SA - SC
SABAZIO
Mito culturale designante un dio affine a Dioniso e talvolta addirittura identificato con questi. D’origine frigia, giunse in Grecia, dove il suo culto assunse le caratteristiche dei misteri, diffondendosi poi in Italia e in Asia Minore. Era considerato una divinità della vegetazione e gli veniva attribuito un culto orgiastico.
SABINI
Antica popolazione preromana abitatrice di una zona del Lazio, che da essa prese il nome (Sabina), e comprendente la parte più elevata dell’Appennino centrale, con le valli superiori dell’Aterno e del Nera. Le caratteristiche etniche e storiche dei Sabini e la zona geografica della loro influenza, non sono facilmente ricostruibili, perché la loro lingua è sconosciuta data l’eseguità e la brevità delle iscrizioni rimaste e perché molto presto i Sabini si fusero con i Romani formando un solo popolo. A questa fusione si riferiscono indubbiamente molte leggende della prima storia romana, quali il ratto delle Sabine e la divisione del potere sul Campidoglio fra Romolo e Tito Tazio, re sabino di Curi. Roma occupò tutta la regione della Sabina al principio del III s.a.Cristo.
SAFFO
Poetessa greca (n. Ereso, Lesbo fine del VII° – m. Mitilene, prima metà del VI° s.a.C.). Di lei si sa ch’ebbe una figlia, Cleide e tre fratelli, e che per ragioni politiche esulò per qualche tempo in Sicilia. Conobbe Alceo che la defini “Saffo”, cioè capelli di viola, eletta, dolce ridente. A Mitilene si circondò di un gruppo di fanciulle devote ad Afrodite, e fu loro maestra d’opere delicate, di canto, musica e danza. Appartengono alla leggenda le vicende di un amore infelice della poetessa, piccola e brutta, per lo splendido barcaiolo Faone, per il quale si sarebbe poi gettata in mare dalla rupe di Leucade (tale leggenda è ripresa anche dal Leopardi ne “Ultimo canto di Saffo)". Secondo un altro filone leggendario, si sarebbe macchiata di amori contro natura. La polemica fra i difensori di questa o dell’altra leggenda, ha dato luogo alla cosiddetta “Saphofrage”o questione saffica, che si dibatte ancora. Comunque per intendere la poesia di Saffo va innanzitutto riconosciuta l’intensità e la qualità delle linfe sentimentali di cui essa si sostanzia ed è indispensabile tenere in conto la realtà assoluta dell’amore, come tempra dell’anima saffica. Scrisse nel dialetto eolico di Lesbo. Dei nove libri di cui in età ellenistica fu divisa la sua poesia, restano un’ode e vari frammenti (un centinaio circa). Vi si coglie un’acuta sensibilità per le forme della natura, ma anche un’amorosa attenzione agli oggetti raffinati, la cui evocazione rende evidente un gusto per la mollezza elegante. La bellezza degli oggetti e della natura, tuttavia, valgono come termine di confronto per la bellezza umana. Il bello è per Saffo ciò che si ama; scelta irrazionale ma che parla al cuore. Le odi più famose sono quella ad *Afrodite, preghiera alla dèa dell’Amore, perchè confermi la sua benevolenza e la liberi dalle angosce e quella dell’amore (tradotta dal Foscolo e da Catullo), in cui lo sconvolgimento psichico operato dalla passione, è evocato attraverso il rilievo dei turbamenti fisici con nuda e drammatica potenza.
Nelle canzoni popolaresche per nozze, i toni sono meno intensi, e predomina la grazia di scherzi, schermaglie, dispetti e lodi.
Nella sua poesia la musicalità dei valori si realizza senza che nessuna esuberanza spettacolare e nessuna effusività retorica turbi no il canto o l’emozione di chi in sé lo rivive.
(Vedi Faone)
INNO AD AFRODITE(in origine scritto in dialetto eolico
- (qui, traduzione dal greco)
-
O immortale Afrodite, dal trono variopinto,
figlia di Zeus, tessitrice d’inganni, t’imploro
non prostrarmi l’animo, o signora,
fra dolori e angosce,
ma vieni qui, se già altre volte
udendo la mia voce da lontano le hai prestato ascolto,
e, abbandonata la casa del padre giungesti
dopo aver aggiogato il carro; ti conducevano
veloci passeri sopra alla terra nera
sbattendo fittamente le ali, giù dal cielo
attraverso l’etere e subito sei giunta;
e tu, o beata, sorridendo nel tuo volto immortale
mi domandasti che cosa ancora soffrivo, e perché
ancora ti chiamo e che cosa voglio che accada per me
nel mio cuore impazzito; Chi ancora m’indurrò
a ricondurre al tuo amore?
Chi, o Saffo, ti oltraggia?
Infatti se ora fugge, presto inseguirà,
se non vuole ricevere doni, sarà lui a farne,
se non ti ama, presto ti amerà anche controvoglia “
Vieni da me anche ora, liberami dalla dura
angoscia, e quelle che il mio cuore vuole,
che per me siano compiute, compile,
e tu stessa siimi alleata.
L'Inno ad Afrodite (fr. 1 V. = 1 G.) è la lirica che apriva i libri delle poesie della poetessa lesbia Saffo. Essa ci è pervenuta intera grazie alla citazione di Dionigi di Alicarnasso[1]. Venere di Milo Nell'inno ad Afrodite, forse una delle più belle e delicate liriche pervenuteci, Saffo esprime la pena e l'ansia per l'amore non sempre corrisposto e il penoso tormento che questo le dà. Questa lirica assume la forma di una preghiera in cui, con il richiamo di un incontro precedente[2], cerca di coinvolgere la dea in suo favore ed ella, pronta, interviene in maniera diretta[3] con la promessa che Saffo si aspetta[4]. In questa poesia la forza emotiva si coniuga con l'eleganza e la dolcezza delle espressioni, che raggiungono l'acme nella sesta strofa in cui la parola della dea diventa impegno, conciso e perentorio. Ippolito Pindemonte, nella sua mirabile traduzione [5], è riuscito a cogliere e a rappresentare lo stato d'animo che la poetessa ha trasfuso nell'ode, mantenendo al contempo la potenza della passione e la soavità del tono poetico.
- Inno ad Afrodite - frammento
Trduzione di Pindemonte -
« Afrodite eterna, in variopinto soglio,
Di Zeus fìglia, artefice d'inganni,
O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio,
Di noie e affanni. -
E traggi or quà, se mai pietosa un giorno,
Tutto a' miei prieghi il favor tuo donato,
Dal paterno venisti almo soggiorno,
Al cocchio aurato -
Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli
Te guidavano intorno al fosco suolo
Battendo i vanni spesseggianti, snelli
Tra l'aria e il polo, -
Ma giunser ratti: tu di riso ornata
Poi la faccia immortal, qual soffra assalto
Di guai mi chiedi, e perché te, beata,
Chiami io dall'alto. -
Qual cosa io voglio più che fatta sia
Al forsennato mio core, qual caggìa
Novello amor ne' miei lacci: chi, o mia
Saffo, ti oltraggia? -
S'ei fugge, ben ti seguirà tra poco,
Doni farà, s'egli or ricusa i tuoi,
E s'ei non t'ama, il vedrai tosto in foco,
Se ancor nol vuoi. -
Vienne pur ora, e sciogli a me la vita
D'ogni aspra cura, e quanto io ti domando
Che a me compiuto sia compi, e m'aita. - qui la traduzione di Quasimodo della
- Preghiera ad Afrodite
- Afrodite, trono adorno, immortale,
figlia di Zeus, che le reti intessi, ti prego:
l'animo non piegarmi, o signora,
con tormenti e affanni.
Vieni qui: come altre volte,
udendo la mia voce di lontano,
mi esaudisti; e lasciata la casa d'oro
del padre venisti,
aggiogato il carro. Belli e veloci
passeri ti conducevano, intorno alla terra nera,
con battito fitto di ali, dal cielo
attraverso l'aere.
E presto giunsero. Tu, beata,
sorridevi nel tuo volto immortale
e mi chiedevi del mio nuovo soffrire: perché
di nuovo ti invocavo:
cosa mai desideravo che avvenisse
al mio animo folle. "Chi di nuovo devo persuadere
a rispondere al tuo amore? Chi è ingiusto
verso te, Saffo?
Se ora fugge, presto ti inseguirà:
se non accetta doni, te ne offrirà:
se non ti ama, subito ti amerà
pur se non vuole."
Vieni da me anche ora: liberami dagli affanni
angosciosi: colma tutti i desideri
dell'animo mio; e proprio tu
sii la mia alleata.
Un esercito di cavalieri, dicono alcuni,
altri di fanti, altri di navi,
sia sulla terra nera la cosa più bella:
io dico, ciò che si ama.
È facile far comprendere questo ad ognuno.
Colei che in bellezza fu superiore
a tutti i mortali, Elena, abbandonò
il marito
pur valoroso, e andò per mare a Troia;
e non si ricordò della figlia né dei cari
genitori; ma Cipride la travolse
innamorata…...
……ora mi ha svegliato il ricordo di Anattoria
che non è qui;
ed io vorrei vedere il suo amabile portamento,
lo splendore raggiante del suo viso
più che i carri dei Lidi e i fanti
che combattono in armi.
Simile a un dio mi sembra quell'uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza.
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, subito non posso
più parlare:
la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell'erba; e poco lontana mi sento
dall'essere morta.
Ma tutto si può sopportare...
Le stelle intorno alla luna bella
nascondono di nuovo l'aspetto luminoso,
quando essa, piena, di più risplende
sulla terra...
Squassa Eros
l'animo mio, come il vento sui monti che investe le querce.
Sei giunta: hai fatto bene: io ti bramavo.
All'animo mio, che brucia di passione, hai dato refrigerio.
Ero innamorata di te, un tempo,Attis.
* * *
una fanciulla piccola sembravi, e acerba
Ma tu morta giacerai, e nessun ricordo di te
ci sarà, neppure in futuro: tu non partecipi delle rose
della Pieria . E di qui volata via, anche nella casa
di Ade, invisibile ti aggirerai con i morti oscuri.
...
Esser morta vorrei veramente.
Mi lasciava piangendo,
e tra molte cose mi disse:
"Ahimè, è terribile ciò che proviamo,
o Saffo: ti lascio, non per mio volere".
E a lei io rispondevo:
"Va' pure contenta, e di me
serba il ricordo: tu sai quanto t'amavo.
Se non lo sai, ti voglio
ricordare...
cose belle noi godevamo.
Molte corone di viole,
di rose e di crochi insieme
cingevi al capo, accanto a me,
e intorno al collo morbido
molte collane intrecciate,
fatte di fiori.
E tutto il corpo ti ungevi
di unguento profumato...
e di quello regale.
E su soffici letti
saziavi il desiderio
...
E non vi era danza
né sacra festa...
da cui noi fossimo assenti
né bosco sacro...
da Sardi
volgendo spesso qui la mente
...
…simile a una dea, che ben si distingue,
ti (considerava), e godeva molto del tuo canto.
Tra le donne lidie, ora,
ella spicca, come la luna dita di rosa
quando il sole è tramontato
vince tutte le stelle. E la luce si posa
sul mare salato
e sui campi pieni di fiori;
e la rugiada bella è sparsa:
son germogliate le rose e i cerfogli
teneri e il meliloto fiorito.
Aggirandosi spesso, e ricordando
la bella Attis, ella opprime
per il desiderio l'animo sottile.
E andare li...
Madre dolce, più non riesco a tesser la tela;
sono domata dal desiderio di un ragazzo, a causa di Afrodite molle.
Come la mela dolce rosseggia sull'alto del ramo,
alta sul ramo più alto: la scordarono i coglitori.
No, certo non la scordarono: non poterono raggiungerla.
Come il giacinto, sui monti, i pastori
calpestano con i piedi, e a terra il fiore purpureo.
Eros che fiacca le membra, di nuovo, mi abbatte
dolceamara invincibile fiera
Attis, ti sei stancata di pensare
a me, e voli da Andromeda.
(ritorna ad afrodite )
(Ritorna a Faone)
SALAMINA
Isola greca situata nel Golfo Sardonico (95 kmq) a breve distanza dalle coste dell’Attica. In età Omerica l’isola era indipendente sotto la signoria di Aiace Telamonio, ma in seguito passò sotto il dominio di Megara, a cui la sottrasse Atene, al tempo di Solone e Pisistrato. La sua fama è dovuta alla battaglia conbattuta tra Greci e Persiani nel 480 a.C., descritta poi da Eschilo nei ”Persiani”.
SALII
Sacerdoti romani uniti in un sodalizio (soladitas) o confraternita costituito da due gruppi di dodici, detti salii palatini e salii collini dalla loro sede (il Palatino per gli uni e il Quirinale per gli altri). Erano in tutela della triade: Giove. Marte, Quirino. Indossavano un costume guerresco: le armi erano costituite da spada, lancia e da scudi detti ancili, per la loro forma biconvessa. Le loro sacre danze (Salii = danzatori), che avevano luogo in certi giorni di marzo, erano guidate da un “praesul” (colui che danza per primo), seguito dagli altri che ripetevano i suoi movimenti. Dei canti che accompagnavano la danza e che erano di due specie, inni e litanie, ci restano alcuni frammenti. Oltre che a Roma, avevano sedi nel Lazio (Tivoli, Tuscolo, Anagni); la loro istituzione aveva origini antichissime, alcuni la fanno risalire al re Numa, ed altri a tempi preromani.
(Vedi Quirino)
SALLUSTIO
CRISPO GAIO
Storico latino (Amiterno, Sabina n.86° a.C.– m. Roma 35° a.C.) Nel 40° fu espulso dal Senato romano per indegnità morale, ma reintegrato da Cesare, fu questore e quindi pretore e poi governatore in Africa. dove si arricchì (famosi gli “orti sallustiani ”)illecitamente. Dopo la morte di Cesare si ritirò e attese a scrivere: la “Congiura di Catilina”, la “Guerra Giugurtina”, e quindi “Le Storie” in cinque libri, relative agli anni 78° – 67° a.C., quasi interamente perduti. Queste opere di breve respiro e di apparenza frammentaria s’inquadrano nell’ambizioso pregetto di mostrare lo sviluppo d’una lotta di classe esplosa sul tentativo rivoluzionario di Catilina, ma radicata in una crisi sociale in atto almeno dai tempi della guerra contro Giugurta e riemersa alla morte di Silla. Ansioso di rilevare le cause ambientali, economiche e politiche dei fatti, egli sacrifica spesso la narrazione alle considerazioni che essi gli ispirano, tentando di offrire una storiografia filosofica e di mantenere una assoluta imparzialità tra aristocratici e democratici. Tuttavia la drammaticità dello scrittore si manifesta nei contrasti (contrapposizione dei discorsi, antitesi dei ritratti psicologici come quelli di Cesare e di Catone ecc.) e, in genere, con la vita che infonde ai protagonisti delle vicende. Lo stile di Sallustio, studioso ed emulo di Tucidite, presenta un arcaismo morfologico che gli conferisce una sorta di austera sostenutezza, mentre la sintassi ha un’articolazione libera, ardita e talora oscura.
- (Sallustio - Giugurta, 10, 6).
- "Concordia parvae res cresciunt, discordia maximae dilabuntur" - Con la concordia le piccole cose crescono, con la discordia anche le più grandi vanno in rovina
- Tito Livio nelle sue "Storie"
- ripete sotto altra forma la medesima sentenza:
"Duas ex una civitate discordia facit (II, 24).
(La discordia divide la città in due), e
"Nil concordi collegio firmius ad rempublicam tuendam (X, 22)"
Non vi è niente di più sicuro per la tutela di uno Stato, che un Consiglio di Governanti concordi. - L'Alighieri poi,
- attribuiva alla discordia fra le varie fazioni i mali che al suo tempo desolavano l'Italia, per cui prorompeva nella notissima invettiva:
"Ahi serva italia, di dolore ostello,
Nave senza nocchiere in tempesta,
Non donna di provincie, ma bordello."
SALMACE
La storia di Salmace ed Ermafrodito viene narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. Non è chiaro se Ovidio si limiti a narrare un mito greco preesistente o aggiunga elementi di propria invenzione. Nel suo racconto, comunque, Salmace era la ninfa di una fontana nella regione anatolica della Caria. Quando Ermafrodito giunse presso la fontana, Salmace se ne invaghì e lo abbracciò, chiedendo agli dei di poter restare eternamente con lui. Gli dei esaudirono la sua richiesta unendo Ermafrodito e Salmace in un unico corpo. Ermafrodito maledisse la fonte di Salmace, chiedendo che chiunque si fosse bagnato nelle sue acque avrebbe dovuto condividere il suo destino[1] .
SAMOTRACIA
Isola greca del Mar Egeo (178 kmq), posta di fronte alla costa macedone. L’isola ha subito una lunga serie di dominazioni; Macedoni, Romani e Bizantini. Dal 1530 appartenne a Genova e poi alla Turchia fino al 1912 ; anno in cui passò alla Grecia.
Nota fin dall’antichità per il culto misterico dei Cabiri, aveva un santuario abbellito con la statua di Scopa.
Celeberrima la Niobe conservata al Louvre che Demetrio Poliorcete dedicò all’isola in memoria della vittoria navale di Cipro (306 a.C.). Notevoli i propilei e una stoa .
"La Nike“ (Vittoria alata) - La più impressionante immagine del movimento tramandataci dall’arte antica. nello slancio possente del corpo e lo svolazzare tumultuoso del manto agitato dal vento - Louvre – Parigi.
SANCO
Sanco o Semone (anche Sancus, Semo Sancus, Fidius Sancus), è stata una divinità arcaica romana protettrice dei giuramenti, di origine Sabina.
