinio Prisco, Lucio e Arunte; pessimo il primo, buonissimo l’altro.
E anche le sue due figliole erano l’una buona e l’altra cattiva, sposata la prima a Lucio e l’altra ad Arunte. Avvenne che il buon Arunte morì, e anche la buona moglie di Lucio passò in breve tempo da questa vita all’altra. Il cattivo vedovo si sposò con la cattiva vedova, e da due tristi non poteva avere origine che qualche fosco dramma.E così avvenne!
A Servio Tullio vecchio, Lucio non ambiva che di succedergli, Un giorno convocato arbitrariamente il Senato, buttò il re dalla scalinata della Curia, e lo fece trucidare dai suoi sicari. La moglie Tullia accorrendo a salutare per prima il re suo marito non si peritò di passare col cocchio sul cadavere ancora caldo del padre.
Così finì il sesto re di Roma Servio Tullio, dopo 44 anni di regno.
("Ritorna a Servio Tullio")
TARQUINIO IL SUPERBO
Lucio Tarquinio si acquistò ben presto presso i romani l’appellattico di superbo. Fece disperdere le ossa di Servio Tullio, con dannò a morte quelli ch’egli giudicò suoi nemici, esercitò il potere tirannicamente, confiscò beni e denari, disprezzò il Senato e non nominò più senatori, e si circondò d’armati.Paci e guerre ad arbitrio, i trattati e alleanze. Fu fortunato contro il Volsci, ai quali tolse Suessa, Pomezia e tanto bottino da poter compiere il gran tempio a Giove Massimo. Per conquistare la città di Gabio, vi mandò il figlio Sesto, facendogli fingere d’essere fuggito da Roma, perché malvisto e perseguitato da lui. I Gabini abboccarono all’amo, credettero a Sesto e lo accolsero ospitalmente. Che cosa debbo fare? Fece chiedere costui, da un segreto messaggero a Tarquinio il Superbo. E il padre, non azzardandosi ad affidare ad un messaggero una lettera o una risposta compromettenti, stette un po’ pensieroso. Poi si diede a stroncare con un bastone i fiori più belli del suo giardino. Và! Disse; racconta a mio figlio quel che m’hai veduto fare! Sesto comprese e troncò la testa ai più ragguardevoli personaggi di Gabio. e la città rimasta senza capi dovette arrendersi.
Vi fu una guerra contro Ardea, durante la quale, sorgendo una contesa fra giovani nobili romani su chi delle loro spose fosse la più virtuosa, alcuni decisero di tornare improvvisamente a casa e videro che la più virtuosa era Lucrezia, sposa di Tarquinio Collatino, trovata di notte a filar la lana con le sue ancelle.
Sesto, figliolo del Superbo, invidioso, la oltraggiò. Lucrezia non potendo sopravvivere alla vergogna si uccise. Fu come la goccia che fa traboccare il vaso; insorsero gli ufficiali, insorse l’esercito, insorsero i cittadini e l’intera popolazione. Capitanati da Giunio Bruto, figlio di una sorella del re, gli armati marciarono su Roma. Tarquinio il Superbo fuggì tra gli Etruschi;.la sciagurata sua moglie Tullia lo raggiunse. Sesto si ritirò a Gabio, dove venne ammazzato. Venne proclamato decaduto il Superbo e istituita la repubblica. Il governo monarchico era durato in Roma 244 anni.
ROMA ALLA CONQUISTA DELL'ITALIA
Roma, secondo la tradizione fu fondata nel 753 a.C. Nel 509, cioè 244 anni dopo la sua fondazione cessò il dominio dei Re. Nel 390 avvenne la terribile invasione dei Galli. Ma era fatale che dalle sciagure i Romani traessero novella forza e maggiore virtù, a superare l’avverso destino, i più potenti nemici, e se stessi.
Notate bene:
anno 390 occupazione e incendio della città da parte dei Galli; i Galli sono scacciati.
anno 388 sono nuovamente vinti gli Equi e i Volsci.
anno 380 si toglie agli Etruschi tutto il territorio sino alla selva Ciminia, e si stabiliscono colonie a Veio, a Camena, a Sutrio e Faleria.
anno 379 anche i Latini, ribellatisi, sono nuovamente sottomessi,e diventano romane Tivoli, Palestrina e Frascati (le antiche Tibur, Praeneste,Tusculum).
anno 360 sono soggiogati gli Ernici,
anno 350 costretti gli Etruschi di Tarquinia a chieder pace
anno 345:ridotti all’obbedienza gli Aurunci, nella parte meridionale del Lazio; gli Equi verso il lago di Fucino e gli ultimi Volsci, fino all’alto corso del Garigliano.
Di là cerano i Sanniti.
I MONTANARI DEL SANNIO
I Sanniti, derivati da un’antica Primavera Sacra – sabina -, costituivano la più potente popolazione dell’Italia meridionale. Si estendevano dalle coste del Tirreno a quelle dell’Adriatico, dal Garigliano
alla Apulia e alla Lucania; formidabili montanari, inattaccabili tra le loro balze, e i loro torrenti, avevano anche strappato Capua agli Etruschi e Cuma ai Greci. Qui, venuti a contatto con la splendida civiltà ellenica, i nuovi occupatori si corruppero e si rammollirono. A poco a poco, i Sanniti della pianura si distaccarono e si dimenticarono di quelli della montagna. Vi furono delle guerre tra loro, finchè Capua chiese aiuto a Roma. L’intervento della quale diede origine alla prima guerra sannitica. dal 343 al 341; i Latini sono sconfitti. Il loro esercito si ritira presso Suèssula; Suèssola cade. Pace fra i Sanniti, minacciati anche a sud dalla colonia greca di Taranto e i Romani, contro cui erano insorti ancora una volta i Latini. Dal 341 al 320 i Latini sono definitivamente battuti alle falde del Vesuvio e lungo le coste del golfo di Gaeta; i Romani occupano militarmente o popolano di coloni; Terracina, Lanuvio, Numentium, Aricia e Velletri. I rostri delle vinte navi di Anzio, vengono infissi a ornamento sulla tribuna degli oratori del Foro, Anche Cales, nella Campania, Fregelle fra i Volsci, e Sora sul Garigliano contro i Sanniti, vengono fortificate.
LE FORCHE CAUDINE
Dal 326 al 304,seconda guerra contro i Sanniti, per il possesso di Neapolis. I Romani invadono il Sannio, si cacciano nella stretta valle delle Forche Caudine, ma son circondati, disarmati e costretti a passare sotto il giogo e son fatti prigionieri i due stessi consoli;Vetario Calvino e Postumio Algino. Ma un nuovo esercito condotto da Lucio Papirio Cursore, sconfigge in vari scontri i Sanniti, li sbaraglia sotto Capua e li insegue fin presso la loro capitale Boviano, costretta a cedere; ne segue la pace con i Sanniti che dovettero abbandonare tutti i loro possessi sul mare e pace quindi con le popolazioni del centro Italia: i Marsi, i Peligni, i Frentani, i Marruccini e i Vestini.