Di origine umbro-sabina (la provenienza sabina viene menzionata da sant'Agostino d'Ippona all'interno del De Civitate Dei, XVIII°,19), venne associata a Zeus Pistios ed in seguito assimilata ad Eracle. Era considerato protettore dei giuramenti, e per questa ragione la sua radice etimologica si fa risalire al verbo sancire. Alcune parole (come "santità" e "sanzione"-per il caso di mancanza di rispetto dei Patti) hanno la loro etimologia nel nome di questo Dio. L'origine dell'attributo "Semone" è stata spiegata dai vari autori come derivante da: (1) "colui che presiede al tempo della semina e raccolto (dal verbo Serere, cf. il femminile semonia); (2) "colui che è oltre e superiore all'uomo" (se-Homo); (3) "semidio" (semi)[1].
Sanco era inoltre il Dio protettore dei voti nuziali, dell'ospitalità, della legge, del commercio e dei contratti in particolare. Alcune forme di giuramento sono state utilizzate nel suo nome e nel suo onore al momento della firma dei contratti e di altri importanti atti civili. Nel 446 a.C. fu costruito un santuario a lui dedicato a Roma, sul Quirinale, di fronte al tempio di Quirino e nei pressi della porta da cui prendeva il nome, la Porta Sanqualis. I sacerdoti chiamati bidentali, la cui esistenza è attestata da iscrizioni, sono stati specificamente collegati con il suo culto, dal momento che il fulmine che cadde dal cielo durante il giorno era condiserato come inviato da Dius Fidius, e una classe speciale di uccelli (sanquales) era sotto la sua protezione[3]. Nel suo Santuario sul Quirinale, la cui fondazione veniva celebrata il 5 giugno, venivano mostrati il fuso e la conocchia di Tanaquil, la moglie di Tarquinio Prisco, che agli occhi delle matrone romane incarnava tutte le virtù muliebri. Dionigi di Alicarnasso (IV. 58) afferma che il trattato concluso tra Tarquinio Superbus e la città di Gabi fu depositato nel tempio di Sanco, di cui egli traduceva il nome in Ζεύς πίστοις. Poteva essere invocato solo sotto il cielo aperto, come testimonianza della natura di un Dio che operava alla "luce del giorno"; quindi un'apertura rotonda è stata fatta nel tetto del suo tempio attraverso cui le preghiere avrebbero potuto ascendere al cielo. Se veniva invocato in una casa privata, coloro che avessero pronunciato il suo nome si dovevano alzare in piedi sotto l'apertura interna detta compluvium. Si ipotizza che le sfere bronzee situate nel suo tempio, cui fa cenno Tito Livio (VIII. 20.8), potessero avere qualche connessione con questo, anche se possono essere state semplicemente simboli del potere eterno di Roma. Inoltre al dio era dedicato un altare nell'Isola Tiberina all'interno di una cappella, l'iscrizione sulla quale ha portato gli scrittori cristiani (Giustino Martire, Tertulliano, Eusebio) a confonderlo con Simon Magus, e a dedurre che quest'ultimo fosse stato venerato a Roma come un Dio. Il culto di Semo Sanco comunque non ha mai posseduto un'importanza rilevante a Roma. Il plurale "Semones" è stato usato di una classe di esseri soprannaturali, una sorta di divinità tutelare dello stato.
Sanco era collegato in diversi modi alla dea Salus. I loro santuari (Aedes) erano molto vicini l'uno all'altro su due colline adiacenti del Quirinale, i colli Mucialis e Salutaris rispettivamente[4]. Alcuni studiosi sostengono anche che alcune iscrizioni a Sanco sono state trovate sul colle Salutaris[5]. Inoltre, Salus è la prima della serie di divinità menzionate da Macrobio[6] come collegate nella loro sacralità: Salus, Semonia, Seia, Segetia, Tutilina; tutte queste richiedevano il rispetto di un dies feriatus da parte della persona cui capitava di pronunciare il loro nome. Queste divinità erano legate agli antichi culti agrari della valle del circo massimo che tuttavia rimangono misteriosi[7].
La statua di Tanaquil posto nel Santuario di Sancus era famosa per avere nella sua cintura rimedi (chiamato "praebia") che la gente veniva a raccogliere[8].
La relazione tra "Sancus Dius Fidius" e Giove è certa nel fatto che entrambi sono responsabili del giuramento, sono collegati con il cielo luminoso del giorno e possono scagliare fulmini. Questa sovrapposizione di caratteri funzionali ha generato confusione circa l'identità di Sancus Dius Fidius tra gli studiosi antichi e moderni, in quanto Dius Fidius è stato talvolta considerato un altro teonimo di Giove[9]. L'ipotesi di G. Wissowa che Semo Sancus sia il genio di Giove[10] sarebbe invece da scartare in quanto anacronistica in quanto il concetto di un genio di una divinità è attestato solo nel periodo imperiale[11]. Comunque l'autonomia di Sanco Semone da Giove e il fatto che Dius Fidius è una denominazione alternativa di Sanco (e non di Giove) è indicato dal nome del corrispondente Umbro dio Fisus Sancius che ripete le due parti costitutive di Sancus e Dius Fidius: l'umbro (e sabino) Fisus sta a Fidius, come il Sabino Clausus sta al latino Claudius[12]. Il fatto che Sanco, come Giove, sia responsabile dell'osservanza dei giuramenti, delle leggi dell'ospitalità e della fedeltà (Fides), lo rende una divinità legata alla sfera e ai valori della sovranità, cioè nella terminologia di Dumezil della "prima funzione". Confermano il parallelismo alcuni dettagli del culto di Fisus Sancius a Iguvium (Gubbio) e quelli di Fides a Roma[13] come l'uso del "mandracolo", un pezzo di tessuto di lino che copre la mano destra dell'ufficiale, e della "urfeta" (orbita), tipo di piccolo disco di bronzo portato nella mano destra dall'offerente, e anche deposto nel tempio di Semo Sancus nel 329 aC Dopo una relazione di tradimento[14]. Alcuni aspetti del rito del giuramento di Dius Fidius, come la procedura sotto il cielo aperto o il compluvium delle residenze private, cosiccome il fatto che il tempio di Sanco non avesse tetto, hanno suggerito al romanista Sacchi romanista l'idea che il giuramento a Sanco Dius Fidius ha preceduto quello a Giove (Iuppiter Lapis o Iuppiter Feretrius), e dovrebbe avere origine nei rituali preistorici, quando il tempio era all'aria aperta e definito da punti di riferimento naturali come ad es. Il più alto albero vicino[15].
Il supposto corrispondente umbro, Fisus Sancius, è associato a Marte nel rituale del sacrificio alla Porta di Tesenaca come uno degli dei della triade minore[16] e questo dimostra la sua connessione militare in Umbria. Ciò potrebbe essere spiegato dalla natura militare del concetto di sanzione che implica l'uso della repressione. Anche il termine sanctus ha in diritto romano implicazioni militari: le mura della città sono sanctae[17].
Corrispondenza vedica
Roger D. Woodard ha interpretato Sanco come equivalente romano del dio vedico Indra, che deve contare sull'aiuto dei Maruti, secondo la sua visione corrispondente ai dodicesimi semones romani del carmen Arvale, nel suo compito di uccidere il drago Vritra liberando le acque. Egli rintraccia l'etimologia di Semo nella radice indoeuropea di IE *she(w) che rimanda ai significati di versare, fluire, cadere legati alla pioggia e alla semina[18].
Teorie delle origini non sabine
Citiamo Theodor Mommsen, William Warde Fowler e Georges Dumezil tra quelli che rifiutano la teoria tradizionale che attribuisce un'origine sabina al culto romano di Semone Sanco Dius Fidius, in parte per motivi linguistici in quanto il teonimo è latino e nessuna menzione o prova di un Semone sabino si trova vicino a Roma, mentre i Semones sono attestati in latino nel carmen Arvale. Secondo loro, Sanco sarebbe una divinità condivisa da tutti gli antichi popoli italici, sia Osco-Umbri che Latino-Falisci[19]. Per quanto riguarda la religione etrusca, N. Thomas De Grummond ha suggerito di identificare Sancus nell'iscrizione Selvans Sanchuneta trovata su un cippo scoperto vicino a Bolsena, anche se altri studiosi collegano questo epiteto a un gentilicium familiare locale[20] . La scritta Tec Sans trovato su statue di bronzo (uno di un ragazzo e quello dell'arringatore, diffusore pubblico) dalla zona di Cortona è stato visto come una forma etrusca dello stesso nome[21]
Bibliografia
Anna Ferrari, Dizionario di Mitologia Classica, Milano, TEA, 1994, p. 257, ISBN 88-7819-539-1.
SANNITI
Antico popolo italico, abitante il Sannio, che insieme ai Bruzi, Campani e Lucani faceva parte del gruppo linguistico degli Osco-Umbri. L’influenza dei Sanniti si estese fino al Mar Adriatico, e verso sud fino al golfo di Salerno. La loro prima comparsa nella storia risale al V° s.a.C, quando scesero nella Campania dove si scontrarono con gli Etruschi vincendoli e sospingendoli verso Nord. Nel 354 i Romani strinsero un trattato di alleanza con i Sanniti dell’Appennino, che avevano come capitale Boviano, ma quando i Sanniti del piano (in Campania) chiesero aiuto ai Romani contro quelli della montagna, cominciarono quelle tre guerre, dette sannitiche che ben presto si trasformarono in una dura lotta per la supremazia e il dominio della Campania, che si conclusero con la fine della potenza sannitica. La più lunga e importante delle tre guerre fù la seconda, che durò dal 327 al 304 a.C., nella quale i Romani, prima della vittoria finale dovettero subire un’umiliante sconfitta detta delle Forche Caudine. Nella terza guerra, Roma si trovò coalizzati i Sanniti con gli Etruschi,gli Umbri e i Galli, sconfiggendoli nella battaglia di Sentino nel 295 a.C.
SANTORINO
SANTERINI o THERA
Gruppo di isole della Grecia appartenendti all'arcipelago delle Cicladi. Comprende l'isola di Santorino, (Akrotiri) che ha forma di mezzaluna, volta verso Est, quella di Therusia, che uno stretto di due chilometri separa dalla precedente, e lo scoglio di Aspra o Aspronisi.
L'isola di Santorino, propriamente detta, lunga 17 km. e larga 2, ha una superficie di 71 kmq.,ed è di natura eminentemente vulcanica.
Nell'interno, sotto l'azione delle pioggie e dei venti, quel terreno è diventato fertilissimo e produce in quantità, varie colture e frutteti e vini celebri in tutto il bacino del Mediterraneo.
Notevole soprattutto il vino Santo bianco e rosso, notevolmente esportato.
Il capo luogo è Thera che sorge sulla riva occidentale.
Abitata in origine dai Fenici, colonizzata poscia dai Lacedemoni, divenne di poi cristiana col nome di Santa Irene, che quì fu martirizzata.
SAPIENZA
Isola della Grecia sulla costa meridionale del Peloponneso, all’angolo Nord Ovest della penisola di Messenia; lunga 7 km, e larga 2, porta l’eccellente faro di Porta Longa.
SARDEGNA
CENNI STORICI.
Le prime manifestazioni umane sono di età neolitica, mentre la caratteristica civiltà nuragica si protrasse per le varie fasi dell’età del bronzo. Fenici e Cartaginesi nel VII° s.a.C., ne colonizzarono le coste meridionali e occidentali, respingendo durante il secolo seguente i tentativi di penetrazione che venivano effettuati dai greci. I Romani vennero formalmente in possesso dell’isola nel 238 a.C., ma la loro penetrazione fu lenta e difficile, a causa dell’ostinata resistenza delle ribelli popolazioni locali. Occupata dai Vandali e poi dai Bizantini (che vi posero a capo un ”giudice”), l’isola cadde in un quasi completo abbandono, dal quale la trasse la Chiesa di Roma, che, specie con Gregorio Magno, compì il primo serio tentativo di ordinamento civile e religioso rimasta immune dall’invasione longobarda, non potè evitare le incursioni saracene, per fronteggiare le quali l’autorità del "Giudice", residente a Cagliari, si venne sdoppiando a favore dei funzionari preposti alla difesa dei territori maggiormente colpiti.Si formarono così spontaneamente i quattro”Giudici”; di Cagliari, di Arborea, di Lugodoro, e di Gallura, in cui l’isola rimase divisa (a partire dal secolo IX), senza ulteriori frazionamenti.
ARTE.
La cultura artistica della Sardegna vanta tratti originali, non solo nell’antichissima architettura dei nuraghi e nella famosa statuaria votiva in bronzo che fiorì alla fine dell’epoca nuragica, tra la metà del VIII e il III s.a.C., ma anche nei reperti dell’età Punica, più preziosi sia per numero sia per la qualità di quelli della successiva età romana. Gli scavi di Nora e quelli di Thàrros hanno confermato l’importanza degli insediamenti cartaginesi prima della dominazione romana. La continuità della cultura romana provinciale, e tardo - antica fu interrotta per poco meno di un secolo dalla dominazione dei Vandali (metà del V secolo 534); i Bizantini cacciandoli, la riaffermarono, ma ne accentuarono l’aspetto greco e orientaleggiante e al tempo stesso ne provocarono l’isolamento dalle culture che venivano sviluppandosi nelle altre regioni del Mediterraneo.
SARDIS
Vecchia capitale della monarchia di Lidia , situata nella pianura fra l’Ermo e il Pattòlo . Fu incendiata da Antioco il Grande. Ne rimangono alcuni avanzi nel villaggio di Sart.
SARISSA
La sarissa era la picca usata dai temuti guerrieri del regno di Macedonia. Lunga fino a 6-7 metri, aveva corpo in legno di corniolo di grande diametro, una grossa punta di ferro (circa 30 cm) ed un tallone pure metallico. L'intera lunghezza dell'asta era ottenuta con due rami distinti di corniolo uniti da un tubo centrale di bronzo, utile anche per bilanciare il centro di gravità.
Arma formidabile, se maneggiata da soldati ben addestrati, la sarissa poteva vanificare gli attacchi di un carro falcato, di una carica di cavalleria (risultato comunque ottenuto anche dai normali opliti della Grecia Antica) e frenare le cariche della temuta fanteria pesante greca.
SARPEDONE
o SARPEDONTE
- Sarpedonte era figlio di Zeus e di Europa, e fratello di Radamanto e di Minosse.
- l'omonimo Sarpedonte,
Entrò in conflitto con Minosse, o per la successione al trono di Creta alla morte del padre putativo Asterione o a causa della contesa per l'amore del giovinetto Mileto.
Sarpedonte emigrò in Caria, dove fondò la città di Mileto, secondo altre fonti fondata dal giovane eroe eponimo fuggito insieme all'amante. Secondo la genealogia tramandata da Diodoro Siculo, in Asia Sarpedonte generò Evandro, il quale si unì a Deidamia o Laodamia, figlia di Bellerofonte, dalla quale nacque:
l'eroe licio ucciso da Patroclo sotto le mura di Troia, in Omero detto figlio Zeus.
Quando Paride, figlio di Priamo, rapì da Sparta la regina Elena, moglie di Menelao e sorellastra di Sarpedonte, provocando una dichiarazione di guerra da parte di Agamennone e di tutti i capi achei, il figlio di Zeus, pur avanti negli anni, abbandonò la moglie e il figlio ancora neonato nella sua terra per accorrere in aiuto dei Troiani.
Egli partì insieme al figlio illegittimo Antifate (avuto da una schiava)[4], ai due fratellastri Claro e Temone (figli di Laodamia e di un mortale non noto) e a Glauco (che gli fu sempre fedelissimo compagno) con grandi truppe di guerrieri della Licia, provenienti dall'intera regione dell'Asia Minore.
Combattimento contro Tlepolemo
Nel bel mezzo della battaglia, quando Pandaro venne ucciso ed Enea fu colpito gravemente da Diomede, Sarpedonte avanzò verso Ettore e lo rimproverò aspramente per il suo comportamento privo di ferocia e foga nei confronti dei nemici;[5] le sue parole provocatorie irritarono particolarmente l'eroe troiano, il quale tornò in battaglia e continuò a fare vittime.[6] Ad un certo punto Tlepolemo, il valoroso guerriero acheo, figlio di Eracle, quasi spinto dalla Moira, si apprestò a raggiungere Sarpedonte e lo oltraggiò, criticandolo per la sua vigliaccheria e il timore della battaglia.
« Sarpedonte, anziano dei Lici, chi ti costringe
a nasconderti qui, tu che non sai la lotta?
Falsamente seme di Zeus egíoco ti dicono
molto al di sotto tu sei di quegli uomini
che nacquero da Zeus al tempo degli antichi »
(Commento di Tlepolemo Omero, Iliade, cap. V, versi 633-637)
Furente, Sarpedonte replicò duramente in risposta.[7] Poi scagliò l'asta di frassino contro di lui, nello stesso momento in cui Tlepolemo ricambiava il colpo. Sarpedonte colse il nemico in pieno collo, coprendogli gli occhi con la morte tenebrosa;[8] l'asta scagliata da Tlepolemo non fu comunque vana, ma colpì l'avversario alla coscia, penetrando fino all'osso, tanto che la Moira passò davanti al giovane eroe, ma venne subito allontanata dal padre Zeus, che molto teneva alla vita del figlio.[9]
Quando i compagni di Sarpedonte videro il loro comandante caduto e ferito gravemente, accorsero e lo condussero fuori dalla battaglia per farlo riprendere.[10]
Sarpedonte, accortosi ben presto che molti dei suoi uomini cadevano uccisi per mano di Ulisse, invocò Ettore, chiedendo al colmo delle lacrime il suo aiuto; ma l'eroe troiano rifiutò duramente, scavalcando il suo corpo e procedendo nei combattimenti.[11] Ben presto il capo licio venne portato in salvo dai compagni e disteso sotto la sacra quercia del padre; qui, il fedele amico Pelagonte gli trasse fuori l'arma e, grazie al soffio di Borea, egli poté riacquistare i sensi.[12]
Partecipò allo scontro presso le navi, dove brillò per coraggio ed eroicità. Protetto dal padre Zeus, incitò i guerrieri lici a superare le mura di cinta greche e uccidendo il guerriero greco Alcmaone, figlio di Testore, mentre cercava di fermarlo ad ogni costo. Infine riuscì addirittura a respingere, senza uccidere, Aiace Telamonio e suo fratello Teucro. Insieme agli altri comandanti troiani portò soccorso ad Ettore ferito a causa di un macigno.
Nonostante i presagi e le condizioni fossero perlopiù sfavorevoli ai Troiani, Ettore contò solo sul suo valore in battaglia e sulla paura che incuteva nei nemici e stabilì di attaccare direttamente l'accampamento acheo, per giungere sino alle loro navi. Il suo consigliere Polidamante lo convinse ad essere più cauto nelle sue mosse, invitandolo a dividere in gruppi l'esercito e a posizionarne ciascuno di fronte alle varie porte della muraglia.[13]
L'eroe troiano ascoltò il saggio consiglio dell'amico e impartì a ciascun capitano troiano l'ordine di organizzare un proprio gruppo.
La morte
Affrontò Patroclo, che indossava le armi d'Achille, ma riuscì soltanto a uccidere l'unico cavallo mortale del Pelide, Pedaso, finendo però egli stesso trafitto dalla lancia dell'eroe greco. Quando i greci iniziarono ad infierire sul corpo senza vita, intervenne Zeus che inviò Ipno (il Sonno) e Tanato (la Morte), i quali lo portarono in Licia dove ricevette gli onori funebri, come era stato stabilito dagli dei.
(da wikipedia)
SATIRA
Componimento letterario che ha per scopo di sottolineare e pungere con elementi soprattutto comici e grotteschi, ma spesso anche tragici, i vizi e i difetti umani, e quindi correggerne i costumi. E’ difficile ricostruire la storia della satira, perché troppo spesso i suoi motivi, temi e scopo, s’intrecciano con quelli della commedia, dell’epigramma, della poesia giambica in genere, della poesia eroicomica, ecc. La stessa etimologia della parola (satura = insieme di componimenti diversi nei versi e negli argomenti), è assai discussa e và ricollegata alla letteratura latina. La Grecia non ebbe infatti una vera e propria satira anche se molti furono gli autori d’intento più o meno satirico (commediografi, tragici, lirici, didascalici ecc.).
Alla satira latina si avvicinano alcuni autori di dispute poetiche, per lo più a sfondo filosofico (Menippeo di Gadara, per esempio da cui prese il nome di satira “menippea”). Ma, al di fuori degli schemi metrici che ce la rendono chiaramente riconoscibile negli autori latini, la satira greca, intesa nel signicato morale cui ci si riferiva prima, vanta i nomi di Aristofane, Menandro, Alceo, e Ipponatte, Archiloco ed altri, fino al tardo Luciano di Samosata.
Il primo scrittore latino di satire sarebbe stato Ennio, ma spetta a Lucilio il titolo di primo satiro in senso moderno. Grazie a Orazio, Persio e Giovenale, la satira fu tra i generi letterari romani la più originale. Fuori dai canoni del genere, gli autori satirici furo no molti anche a Roma; basterà citare uno per tutti Seneca, della “Apokolokýntosis ” e il Petronio del ”Satiricon”.
La satira medioevale è moraleggiante ed allegorica. argomento di essa sono i vizi del clero, la pedanteria dei filosofi, le consuetudini politiche, la fiacchezza dei costumi. Simboli della satira furono spesso, come in Esopo e in Fedro, gli animali (Roman de Renart). Particolarmente vigorosa la satira di alcuni trovatori, di Guittone d’Arezzo, degli stessi Dante, Petrarca, Boccaccio.
SATIRI
Divinità minori, viventi nei boschi e partecipanti al corteo di Bacco. Rappresentati come mostri, mezzo uomini e mezzo capre, col tirso (asta con tralci di vite ed edera intrecciata), o il flauto o la zampogna. Avevano tratti animaleschi che significavano il loro stato di abitatori delle foreste o di altri luoghi selvaggi. Erano concepiti come geni della natura, e ne rappresentavano il lato rumoroso, giocondo e sensuale. Petulanti, lascivi e paurosi; furono spesso confusi con i Fauni e i Panischi. Per questi caratteri ferini e caotici erano inclusi nell’orgiastico corteo di Dioniso, insieme alle menadi,e ad altri esseri della stessa specie.
SATURNALI
Festa del calendario romano al 17 dicembre. In tal giorno si sacrificava al dio Saturno, titolare della festa, in un tempio situato nel Foro. Il periodo festivo durava tre giorni con scambio di faci accese. Si realizzava, sullo schema delle feste carnascialesche e di fine d’anno, quella sospensione rituale dell’ordine, che in varie religioni,ripete le mitiche condizioni del caotico tempo delle origini, allo scopo di rigenerare periodicamente il mondo, facendolo come rinascere, con la conseguente restaurazione dell’ordine. Manifestavano la sospensione dell’ordine costituito, mediante il rovesciamento di alcune situazioni tipiche, per esempio, in quei giorni gli schiavi ottenevano un rapporto di uguaglianza con i padroni; erano permesse molte cose tra cui il gioco d’azzardo, vietato dalla legge per il resto dell’anno; feste rituali quindi, in ricordo della felice età dell’oro, in cui regnava quel dio (assimilato al greco Crono). I doni che si usava regalare ai convitati nel periodo dei Saturnali erano detti apoforèti.
(Ritorna a Saturno)
SATURNO
- SATURNO
- Saturno:
Figlio del Cielo e della Terra. Divoratore dei propri figli; Giove e Nettuno furono a stento scampati alla sua crudeltà dalla madre Rea. Deposto dal trono da Giove si rifugiò in Italia dove, secondo alcune tradizioni aveva regnato nel Lazio dopo Giano, insegnando l’agricoltura.
Note -
Dio Romano della semente, aveva un tempio nel Foro, ov’era conservato l’erario dello Stato. Dei caratteri originari poco si sa, perché fu identificato con il greco Crono nelle notizie degli antichi *esegeti (dotti di testi sacri). Il sostanziale carattere ”caotico” o ”primordiale” è comunque attestato dalla sua festa al 17 dicembre (Saturnali; latino Saturnalia). (Vedi Saturnali)
Esegeta, dotto in esegesi; interprete di testi sacri. Nell’antica Atene, erano le persone incaricate di far visitare i monumenti della città agli stranieri e di spiegarne le caratteristiche.
In Astronomia, Saturno è un pianeta che dista dal Sole in media 1426,1 milioni di Km; dal diametro equatoriale 9,6 volte quello terres tre; durata della rotazione: 10 ore e 14 minuti; durata della rivoluzione 29 anni e 167 giorni. Ha 9 satelliti; 3 anelli concentrici
piatti e sottili.
E il pianeta più appiattito ai poli e di minor densità 0,7. Atmosfera di idrogeno, ammoniaca e metano. E’uno dei 5 pianeti visibili ad occhio nudo, perciò noto fin dall’antichità.
Cielo di Saturno, sarebbe la sfera in cui Saturno girerebbe intorno alla terra secondo il sistema Tolemaico, l’ultimo dei cieli planetari; e sede degli spiriti contemplativi nel Paradiso dantesco.
Secondo gli astrologi, gli influssi del pianeta porterebbero alla malinconia, alla solitudine e alla contemplazione.-
Piombo; secondo le dottrine degli alchimisti.
SAVI
DELLA GRECIA
Una assai leggiadra e significativa leggenda riferita da Diogene Laerzio, collega i nomi di sette uomini greci, la cui saggezza si espresse in sentenze, care al popolo ellenico. “L’uso delle massime morali, dice il Friso nella sua - Filosofia Morale -, tanto invalse in questa età, che vi si creò la leggenda dei – Sette savi – rappresentatici non come filosofi moralisti, che raccolgono a sistema consigli morali e tentano la soluzione degli ardui enigmi della vita, ma, come autori di precetti frammentari, di sapienza pratica popolare, specie di proverbi morali che preparano il terreno alle omogenee dottrine della seguente filosofia morale. Ecco intanto la leggenda: alcuni giovani comperarono da pescatori di Mileto un getto di rete; essendo stato tratto fuori dall’acqua un Tripode , nacque contestazione, e i Milesi non potendo venire ad accordo, mandarono a consultare l’oracolo di Delfo. Il Dio rispose: “datelo al più saggio“, allora, se lo donò a Talete, che lo mandò ad un altro, e questi ad un terzo; infine lo ricevette Solone che lo mandò a Delfo, dicendo che, il più saggio era il dio. Nel Protagora di Platone, Socrate lodando l’abilità delle sentenze che avevano gli Spartani, aggiunse che tale abilità ebbero anche Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, Solone Ateniese, Cleobulo di Linda, Misone di Cene, Cleobulo di Sparta. Una tradizione più generale, come disse l’Artaud nel – Dictionnaire philosophique – del Frank, sostituisce al nome di Misone quello di Periandro, Tiranno di Corinto; altri vi aggiungono, Epimenide, Ferecide di Sciro, e Anacardi Scita. Stando al – Banchetto dei - Sette Savi – attribuito a Plutarco, la lista si eleverebbe a sedici. Non è affatto meraviglioso che esistano queste variazioni nel numero dei savi della Grecia; poiché sarebbe ridicolo ammettere che il numero sette abbia un significato storico; la fissità del numero è evidentemente la parte più favolosa di tutta questa tradizione. Il dato storico è soltanto quello a cui Platone accenna con le parole che fa dire a Socrate nel dialogo sopracitato; ossia che il genio greco si espresse nel primo sorgere della sua grandezza colla breve saggezza del proverbio. Energica condensazione del pensiero, chè insieme da esperienza e da ragione. Essi vivono tutti nel VI secolo avanti Cristo e si devono considerare non soltanto come filosofi, ma anche come uomini di Stato. La Grecia si trovava allora, come i popoli giovani e forti, in quel periodo di formazione in cui la morale pubblica è identica colla morale privata in cui non esiste anco ra quella corruzione della vita civile che è l’arte politica. A formare la ragione bastava il senno maturo ed eminente di singoli uomini i cui principi erano a tutti i contamporanei facilmente accessibili, perché espressione di quella morale di virtù saggia, che era in fondo alla coscienza di tutti. Completiamo quest’articolo col dare le più conosciute sentenze e consigli, a quei savi generalmente attribuite. Le sentenze le deduciamo da Demetrio Falereo, i consigli da Sosiade.
- SENTENZE
- Biante di Priene
- I più degli uomini sono malvagi – Considera te stesso, imprendi un’opera, e in essa ti ostina – Se sei bello, fai anche belle cose; se brutto, supplisci il difetto della natura colla bellezza delle opere – Pratica l’onesta, e guardati dà vizi - Intraprendi con senno e finisci con costanza – Non essere precipitoso nel parlare, non semplice, non maligno – Non dire che non sono gli dèi - Ascolta molto e parla poco – Se sei povero non biasimare il ricco, se non sia di grande utilità – Non lodare il malvagio perché ricco – Se hai fatto del bene, non a te, agli dèi ascrivine il merito – Guadagnati altrui con la persuasione, non con la forza.
- Chilone di Sparta
- Conosci te stesso – Tra i bicchieri non parlar molto, chè fallirai a te stesso – Non maledire aì tuoi prossimi, perchè n’avrai noia e molestia – A convivi degli amici tardo t’accosta, a loro infortuni accorri pronto – Celebra nozze frugali e temperate – Riverisci chi è più vecchio di te – Non essere curioso delle cose altrui, poiché verrai spiacevole e molesto alle persone – Preferisci il fango al turpe guadagno – Non farti beffa del povero, che sarebbe l’estremo dell’inumanità – Non giudicare sinistramente di chi è morto - Non parlar male dei trapassati, perocchè non possono rispondere – Non desiderare l’impossibile - Non camminar frettoloso, né dimenando le mani, indizio di persona poco sana di mente – Modera l’ira, e non dire improperi a chicchessia – Riconciliati con chi hai offeso – La lingua non precorra alla mente – Ama quasi odiassi, odia quasi amassi – Pensa prima di parlare, parlando non mover le mani – Non tentar cosa che non puoi compire – Frena la lingua e nei convitti massimamente - Dove maggiore è il pericolo, ivi adopera maggior cautela – Poco umano è minacciare agli amici – Fanciulla ch’è pudica e onesta, ha dote bastante - La vecchiezza è da aver si ad onore dai giovani, acciocché divenuti vecchi, essi siano onorati da altri - Fra giovani e vecchi dev’essere quella riverenza ch’è tra padri e figlioli.
- Cleobulo di Linda
- Onora i parenti - Custodisci sollecitamente il corpo e l’anima – Augura bene a tutti – Non maledire niuno – Meglio è desiderare d’imparare molte cose, che rimanere ignorante – Ascolta molto, ma non ogni cosa leggermente – Non fare in presenza altrui litigi, né lusinghe con donne, perocchè sarai reputato o scempio o insano – Non punire il servo ubriaco, se tu pure non vuoi parer tale - Prendi moglie fra pari tuoi, che così acquisterai parenti, non padroni.
- Periandro di Corinto
- Fa attenzione ad ogni cosa – Il turpe guadagno accusa la natura – L’imperio popolare è meglio della tirannia - Chi comanda per forza, pur cessando dal comando, è in pericolo – La temerità è pericolosa – Nella prospera fortuna sii moderato, nell’avversa prudente – Fa di renderti degno dei parenti tuoi – Ti governi per modo che in vita sii reputato lodevole, dopo morte beato.
- Pittaco di Mitilene
- Ricorda gli amici, siano presenti o lontani - Custodisci la tua fama presso quelli che hai obbligata la tua fede - Studia di rendere bello l’animo anziché il corpo – Come userai co' genitori tuoi, così ti sarà usato dai tuoi figlioli - Molesta cosa è l’ozio, cattiva l’intemperanza, intollerante l’ignoranza – Impara e insegna le cose migliori – Non restare in ozio – Se sei ricco, non nascondere altrui la tua ricchezza - Bada che, secondando l’invidia, tu non diventi misero e infelice.
- Solone di Atene
- Osserva l’onestà in tutte le cose - Fuggi la voluttà. perciocché genera tristizia – Sii integro nei detti e nei fatti – Parla e taci a tempo - Medita cose serie – Non essere facile ad acquistare nuovi amici, e gli antichi non rigettare leggermente - Consiglia ai cittadini non le cose piacevoli ma le migliori – A cessare le ingiurie fra gli uomini giova il lamento degli offesi e la riprovazione dei buoni – Non esse re audace né arrogante – L’abbondanza genera saturità, la saturità animo e buona voglia.
- Talete di Mileto
- Le molte parole non indicano sapienza – Non dire in prima, ciò che tu vuoi fare, acciocché venendo meno nella risoluzione, tu non sia deriso – Non dir riproveri agli sventurati, chè ne son vindici gli dèi – Non dir tosto villania all’amico, che t’abbia mancato in qualche cosa – Difficile è il prevedere il futuro – La terra è sicura, il mare infido, il guadagno insaziabile – Procaccia onestà e cerca riverenza – Scegli un’opera egregia ed onorata, e in essa t’affatica - Difficile è conoscere sè stesso, facile ammonire altrui – Nelle sventure guarda a chi è soggetto a maggiori mali – Se vuoi bene e onestamente vivere, non far quello che biasimi in altrui – Quegli è felice che è sano di corpo, saggio di mente, castigato nei costumi.
- CONSIGLI
- Cerca Dio – Osserva la legge – Rispetta i parenti – Cedi alla giustizia – Medita sopra ciò che hai imparato - Attendi a chi ti parla – Studia te stesso - Prendi moglie a tempo opportuno – Sii saggio sopra le cose mortali – Onora la casa del padre tuo – Astienti dai giuramenti – Signoreggia te stesso – Soccorri gli amici – Ama l’amicizia – Osserva la disciplina – Ama la gloria – Emula la sapienza altrui, le cose belle dì bellamente – Non biasimare nessuno – Loda la virtù – Pratica la giustizia – Guardati dalla malizia – Sii benevolo con gli amici – Sii schietto e costumato – Sii popolare – Custodisci il tuo ben proprio, e astienti dall’altrui – Augura cose liete – Gratifica gli amici – Evita le inimicizie – Usa bene il tempo – Pensa all’avvenire – Tien d’occhio ai servi – Istruisci i figlioli – Se hai qualche cosa fanne parte ad altrii - Temi dell’inganno – Parla bene di tutti – Sii ragionevole e filosofo – Giudica di ciò che è buono e diritto - Guardati di recar danno altrui – Desidera le cose possibili - [Usati cò savi] - Esamina l’ingegno e le usanze altrui - Ricerca il tuo cuore e i tuoi costumi – Restituisci ciò che non è tuo - Non far mali sospetti di persona - Usa la tua arte – Se vuoi donare, non indugiare – Sii grato ai benefizi - Non invidiare ad alcuno – Possiedi il tuo di buon diritto – Onora i buoni – Coltiva la verecondia – Rendi grazie a cui tu devi – Odia i litigi – Detesta la villania – Giudica direttamente, esamina integralmente, parla saviamente, conversa piacevolmente - Frena la lingua.
SCAMANDRO
o ANTUS
Lo Scamandro è un fiume situato presso la città di Troia e menzionato nei poemi omerici. È chiamato anche Xanto.
Il fiume è identificato con l'attuale fiume Karamenderes, a sud della collina di Hissarlik, sebbene il suo corso odierno sia più arretrato rispetto a quello dello Scamandro omerico.
Allo Scamandro e al dio fluviale relativo è dedicato il XXI° canto dell'Iliade: lo Scamandro si scaglia contro Achille, adirato per i molti corpi di giovani peoni gettati dall'eroe acheo tra le sue acque, ma viene fermato da Efesto con una pioggia di fuoco.
Ettore volle dare al suo unico figlio il nome del fiume: il bimbo si chiamò dunque Scamandrio, ma ebbe anche un altro nome, Astianatte.
Scamandrio nell'Iliade è anche il nome di un guerriero troiano, figlio di Strofio, che fu ucciso in combattimento da Menelao; nella stessa battaglia cadde, per opera di Euripilo, un altro guerriero troiano, di nome Ipsenore, che era il giovane sacerdote preposto al culto del dio fiume.