IL COLOSSO SUL CAMPIDOGLIO
Dal 208 al 200 terza e più grossa guerra contro i Sanniti, cui s’erano alleati Umbri, Etruschi e Galli Senoni. La più cruenta battaglia avvenne a Sentino. nelle attuali Marche, ove le forze avversarie andarono sgominate. I Sanniti tentarono di risollevarsi e furono schiacciati ad Aquilonia; cercarono ancora di resistere sulle loro balze e tra i loro torrenti, ma dovettero infine piegarsi.E Roma per mantenerli in soggezione e difendere le nuove conquiste da estremi popoli dell’Italia meridionale, fondò una colonia di 20.000 Romani a Latina e Venosa. Con parte delle armi tolte ai Sanniti, si elevò sul Campidoglio in onore a Giove-Ottimo-Massimo, una gigantesca statua che si vedeva sin dai monti Albani. Nel 200, proprio vent’anni dopo l’invasione gallica, Roma era la più forte e grande potenza in Italia.
I ROMANI NELLA MAGNA GRECIA
Nel 284 la città greca di Turio invoca il soccorso dei Romani contro i Lucani. Roma interviene contro questi, ai queli s’erano uniti Bruzi e Apuli. A Nord si sollevano: Umbri, Etruschi, Galli Senoni e Boi. Per primi furono spazzati via i Senoni dalle terre che occupavano sul mare e costretti a rifugiarsi di là dal mare oltre il Danubio, alla Macedonia, all’Asia Minore; sul lido Adriatico si fondò una piazzaforte a Sena Gallica. Etruschi e Galli Boi vennero disfatti nelle battaglie campali del Lago Vadimone e Populonia. Furio fu liberata dai Lucani; i Bruzzi e gli Apuli si arrendono e si danno a Roma spontaneamente: Locri, Crotone, Reggio. I Romani erano a immediato contatto con Taranto, la fiera città che aveva avuto origine da una colonia di Spartani.
LA TOGA IMBRATTATA
Esisteva un trattato tra Roma e Taranto, per cui era vietato al le navi romane di navigare a oriente del promontorio Lucinio, oggi “Capo delle Colonne”, presso Crotone. Un giorno, una tempesta sospinse dieci navigli romani proprio nel porto di Taranto e la ciurmaglia li assale, cinque ne spoglia. massacrando o facendo prigionieri o vendendo schiavi gli equipaggi e ammazzando il capitano, I Tarantini poi si rivolsero contro i Romani di Turio, assaltando d’improvviso e occupando la città. Roma manda amba sciatori, e questi sono urlati e derisi, e a uno s’imbratta perfino la toga. Voi laverete queste macchie con molto sangue, disse l’ambasciatore!
II RE DELL'EPIRO,
PIRRO
E i Romani invadono e devastano il territorio di Taranto; i tarantini chiedono aiuto ai loro connazionali al di là dell’Adriatico, e viene, nella primavera del 280 Pirro, re dell’Epiro, con ventimila uomini inquadrati nelle falangi, che già con lui avevano percorso trionfalmente la Maceronia e la Grecia; con cinquemila frombolieri, 3.000 scelti Epiroti, e duemila saettatori, più tremila cavalli e trenta elefanti.
Pirro, ambizioso e superbo, uomo senza scrupoli, che aveva usurpato il trono allo zio Alceta e fatto poi
uccidere a tradimento il collega Neottòlemo; considerato allora il massimo dei condottieri, è reputato anccor oggi uno dei massimi capitani dell’antichità. Oltre il suo esercito i Tarantini avevano promesso di allestirgliene un’altro composto di trentamila fanti e duemila cavalli. Ma i Romani non si sbigottirono, Furono sconfitti all’ultimo momento a Eraclea essendosi i loro cavalli spaventati dalla presenza degli elefanti, mai visti prima, ma già i nemici avevano incominciato a ripiegare, e lo stesso Pirro venne
trabalzato di sella, ed uno dei suoi più valenti capitani, Megacle, che aveva indossato l’armatura del Re, per rianimare i soldati era stato ucciso. Soltanto gli elefanti salvarono Pirro e gli Epiroti. Ma quando la sera venne a sapere che sul campo erano caduti ben tantissimi dei suoi soldati e molti di meno appena quindicimila Romani e questi tutti colpiti nel petto, esclamo: un’altra di queste vittorie e dovrò tornarmene da solo in Epiro! E ...s’io avessi i Romani per soldati, o i Romani me per capitano; conquisteremmo il mondo!
APPIO CLAUDIO IL CIECO
Propose difatti ai prigionieri di arruolarsi sotto le sue bandiere; nessuno accetto! Nonostante che Sanniti, Bruzi e Lucani si dichiarassero per lui; egli offrì pace ai Romani. Mandò a Roma un eloquente oratore greco, Cinea, e già le trattive erano a buo punto quando la fermezza di un Senatore, dissuase i colleghi dall’accettare la pace. Mentre in Senato si discuteva, ecco che si fa accompagnar dai suoi figlioli un vecchio cieco, gia console e censore, vincitore di Etruschi, Sabini e Sanniti: Appio Claudio.
- Esca Pirro dall’Italia, poi, tratteremo: egli grida!
Le proposte nemiche vennero respinte, L’ambasciatore Cinea tornò dal re. dicendogli che il Senato Romano gli era sembrato non un’accolita di comuni uomini, ma di regnanti.
Fabrizio da Roma mandato a Pirro e da questi tentato di corrompere in tutti i modi con l’oro, con le lusinghe e con le minacce, gli strappò le famose parole:
- E’ più facile smuovere il sole dal suo corso, che Fabrizio dal sentiero della virtù!
LA SECONDA VITTORIA DI PIRRO
Si venne a battaglia l’anno appresso ad Ascoli di Puglia e Pirro ottenne ancora una vittoria, disastrosa quanto quella di Eraclea; questi colse al volo un’offerta dei Siracusani che chiedevano la sua protezione perché minacciati dai Cartaginesi. E se ne andò in Sicilia.
Vinse, rinsanguò l’esercito e tornò in Italia per chiudere la partita anche con i Romani. Il Console Furio Dentato gli inflisse una tale sconfitta a Benevento che Pirro perdette il campo, il bottino, milletrecento prigionieri, oltre i morti. I Romani gli tolsero anche quattro elefanti che, spediti a Roma suscitarono vero stupore tra i cittadini.
Pirro, sollecitati rinforzi inutilmente dalla Macedonia, dalla Grecia e dalle colonie greche dell’Asia Minore, dovè tornarsene in Epiro. Là vinse ancora, e in Macedonia, e in Grecia, ma. in una mischia o in un’ingresso ad Argo, si dice…una vecchia gli lanciò una tegola sul capo e morì. Dopo la morte di Pirro, Taranto, a cui anche ambivano i Cartaginesi, aprì le porte a Roma. Nel medesimo tempo si sottomisero anche i Sanniti, i Lucani e i Bruzi, che s’erano ribellati, e a Nord gli Umbri, i Piceni e gli Etruschi. Nel 264, cioè 126 anni dopo la distruzione della città, Roma, dominava su tutta l’Italia peninsulare, fra i tre mari, Ionio, Tirreno, Adriatico. A Nord, dalla parte di terra furono fissati i confini: da un lato il fiume Magra e dall’altro il fiume Rubicone
L’ETA' PIU FELICE DEL GENERE UMANO
LE CONQUISTE DI ROMA DALLA REPUBBLICA A TRAIANO
COCCEIO NERVA
Fu eletto Imperatore dal Senato dopo che venne ucciso Dominiziano; anno 96 d.C. Nato nel 26 a Narni, aveva già dunque settant’anni. Fu mite, giusto, benefico. Adottò ed associò all’Impero un prode e virtuoso vicecapitano, segnalatosi nelle guerre contro i Parti e nel governo della Bassa Germania: Marco Ulpio Traiano, il quale, dopo la sua morte avvenuta appena dopo sedici mesi, gli successe.
MARCO ULPIO TRAIANO
Imperatore dal 98 al 126, uno dei più grandi della storia romana. Nato in Spagna nel 53 da antica famiglia italica. Conquistò la Dacia (l’odierna Romania), l’Armenia, l’Assiria, la Mesopotamia e costituì la provincia dell’Arabia. con parte del Sinai e della Transgiordania. Sotto di lui Roma raggiunse il massimo della potenza e dello splendore. Costruì a Roma il Foro Traiano, la Colonna imponente che porta il suo nome, la grandiosa Basilica Ulpia e gli annessi Mercati, terme, acquedotti e altri monumenti.In Italia fece costruire colossali lavori nei porti di Civitavecchia, Ostia, Ancona ecc.; migliorò le strade e ne aprì delle nuove; lanciò il primo gigantesco ponte sul Danubio, Reduce da una spedizione nel Golfo Persico, si ramaricò di non essere più così giovane da poter correre fino all’India. Morì in Cilicia, designando a succedergli il cugino Publio Elio Adriano
PUBLIO ELIO ADRIANO
Dal 117 al 138 fu Imperatore eminentemente pacifico; viaggiò per tutte le provincie dell’Impero, accompagnato da una legione di tecnici agrimensori, architetti, costruttori che provvedevano ai bisogni dei vari paesi. Fece così erigere una linea di fortificazioni; il Vallo Adriano, da un mare all’altro della Britannia settentrionale, per contrastare le invasioni dei barbari Caledoni. Costruì ovunque acquedotti, terme, templi, anfiteatri, abbellì particolarmente Atene, ingrandì Cartagine, già abbandonata popolandola di Romani e a cui pose nome Adrianopoli, rifabbricò anche Gerusalemme chiamandola “Elia Capitolina”, vietandone l’accesso agli Ebrei. Fondò l’importante fortezza di Adrianopoli nella Tracia e più di venti altre città in Europa e in Africa. In Roma, oltre ai tanti monumenti ricostruiti o restaurati, eresse il !Tempio di Vesta”, e “la Mole Adriana”, che doveva essere un mausoleo per lui e i suoi successori e che, nel Medio Evo, divenne il famoso e formidabile Castel Sant’Angelo. Morì dopo aver adottato un senatore, suo genero Tito Aurelio Fulve, che prese il nome di Antonino.
ANTONINO PIO (Tito Aurelio Fulve)
Imperatore dal 138 al 161. Anch’egli amò la pace e non fece guerre se non di difesa. Eresse in Inghilterra una linea fortinicata, più a settentrione di quella di Adriano, lunga sessanta chilometri. Fu imperatore di grande saggezza e bontà, sì da meritarsi dai Romani il titolo di Pio. Un tempio di Roma consacrato da Antonino ad Adriano, e alla propria moglie Faustina, fu, dopo la sua morte dedicato anche al culto di lui. Era nato a Lanuvio nel Lazio. Gli successero, da lui adottati, Marco Aurelio, a cui aveva anche dato una figlia in isposa,e Lucio Vero.
MARCO AURELIO
Lucio Vero nel 169 morì e Marco Aurelio rimase il solo Imperatore. Nato a Roma da famiglia oriunta di Spagna, dovette combattere contro Quadi, Sarmati, Alani, Svevi, Vandali, Marcomanni, e altri popoli barbari, sbucati d’oltre Danubio a invadere le terre dell’ Impero. Marco Aurelio li vince tutti, ricacciandoli al di là del Danubio. Intanto le sue legioni sedano rivolte, in Arabia in Egitto e in Armenia; assaltano i Parti e prendono Babilonia, Seleuca sul Tigri e Chesifonte, incendiando la reggia di Vologese III. Il comandante Ovidio Cassio, si proclamò imperatore e Marco Aurelio fu costretto a marciare contro di lui, ma durasnte il viaggio seppe che era stato ucciso dagli stessi suoi legionari, Torna subito a Roma, ma viene richiamato sul Danubio a combattere una nuova invasione di Mammertini. A Vindoboma (Vienna) il 7 marzo 180, non ancora sessantenne, moriva durante la peste e la carestia che funestarono il suo regno, fu largo di soccorsi al popolo. e gli schiavi ebbero in lui un protettore chè, secondo lui tutti i cittadini dovevano essere uguali di fronte alla legge. Fu filosofo e come tale seguì la dottrina degli stoici. Scrisse i “Ricordi”, raccolta di riflessioni, considerazioni, massime di alto valore morale. In essi Marco Aurelio esamina la propria coscienza conversando con se stesso; vivere col pensiero rivolto agli dèi, non far nulla contro di loro, accogliere serenamente la loro volontà, sono i moniti che nei “Ricordi” Marco Aurelio spesso rivolge a se stesso. Ci resta di lui una celebre statua equestre, oggi sul Campidoglio e furono eretti tra l’altro durante il suo regno la colonna in piazza Colonna a Roma e l’Arco a lui dedicato.