SCARPANTO
(anticamente CARPATO)
Isola dell’Fgeo fra Candia e Rodi. Ha miniere di ferro e cave di marmo
SCATONE
o CATONE VEZIO
Fu uno dei generali italiani nella guerra Marsica (90 a.C.), Sconfisse Giulio Cesare e Rutilio Lupo. Imprigionato si fece pugnalare dal proprio schiavo.
SCAURO
Cognome di parecchie genti romane. Gli Scauri Emili erano una famiglia patrizia dell’antica gente Emilia, ma rimasero per parecchio tempo nell’oscurità. I membri più celebri di questa famiglia furono:
- Marco Emilio,
- M. Emilio
- M. Emilio
- Mamerco Emilio
- Scauro Marco Aurelio
- Scauro Quinto Terenzio
nato l’anno 163 a.C., quando la sua famiglia era ridotta a condizione bassissima, Militò in Spagna e in Sardegna, ottenne poi la carica di edile, quella di pretore, e poco dopo, il governo dell’Acaia.
Nel 115 ottenne il consolato con pratiche vergognose, come il collega Rutilio, ch’egli fece condannare come colpevole di broglio. Promulgò leggi contro il lusso delle mense; fece sparire per mezzo di un canale navigabile, da Parma a Piacenza, le paludi formatesi in seguito ad alluvioni della Trebbia; fu il primo a penetrare nel paese dei Carnici, i quali sottomise par l’austera disciplina introdotta nell’esercito. Ritornato a Roma ebbe l’onore del trionfo e il titolo di - princeps Senatus – Nel 112 fu mandato in Africa col console Calpurnio contro Giugurta. Ambedue si lasciarono corrompere dall’oro di quel principe, e Scauro seppe, con incredibile audacia farsi nominare fra i giudici nello scandaloso processo, che ne derivò, e fu salvo. Fu quindi, censore e durante il rimanente di sua vita, campione abile e destro della nobiltà, sulla quale esercitava un gran ascendente. Morì a quanto pare nel’88 a.C. Egli scrisse parecchie opere, delle quali non rimangono che pochi frammenti.
Figlio del precedente, servì come questore nella terza guerra mitridatica, sotto Pompeo. Egli rimase in Siria fino al 59 a.C.,e al suo ritorno in Roma celebrò come edile i giochi pubblici, con uno splendore mai veduto fin là. Costruì un teatro capace di 80.000 spettatori, con 360 colonne disposte in tre ordini, di cui il più basso di marmo, il mediano di vetro e il più alto di legno dorato. Tremila statue sorgevano tra le colonne, oltre i dipinti ed altri ornamenti. Non meno splendidi furono i combattimenti con le belve, Le spese enormi da lui sostenute lo ridussero in tristissime condizioni pecuniarie. Se ne rifece saccheggiando la Sardegna come pro-pretore nel 55. Al suo ritorno in Roma fu accusato di concussioni, fu salvo per le ricordanze delle sue splendidezze come edile. Scauro si rese famoso per la costruzione di un suntuoso palazzo edificato sul Colle Palatino.
Figlio del secondo M. Emilio e di Mucia, prima moglie di Pompeo, accompagnò il fratellastro Sesto Pompeo in Asia dopo la sconfitta nelle acque di Sicilia, ma lo consegnò ai generali di Antonio, nel 35 a.C. Dopo la battaglia di Azio, cadde nelle mani di Ottaviano, e non sfuggì’alla morte, che per intercessione della madre.
Figlio del precedente, fu poeta ed oratore di vaglia ma dissoluto di costumi. Fu accusato di maestà, prima nel 32 d.C. ma Tiberio sospese il processo, poi di questo e d’altri delitti, nel 34 si suicidò.
Fu console nel 108 a.C. e tre anni dopo legato consolare in Gallia ove fu sconfitto e fatto prigioniero dai Cimbri, e ucciso.
Celebre grammatico, fiorì sotto l’Imperatore Adriano, compose un – Ars grammatica e commentari su Plauto, Virgilio, e l’Ars poetica di Orazio.
SCEPSIS
Antica città principale dell’interno della Misia, sull’Esepo; fu sede di una scuola filosofica. Si vuole che vi fossero sepolte le ossa di Aristotele.
SCETTRO
In origine lo scettro non era altro che un lungo bastone servente di appoggio, e colla sua maestosa lunghezza dava rilievo alla persona che lo portava. Assunto ad emblema di dignità reale, prese una forma meno rozza, dimensioni più corte, e fu sormontato da ornamenti varianti di forma, secondo i tempi ed i popoli. In Roma fu introdotto dai re della dinastia etrusca, che l’ebbero d’avorio. I consoli lo mantennero di egual materia, ma più corto. Più tardi lo scettro fu sormontato da un’aquila e portato dai generali vittoriosi della Repubblica, poi, dagli imperatori. Lo scettro fu qualche volta sormontato da un globo segnante il dominio terrestre; gli imperatori e i re cristiani vi aggiunsero una croce. Servì d’ornamento in tempi più recenti un globo su cui era sovrapposta una corona reale o imperiale. Luso dello scettro scomparve quasi del tutto assieme ai manti di porpora, amando meglio oggidì i prìncipi comparire nelle cerimonie ufficiali in divisa militare.
SCEVOLA
Gaio Muzio Scevola, il cui reale nome era Muzio Cordo
Nome di una famiglia patrizia romana, che le venne dalla leggenda del giovine C. Muzio. Costui, mentre Porsenna assediava Roma, uscì coll’assenso del senato dalla città, ed entrato nella tenda di quel Lucumone etrusco, scambiando il segretario per il principe, l’uccise d’un colpo. Arrestato immediatamente, dichiarò il disegno suo di uccidere Porsenna, soggiungendo per spaventarlo, che, molti altri romani erano deliberati allo stesso tentativo: ed in pari tempo, stesa la mano destra sul fuoco acceso pei sacrifici, ve la tenne fintanto il re, meravigliato di tanta fermezza, lo rimandò libero. Da questa circostanza, Muzio ricevette il nome di Scevola, ossia mancino, e il senato lo ricompensò con un tratto di terreno. Questo ed altri atti eroici dei romani, più o meno alterati dalla leggenda, contribuirono fuor di dubbio a chè i romani ottenessero dall’etrusco migliori condizioni di pace. P. Muzio Manilio fu, secondo Pomponio, insieme a Bruto, considerato il fondatore della -Jus civile -, ed uno dei più famosi legisti romani, specialmente pel - Jus pontificium -, ed è citato parecchie volte dai giuristi, i cui scritti sono stati adoperati pel – Digesto -. Fu tribuno della plebe nel 141 a.C., pretore nel 136, console nel 133, l’anno in cui Tiberio Gracco perdè la vita. P. Muzio L’augure, fu tribuno nel 128 d.C., edile plebeo nel 125, pretore col governo dell’Asia nel 121 e console nel 117. Fu celebre per le sue cognizioni legali. Q. Muzio fu tribuno della plebe nel 106 a.C., edile curile due anni dopo e console nel 95 con Licinio Crasso. Nel loro consolato fu pro mulgata la legge - Murcia Licinia de Civitate-, che contribuì allo scoppio della guerra sociale. Come proconsole, mandato a governare l’Asia, si procacciò la stima universale, e i greci, per dimostrare la loro gratitudine, istituirono in suo onore un giorno festivo. Appresso fu creato pontefice massimo, e finì ucciso dai partigiani di Mario, benché moderato d’idee e celebrato per equità ed onestà; il suo cadavere gettato nel Tevere. Cicerone nell' encomiare le virtù di Q. Muzio, lo dice il più eloquente dei giuristi, e il più dotto giurista fra gli oratori. Esso è il primo romano che abbia trattato scientificamente il - iius civile – ch’egli diè alla luce in diciotto volumi e che probabilmente servì da modello ai posteriori giuristi. Un’altra sua opera è citatas: - Liber singularis -, brevi regole di legge, delle quali si trovano quattro estratti nel – Digesto -. Non pochi giuristi lo commentarono. La – Cautio Muciana- che si trova nel – Digesto, fu immaginata da lui. Q. Servidio distintissimo giurista romano, pare fiorisse ai tempi di Antonino Pio. I suoi scritti di cui il –Digesto – ha 207 estratti, furono: Di gestorum libri quadraginta – Responsorum libri sex – Vigenti libri quaestionum – Libri quatuor regularum – Liber singularis qua estionum publice tractatarum; e pare anche un – Liber singularis de quoestione familiae -; scrisse pure note su Giuliano e Marcello.
SCHENEO
Scheneo, Padre di Atalanta.
SCILLA
Città della Calabria, in provincia e circondario di Reggio, all’entrata dello stretto di Messina, in faccia al capo del Faro. La città quasi completamente ricostruita dopo il terremoto devastante del 1783 si distende sul versante occidentale d’un ramo del Montalto (Aspromonte), il quale termina in mare col famoso scoglio di Scilla, così temuto dagli antichi marinai. Sembra che i frequenti terremoti, e la violenza delle onde abbiano molto allargato il passaggio fra Scilla e Cariddi, cosicché più non si sentono quei rumori che gli antichi paragonavano all’abbaiare dei cani.
SCILLACE
Celebre viaggiatore di Carianda, in Caria, invitato da Dario Istaspe ad un viaggio di scoperte per l’Indo. Percorso questo fiume fino all’Oceano Indiano, navigò da questo al Mar Rosso, compiendo il viaggio in trenta mesi. Queste notizie le abbiamo da Erodoto. Lo si fa da alcuni autore di un –Periplo-, contenente notizie molto interessanti sulle coste del Mediterraneo; ma i più, a ragione, attribuiscono quest’opera ad un geografo molto posteriore che sarebbesi servito del lavoro di Scillace. Il Periplo fu pubblicato nei – Geographi Graeci minores – di Hudson e Gall.
SCIPIONE
Nome di una famiglia patrizia, della gente Cornelia, che diede a Roma parecchi dè’suoi più illustri personaggi. A poca distanza da Porta S.Sebastiano, ammirasi ancora gli avanzi del sepolcro di questa onorata famiglia.
- P. Cornelio
- P. Cornelio
- L. Cornelio
- Lena.Barbato P. Cornelio
- Barbato L. Cornelio
- Asina Gneo Cornelio
- Lucio Cornelio
- Asina P.Cornelio
- Publio Cornelio
- P. Cornelio Africano Maggiore
- L. Cornelio Asiatico
- P.Cornelio Emiliano Africano Minore.
- Nasica P. Cornelio
- Nasica P. Cornelio
- Nasica Serapione P. Cornelio
Fu nel 396 a.C.,“Magister equitum” del dittatore Furio Cavillo; tribuno consolare nel 395 e 394. due volte interrè.(interregno)
Figlio probabile del precedente, fu uno dei primi edili curuli nel 336 a.C.
Fu interrè nel 352 e console nel 350 a.C., sotto Popilio
Console nel 328 con C. Plauzio, fu nel 306 dittatore pei comizi, e nel 305 a.C., pontefice massimo.
Figlio di Gneo, ottenne il consolato nel 298 con Gneo Fulvio Massimo Centumalo e battè, a quanto narra Livio, gli etruschi presso Volterra. L’anno seguente fu legato di Q. Fabio Massimo, contro i sanniti e nel 295 propretore nella grande campagna contro i galli, etruschi, e sanniti, comandando i consoli Fabio Massimo e Decimo Mus. Nel 293 combattè sotto Papirio Cursore, l’ultima campagna contro i sanniti.
Figlio del precedente, console nel 260 a.C., con Duillio, fu fatto prigioniero dai cartaginesi. Nel 254, nuovamente console, com- battè prosperamente in Siciliaa, ove prese Panormo (Palermo), ed ottenne l’onore del trionfo.
Fratello del precedente, console nel 259, cacciò i cartaginesi dalla Sardegna e Corsica, sconfisse Annone, e per ciò ottenne il trionfo. Fu censore nel 258 a.C.
Nipote del precedente, console nel 221 con M. Minucio Rufo, combattè col collega i pirati istriani e sottomessili interamente, ottenne il trionfo.
Figlio di L.Cornelio, console nel 218, fu mandato a combattere i cartaginesi in Ispagna; ma, come udì che Annibale stava per passare il Rodano, tornò per mare a Marsiglia. I disastri sofferti nel viaggio ritardarono la sua marcia, cosicché trovò che Anni bale erasi già internato nella Gallia. Allora mandò parte delle sue truppe in Ispagna col fratello Calvo Gneo, suo luogotenente, imbarcandosi egli col restante esercito alla volta dell’Italia. Si trovò davanti Annibale al Ticino, impreparato fu sconfitto e ferito. Giunti i rinforzi con Sempronio, Scipione, impossibilitato a comandare, lo consigliò a non dar battaglia; ma quello la diè e fu sconfitto alla Trebbia. L'anno seguente passò nella penisola Iberica dove il fratello che, con la benigna sua indole, aveva indotto già parecchie tribù a dichiararsi per Roma, occupato tutto il territorio fra l’Ebro e i Pirenei, e sconfitta la flotta cartaginese all’imboccatura di quel fiume. Giunto P.Cornelio, i due marciarono contro Sagunto, benché senza risultati. Sconfissero in quella vece (216-214) ripetutamente i generali cartaginesi in aperta campagna, ma nel 212, e l’uno e l’altro furono sconfitti ed uccisi.
Figlio di P. Cornelio, pare sia nato nel 234, Nel 218 combattè al Ticino, salvò il padre ferito, e nel 216 dopo la rotta di Canne, fù mercè la sua presenza di spirito, che gli avanzi dell’esercito romano non abbandonarono l’Italia. Nel 210 avendo i romani delibe rato di spedire un nuovo esercito in Ispana, per ricuperarvi i perduti territori, e, nessuno osando assumere il difficile comando, v’aspirò Scipione, benché non contasse che ventiquattro anni. Primo suo atto in Ispana fu di prendere Cartagena, centro della potenza cartaginese della penisola, e la generosità colla quale trattò gli ostaggi spagnoli, quivi trovati, gli amicò parecchie tribù indigene. Poco dopo riporta una gran vittoria contro Asdrubale, uccidendo e facendo prigionieri circa 30.000 nemici. Asdrubale allontanossi dal campo d’azione per raccogliere nuovi armati da condurre in Italia. Nel 207 una nuova vittoria dette ai romani quasi tutta la penisola L'anno appresso fè ritorno a Roma e consegnò all’erario gli immensi tesori raccolti durante la guerra spagnola. Il trionfo non gli fu concesso perché non ancora console, Innanzi al Senato sostenne contro il parere dei più assennati capitani e dello stesso Quinto Fabio, la convenienza di portar la guerra in Africa per costringere Annibale a lasciare l’Italia, e benché non ottenesse, se non l’assegno della Sicilia, come sua provincia, e il permesso di levare un esercito di alleati, egli preparato che fu, salpò da Lilibeo con un forte esercito, approdando, senza difficoltà in Africa. Nelle vicinanze d’Utica, sconfisse Asdrubale una prima volta, ed una seconda volta dopo pochi mesi Anche Siface, un re africano, alleato di Cartagine, ed emulo di Massimissa, amico dei romani, fu vinto e fatto prigioniero. Si venne a trattative fra le due città rivali, rotte ben presto per l’arrivo di Annibale. il quale vinse Massmissa; ma fu a sua volta, benché tentasse di evitar battaglia, pienamente disfatto da Scipione, presso Zama (203). Umiliantissimi furono i patti di pace che Annibale accettò con la speranza di rifarsene a tempo debito, Scipione, reduce a Roma, vi fu accolto col massimo entusiasmo, e ottenne il titolo di Africano. Nel 199 fu censore, nel 194 con sole, e principe del Senato per la seconda volta. Scoppiata la guerra contro Antioco di Siria, condotta dal fratello dell’Africano, questi vi prese parte come legato (190) e a lui si deve se la guerra fini così presto colla peggio di Antioco, presso Magnesia.
I meriti di Scipione non gli bastarono a fargli perdonare la patrizia alterigia. Accusato col fratello di aver preso dei danari dal re di Siria, egli non volle pure scolparsi, né che il fratello pagasse la multa per lui, per cui era stato condannato, e per cui furono al medesimo confiscati i beni, e non si sottrasse all’ira popolare,che, andando in volontario esilio nella sua villa di Literno, dove morì lo stesso anno (183), anno di morte del suo stesso rivale.
Militò in Ispagna sotto l’Africano e fu console nel 190 come già detto. Un discendente di costui, Lucio Cornelio Asiatico, aderì ai Mariani, nella prima guerra civile e fu console. (83) con Norbano. Silla indusse i suoi soldati a disertare, ed egli fu fatto prigio niero. Rimandato libero da Silla, fu compreso nella prescrizione e mandato libero, si rifugiò a Marsiglia.
Figlio di Paolo Emilio ed adottato dal figlio del primo Africano, nacque intorno al 185, e prese parte (168) col padre alla battaglia di Pidna. Egli fu una delle più splendide individualità romane. A profonda e raffinata coltura unì grande prudenza ed energia nel disbrigo degli affari. Per condotta morale e tatto pratico, fu non inferiore al padre, rassomigliava a l’avo adottivo per elevatezza d’ingegno. Nella sempre difficile guerra di Spagna (151) sotto Lucullo, diede prova di grande coraggio. Passò in Africa e fu dappertutto ammirato da amici e da nemici per, valore, prudenza e giustizia. Le cose romane volgendo in Africa alla peggio, nella terza guerra punica, fu eletto console. Scipione, benché non avesse l’età legale, poi che tutti designavano lui, come il solo che potesse debellare l’odiata rivale, (147). Appena giunto in Africa, Scipione salvò l’esercito vicino a perire, restaurò la disciplina e riprese l’assedio a Cartagine con ardore sì grande che ben presto riuscì a penetrare nel porto, e, benché il patriottismo dei cartaginesi operasse prodigi, egli in pochi mesi prese d’assalto la città e la distrusse dalle fondamenta. Sulle rovine della metropoli Scipione pianse pensando alla caducità delle cose umane. Pochi anni appresso il prode capitano fu mandato a distruggere un’altra eroica città Numanzia, intorno alla quale s’erano concentrati gli ultimi sforzì dell’indipendenza iberica (134). Quivi trovò pure l’esercito in deplorevole stato. La città fu presa per fame, ma era vuota di abitanti. Durante questo assedio scoppiarono in Roma i tumulti dei Gracchi. Quantunque la moglie Sempronia fosse sorella dei Gracchi, Scipione fu a questi contrario, ma contrario pure alle violenze dei patrizi. Trattandosi di alcune modalità da introdurre nella distribuzione delle terre ai plebei. Scipione già avversario dei demagoghi, fu gridato nemico del popolo, e finì assassinato nel suo letto (129).