GLI SPETTACOLI A ROMA
Tutta Roma è in effervescenza. Sulla via, pavesata di lauri e mortelle, seminata d’incensieri, dai quali salgono al cielo nuvole profumate, il popolo s’accalca. Ecco; arrivano i portatori delle corone di lauro concesse ai vincitori nei ludi; la sfilata è lunga, inteminabile, si tratta niente meno che di milleottocento corone. Poi, finalmente un cocchio, e ritto su di esso l’artista, vestito di porpora stellata, cinto il capo da una corona d’ulivo selvatico, sorride e invia baci alla folla plaudente. - Salute Divino! Oh novello Apollo. - Salute! - Beati coloro che han potuto udire la tua voce d’oro! Del fanatismo per gli artisti ce n’è sempre stato in tutti i tempi; però dobbiamo confessare che tali manifestazioni è difficile immaginarsele. Eppure sono avvenute, e alle volte anche in modo grandioso, più di quanto possa far intravvedere questo pallido accenno. Soltanto bisogna che vi dica che questa volta si trattava di …Nerone; e chi avrebbe osato non applaudire Nerone? Tornava proprio allora da un giro nella Grecia, la patria dell’arte, in ogni città aveva partecipato ai ludi artistici e… gli era stato sempre aggiudicato il primo premio. Egli ci teneva di più ad essere considerato grande artista che bravo imperatore. Non è stato forse detto che, davanti al terrificante spettacolo di Roma in fiamme, si sarebbe fermato compiaciuto a cantare! E quando fu costretto ad uccidersi per non cadere libero nelle mani dei suoi carnefici, quale fu il suo ultimo grido! Oh Giove, quale artista perisce, quale artista!
IL TEATRO
Assistiano a uno dei – ludi stati –
Andiamo all’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo. Siamo arrivati confusi tra la folla che va man mano aumentando, davanti ad un grande edificio che s’innalza con più ordini di arcate sovrapposte; attraversiamo uno dei corridoi chiamati – vomitoria – ed eccoci al nostro posto sulle gradinate. Nè i raggi del sole, né la pioggia potrebbero disturbarci, perché al di sopra è stato tirato un’enorme tendone; il – velarium.– L’anfiteatro è pieno di gente che vocifera; ad un tratto si fa silenzio, tutti si alzano e tendono il braccio. Sul largo ripiano detto – podium – situato al centro è apparso l’Imperatore. Di lì a poco, un suono di buccine, di tube, di corni, annunzia l’entrata dei gladiatori. Sono stati scelti tra i prigionieri di guerra, addestrati al combattimento; sono forti, robusti, fieri. Ecco i Galli armati di spada, col casco, i gambali e lo scudo; ecco i Traci, con un piccolo corto pugnale; i Sannites dalla corta spada; i Retinati, mnuiti dell’insidiosa rete e del tridente; ed ecco i loro avversari, i Secutore, Tutti si fermano davanti al palco dell’Imperatore tendendo il braccio e gridano ”Ave Caesar, morituri te salutant“.
E,..dato il segnale, il combattimento inizia.
I combattenti si guardano negli occhi, tentano schermaglie, ognuno studia l’avversario, cerca di anticiparne le mosse, di scoprire il punto debole. A poco a poco la lotta si anima, si fa feroce. I petti ansimano da quelle bronzee nudità; gocciola il sudore, non v’è più nulla di umano in quegli uomini che scattano come belve; gli occhi iniettati di sangue. Ecco là quei due Galli che s’avventano come forsennati, percuotono sinistramente gli scudi, ad un colpo più forte, uno di essi cade di schianto, stà per rialzarsi, ma è fermo e l’arma gli sfugge di mano; l’altro lo inchioda a terra ponendogli il piede sul collo, e guarda verso il palco dell’Imperatore. Questi sporge il pugno volgendo il pollice verso terra; la grazia non è concessa. Il vincitore s’inchina e trapassa il cuore al vint, che si abbatte con un gemito.
Più in qua verso di noi, un Retinato che ride sinistramente! Egli, benché ferito ad un braccio, è riuscito ad impigliare nella sua rete l’avvetrsario, che si dibatte furiosamente, tentando di liberarsi, tagliando il groviglio che lo serra e cade malamente mentre intorno si odono lazzi, scherzi e tutti tendono il pugno con l’inesorabile pollice rivolto verso terra in segno di sentenza di morte; e il tridente, come fiocina,si abbassa a colpire!
UNO SGUARDO AL PASSATO
UNA LEZIONE DI GEOGRAFIA AL TEMPO DELL'ANTICA ROMA
Si! Diceva il pedagogo agitando la sua bacchetta ai ragazzi come un rabdomante! Erodoto, il primo dei geografi greci, non poteva trattenersi dal ridere di coloro che pretendendo di disegnare il contorno della terra, senza avere alcun concetto ragionevole, suppongono che l’oceano l’abbracci tutta, la fanno rotonda come se fosse lavorata al tornio. I piccoli allievi, intanto, seduti alla bene meglio nella piccola stanza disadorna, ascoltano con occhi sbarrati e notavano appunti con lo – stilo – sulla tavoletta spalmata di cera, aperta sulle loro ginocchia, o si scambiavano pizzicotti.
- Tizio silenzio!
Erodoto invece si figurava la Terra come una superfice piana, indefinitivamente prolungata ai quattro lati e di cui non si possono conoscere i limiti. L’Europa per lui si estende da oriente a occidente più che le altre due parti del mondo. L’Asia e l’Africa unite insieme….
- Che cosa vuoi Caio?
- Volevo domandare se l’Egitto è in Africa oppure in Asia.
– In Asia! L’ho già detto mille volte!
Dunque: riepiloghiamo: furono i Fenici che si spinsero primi nel Mediterraneo occidentale e che si avventurarono al di là delle colonne d’Ercole nell’oceano Atlantico, esplorando le coste africane a mezzogiorno e quelle europee a settentrione fino alla Britannia. Essi tenevano celate le loro scoperte per non aver concorrenti nel commercio, e se incontravano sulla loro rotta qualche naviglio sospetto, lo affondavano.
- Benissimo! Abbiamo fatto bene noi Romani a distruggere la fenicia Cartagine!
- Silenzio! Ai loro tempi l’Europa era barbara e sconosciuta e difficilissima la navigazione.
Immaginatevi la gioia e la meraviglia degli eroi d’Omero quando dall’Africa, dopo un tragitto che parve miracoloso, approdarono in Sicilia!
Immaginatevi lo stupore dei legionari romani quando sboccando dall’Apennino videro apparire il grande spettacolo della pianura padana e quando incontrarono il Po, tante volte più grande del Tevere, e più a settentrione i bei laghi cisalpini, tanto più vasti dei nostri laziali, e la gigantesca catena delle Alpi, immensamente più alta e diversa degli Apennini, e di là, la Gallia, tanto più estesa dell’Italia, e più su col divo Cesare, di conquista in conquista e inseguendo il rotto esercito di Ariovisto e il fiume Reno, ancor più grande del Po, e oltre il Reno, le selvagge foreste della Germania, e di là dal mare la grande isola della Britannia, con le popolazioni seminude, che si dipingevan di turchino e abitavano le aguzze capanne.
Quando il divo Cesare vi sbarcò, e voi conoscete l’episodio del centurione che si buttò in acqua per trascinar con l’esempio i legionari, quei selvaggi Britanni scappavano.
- Ma la Britannia è un’isola o non lo è?
- E’un’isola, non date retta a Strabone, la Britannia è stata esattamente descritta dal divo Cesare.
Strabone è un gran geografo, ma nei suoi libri discute ancora se l’Italia abbia forma d’un triangolo o d’un quadrato e vuol farci credere che il Mar Arcano comunica con l’Oceano settentrionale, mentre lo stesso Erodoto affermava che è un lago e il nostro Pompeo, il quale vi arrivò con le legioni, assicura che è chiuso da ogni parte.
- Stà buono Caio!
- Che cos’è l’Oceano settentrionale?
- E’ l’Oceano che, a detta di Eratostene, bagna in linea retta le coste superiori dell’Europa e secondo egli anche le coste occidentali dell’Europa corrono in linea retta dall’Iberia alla Gallia, ma Eratostene, si potrebbe dire, è geografo un po’ sorpassato. Dopo il Reno, per lui, non v’è che la Scizia da una parte e la Scozia, dall’altra.
La grand’isola separata dal continente dallo stretto del Baltico è a sua volta separata dalle isole Albione e Tule.
- L’ultima Tule ?
- Quella che i poeti chiamano l’ultima – terrarum -Thule
- Chi la scoprì?
- Un Greco di Massilia, chiamato Pitea.
Le coste asiatiche invece, dalle foci dell’Eufrate, a quelle dell’Indo, furon la prima volta esplorate e descritte dal generale Nearco per ordine di Alessandro, il quale, con le sue imprese ci fece anche molto conoscere l’India e la Persia, già percorse da Ctesia e Senofonte.
Un’altro dei suoi uomini, Onesierato, rivelò l’isola di Taprobane. E non dimenticatevi che il primo a fissare sulle carte geografiche le linee parallele per indicare la posizione dei paesi, fu Eratostene.
- Lo scriviamo, maestro?
- Scrivetelo, ma aggiungete che le mappe furono poi aggiornate da Ipparco di Nicea e da Marino di Tiro, finchè Tolomeo, or non è molto v’ha applicato la latitudine e la longitudine.
- E le carte geografiche chi le ha inventate?
Le primissime si attribuiscono ad Anassimandro, scolaro di Talete. Si vuole che anche Democrito, contemporaneo di Erodoto disegnasse figure della Terra, non dovevano essere rare se Socrate ne mostrava una ad Alcibiade, per fargli capire quanto piccola cosa fossero i suoi campi in confronto della Terra, e se le carte son citate nelle commedie di Aristofane, e se i cittadini di Atene tracciavano figure geometriche sulla sabbia quando disputavano tra loro di conquiste e di guerre.
-Ma chissà che carte!
A proposito io ho letto nella quarta Georgica di Virgilio, e mi pare anche di Lucano che il Nilo scorre nell’India.
- Scorrerà anche nell’India.
Il Nilo non si sa dove nasca.
- E io ho letto in Orazio che i confini estremi della Terra sono in Britannia e nel Tanai.
- Non può essere, Si! Dice anzi Orazio, che la Britannia ha ad oriente la Germania, a mezzodi la Gallia, a occidente la Spagna e a mezza strada l’Hibernia.
- Sara’ cosi’. Ora torniamo a Strabone; sappiate ch’egli divide giustamente la Terra in cinque zone di cui solo due possono essere abitate. Tra queste due si estende una fascia “semper sole rubens”, come cantano Ovidio e Virgilio, e sempre rossa dal sole - et torrida semper ab igne - e sempre bruciata dal fuoco. Questa fascia è in Africa e al di la’possono esservi altri popoli; cosi’ crede Aristotele, e cosi’ il filosofo Crate. il quale pone in quella seconda misteriosa zona gli Etiopi. Lo credono anche Strabone e Mela i quali suppongono al di la’ un’altro mondo e lo credono anche i Pitagorici.
- Io, non saprei pronunziarmi!
- Smettila Sempronio!
- Non sono io!
- E’certo che, se veramente, secondo la teoria pitagorica il mondo dovesse essere rotondo…Smettila Sempronio…allora potrebbe anche darsi che sotto di noi vi fossero gli antipodi, com’è detto nel “Sogno di Scipione”
- L’avete letto! Sempronio!
- Ma non…sono io!
Avrete letto, anche, che Platone diceva di aver inteso dire da un suo avo, il quale l’aveva saputo da Solone, il quale a sua volta l’avea appreso da un vecchio sacerdote egiziano, che a occidente dell’Iberia lontano dalle colonne d’Ercole e nell’ oceano, c’e ra una volta un continente chiamato Atlantide, lungo 3.000 stadi e largo 2.000, allungato verso mezzogiorno e cinto a settentrione da montagne, che in altezza e bellezza superavano tutte le nostre, e ricco di frutti, d’uomini, d’animali, di metalli e specie d’elefanti e d’oro, bella e santa in principio, scrive Platone, poi l’Atlandide si corruppe e in una notte affondò.
- Io per conto mio, non ci credo. Non presto fede neppure a Colleo di Samo, il quale racconta di essere stato sbattuto da una tempesta sulle coste delle isole Fortunate dell’Atlantico; come, fede non presto, a chi asserisce che il ribelle Sartorio vi si volesse rifugiare, quando vide perduta la sua causa in Ispagna; tanto meno vorrò credere agli Antipodi.
Tolomeo Evergete II, affidò una volta una nave a Eudosso da Cizico per tentare il giro dell’Africa, Orbene Eudosso da Cizico non tornò più: perché?
- Sarà morto nella fascia –Semper sole rubems - ch’è cotta sempre dal fuoco!
- Bravo! Andate a casa ora; la lezione è finita.
(ritorna a Strabone)
Ecco i confini del mondo antico!
E l’esattezza delle carte?
Secondo Strabone il Mediterraneo è lungo 20 gradi di più di quanto non lo sia il Gange 46 gradi! e per Tolomeo il Pò nasce presso il Lago di Como, e la Dora va a finire verso il Garda.
Dagli altri popoli la Terra era considerat rotonda, a cubo, a disco, a cilindro, a barca. Nel 500 d.C., Cosma, il quale scrisse una topografia del Mondo cristiano, attribuisce ancora alla Terra la figura di un parallelogrammo.
LA MARINA DEI ROMANI (Scolte armate sul mare)
Abbiamo già parlato della navigazione fenicia, così in pari tempo anche la marina ellenica andava sviluppandosi sebbene molto lentamente, Occorreva il sorgere della potenza di Roma per eclissare nel Mediterraneo e fuori il ricordo di ogni altro prestigio marinaro. Com’erano le navi dei Romani? Come navigavano? Com’erano armate ed equipaggiate? Quanto erano lunghe? Lo sviluppo della potemza marinara di Roma fu, a tutta prima piuttosto lento. Per diversi secoli, al tempo dei re e nel primo periodo della repubblica, Roma fu continuamente impegnata in guerre terrestri destinate a estendere sempre più i suoi domini. In quei tempi, poi, la navigazione, specie nel Mediterraneo occidentale non era sicura.