Eletto console nel 191, sconfisse i Boi. Fu valente giurista.
Figlio del precedente, fu due volte console, censore e pontefice massimo. Nel 155 sottomise i dalmati. Nemico ardente di ogni innovazione, fu valente giurista e oratore.
Figlio del precedente e più di lui altero patrizio; nel 138 fu console, ma per eccesso di severità nel condurre la leva, fu posto in prigione. Ottenne celebrità quando in occasione della rielezione di Tiberio Gracco a tribuno, egli invitò i consoli a salvare la repubblica procedendo contro i fautori di quello e ricusando essi di ricorrere alla violenza, eccitò i Senatori a seguirlo conducendoli alla strage del popolino. Per questo fatto egli divenne così inviso al popolo, che il Senato stimò prudente mandarlo con una pretesa missione in Asia, dove morì.
SCITE
Tiranno di Zancle in Sicilia verso il 494 a.C. Fu tradito da Ippocrate, tiranno di Gela, il quale lo fece imprigionare. Egli fuggì e si rifugiò alla corte di Dario re di Persia, ove visse onoratamente.
SCITINO
Poeta giambico, nato a Teo. Volse in versi la grande opera del filosofo Eraclito. (Due suoi epigrammi sono riportati nell'Antologia greca).
SCOLIASTE
Voce di derivazione ellenica che significa interprete, commentatore, chiosatore. Due furono le scuole critiche ed esegetiche famose nell'antichità classica: quella alessandrina e quella bizantina. La prima fiorì nel primo secolo avanti l'era cristiana ed ebbe il suo più fulgido luminare in Didino Alessandrino, autore, secondo Seneca, di quattromila scritti, o di tremilacinquecento secondo Ateneo, soprannominato «viscere di bronzo», per i molteplici lavori da lui composti ad emendazione e, dichiarazione del testo degli antichi poeti e prosatori greci. I principali scoliasti poi della scuola bizantina, fiorita nel tratto di tempo che va dalla metà del secolo XII°, alla fine del secolo XV° furono i seguenti: Eustazio Vescovo di Tessalonica nel 1160, autore di commenti sopra le opere di Omero e di Dionigi Periegete Tzetze coetaneo del precedente; Demetrio Triclinio, fiorito nel secolo XV°.
SCOLII
Erano così dette dai greci certe canzoni che si cantavano nei conviti da singoli convitati, esperti nella musica e nella poesia ai quali veniva offerta la cetera o un ramoscello di mirto. Alcuni vorrebbero derivato da questo modo irregolare di porgere la cete ra facendola girare fra i convitati, il nome della canzone, che suona ellenisticamente curva o torta, ma queta sembra una etimolo gia poco probabile. Pare invece accettarsi quell'altra, per cui tale denominazione sarebbe derivata dal fatto, che nella melodia, con la quale si accompagnavano gli scolii, erano concesse certe licenze ed irregolarità, per rendere agevole l'improvvisazione.
I ritmi degli scolii a noi pervenuti sono assai vari ed affini a quelli della lirica eolica. Questo genere di componimenti venne coltivato particolarmente dai poeti di Lesbo; infatti, secondo la testimonianza di Pindaro, esso venne inventato da Terpandro e predi letto da Alceo e da Saffo.
Altri autori celeberrimi di scolii furono Anacreonte, Prosilla di Sicione, Simonide e Pindaro.
La maggior parte di questi componimenti hanno una breve estensione, e contengono delle semplici norme di condotta o invocazione agli dèi, o lodi degli eroi, come quello che si chiude con il seguente pensiero:
” Oh si potesse aprire il petto ad ogni uomo per indagarne il consiglio che vi sta rinchiuso, e poi di nuovo chiudendolo vivere con lui come amico sincero”.
Di maggiore lunghezza ed inportanza è invece lo scolio del cretese Ibria, che comincia così:
"La mia grande ricchezza è la mia lancia e la mia spada ”
e quella dell'ateniese Callistrato, composto in onore di Armodio ed Aristogitone, che uccisero in una festa Ipparco, tiranno di Atene, e restituirono a libertà i concittadini; esso incomincia così.
“Con rami di mirto vò nascondere la mia spada”.
Si avverta però che la tradizione su cui è fondato questo canto, non corrisponde alla verità storica, perchè Erodoto e Tucidite scrivono concordemente che a cagione dell'uccisione del mite Ipparco, fratello minore del tiranno Ippia il reggimento di questi divenne più intollerabile, ed Atene, non ne fu redenta, se non tre anni dopo, quando lo spartano Cleone, cacciò i Pisistratidi dalla città.
Oggidì si chiamano scolii le canzoni morali.
SCOPA
(SKOPAS)
- SCOPA
- SCOPA
Celebre scultore e architetto greco nato a Paro circa il 460 avanti l'era volgare. Grandissimo è il numero delle sue opere di cui adornò varie città della Grecia. Per il tempio di Esculapio in Arcadia scolpì due statue di Esculapio. L'isola di Samotracia vantava un suo simulacro di Venere, e la città di Crisa nella Troade, quella di Apollo sminteo. A Tegea, nel tempio di Minerva Alea, da lui riedificato, si ammiravano diversi lavori suoi. Fece per il tempio di Ecate in Argo, la figura di quella divinità, e, pel recinto esterno del tempio di Venere Celeste, la statua in bronzo di quella dèa; per la città di Tebe nella Beozia, scolpi i simulacri di Minerva e di Diana Euclea, Ornò Atene di due statue rappresentanti le Eumenidi e condusse pel tempio di Venere in Megara tre figure di genii simboleggianti l'Amore, il Desiderio e la Passione, i quali formavano parte di un monumento allegorico che fu poi compiuto da Prassitele. Scarse sono le notizie biografiche; si sa che collaborò alla decorazione del mausoleo di Alicarnasso, e dell’artemisio di Efeso, e che ricostruì il tempio di Atena Alea a Tegea, distrutto da un incendio. Fondamentali per la definizione della personalità artistica sono le sculture e le decorazioni frontonali ivi rinvenute; si tratta in prevalenza di teste consunte, nelle quali sono caratteristici un vibrato senso di pathos, ed una inquietante tensione psicologica attraverso la profonda incisione delle orbite e la drammatica accentuazione di taluni tratti fisionomici. Nella Menade di Dresda, piena di travolgente vitalità dionisiaca lo stile scopadeo raggiunge il suo più alto valore lirico. Enorme fu l’influenza di Scopa sulla plastica ellenistica ed italica; molte sue opere furono accuratamente e ripetutamente copiate; come per esempio il ”Meleagro” e “l'Eracle”. Grandissimo è il numero delle sue opere, di cui adornò varie città della Grecia. Per il tempio di Esculapio in Arcadia, scolpì due statue, l'una di Esculapio e l'altra di Igea. Fece i bassorilievi per il sepolcro di Mausolo, re di Caria, e pare che queste sculture fossero le ultime delle sue opere. Plinio cita, come esistenti a Roma, nel suo tempo , un Apollo, un Marte colossale e una serie di figure rappresentanti Teti, Nettuno, Achille e delle Nereidi portate da delfini e da cavalli marini che attiravano l'ammirazione universale. Sono celebri nell'antichità due statue di Scopa, un Mercurio e una Baccante
Etolo, nel 220 a.C. sconfisse i Messenii, i quali si allearono con gli Achei e con Filippo di Macedonia, e lo vinsero. Passò poi in Alessandria al servizio di Tolomeo V° ma, per le ricchezze accumulate insuperbitosi, ordì una congiura per impadronirsi del potere, Scoperto, fu ucciso, nel 196 a.C.
SCOPELO
(SKOPELOS)
Isola della Grecia sull'Egeo, a NE, della punta settentrionale dell'Eubea. Il capoluogo, così chiamato, sorge sulla costa orientale.
SCRIBONIA
- SCRIBONIA Gens
- SCRIBONIA
E mentovata al tempo della seconda guerra punica, e il primo membro di essa che ottenne il consolato fu C. Scribonio Curione, nel 76 a.C.. Le famiglie principali di questa gens sono quelle di Curione e di Libone.
Moglie d'Ottaviano Augusto, era già stata unita in matrimonio con due uomini di grado consolare, da uno dei quali, P. Cornelio Scipione, aveva avuto due figli, P. Cornelio Scipione, console nel 16 a.C., e Cornelia, moglie a Paolo Emilio Lepido, censore nel 22 a.C. Dopo la guerra perugina Ottaviano, temendo che S. Pompeo, parente di Scribonia, s'unisse ad Antonio contro di lui, sposò Scribonia, dalla quale si divorziò l'anno seguente (39 a.C.) il giorno stesso che gli partorì una figlia, Giulia per sposare Livia. Nell'anno 2 d.C., Scribonia accompagnò la figlia Giulia nell' esilio.
SCROFANO
Villaggio della provincia e del circondario di Roma ai piedi del monte Musino ed alla sorgente di un affluente di destra del fiume Tevere. Nei dintorni si rinvennero numerose sepolture scavate nei fianchi della montagna.
SCUDO
Arma di difesa degli antichi e moderni popoli, fatto di metallo, di legno, di cuoio o di qualunque altra materia resistente, che si portava col braccio sinistro e serviva a parare il colpi dell'avversario. Lo scudo assumeva varie forme e pertanto vari nomi, Accenneremo precipuamente lo scudo portato dai soldati romani gravamente armati, dei principi e dei triari. Questo scudo era fatto di doppie tavole di legno, di mediocre grandezza, di forma quadrilunga ricoperto di pelle, con una piastra di ferro nel mezzo, alquanto rilevata, chiamata umbo, e con due lamine di ferro, una al bordo superiore, per riparare lo scudo dai fendenti, l'altra all'orlo inferiore, acciòche non si rompesse, battendo a terra. Questo scudo di forma quadrilunga era proprio dei Sabini, e fu adottato da Romolo dopo la unione di quelli con i romani. Nei primi tempi di Romolo, lo scudo dei romani era il rotondo degli argivi, il vero clipeo celebrato dai poeti latini. Questo clipeo, dai greci denominato aspidesole, fu portato primeramente da Proteo ed Acrisio d'Argo Facevasi di vimini intrecciati insieme e anche di legno, e coprivasi di pelle. I Greci avevano anche uno scudo chiamato pelta.
SE - SK
SEGESTA
Antica città degli Elimi in Sicilia, le cui rovine sorgono a 4 km.da Calatafimi. Dopo aver a lungo combattuto contro Selinunte, la città entrò in guerra con Siracusa e chiese aiuti ad Atene che intervenne nel 415 a.C., con una massiccia spedizione risoltasi con un gravissimo rovescio militare. In seguito la città si alleò con Cartagine, ma all’inizio della prima guerra punica si alleò con Roma; i Segestani si consideravano consanguinei dei Romani, rifacendosi alla nota leggenda secondo cui la città fu fondata da Enea, città che sorgeva alle pendici e alla sommità del Monte Barbaro, poco lontano da un importante centro portuale, ed era circondata da una duplice cinta di mura con porte d’accesso fiancheggiate da torrioni. I resti archeologici sono costituiti da un tempio esastile in stile dorico risalente al V° s.a.C., e dal teatro, con profonda cavea e proscenio di tipo romano, esempio discretamente conservato di teatro ellenistico della metà del III° s.a.C.
SELINUNTE
Colonia greca della Sicilia, fondata nel 628 a.C., sulla costa SO dell’Isola. Tradizionale avversaria della confinante Segesta, fu incendiata dai Cartaginesi nel 409 a.C., e dopo la sua ricostruzione, gravitò sempre nell’ombra di Cartagine, sino alla prima guerra punica, che segnò la sua definitiva rovina.
La città, cinta d’imponenti mura risalenti a varie epoche, presenta una notevole importanza archeologica per la straordinaria regolarità della pianta, che costituisce un’interessante precedente dell’urbanistica ippodamea e per il grandioso sviluppo monumentale.
I templi, si indicano con le lettere alfabetiche, perché si ignorano le divinità a cui erano dedicate; sorgevano sull’acropoli ed erano di stile dorico, ma con caratteri notevolmente originali. Il più antico è il tempio “C”, con struttura perìptera e decorazioni policrome in terra cotta. Mole imponente (mt.113 x 54), aveva il tempio "G" o Apollonion, mentre quello ”E” era il più armonico nelle proporzioni.
Notevoli anche le metope dei templi ispirate al gusto locale, per un vivace movimento. Le metope del tempio ”C”, che risalgono alla metà del VI° s.a.C., sono rilievi efficaci nella composizione, ma limitati dalla mancanza di scorcio. Le metope del tempio ”E”, in pietra calcarea con inserite teste e parti nude femminili in marmo, sono rappresentazioni vivaci, abbastanza lontane dall’astrazione ed armonia greche.
Affine allo stile di queste metope, è una statua bronzea di giovinetto; « l’ Efebo di Selinunte ».
SEMELE
Divinità degli antichi Greci, figlia di Cadmo e di Armonia, amata da Zeus, morì incenerita per aver chiesto e ottenuto di vedere il dio in tutta la sua maestà; morendo diede alla luce Dioniso. (madre quindi di Bacco).
SENATO
Nell’antica Roma assieme ai magistrati e all’assemblea popolare, era una delle tre istituzioni in cui risiedeva l’autorità dello Stato. Già sin dalle origini, nel periodo regio, esisteva un “regium consilium” composto dai membri più anziani delle famiglie patrizie, che aveva il compito di consigliare e di affiancare l’azione di governo del re. Fu questa l’origine di quel Senato che nella Roma repubblicana aumentò a tal punto la sua autorità, da superare quella dell’assemblea stessa, che pure era sovrana. E questa prevalenza appare anche nella successione delle parole nella formula S.P.Q.R,”Senatus populusque romanus”, e da divenire nel II° s.a.C., il vero arbitro del governo di Roma, manovrando come strumenti sia l’assemblea, che i magistrati. In origine il Senato era compsto da 100 membri, tutti patrizi chiamati – patres –. Quando il numero fu portato a 300 in seguito alle lotte sociali tra patrizi e plebei, questi poterono entrare a far parte del Senato e furono detti – conscripti – cioè, aggiunti ai precedenti. Di qui nacque la formula allocutoria ”patres conscripti". Il titolo per essere ammessi al Senato variò con il tempo. Nel periodo repubblicano i Senatori venivano scelti dai Censori, fra coloro che avevano ricoperto la carica di edile, di questore, di pretore. Il console all’atto di rivestire il suo ufficio, nominava un princeps senatus tra i senatori più anziani ed esperti, il quale durava in questa dignità, che era soltanto onorifica, un anno. Il compito di convocare il Senato e di presiederne la seduta spettava ai Consoli. L’insegna dei Senatori era un grande anello d’oro, il laticlavio sulla tunica e le scarpe di pelle rossa. Inoltre avevano diritto ad un posto riservato negli spettacoli, il “locus senatorius”, e non potevano esercitare ne l’industria, ne il commercio. La sede delle riunioni non era sempre la stessa; la più frequente era la Curia Hostilia, ma talvolta anche il tempio della Concordia o quello di Giove Capitolino. Il principale compito dei Senatori, quando il Senato da organo consultivo divenne organo di governo, erano: la sorveglianza dei beni pubblici e delle finanze; la direzione della politica estera, con la conseguente potestà di ricevere e mandare ambasciatori; di decidere la pace e la guerra; di contrarre nuove alleanze; la dichiarazione dello stato di Emergenza, ”Senatus consultum ultimum”, con cui si demandavano ai consoli i pieni poteri; - “videant consules ne quid detrimendi res publica capiat “ Il Senato mantenne ancora parzialmente il suo potere sotto i dittatori, perché, mentre da una parte Silla e Cesare, coll’aumento dei senatori da 600 a 900, cercarono di legarsi personalmente l’assemblea e ne resero impossibile una vera azione governativa, dall’altra il Senato resisteva, difendendo le sue prerogative. Ma in epoca imperiale, benché continuasse a sussistere (poiché la monarchia conservò esteriormente le forme repubblicane), l’importanza del Senato andò sempre più scemando, fino a divenire un organo poco più che decorativo e un ordine chiuso a sostegno del trono.
SENECA
Seneca Marco Anneo
Retore latino nacque a Cordova, verso il 60 a.C. Recossi a Roma sotto il regno d'Augusto e vi insegnò rettorica. La sua scuola fu una delle più celebri del suo tempo. Sembra ch'egli si rendesse formidabile ai rivali col suo spirito mordace e caustico e che fosse dotato di memoria prodigiosa. Ci rimangono di lui due opere dai titoli seguenti: "Suasoriae et controversiarum", libri X, che si trovano ordinariamente a seguito delle opere di suo figlio, filosofo. Appartengono esse a quegli esercizi di rettorica, che nelle scuole chiamansi declamazioni. Si possono già riconoscere le tracce di quel falso gusto e di quella turgidezza che vennero giustamente rimproverate alla scuola spagnola. Seneca morì a Roma nel 32 d.C.,in età avanzata.
Seneca Lucio Anneo
Filosofo, pensatore, tragediografo latino (n. Cordova l'anno 2 o 3 dell'era cristiana). Fu ancora fanciullo condotto a Roma dalla famiglia, coltivò di buonora l'arte della parola, destinato com'era alla carriera delle leggi. I suoi gusti, in accordo con l'amore alla tranquillità, lo immersero nello studio della filosofia. Egli fu anzitutto discepolo di Sozione il pittagorico; più tardi si attaccò allo stoicismo, con certa indipendenza di spirito. Pervenne d'altronde alle più alte cariche pubbliche, ma nel 41, implicato negli intrighi della famosa Messalina, fu esiliato in Corsica e richiamato solo nel 49 da Agrippina, che lo innalzò alla pretura e lo incaricò dell'educazione di suo figlio Nerone. Privo dell'energia necessaria per domare e riformare il naturale mostruoso del suo allievo, egli ne assecondò le perverse inclinazioni e si limitò solo, per quanto potè, a salvare le apparenze, mettendogli in bocca bellissime massime. Fu egli conscio dell'attentato di Nerone contro la madre? Lo s'ignora, dice Tacito. Ciò ch'è fuor di ogni dubbio, è che, dopo consumato il parricidio, Seneca, in una lettera al Senato, che fece scrivere da Nerone stesso, tentò di giustificarlo e lo qualificò “colpo del cielo che liberava la repubblica” , Venne accusato d'avere in quattro anni di favore ammassato 300 milioni di sesterzi e di aver oppresso e dissanguato l'Italia e le provincie con enormi usure. Uno dei difensori della virtù gli accorda l'onore di essersi concertato con Burro per mettere un termine alle sanguinose vendette con cui Agrippina macchiava gli inizi sì lieti e sì belli del trono di suo figlio Nerone.. Denunziato di attirarsi egli solo la pubblica opinione col suo ingegno e la sua magnificenza, invano supplicò Nerone di riprendere le ricchezze di cui l'aveva colmato. Si ritirò nella solitudine, ma fu colpito dall'accusa di essersi immischiato nel complotto di Pisone (65). Ricevette pertanto l'ordine di morire Si fece aprire le vene in un bagno caldo, poi, siccome quel mezzo non agiva con prontezza, prese un veleno e all'età di sessantatre anni, si tolse la vita con coraggio, su cui pesano codardie inescusabili.
Lo scrittore è in lui superiore all'uomo. S'egli cade talvolta nella trivialità, ordinariamente s'eleva più in alto, e quantunque gli accada di peccare gravemente contro il pensiero, e contro l'espressione, la maggior parte delle volte è ammirabile. Si crede ascoltare un filantropo cristiano, per il chè, alcuni attribuirono questa sfumatura evangelica a relazioni che sarebbero esistite fra Sene ca e San Paolo. Ma abbia egli attinto quello spirito di verità in Paolo o in Platone, esso mischiasi quasi continuamente in Seneca allo spirito menzognero della sua scuola, che rimane dal primo completamente assorbito o almeno temperato e non arriva a farsi luce da solo che nella dottrina del suicidio, ed in quella del destino dell'anima che Seneca fa perire ora col corpo, ora col mondo. Quando espone un dovere o pinge un carattere, od asciuga una lagrima, o impietosisce i cuori, o descrive un fenomeno del mondo, o s'intrattiene famigliarmente con un amico, Seneca, la cui anima è naturalmente ambiziosa, non ha che un tuo no, quello dell'oratore. Da ciò una tendenza ad esagerare, che s'accresce ancor più in lui per l'influenza dello stoicismo, il quale non è che un sistema di esagerazione. Egli cerca di colpire, meravigliare e declama. Pure gli accade sì incontrare la grandezza, lo splendore, l'energia, ed allora è veramente eloquente. E' il moralista dell'antichità pagana, che è meno Romano e meno Greco, ma più uomo di tutti gli altri. Oltre poi ai suoi trattati di filosofia, gli vengono attribuite generalmente dieci tragedie, di cui però nessun documento antico ne permette affermare ch'egli ne sia stato l'autore. Queste tragedie non sono adatte alla scena, nè erano ad essa destinate o rappresentate.
- D'Egli ancora:
Figlio del pretore Seneca il Vecchio, dopo un soggiorno in Egitto, fu introdotto alla corte di Caligola, giungendo alla questura ed esercitando frattanto la professione forense. Nel 39 d.C., un suo discorso provocò le ire del sovrano; riuscì tuttavia a sottrarsi alla pena capitale. Nel 41, salito al trono Claudio, fu coinvolto nel processo contro Giulia Livella; esiliato in Corsica, vi rimase otto anni.
Nel periodo dell’esilio, oltre a “De-Ira”, e al “De Providentia”, appartengono due "Consolationes” ; una indirizzata alla madre Elvia, l’altra a Polibio liberto di Claudio.
Al periodo giovanile appartiene probabilmente la“Consolatio a Marcia”, figlia dello storico Comuzio Cordo.
Nel 49 d.C., uccisa Messalina, l’imperatrice Agrippina Minore richiamò Seneca a Roma e gli affidò l'educazione del figlio Nerone.
Morto Claudio ne diffamò la memoria col “Ludus de morte Claudii”, un libello satiride più noto col titolo greco ”Apocolocyntosis” (La traformazione in zucca); divenuto ispiratore della politica di Nerone, lottò sordamente contro Agrippina e Afrano Burro, per accapararsi l’animo del principe.
A Nerone dedicò il “De clementia” e a Ebuzio Liberale il “De beneficiis”.
Al medesimo periodo risalgono; il “De vita beata” sulla vera beatitudine, come esercizio di virtù; le operette “De costantia sapientis”; “De tranquillitate animi”; ”De otio“ e forse, il “De brevitate vitae”.
Trasformatosi chiaramente Nerone in un tiranno sanguinario, e rimasto solo accanto al l’imperatore, intuì il pericolo e si ritirò (62 d.C.) dalla vita pubblica.
Per attendere alla stesura delle “Naturalaes questiones” in cui culmina la sua produzione scientifica delle tragedie " Hercules iurens "– "Troades"– "Phoenissae"– "Medea" – "Phaedra"– " Oedipus"– "Agammemnon" – "Thyestes"- " Hercules Oetaeus".e delle “Epistolae a Lucillo”, il suo capolavoro ed estrema voce della saggezza pagana.
Scoperta la congiura ordita da Pisone, Seneca, che vi era implicato quasi certamente, come il nipote Lucano, e Petronio, fu condannato a morte. Conforme al dettato dello stoicismo, e alla teatralità degli eroi delle sue tragedie, si uccise.
In campo filosofico Seneca risentì soprattutto l’influenza del neopitagorismo, e dello stoicismo a cui fu sempre fedele, divenendo uno degli esponenti insigni dello stoicismo romano, che vanta i nomi di Epitteto e di Marco Aurelio, e che è caratterizzato da una netta prevalenza di problemi etici (con un’evidente ripresa di motivi cinici), e del superamento della virulenza polemica con l’epicureismo.
Da Seneca vengono messe in luce per primo le affinità tra l’atarassia epicurea e l’apatia stoica e tutta la sua concezione è ispirata a nobiltà e generosità, ad un’idea di “comune diritto umano”, da cui pure gli schiavi sono esclusi.
Lo stesso mondo morale si ricava dalle tragedie, destinate alla lettura, e molto ammirate e imitate, specie nel teatro elisabettiano.
Nelle più antiche (Hercules furens, Oedipus, Agamemnon) prevale l’influenza di Eschilo e di Sofocle; nelle altre quella di Euripide, e il nodo tragico è costituito dallo scatenarsi delle passioni che ottenebrano e schiacciano la sapientia.
La compiacenza per i contenuti atroci, e le macabre descrizioni è evidente, e scoperto è lo stile per il gusto gonfio e magniloquente.
Il contrasto tra le idee professate da Seneca negli scritti e la sua opera di consigliere di corte è stridente, anche se troppo severo è il giudizio di Tacito che lo accusa di ambigua perfidia e di spregiudicatezza.
Le sue opere invece recano la testimonianza d’una grande elevatezza morale, d’un senso sociale aperto ai problemi degli umili, d’una raccolta e religiosa intimità della vita spirituale, ispirata ad un inflessibile senso del dovere e talora assorta nella contemplazione d’una divinità provvidenzia le per cui in lui si sono sottolineati contatti col messaggio cristiano e si è inventata addirit tura una corrispondenza con San Paolo.
Come scrittore è erede della retorica asiana ma è estremamente incisivo e moderno nella intensità lapidaria delle sentenze, nella duttilità del periodare.
SENOFANE
Poeta e filosofo greco, nato a Colofone in Asia Minore; vissuto tra la seconda metà del VI s.a.C., e la prima metà del V. Abbandonata la sua città in seguito alla conquista persiana, viaggiò a lungo facendo il mestiere di rapsodo, fermandosi ad Elea (Velia), colonia sulla costa tirrenica della Lucania. Compose vari poemi; ”la fondazione di Colofonie”, la “Colonizzazione di Elea ” e poi elegie; una raccolta di “ Silli ” (scherni, beffe) e un poema filosofico cui fu dato il titolo“Sulla Natura". Dagli scarsi frammenti conservati, è possibile ricostruire la sua acuta e ardita critica dell'antropomorfismo della religione greca; se gli anima li potessero disegnare, dice, gli dèi avrebbero forma animalesca; ognuno raffigura gli dèi a propria immagine e somiglianza.
A questa religione popolare per la quale non esitava a criticare aspramente poeti come Omero ed Esiodo, viene contrapposta una concezione assai elevata del divino; unico e immobile, capace di realizzare con la sola forza della mente, ogni cosa.
A Senofane spetta probabilmente la prima formulazione dell’onnipotenza divina. Che poi questo dio fosse concepito fuori del mondo o identificato con esso, è impossibile stabilire con certezza. Certa invece, la non esistenza di rapporti di scuola tra Senofane, Parmenide e l’eleatismo. Nei frammenti poetici egli mostra spregiudicatezza quando condanna i giochi atletici che tanto appassionavano i Greci, o antepone la saggezza alla forza.
Il frammento più bello vagheggia un lieto simposio filosofico.
SENOFONTE
Storico, poligrafo, filosofo greco (n.Atene 430 ?– m. 354a.C.). Sotto il governo dei Trenta Tiranni, nel 404, combattè contro i democratici di Trasibulo e quando questi ebbero vinto, Senofonte benché amnistiato, si allontanò da Atene. Partecipò dappri ma alla spedizione di Ciro contro il fratello Artaserse II° di Persia; morto Ciro nella battaglia di Cunassa, ebbe gran parte nella ritirata dei famosi diecimila greci, che egli narrerà in una delle sue opere più famose ” l’Anabasi ”. Ritornato in Grecia quando scoppià la guerra tra Sparta e la Persia; egli si pose alla testa dei mercenari greci, al servizio di Sparta, a cui rimase sempre fede le; prese parte alla campagna di Agesilao spartano contro Farnabazo e nel 394 combattè tra gli Spartani contro i suoi compatri oti. Gli Ateniesi ne decretarono l’esilio e la confisca dei beni. Si ritirò in una vasta proprietà donatagli dagli Spartani a Schillun te da cui fu però cacciato quando gli Spartani furono sconfitti dai Tebani nella battaglia di Leuttra del 381 a.C. Si rifugiò a Co rinto, benchè gli Ateniesi ne avessero revocato l’esilio e non volle tornare ad Atene, ma lasciò che i suoi figli si arruolassero come cavalieri ateniesi. Uno di essi, Grillo, morì sul campo di Mantinea nel 362 e gli ateniesi ne celebrarono ugualmente la sua morte valorosa e la serenità con cui il padre l’apprese. Tra le opere storiche, accanto a “l’Anabasi” sono da ricordare “ le Elleniche”, in cui era narrata la continuazione di Tucidite, fino al 362 a.C., la “ Costituzione degli Spartani” e la “Ciropedia”, ossia l’educazione di Ciro, dove esprime i suoi ideali politici e morali. Oltre ad una serie di articoli minori di dettato tecnico: l’Ippsarco - l’Equitazione – il Cinegetico – e le - Entrate dello Stato ateniese -; è da menzionare il gruppo di scritti “Socratici”, volti ad esaltare la figura di Socrate, di cui era stato discepolo: l’Apologia, i Memorabili (il più importante), l’Economico e il Simposio.
Non molto originale nelle sue idee etico - politiche, specchio del programma aristocratico conservatore e filo spartano, è non molto profondo nella sua attività di storico (ad eccezione dei problemi militari, in cui è veramente competente), Senofonte è stato alternamente celebrato come scrittore al punto da essere soprannominato “l’Ape attica”,per la sua purezza linguistica e stilistica; ma anche su questo aspetto la critica moderna ha sollevato più di una riserva.
D'altra fonte ancora:
Generale e filosofo greco, nacque ad Atene verso l'anno 445 a.C., fu discepolo di Socrate che gli salvò la vita nel combattimento di Delio nel 426. Egli acquistò, nel mentre portava le armi per la patria, al tempo della guerra del Peloponneso, una profonda esperienza dell' arte militare. Fece in seguito parte del corpo ausiliario greco al servizio del giovane Ciro. Dopo la disfatta e la morte di questo principe, alla battaglia di Cunassa, nel 401, il corpo dei diecimila greci avendo perduto il suo capo Clearco, Senofonte diresse questa truppa nella sua pericolosa e memorabile ritirata dalle rive del Tigri, a quelle del Ponto Eusino. Egli prestò soccorso a Seuti, re di una parte della Tracia, perchè riconquistasse il trono, alla testa di quello stesso corpo col quale passò di là in Jonia dove gli spartani radunavano delle forze contro la Persia. Ritornato in patria verso il 399, entrò in relazione con Agesilao re di Sparta, che seguì nella sua spedizione in Asia. Fu condannato all'esilio dai suoi compatrioti, contro i quali combattè nella battaglia di Coronea. Visse a lungo in una possessione che gli spartani gli avevano data a Scillonte in Elide. Cacciato da quel ritiro dagli Elei, verso l'anno 368, si rifugiò a Corinto dove morì verso il 356 a.C., senza aver riveduto la sua città nativa quantunque la sentenza d'esilio pronunciata contro di lui fosse stata revocata. Senofonte amava la patria ma il suo amore si estendeva a tutta la Grecia. Egli preferiva le istituzioni aristocratiche e stabili di Sparta, alla mobile e capricciosa democrazia di Atene. Saggio filosofo, abile politico, grand'uomo di guerra, storico veridico, fu soprannominato l'Ape Attica a ragio ne della grazia e della dolcezza del suo stile.
Le sue opere storiche sono: una continuazione della storia di Tucidite fino alla battaglia di Mantinea, intitolata "Elleniche"; lavoro molto inferiore a quello del suo predecessore, di cui egli pel primo pubblicò la Storia; "La Ritirata dei Diecimila" o grecamente "L'Anabasi", racconto pieno d'interesse ed uno dei più preziosi monumenti storici dell'antichità; " La Ciropedia", cioè "l'Educazione di Ciro", primo modello di romanzo politico e morale"L'Elegia d'Agesilao".
Le sue opere filosofiche politiche e sull'arte militare sono: " I Memorabili di Socrate", che offrono l'esposizione più fedele della filosofia socratica - "Il Banchetto dei filosofi"; "Jerome ; "Dell'Economia" ; "Della conoscenza dei cavalli " ; "Dei doveri di un Ufficiale di cavalleria"; "Della Caccia" : e "Delle Rendite dell'Attica".
SENOCLE
- SENOCLE
- SENOCLE
- SENOCLE
L'antica Grecia novera due poeti tragici di questo nome della famiglia ateniese di Carcino. L'uno era figlio di Carcino seniore e padre di Carcino Juniore; l'altro era figlio di Carcino juniore e perciò nepote del vecchio Senocle. Senocle il Vecchio pare fosse ancor vivo nel 405 a.C; e si può supporre dal modo con cui è trattato da Aristofane (il quale si crede abbia inserito la paro dia di poche parole del di lui "Licymnius" nelle sue Nubi), ch'egli valesse ben poco e fosse stimato in proporzione ai suoi meri ti. In quanto poi a Senocle il Giovine, non abbiamo particolari di sorta.
Architetto Ateniese, lavorò alla costruzione del tempio di Cerere in Eleusi, ai tempi di Pericle, e pare vi aggiungesse un fronto ne col timpano aperto, per dare aria e luce al tempio.
Un'altro SENOCLE fabbricò bellissimi vasi, alcuni dei quali si conservano in varie collezioni.
SENOCRATE
- SENOCRATE
- eccone alcune:
- " I veri filosofi sono coloro che fanno volontariamente ciò che gli altri uomini fanno per timor delle leggi".
- "La sola virtù ha un valore insito, implicito suo proprio, mentre il valore di ogni altra cosa è condi zionale"
- "La felicità deve coincidere con la coscienza della virtù, non essendo la felicità che la conseguenza della virtù"
- "La felicità completa è impossibile; bisogna saper scegliere tra i beni dell'anima e quelli del corpo"
- "E' la stessa cosa gettare uno sguardo cupido o porre il piede nell'altrui proprietà".
- SENOCRATE
- SENOCRATE
Filosofo greco. Nacque a Calcedonia; secondo i calcoli più probabile nella novantaseiesima olimpiade e morì nella centosedicesima, anno 314 a.C. Fu dapprima seguace di Eschine il Socratico ed in seguito di Platone, che accompagnò a Siracusa. Dopo la morte di questi si recò con Aristotile da Ermade, tiranno di Atarneo e di Asso, e, dopo il suo ritorno in Atene, fu reiteratamente inviato ambasciatore a Filippo di Macedonia, e quindi ad Antipatro durante la guerra Lamia. Era di tarda apprensiva e di poca grazia naturale, compensate però largamente da una solerzia perseverante, dalla dolce benevolenza, dalla purità della morale, dal disinteresse. Scrisse molte opere, delle quali a noi non pervenne altro che il titolo; una delle più importanti versava intorno alla dialettica, con trattati separati sulle scienze, sulle divisioni, sui generi e le specie, ecc. Scrisse anche quattro libri sulla -Monarchia - e li mandò ad Alessandro. Non ci dilungheremo ad esporre i suoi principi metafisici: la base della sua filosofia è quella di Platone con qualche modificazione tolta alle teorie pitagoriche. La sua morale, più pratica che speculativa, si riduceva a poche massime di una nobiltà rimarchevole;
Medico antico, fu di Afrodìsia in Cilicia e credesi vissuto intorno alla metà del primo secolo dopo Cristo, contemporaneamen te ad Anromaco il Giovane. Scrisse varie opere tra cui una "De utilitate ex animalibus percipienda". E' ricordato sovente da Galeno, Clemente Alessandrino, Artemidor, Oribasio ecc.