I terribili pirati tirreni ed etruschi, assaltavano spesso le navi adibite al commercio uccidendo o traendo schiavi gli equipaggi e i passeggeri. I porti erano scarsi, tranne che nell’Egeo e sulle sponde orientali del Mediterraneo. Nelle stesse rade e baie di rifugio contro il maltempo mancavano i fari, esistenti invece in Grecia, in Egitto e nei principali centri Cartaginesi, sotto la rudimentale forma di un gran fuoco di legno, tenuto acceso tutta la notte su un’alta torre.
In quanto alla navigazione, questa era reputata sicura solo dalla levata della costellazione delle Pleiadi a quella di Arturo, (cioè dalla fine di maggio alla metà di settembre), e pericolasa fino al levarsi delle costellazioni del Capricorno e del Toro (cioè sino alla metà di novembre), e addirittura impraticabile fino a Marzo inoltrato, quando si celebrava la festa della riapertura della navigazione, per quanto questa potesse considerarsi pericolosa ancora fino alla meta di maggio.
I Romani non avevano torto, anche oggi per le imbarcazioni a vela, i soli mesi ottimi per navigare nel Tirreno sono quelli estivi, compresi tra giugno e settembre.
Di conseguenza le piccole navi di quell’epoca bordeggiavano alla meglio e appena il tempo minacciava, cercavano in fretta un rifugio.
I Romani
divennero grandi marinai solo durante e dopo le lunghe e gigantesche guerre puniche.
Già prima di allora si faceva distinzione tra navi mercantili e navi militari. Quelle dedicate al commercio erano di forma panciuta e rotondeggiante e facevano uso più di una grossa vela che dei remi, mentre per le navi da guerra si preferiva alla vela l’impiego dei remi che, rendendo la nave indipendente dai capricci del vento garantivano una maggior regolarità di navigazione.
LE PRIME NAVI DA GUERRA ROMANE
(Vedi Cartagine)*
Come si combatteva allora? Mancavano le armi da fuoco e i combattimenti si risolvevano in sanguinosi corpo a corpo. Il principale mezzo di offesa, in mancanza del cannone era costituito dall’urto. Ecco perché le prore delle navi da guerra erano munite di rostri in ferro o di bronzo che nell’urto contro una nave nemica gli squarciavano i fianchi, oppure la immobilizzavano incastrandosi profondamente nel fasciame dell’avversario e permettendo così ai due equipaggi nemici di aggredirsi e di combattere ad armi bianche. Allo scopo di venire più facilmente all’obbordaggio, il grande ammiraglio romano Caio Duilio, inventò il cosiddetto – corvo – una specie di ponte levatoio sulla prora e, presumibilmente girevole su un perno posto alla sua estremità posteriore. All’estremità anteriore invece il corvo era munito di una grossa punta di ferro, e lasciato cadere di peso sulla nave nemica si conficcava con questa punta nel suo tavolato. Allora i soldati romani, coperti dallo scudo si lanciavano a due a due all’arembaggio. Nè mancavano a bordo catapulte per lanciare pietre enormi sulle navi nemiche, e neppure arieti per battere le mura delle città assediate. Queste ultime macchine erano collocate spesso su un ponte costruito tra due navi accoppiate. Una terza imbarcazione più piccola, col suo moto in senso contrario a quello dell’ariete serviva a imprimere lo slancio alla gigantesca macchina da guerra, lasciata poi a funzionare di colpo. Nei combattimenti in mare, era però sempre preferito il colpo di rostro a cui seguiva l’attacco all’arrembaggio. Dopo le guerre Puniche, la marina romana non solo si perfezionò grandemente, ma assunse anche un’enorme sviluppo. Basti dire che nella guerra di Pompeo Magno contro i pirati che infestavano tutto il Mediterraneo e si annidavano specialmente sulle coste dell’Asia Minore, vennero prese novanta navi rostrate, cento non rostrate e distrutte milletrecento! Dopo la seconda guerra Punicha i Romani diedero per le loro navi da guerra, la preferenza alle velocissime Liburnie, unità piuttosto sottili e rostrate, che avevano solo due ordini di remi, poiché bisogna sapere che a quell’epoca le navi più importanti avevano tre ordini di remi, disposti l’uno sull’altro (donde la denomnazioni di trireme) e in qualche raro caso ne avevano fino a cinque (quinqueremi) e più. Non si trattava però di navi che possedessero tre o cinque ponti (piani) sovrapposti, come si potrebbe credere a tutta prima bensì, solo tre o cinque ordini di banchi per rematori disposti a diversa altezza.
LA TRIREME ROMANA
Immaginiamo di trovarci su una trireme nella ben riparata baia di Mizeno, una delle più importanti stazioni navali voluta dal genio di Augusto in fondo al golfo di Napoli. Questa stazione della flotta romana, con quella di Ravenna (porto di Classe) e di Forum Julii sulla costa azzurra (Frejus), serviva a controllare militarmente il Mediterraneo, già divenuto un’immenso lago di Roma. Ecco la bella nave ormeggiata presso una banchina. E’lunga circa 40 metri e munita di due alberi semplicissimi che sostengono due grandi vele rettangolari.
Queste vele sono di puro lino; è’già passato il tempo in cui esse erano di lana o di canapa. Sulle due vele sono ricamate in oro le cifre della nave e l’insegne del comando. Purtuttavia se questa trireme fosse destinata a trasportare un supremo capitano le sue vele sarebbero di color porpora o vermiglio. Le loro -ralinghe-, cioè i loro ordini, sono di pelle e per antichissima superstizione questa pelle è di iena o di foca: animali che si ritiene abbiano un potere di preservare dai fulmini. Esaminiamo ora lo scafo di questa bella nave da guerra. Essa è di ottimo legno di cedro, mentre l’interno è di abete. Una nave mercantile sarebbe stata invece costruita in pino, un legname meno pregiato. I corti e massicci alberi sono anch’essi di abete. Sommersa, la falsa chiglia della trireme è invece di quercia, e un bel color azzurro ricopre le murate. Si tratta di una tinta fusa con la cera: l’encausto. Altre navi vicine sono dipinte in porporino, vermiglio, giallo, verde, bianco, e in violetto. Una slanciata Liburnia da esplorazione, all’ancora poco lontano, ha lo scafo, nonchè le vele, dipinte in (color veneto: verde azzurro), che si confonde con quello delle onde; color mimetico di guerra. Osserviamo ora la prora.