Statuario della scuola di Lisippo, allievo di Tisicrate e di Euticrate, da lui superati nel numero delle opere. Scrisse anche sull'arte. Si vuole fiorito circa l'olimpiade 130 (260 a.C.).
SEPTIMIA
GENS
- Publius Septimius Scaevola,
- Septimius,
- Titus Septimius Severus
- Lucius Septimius
- Gaius Septimius
- Publius Septimius
- Gaius Septimius
- Publius Septimius
- Septimia
- Septimius,
- Settimio,
- Septimius
- Aulus Septimius Serenus
- Septimius
- Quintus Septimius
- Lucius Septimius Flaccus
- Publius Septimius Geta
- Lucius Septimius P. f. Severo
- Lucius Septimius L. f. P. n. Bassiano
- Publius Septimius L. f. P. n. Geta
- Quintus Septimius Florens Tertullianus
senatore , che era uno dei giudici presumibilmente corrotti da Aulus Cluentius Habitus per ottenere la condanna di Statius Albius Oppianicus nel 74 aC. Septimius fu condannato due anni dopo, apparentemente su una carica di repetundae o estorsione. [4]
uno dei cospiratori di Catilina , mandato nell'ager Piceno nel 63 aC. [5]
curato aedile , apparentemente dopo il consolato di Lucullus , nel 74 aC. [6]
un centurione sotto Pompei durante la guerra contro i pirati, nel 67 aC, e successivamente sotto Aulus Gabinius in Egitto ; dopo la battaglia di Pharsalia , nel 48 aC, uccise il suo vecchio comandante.
segretario del console Marcus Calpurnius Bibulus , nel 59 aC. [7]
uno dei testimoni contro Lucius Valerius Flaccus , nel 59 aC. [8]
pretore nel 57 aC, sosteneva il richiamo di Cicerone dal divieto. Era un augur nel 45 aC. [9]
quaestore di Marcus Terentius Varro , che gli ha mandato tre libri di De Lingua Latina . Septimius è probabilmente lo stesso uomo che ha scritto due libri sull'architettura, come il suo nome è menzionato da Vitruvius in relazione a Varro. [10] [11]
moglie di Sicca, amico di Cicerone. [12]
proibito dai trionfali nel 43 aC, fu tradito da sua moglie agli assassini. [13]
amico del poeta Orazio , che gli ha dedicato uno dei suoi odi. In una lettera ad Orazio, Augusto si riferisce a lui come Septimius noster , "il nostro Settimio". [14] [15]
un centurione ucciso dai soldati in Germania , quando si ribellarono all'inizio del regno di Tiberio . [16]
poeta lirico, il cui argomento riguardava principalmente attività di rurali.
autore di una vita di Alexander Severus , che Lampridius ha definito un'autorità. [17]
traduttore di un lavoro sulla guerra di Troia , che porta il nome di Dictys Cretensis.
console suffettivo nel 183 dC.
padre dell'imperatore Septimius Severus. [18] [19]
imperatore dal 193 al 211 dC.
figlio maggiore di Settimio Severo, meglio conosciuto come Caracalla ; imperatore con il padre dal 198 al 211, e unico imperatore dal 211 al 217.
figlio minore di Settimio Severo; imperatore con suo padre dal 209 al 211 dC.
uno scrittore primitivo cristiano, che ha esposto la dottrina della Trinità.
SENOCRITO
Musicante e poeta lirico di Locri Epizefirii nella bassa Italia, menzionato da Plutarco come uno dei capi della seconda scuola della musica doria, fondata da Talete come compositore di peani. Sembra fosse cieco fino dalla nascita; ed è stimato come il fondatore dello stile locrio di poesia lirica, che era una modificazione dell'eolia.
SERAPI
o SERAPIDE
Divinità greco – egiziana il cui culto sincretistico, (Vedi Sincretismo) fu istituito in età ellenistica da Tolomeo I° Sotero (IV° s.a.C.), che, secondo la leggenda, ne ebbe l’ordine in sogno dal dio di Sinope (antica città sul Mar Nero) in Asia Minore. La nuova divinità volta a volta identificata con Dioniso, Zeus o Elio, il cui nome Serapis, viene fatto risalire all’egiziano Osiride - Apis, la cui tomba si venera va a Menfi, avrebbe dovuto conciliare i culti egiziani con quelli greci, sì da rispondere alle esigenze di entrambe le com ponenti etniche della popolazione. Il culto non divenne popolare presso gli Egiziani, legati ai loro antichi riti, mentre si diffuse ampia mente nel mondo occidentale ove Serapide fu assimilato ad Helios e a Zeus. Dio degli inferi e della fecondità, era anche protettore della medicina e dio salvatore. Il tempio maggiore era il serapeo di Alessandria d’Egitto, ove si venerava il suo colossale simulacro, opera di Bryaxis (IV° a.C.), formato da un involucro di metalli e di pietre preziose, con un anima in legno; la testa del dio, seduto in trono, si ispirava al tipo dello Zeus barbato e l’animale a lui sacro era il toro Apis.
In altra versione:
Divinità egiziana che veniva spesso identificata con Giove, col Sole ed anche con Plutone. Il culto di questo dio fu portato in Egitto dai greci, sì che, gli antichi monumenti puramentre egizi, come la tavola Isiaca, che abbraccia tutta la teologia di quel po polo, e parecchie altre, non offrono alcuna figura di Serapi, nè in esse se ne trova la menoma traccia. L'ordinario simbolo di Serapi è una specie di paniere o di modio, dai latini chiamato - Calathus - che porta sul capo per indicare l'abbondanza che questo dio preso pel Sole, adduce a tutti gli uomini.
Serapi rappresentasi colla barba, e, tranne il modio, egli ha dovunque qua si la medesima forma di Giove, per il che è scambiato bene spesso con questo dio nelle iscrizioni.
Allorchè egli è Serapi -Plutone, tiene in mano una picca e uno scettro e gli sta a lato il cerbero trifauce. Serapi era inoltre riguardato come uno degli dei della salute; gli autori antichi riferiscono parecchie pretese miracolose guarigioni da esso operate; e il suo rinomato oracolo a Babilonia, dove esso dava le risposte in segno, era straordinariamente frequentato.
E non solo gli egizi, ma anche i greci e romani onoravano questo dio e gli consacravano templi (quale esempio le rovine del tempio di Serapi a Pozzuoli).
Ve n'erano in Atene ed in altre parecchie città della Grecia; i romani ne innalzarono uno nel circo Flaminio, ed istituirono delle feste in suo onore. Una innumerevole moltitudine frequentava il tempio di questo dio; un infinito numero di malati si recavano a chiedere la guarigione, o piuttosto a persuadersi d'averla ottenuta. Però in progresso di tempo, i disordini che il culto di Serapi aveva cagionati, obbligarono il Senato ad abolirlo in Roma interamente. Dicesi che alla porta dei templi di questo dio vi fosse una figura d'uomo che portava il dito alla bocca come per raccomandare il silenzio.
SERAPIONE
Serapione è una variante del nome Serapio ed è portato da diversi personaggi:
- Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione C
- Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione
- Serapione medico nativo di Atene,
- Serapione di Alessandria,
- Serapione il Vecchio,
- Serapione il giovane,
padre, console romano del II secolo a.C.
figlio, console anch'egli.
attivo nel I secolo d.C., amico di Plutarco.
medico empirico del II° secolo a.C., che rifiuta i dettami di Ippocrate per fondare il proprio operato solo sull'esperienza del medico e sull'osservazione del paziente.
medico arabo del IX°-X° secolo, il cui vero nome era Yuhanna Ibn Sarabiyun, autore della Practica, conosciuta come Breviarium medicinae.
ovvero Yuhanna Ibn Sarabiyun figlio, medico arabo, autore del De simplici medicina, conosciuto come Liber Serapionis.
SERENO
- Elio
- Sereno Q. Sammonico
Grammatico ateniese di data incerta. Scrisse un epitome dell'epoca di Filone sulle città e loro uomini illustri.
Letterato vissuto a Roma verso la metà del terzo secolo. Radunò una biblioteca di 62.000 volumi. Abbiamo di lui un poema medicale in 1115 esametri. Caracalla lo fece assassinare nel 262 a.C.
SERIPHOS
Antico nome di un'isola delle Cicladi nel mar Egeo a Est di Paros. Era celebre per la sua povertà laonde i romani la tennero come luogo di bando. Ivi fu educato Perseo ove compìè alcune delle sue gesta.
SERSE
Nome di tre re Persiani
- Serse I°
- Serse II°,
- Serse III°
- Serse re di Persia
- Serse II°
succedette al padre Dario nel 485 a. C., e, dopo le sconfitte a Platea e Eurimedonte subite dai suoi eserciti e dalle sue flotte, dovette rinunciare all’ambizioso progetto di sottomettere la Grecia, sì da vendicare l’umiliazione subita dal padre Dario a Maratona Domato con energia alcune rivolte scoppiate in provincie periferiche dell’impero, tra le quali l’Egitto, riprese la guerra contro i Greci, ma in seguito alle gravi sconfitte (Salamina), rassegnarsi a perdere le colonie greche dell’Asia Minore (337), e ogni ingerenza negli affari della Grecia.
nipote del precedente, succedette nel 424 al padre Artaserse I°, ma, dopo un mese e mezzo di regno fu ucciso.
detto anche Arsete, succedette ad Artaserse III° nel 338 e nel. 337 a.C., fu ucciso anche lui dopo un brevissimo regno.
succedette al padre Dario nel 485 a.C., non perchè il maggiore dei figli, ma perchè nato dalla di lui seconda moglie Atossa, figlia di Ciro. Egli compì dapprima la spedizione progettata dal padre contro l'Egitto, sollevatosi. S'accinse quindi a vendicare l'onta subita dal padre a Maratona. Egli non si mostrava gran fatto disposto all'impresa ma, eccitato principalmente da Mardonio e dai Pisistratidi, vi si cince di poi con grande ardore (480 a.C.). Compiuti gli apprestamenti presso a cinquantasei popoli si trovarono nel campo del gran re a Sardi (secondo i calcoli più limitati, un milione d'armati). L'esercito durò sette giorni e sette notti a passare sui due ponti giganteschi fatti costruire sull' Ellesponto. La flotta componevasi di 1200 navi da guerra, con 250.000 uomini d'equipaggio, e 3.000 navi da trasporto con 150.000 armati, pronti allo sbarco, e perchè non avessero a girare il pericoloso promontorio di Atos, volle, il despota persiano, cui nulla dovea riuscire impossibile, che fosse tagliato l'istmo, che congiunge quel monte al continente. Tale fu in Grecia lo spavento per questa moltitudine di armati, che avanzavasi distruggento e saccheggiando orribilmente il paese, che tutte quasi le città di Tessaglia, Locride e Beozia, offersero, alla prima intimazione - terra ed acqua -.Soltanto Leonida, con pochi spartani e alleati arrestò quella piena, e diè l'sempio come i pochi possano resistere ai molti, e permise alla patria di provvedere. Dopo la vittoria alle Termopili, che fu pel re di Persia peggiore di una sconfitta, il suo esercito avanzò devastando la Focide, la Beozia e l'Attica. mentre la flotta si avvicinava alle coste dell'Attica. Atene, per consiglio di Temistocle, fu abbandonata, e la vittoria di Salamina salvò la Grecia e la civiltà occidentale. Serse era ancor forte assai, e poteva, sbarcando l'esercito nel Peloponneso, attendere che le discordie civili gli agevolasse l'assoggettamento del paese. Un nuovo stratagemma di Temistocle (e parrà ben singolare), lo indusse a precipito sa ritirata durante la quale, gli stenti e l'armi dei Traci, ne annientarono l'esercito. In Grecia rimase Mardonio, cognato di Serse, con 300.000 uomini, che furono pienamente rotti l'anno dopo a Platea. Nello stesso giorno la flotta persiana venne pienamente sconfitta al promontorio di Micale. Anche Sesto fu occupata. La Persia stessa era minacciata; partecchie città greche tuttavia ad essa soggette, venivano liberate, le sorti della Grecia erano assicurate. Dopo tante e sonanti sconfitte Serse si ritirò nel suo palazzo e vi morì assassinato (465), da Artabano, in seguito ad intrighi di corte. Gli successe il figlio Artaserse Longimano.
(da Enciclopedia Universale Lexicon Vallardi - Milano)
(vedi in wikipedia per ulteriori dettagli)
SERSE I°
Rilievo di Serse sulla porta del suo palazzo a Persepoli
Re di Persia e di Egitto
In carica 485 a.C. – 465 a.C.
Predecessore Dario I° di Persia
Successore Artabano
Nascita 519 a.C.
Morte 465 a.C.
Dinastia Achemenide
Padre Dario I° di Persia
Madre Atossa
Consorte Amestris
Religione Zoroastriana
succedette al padre Artaserse Longimano nel 425 a.C. Fu assassinato solo dopo due mesi da Sogdiano.
SERTORIO
Quinto
Generale nato in Norcia, città dei Sabini nel 121 circa a.C., da famiglia plebea. Dopo essersi esercitato con onore nel Foro, si dedicò alle armi e combattè da prode nelle Gallie, contro i cimbri e nella Spagna. Nella guerra civile, seguì le sorti di Mario, persuaso che la corrotta debole aristocrazia non valeva a salvare la patria dalla sovrastante rovina morale; e, dopo le vittorie che condussero il suo partito a Roma, egli fu il solo dei capi che si tenesse mondo di vendette. Abborrente da ogni eccesso, si fe ce assegnare la provincia di Spagna, dove aveva lasciato ottima memoria di se. Quando la morte di Mario ed il ritorno di Silla gli tolsero ogni speranza di veder trionfare la democrazia, e proscritto dalla reazione aristocratica, egli fè causa comune con gli indigeni, sorti a combattere la tirannide romana. con animo di fondarvi una nuova repubblica, germe forse d'impresa più grande. Fu spedito a combatterlo un luogotenente di Silla e costretto ad abbandonare la penisola, corse il mare. Era appena passa to in Africa quando fu invitato dai Lusitani a porsi alla loro testa contro i romani; accettò sconfiggendo successivamente quattro generali che Roma gli opponeva con forze superiori. Ma quel generale in mezzo ai barbari voleva pur rimanere romano, l'ultima meta d'ogni suo sforzo, essendo la libertà e la grandezza della patria; epperò pur trattando con Mitridate, ricusò d'unirsi a lui per scendere dall' Alpi a danno di Roma. Finalmente fu spedito contro di lui Gneo Pompeo, al quale Sertorio tenne lunga mente fronte, evitando ogni battaglia decisiva, stancando il nemico in combattimernti parziali, favorito dalle località a lui notis sime e dall'affetto degli indigeni. Morì assassinato nel 73 a.C.
SERVILIA
GENS
In origine patrizia, più tardi plebea. A quella appartengono i Prischi e i Capioni, a questa i Casca, Rulli e Vatia. Fu celebre assai i primi tempi della repubblica. Il primo dei membri di essa che ottenesse il consolato fu P. Servilio Prisco Strutto nel 496 a.C., e l'ultimo Q. Servilio Sirano nel 189 d.C.
SERVIO
TULLIO
Sesto re di Roma, detto così perchè, secondo la leggenda, la quale forse idealizzò il suo operato in pro della plebe, sarebbe nato in mezzo ai prodigi da una schiava di Tarquinio Prisco, il quale lo avrebbe fatto educare con gran cura dandogli è poi in isposa una sua figlia. Protetto da Tanaquilla, moglie del re, riuscì a succedergli nel regno (578 a.C.) Il nuovo re si diede tosto a tuttuomo alla riforma delle leggi, tentando un accordo con gli interessi dei dominanti (patrizi) e dei dominati (plebei), colla fusione dei diversi elementi del comune romano. Però divise indistintamente la popolazione in sei classi, in ragione del censo; le classi divise in centurie, fra le quali pari imposte e servizio militare, in modo che le prime avessero maggiori obblighi e pesi, ma anche maggiori diritti, votando per prime nei cominzi centurialti. Dovendo poi rinnovare il censo ogni cinque anni, a tutti era aperto l'adito alle superiori centurie. Allo scopo di semplificare l'esazione delle imposte, e la levata della milizia, tutto il popolo fu diviso in quattro tribù locali presiedute da tribuni e che si radunavano per i loro interessi nei comizi tributi, i quali assorbi rono in seguito ogni potere. Servio pubblicò altre leggi favorevoli alla plebe, allo scopo di porla al sicuro dalle vessazioni dei ricchi; abolì la prigionia per debiti, e ditribuì ai pover una parte delle terre pubbliche; egli ampliò pure la cerchia della città, e ne compiè le fortificazioni. Egli condusse guerre contro gli Etruschi e Latini e con qustri ultimi stipulò una legache assicurò a Roma la supremazia. L'orribile fine di questo re ucciso dalla figlia, e dal genero e successore Tarquinio il Superbo (534), caratterizza le prime violenze dei patrizi per abbattere le riforme introdotte a favore della plebe.
(Vedi pure Servio Tullio in "I re di Roma")°
SESTIA
GENTE
Originariamente patrizia e poscia anche plebea. IL solo menmbro di questa famiglia che ottenne il onsolato sotto la repubblica:
- P. Sestio Capitolino Vaticano
- L. Sestio.
- P. Sestio.
nel 452 a.C. il quale fu anche decemviro l'anno dopo.
Fu console Suffetto nel 23 a.C.
Legato in parentela con le più distinte famiglie di Roma fu questore del console C. Antonio nel 63 a.C., e contribuì alla disfatta di Catilina. Esso accompagnò in seguito lo stesso Antonio come proquestore in Macedonia, e fu coinvolto nella denunzia di concussione mossa contro quello e difeso dallo stesso Cicerone con successo. Nel 57 essendo tribuno, contribuì con Milone a far richiamare dall'esilio il celebre oratore, malgrado l'opposizione di Clodio, contro il quale adoperò gli stessi mezzi violenti. Ad istigazione di Clodio fu accusato di violenza, e nuovamente difeso da Cicerone del quale possediamo la relativa orazione Pro Sestio Fu in seguito pretore e propretore in Cilicia, e segui da prima le parti di Pompeo contro Cesare e di poi fra i seguaci di quest'ultimo.