Il bel rostro di bronzo a forma di punta di lancia che si protende quasi sott’accqia e che è destinato a colpire l’opera viva della nave avversaria, cioè le parti immerse della carena! Sopra questo, un altro rostro a forma di testa di cinghiale, pure di bronzo, il chè evita la corrosione della ruggine. Alto, sopra il secondo rostro sporge sul mare il castello di prora, con relativo corvo pronto per l’abbordaggio. La poppa levata e maestosa è bellissima. Alla sua estremità il chenisco raffigura una lunga coda di uccello acquatico, che s’apre verticalmente a ventaglio, simbolo del perpetuo galleggiamento della nave. Sul l’estrema poppa sorge una statuetta dipinta a vivaci colori, rappresenta un nume tutelare della nave, mentre le insegne romane, dorate, ornano pure a lato il lungo cassero poppiero, sotto il quale si aprono gli alloggi degli ufficiali.
Ma che cosa sono qeusti improvvisi barbaglii a prora?
Uno schiavo, agli ordini del nocchiero, fa rinfrangere la luce solare sopra un lucido scudo, e così trasmette ordini alle altre navi alla fonda. La telegrafia eliografica in uso nelle Marine di poi, ha avuto i suoi geniali precursori negli antichi Romani!
A BORDO DELLA TRIREME
Ed eccoci a bordo! Che bel ponte quello di sopra, ampio e spazioso; tutto vi è tenuto in ordine, tutto vi è nuovo, lustro e pulito! Ora i marinai mollano gli ormeggi costituiti da grossi cavi di canapa e recuperano l’ancora.Toh! L’ancora è una vera ancora di ferro, non un semplice sasso, come usavano i Greci e la gomena per trattenerla non più di lino o di canapa, è sostituita da una vera catena di maglie di ferro!
Un nocchiero vi dirà che la nave è denominata “Nilo”. Ecco perché a prora, sopra un secondo rostro, v’è un fregio scolpito con due simbolici coccodrilli. Una bireme vicina, che si chiama “Ida” ha per pregio prodiero un simbolico monte. Scendiamo sotto il ponte.Ecco i remi, sono enormi e disposti in tre ordini, ritirati nei relativi scalmi. Ma com'è possibile che un uomo, due, o anche tre riescano a muovere remi così grossi? E’semplicissimo. Alle loro estremità hanno un grosso peso di piombo, che controbilancia la resistenza delle pale nell’acqua.
L'equipaggio completo della trireme consta di duecentocinquanta uomini divisi in tre gruppi: schiavi rematori, marinai e soldati. Un capo militare comanda a questi ultimi, quasi tutti opliti, destinati in guerra ad andare all’abbordaggio. V’è poi un capo nautico o pilota, dalla cui perizia dipende la felice e sicura navigazione, nonché il buon esito delle manovre ordinate dal comandante militare. Né manca un nostromo, che ha conservato il nome greco di – prorati -, dal quale dipendono particolarmente gli – diopi -, incaricati degli scan dagli e di vigilare sulla rotta. Il remeggio è diretto da un capo ciurma, che ha numerosi aiutanti, nè manca il commissario o contabile che ha pure conservato il nome ellenico di – logis -.
Salpata l’ancora, si parte.
Il vento è debole e le due vele, pel momento, non vengono neppure spiegate. Se mai, rinforzando la brezza, fuori del promontorio Mizeno, esse verranno bordate. Il motore della trireme, è...umano! Esso è infatti rappresentato da centocinquanta schiavi seduti sui banchi di voga, incatenati alla murata per un piede. Si tratta di schiavi Numidi dalle membra color ebano lucido e muscolosi; di Traci, che sembrano statue di bronzo; di Galli, dalla carnagione molto chiara e dai capelli biondi o rossi. Il lungo esercizio li ha resi straordinariamente robusti, vere macchine di carne, atti oramai, come ben pochi, a uno sforzo prolungato e metodico. Dura e primitiva è la loro esistenza. A bordo essi trascorrono quasi unicamente sul banco di voga, sul quale si riposano, mangiando e dormendo. E’ la dura legge dell’epoca per coloro i quali osarono levarsi in armi contro Roma, e furono poi fatti prigionieri.
I banchi di voga sono disposti a differente altezza, allo scopo di guadagnare spazio. I rematori più in alto sono collocati dietro ai vogatori che si trovano in basso, allo scopo di non ostacolare i loro movimenti. Ripari di cuoio chiudono i fori di murata da cui passano i remi in modo che, eventualmente le onde non entrino nello scafo.
IL VIAGGIO SULLA TRIREME
E ora eccoci in viaggio. Gli schiavi incominciano a vogare, le loro plastiche schiene si alzano e si abbassano contemporaneamente.I muscoli si gonfiano. Il capo ciurma dà la cadenza della vogata a voce, ma spesso adopera per questo un flauto, un tamburello o un fischietto.
Navigazione meravigliosa sull’acqua placida, tersa, pura, e così intensamente azzurra della rada di Miseno, la trireme avanza sicura.
I tre ordini di remi si alzano e si tuffano con un moto sincrono e uniforme, scandito dal secco colpo che questi producono negli scalmi. Viste dalla spiaggia, tutte queste pale che si alzano e si abbassano assieme, fanno pensare alle zampe di un mostruoso insetto che corra sul pelo dell’acqua.
Navighiamo ora a cinque nodi e mezzo l’ora. (circa 10 km). Una velocità notevole che a vela difficilmente avremmo raggiunto con una velatura così semplice, tranne nel caso di una brezza molto tesa e favorevole.
Ad ogni modo, essa ci permetterebbe di raggiungere la Sicilia in meno di 30 ore di navigazione, Eolo e onde permettendo.
Nè manca a bordo un solcometro a nodi con relative ampolline a polvere per misurare la velocità. Un simile sistema era adoperato addietro nel tempo a bordo dei velieri. ma ora, la bella trireme è al largo.
Ecco l’ampia insenatura di Baia, tutta biancheggiante di marmoree ville, di palazzi, di templi e di terme. Baia era uno dei luoghi di villeggiatura preferito dai romani, un vero paradiso terrestre di delizie.
Più in là, ecco la vecchia Puteoli, l’antica Paleopoli o (città vecchia) oggi Pozzuoli, centro di commercio e di traffico marinaro, porto ausiliario del già grande arsenale militare di Miseno. Abbiamo ora doppiato la punta di Posillipo e la piccola isola di Nitida. Ecco aprirsi per l’intero davanti a noi l’arco lunato del gran golfo di Napoli. La terribile eruzione che seppellì Pompei, Stabia ed Ercola non era ancora avvenuta. Siamo all’epoca di Augusto e il Vesuvio (o Vesevo), erge il suo unico cono altissimo e non ancora de capitato.
Il vulcano è spento da secoli, ma stà per ridestarsi. Ecco laggiù la piccola nea-polis, chiusa tra le sue mura bianche e tutta circondata da amene colline. L’hanno fondata mercanti greci secoli or sono, chiamandola Città Nuova; un giorno sarà Napoli.
La trireme,ora, punta verso Stabia (oggi Castellamare). Sulle falde del Vesuvio presso il mare, dilaga e biancheggia l’abitato della sontuosa Ercolano, altro ricco centro di villeggiatura.
Al largo, in solitario baluardo montuoso c’è l’isola di Capri; conoscerà tra pochi decenni, sulle sue erte balze, i meravigliosi palazzi marmorei e le splendide ville del vecchio e stanco Tiberio, sazio di gloria militare e oppresso dall’amarezza.
Ora il vento si è levato, e la trireme spiega le sue bianche vele ricamate in oro.
Quanta ricchezza, civiltà e potenza militare adunate dai romani in questo golfo, una delle chiavi della loro potenza marinara nel Mediterraneo.
Non passerà un secolo, che la stazione navale di Miseno, enormemente ampliata, avrà i suoi porti interni nel lago di Lucrino e nel lago d’Averno, congiunti al mare da appositi canali.
Una lunga galleria, scavata sotto la collina di Posillipo, congiungerà Paleopoli a Nea Polis, in prolungamento della via Appia, e porterà ai legionari e ai marinai dell’immensa base navale gremita di navi da guerra in insegne di Orifiamme e di stendardi, l’acqua potabile limpidissima e fresca che sgorga dalle colline partenopee. E Miseno diverrà la più grande e perfetta stazione navale dei tempi antichi.
Il nostro immaginario viaggio è terminato; quale splendida epoca abbiamo vissuto con la fantasia!
L’ARTE DEI ROMANI
Quando Roma si affacciava alla soglia della storia, solo gli Etruschi, tra le popolazioni italiche primitive, avevano raggiunto, anche nell’arte, un alto grado di civiltà. E artisti etruschi affluirono numerosi in Roma, cosicché sul rude e realistico ceppo etrusco sorsero i primi saggi del l’arte latina.
Ma già dalle colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia, dalla Grecia stessa e dall’Asia Minore.
giungevano notizie ed esempi di una più grande arte sbocciata dal genio ellenico come un prodigio. Roma ne subì presto il fascino e chiamò dalla Magna Grecia artisti valenti a cooperare al suo rapido fiorire.
Con l’estendersi delle conquiste nel Mediterraneo, giungevano sempre più numerosi a Roma, condottivi dalle legioni vittoriose, capolavori d’arte e gruppi di artefici, sì che nel II s.a.C. , al dire di Plinio, v’erano a Roma più statue greche che abitanti. Se considerate che la grande conquistatrice faceva partecipi i popoli vinti della sua civiltà, voi capite quale vastità ebbe, per suo merito, la diffusione del classicismo nel mondo antico.Non dovete credere però che l’arte romana sia stata soltanto un’imitazione dell’arte greca.
Se i templi, le basiliche, i teatri, erano in gran parte ispirati ai modelli greci, costruzioni originali erano gli anfiteatri, come il Colosseo a Roma, le Arene di Verona, di Pola, di Nimes, di Arles, gli archi di Trionfo innalzati a ricordo delle vittorie imperiali, come quelli di Tito, di Settimio Severo, di Costantino a Roma, e altri ad Aosta, Ancona, Benevento, in città della Francia, della Libia, dell’Algeria; le colonne onorarie, le grandiose Terme, le immense opere di utilità pubblica, come gli acquedotti e i ponti con più ordini di archi: monumenti tutti che, nella suntuosità dell’architettura e nell’ardimento della tecnica, affermavano nel mondo la ricchezza e la potenza del dominio di Roma.
Un tempio, la cui forma non ha riscontro nell’architettura degli altri popoli, è il Pantheon *(Vedi Pantheon), ricoperto dalla più grande cupola a foroluce di nove metri di diametro ed oltre, costruita nell’antichità.
Volte colossali, quali non s’erano mai viste in passato, innalzarono gli architetti romani sulla basilica di Massenzio; e ancor’oggi ne ammiriamo pieni di stupore le gigantesche rovine, tra i ruderi del Foro Romano, che ci parlano di uno splendore architettonico che mai più ebbe nel mondo l’uguale.
La cultura romana, accanto ad alcune pregevoli opere originali (per esempio L’Ara Pacis Augustae), che si possono considerare la continuazione della grande arte greca, ci ha tramandato le copie di molti capolavori classici che sono andati perduti. Ma non fu questo il solo grande suo merito.
Una moltitudine di bellissimi ritratti fortemente realistici ed espressivi, il cui stile si riallaccia al verismo etrusco, ci fanno conoscere le effigi dei grandi protagonisti della storia di Roma, mentre numerosi, movimentati e drammatici basso rilievi, che ornano gli archi di trionfo e le colonne commemorative, rièvocano con viva naturalezza le gesta di alcuni imperatori e fanno rivivere ai nostri occhi, costumi ed immagini della vita romana.
Ben poco resterebbe a dire della pittura romana, che l’immane eruzione del Vesuvio del 79 d.C., non avesse serbato ai posteri quasi nella loro integrità, sepolte per secoli sotto un’alto strato di fango, di cenere e di lapilli, numerose case e ville di Ercolano e di Pompei, ricche di marmi, di bronzi, di pregevolissimi oggetti decorativi, di mosaici e di mirabili stucchi e pitture murali. Sono queste opere di valore prevalentemente decorativo, ispirate all’arte ellenistica, ma non prive di una spigliata originalità.
Vi è noto forse il vaghissimo fregio degli “Amorini”; raffigura una folla di putti alati intenti, con animato fervore, ai lavori cui presiedono le deità, Amore e Psiche. Da Pompei è stato tratto il celebre mosaico della battaglia di Alessandro.
Altri pregevoli lavori sono venuti alla luce negli scavi di Ercolano. Queste opere e l’affresco romano detto le “Nozze Aldobrandine”, ora nella Biblioteca Vaticana, costituiscono i saggi più preziosi e completi della pittura greco-romana.
ROMANIA
(cenni storici)
Abitata già prima dell'era cristana da Sarmati, Sciti, Daci, la regione fu unificata da questi ultimi(Dacia), ma poco dopo tra il 107 e il 117 d.C.,fu conquistata dall'imperatore Traiano. Colonizzata dai Romani, ricevette un' impronta latina, rimasta in parte attraverso i secoli, nonostante le vicende cui fu soggetta. Invasa dopo il 270 da Goti, Unni, Avari, Peceneghi, Cumani, Tatari ecc. Il romeno è una lingua romanza derivata dal latino dopo la conquista di Traiano.
RUTILIO
NAMAZIANO; CLAUDIO
Poeta latino di origine gallica. Dignitario imperiale, vissuto tra le invasioni barbariche, detesta Stilicone e inveisce contro l'ascetismo cristiano con paole roventi.
Nel poemetto "De reditu suo", (racconta in distici elegiaci di un viaggio per mare da Roma in Gallia, ricco di descrizioni della naaturae di reminiscenze erudite.
I versi più famosi sono quelli in cui anacronisticamente celebra la grandezza di Roma - Fecisti patriam diversis gentibus unam (Hai dato una patria comune a popoli disparati)
NOTE