SESTO
Antica città principale del Chersoneso Tracio sull' Ellesponto, quasi di faccia ad Abido. Era molto importante per la sua posizione; oggi Jalowa.
Portano il nome « SESTO » parecchi scrittori greci fra cui;
- Sesto Africano o Libico,
- SESTO di Cheronea
- SESTO CRISTIANO
- SESTO PITAGORICO o Sestio,
- SESTO EMPIRICO
- SESTO RUFO
filosofo ricordato da Suida ed Eudocia.
Storico, nipote di Plutarco ed uno dei maestri dell'imperatore Marco Aurelio.Venne confuso con Sesto Empirico da Suida che gli attribvuisce due opere di carattere filosofico.
Scrittore, vivente al tempo dell'imperatore Severo, ed autore di un'opera "De Resurrectione"; perduta.
Sisto sotto il cui nome va un volumetto di aforismi morali.
Filosofo e medico greco allievo di Erodoto di Tarso e deve essere vissuto nella prima metà del sec. terzo dell'Era cristiana. E’ il rappresentante più noto con Pirrone di Elide, della scuola scettica. Della sua vita non sappiamo quasi nulla. Fu detto empiri co perchè aderente a quella scuola medica “empirica”, in opposizione alla “dogmatica“ o “teorica”, i cui rapporti con lo scetticismo storico furono assai stretti. Mentre è andata perduta la sua opera intitolata “Memorie mediche”, ci sono pervenute quelle ch’egli dedicò alla esposizione della filosofia scettica e alla confutaszione delle filosofie dogmatiche. Una, intitolata ”Schizzi o “Ipotiposi pirroniane” due opere contenenti le dottrine degli scettici in tre libri, pubblicate primamente da Enrico Stefano nel 1562. e un’altra divisa in due parti, con i titoli:”Contro i matematici” (cioè contro gli scienziati in genere) e “ Contro i dogmatici ” in undici libri , che è un attacco contro ogni filosofia positiva e che venne tradotta la prima volta in latino da G.Hervet. La seconda opera è da ritenersi l’ampiamento e il commento della prima. Egli vi confuta la logica, la fisica e l’etica dei dogmatici, e vi demolisce i fondamenti e le pretese delle varie scienze particolari, grammatica, retorica, geometria, aritmetica, astrologia, musica. Il criterio metodico generale, che in lui ha un’applicazione sistematica, è quello di contrapporre i dati dei sensi e le ipotesi teoriche tra loro, mostrandone l’uguale forza e peso (onde la formula tipica dello scetticismo; ”questo non più quello” per arrivare alla sospensione di qualsiasi giudizio e alla più completa imperturbabilità. La grande cura posta non solo nel confu tare le filosofie dogmatiche, ma anche nel distinguere lo scetticismo vero e proprio dalle altre scuole di tendenza scetticheggiante e relativistica, fa dei suoi scritti una fonte preziosissima per la conoscenza del pensiero antico.
Autore di un compendio della storia romana, intitolato "Sexti Rufi Breviarium de victoriis et provinciis Populi Romani", esegui to per comando dell'imperatore Valente. Questo Breviarium fu primamente stampato da Ruesinger a Roma. Un'ottima edizione è quella di Raffaello Mecenate (Roma 1819), fatta su un manoscritto vaticano ed altri.
SESIFO
piu' noto con il nome di SISIFO
SETTIMIO
- SETTIMIO GETA
- Settimio Tizio
Geta fu il figlio più giovane di Settimio Severo dalla seconda moglie Giulia Domna e nacque a Roma, quando suo padre era solo un governatore provinciale al servizio dell'imperatore Commodo. Dipinto nel tondo della famiglia dei Severi, insieme a Settimio Severo, Giulia Domna e Caracalla, la sua faccia fu cancellata a causa della damnatio memoriae ordinata da suo fratello Caracalla, che lo aveva fatto assassinare.
Geta fu sempre posto in secondo piano rispetto a suo fratello maggiore Caracalla. Forse per questo, le relazioni tra i due furono difficili sin dall'infanzia. I conflitti erano costanti e spesso richiedevano la mediazione della madre. Per placare il figlio più giovane,[senza fonte] Settimio Severo diede a Geta il titolo di "Cesare" nel 198.
Durante la campagna contro i Britanni dell'inizio III° secolo, la propaganda imperiale pubblicizzava una famiglia felice che divideva le responsabilità del potere. Caracalla fu vicecomandante dell'esercito, Giulia Domna il consigliere di fiducia e Geta aveva compiti amministrativi e burocratici. Ma l'antipatia e la rivalità tra i due fratelli era ben lontana dall'essere risolta.
Quando Settimio Severo morì il 4 febbraio 211 a York, Caracalla e Geta furono proclamati insieme imperatori e ritornarono a Roma. Il loro governo congiunto si rivelò un fallimento. Fonti successive ipotizzano che i fratelli volevano dividere l'impero in due metà. Verso la fine del 211 la situazione era divenuta insostenibile. Il 1º febbraio del 212 Geta venne fatto uccidere tramite un gruppo di centurioni da suo fratello Caracalla tra le braccia della madre Giulia Domna.[1]. Fu sepolto in una tomba creata per lui sul Settizonio costruito dal padre; in seguito la zia Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna, lo fece inumare nel Mausoleo di Adriano,[2] anche se un edificio sulla via Appia, detto appunto Tomba di Geta, viene identificato col suo mausoleo.
Dopo il fratricidio, Caracalla infangò la sua memoria e ordinò che il suo nome fosse rimosso da tutte le iscrizioni (damnatio memoriae). A quel punto come unico imperatore ebbe l'opportunità di sbarazzarsi dei suoi nemici politici: le fonti riferiscono che in questo periodo furono uccise o proscritte circa 20.000 persone. Tra le vittime della repressione, si segnala il giurista Emilio Papiniano, che fu decapitato, su ordine di Caracalla, per essersi rifiutato di comporre un'apologia del fratricidio.
Caracalla decise di eliminare per sempre le prove dell'esistenza del fratello attuando questa procedura riservata soltanto a uomini che con le loro azioni avevano macchiato l'onore romano. Esempi di Damnatio memoriae sono presenti sull'arco di Settimio Severo a Roma nel Foro, dove il nome di Geta venne cancellato e sostituito dalle parole optimis fortissimisque principibus, e nell'arco severiano di Leptis Magna, dove la figura di Geta è abrasa dall'arco stesso. La distruzione della memoria di Geta fu tra le più capillarmente eseguite nella storia di Roma, per questo trovarne tracce o ritratti è estremamente raro e difficile.
Tra i possibili busti superstiti di Geta ne esiste uno nel Museo archeologico nazionale di Orvieto, che fu ritrovato sepolto con la testa appoggiata a una bozza di pietra a mo' di cuscino
e un altro, rinvenuto presso Sabucina, esposto al Museo Archeologico di Caltanissetta.
Dell' incontro di Caracalla con Geta
ecco un quadro di Lawrence Alma-Tadema del 1907
Caracalla e Geta,
Fonte/Fotografo:
Belygorod.ru
Re leggendario della Britannia
Nella sua Historia Regum Britanniae, Goffredo di Monmouth sostiene che Geta fu nominato re britannico dalle legioni a York. In risposta, i britanni scelsero invece Caracalla. I due fratelli, però, discutevano per ogni cosa e alla fine Caracalla tentò di assassinare Geta durante i Saturnalia, senza però riuscirvi. Ma in dicembre, durante un incontro con il fratello, Caracalla fece uccidere Geta da un centurione.
Damnatio memoriae
Tondo severiano, raffigurante Geta con i genitori e il fratello Caracalla; l'immagine di Geta fu cancellata a seguito della damnatio memoriae che lo colpì dopo la sua morte.
Antikensammlung Berlin
(da wikipedia)
Poeta latino del tempo d'Augusto che scrisse liriche, tragedie, le quali ora non più esistenti, e alla cui memoria (se si crede allo scoliaste pubblicato da Eruquio) sia stata innalzata una splendida tomba sotto Ariccia. Si opina sia questo Settimio Tizio, colui di cui fa cenno Ovidio in una delle sue "Epistole" a Giulio Floro, allora in Oriente con Tiberio Nerone, rappresentandolo come poeta di poco merito, eppure smanioso di afoggiare nella magniloquenza della musa tragica. Questa opinione fu del resto attaccata e difesa con acume e molta dottrina da vari dotti, come si può scorgere nelle dissertazioni "De Tizio Septimio Poeta", nella "Poetarum latinorum reliquiae" di Weichert. Prode cavaliere romano, distintosi nella difficilissima guerra di Spagna contro i cartaginesi. Alla morte dei due Scipioni, (211 a.C.) tenne provvisoriamente il comando delle truppe superstiti, e contribuì non poco alle vittorie di P. Scipione, del quale fu luogotenente nel 206.
SETTIZONIO
o SEPTIZONIO
Edificio a sette zone, sovrapposte le une alle altre. Era specialmente così chiamato il mausoleo che Settimio Severo fece elevare per sè e per la sua famiglia a Roma, ad inmitazione di quello fatto erigere da Tito nella stessa città. Consisteva, a quanto si narra, in un basamento sul quale erigevasi la mole conica circondata da colonnati e distinta in sette piani. Tre di questi piani erano ancora in piedi durante il pontificato di Sisto V°; furono fatti atterrare da lui, al fine di utilizzare le colonne al Vaticano.
SEVERIANO
Giulio
Rettorico fiorito sotto Augusto. E' autore di un trattato intitolato "Synthomata, praecepta artis rethoricae".
SEVERO
- Severo Cassio
- Severo Flavio Valerio
- Severo Libio
- Severo Lucio Cornelio
- Severo Marco Aurelio Alessandro
- Severo Settimo
Oratore e scrittore satirico, nato a Longula nel Lazio verso il 50 a.C., relegato verso l'ultima metà del regno d'Augusto nell' isola di Creta, a cagione dei suoi libelli in versi contro gli uomini e le donne illustri di Roma; ciò non essendo valso a farlo ta cere, venne spogliato dell'avere suo sotto il regno di Tiberio inviato nell'isola deserta di Serifo, ove morì.
Severo Cassio fu l'introduttore d'un nuovo stile d'oratoria romana. Il senato fece dare i suoi scritti alle fiamme.
Valerio Severo[1] nacque nelle province illiriche[2] da una famiglia di umili origini.[3]
Era comandante dell'esercito, con un contingente ai suoi ordini.[4] Era amico di Galerio;[3][4] per sua intercessione fu coinvolto nella seconda tetrarchia: il 1º maggio 305, quando Diocleziano e Massimiano lasciarono il potere, Severo fu nominato cesare d'Occidente del neo-augusto Costanzo Cloro, mentre Massimino Daia assunse la stessa dignita in Oriente, con augusto Galerio.[2][3][4][5] A Severo fu affidato il governò dell'Italia, della Rezia, del Norico e della diocesi africana.
Costanzo Cloro morì il 25 luglio 306 a Eboracum (York, Regno Unito); le truppe di Costanzo ne acclamarono il figlio Costantino imperatore.
Galerio intervenne, offrendo a Costantino di riconoscerlo non come augusto ma come cesare, e Costantino accettò; Severo divenne allora augusto (estate 306).[6]
Ma il suo potere non era al sicuro, in quanto il 28 ottobre di quello stesso anno Massenzio, figlio di Massimiano, si fece proclamare imperatore dalle truppe a Roma.
Anche questa volta Galerio si rifiutò di riconoscere l'usurpatore, e nel 307 inviò Severo (che quell'anno era console assieme a Massimino) da Milano a Roma con un esercito, allo scopo di deporre Massenzio. Poiché, però, gran parte dei soldati di Severo avevano servito sotto Massimiano, dopo aver accettato denaro da Massenzio disertarono in massa Severo. Il cesare fuggì a Ravenna, dove fu assediato da Massimiano.
La città era molto ben fortificata, cosicché Massimiano offrì delle condizioni per la resa che Severo accettò: fu preso da Massimiano e portato sotto scorta in una villa pubblica a Tres Tabernae (nei pressi dell'odierna Cisterna di Latina)[7] nella parte meridionale di Roma, dove fu tenuto come ostaggio.
[8] Quando Galerio entrò a sua volta in Italia con un esercito, Massenzio ordinò la morte di Severo, che fu ucciso o costretto ad uccidersi (16 settembre 307).
Aveva decretato la soppressione della Guardia Pretoriana, temendone l'infedeltà, ma ne fu impedito dall'usurpazione di Massenzio, sostenuto proprio dai Pretoriani.
Moneta raffigurante Severo da cesare.
https://it.wikipedia.org/wiki/Flavio_Severo
Imperatore romano dal 461 al 465 d.C., era nativo della Lucania; ma uomo ignorato fino alla sua esaltazione per opera di Rici mero, dopo la morte di Magioriano, di cui fu uno degli autori. Fu scelto a coprire quella dignità perchè uomo di nulla, lasciava Ricimero padrone dello Stato. Morì a Roma nel 465 e alcuni dicono per opera dello stesso Ricimero, che volle fare cosa grata all'imperatore d'Oriente. Per due anni quel capo Barbaro non diegli alcun successore; finalmento proclamò Auteurio.
Moneta raffigurante Libio Severo
Imperatore romano d'Occidente.
https://it.wikipedia.org/wiki/Libio_Severo
Poeta epico, vissuto al tempo di Augusto. morto giovanissimo. Si tolse a quanto sembra, dalla folla dei mediocri. Il primo libro del suo "Bellum Siculum" fu lodato anche da Quintiliano. Un'altro suo poema conteneva la descrizione della morte di Cicerone, Gli venne attribuito un poemetto "Etna", ma erroneamente. Ci resta ancora una parte delle sue opere cui comparve una bella edizione ad Amsterdam nel 1715.
Nacque in Fenicia nel 208 d.C.; adottato da Eliogabalo, suo cugino, nel 221. La madre, che alcuni vogliono fosse cristiana, lo educò con grande cura ad ottimi principi, e, quand'egli alla morte di Eliogabalo fu portato al trono, continuò a dirigerne ogni atto, quasi reggente, conducendo il governo con fermezza e discrezione aiutato dai consigli dei celebri Paolo e Ulpiano, giure consulti. Cercò di porre qualche riparo alla profonda corruzione sociale e di ristabilire qualche disciplina nell'esercito, ma Ul piano, posto a capo dei pretoriani, fu ucciso, e l'imperatore stesso e la madre, furono in seguito vittime d'una sollevazione mili tare nel 235. Egli era appena ritornato da una vittoriosa campagna contro i persiani e stava combattendo i germani che avevano oltrepassato i loro confini. Ordinatore della sollevazione pare fosse Massimino che aspirava alla corona. Alessandro Severo amò le lettere, le scienze e le arti e fece edificare le Terme alessandrine in Roma. Si mostrò assai favorevole ai cristiani.
Busto di Alessandro Severo (Musei capitolini, Roma)
Busto di Alessandro Severo
Imperatore romano
In carica 13 marzo 222 – 18/19 marzo 235
Predecessore Eliogabalo
Successore Massimino il Trace
Imperatore romano, nato a Leptide in Africa nell'anno 146 d.C. Venuto a Roma a dieci anni, fu fatto senatore da Marco Aurelio, indi avvocato del fisco. Comandava alle legion dell'Illiria quando ucciso Commodo (193), fu gridato imperatore Pertinace, e tre mesi dopo i pretoriani dettero l'impero al miglior offerente, un Didio Giuliano. Al turpe mercato non acconciarono le legio ni e quelle dell'Illria proclamarono Settimo Severo; quelle della Siria, Pescennio e quelle di Bretagna, Albino. Il primo, dato qualche ordine alle cose di Roma, marciò contro il rivale d'Oriente che vinse a Cizico, dove morì (193). Continuando poi la sua marcia in quelle contrade, vinse i Parti e gli Adriabeni. Mosse quindi contro Albino, nella Gallia, ch'egli prima aveva riconosciuto come Cesare, lo vinse in gran battaglia a Trimirzio, vicino a Lione e lo costrinse ad uccidersi (197). In questa circostanza, come in altre, non poche della sua vita, diede prova d'animo feroce. In una nuova guerra contro i Parti (198), conquistò Clesifonte, loro capitale, e ne saccheggiò il territorio. Ritornato a Roma nel 203 fece innalzare quello stupendo arco che porta tuttavia il suo nome. Nel 208 partì coi due figli, Geta e Caracalla avuti dalla seconda moglie Giulia Domna, nata in Siria, per l'impresa della Bretagna. Vi estese i confini dell'impero contro i caledoni e cercò di assicurarli con una grande muraglia che dall'estuario del Chyle andava a quello del Forth. Gli ultimi suoi giorni furono amareggiati dalle dissensioni dei suoi figli e delle sregolategge del Caracalla. Morì a Eboraco (York) nel 211 d.C. Scrisse le memorie della propria vita. Abbellì Roma di varie costruzioni, come il Settizonio e le Terme
SEVERONDA
Luogo ove gli antichi avevano stabilito il soggiorno delle anime dei bambini, morti prima dell'età dei quaranta giorni, e divenuti i lari della casa paterna.
SFINGE
Dal greco Sphynx è, nella mitologia greca. un animale simbolico ornamentale, un mostro dall’aspetto di donna sino al petto, e di leone il corpo, riunendo in se i simboli dell’intelligenza e della forza; artigliato e alato come un uccello da preda.
Si attribuivano alla Sfinge varie origini; figlia del serpente Echidna e di Ortro (due altri mostri mitici), o di Tifone, il mostruoso avversario di Zeus, o di Ucalegonte, un oscuro tebano, e persino di Laio, re di Tebe (padre di Edipo); con Tebe, la sfinge era comunque legata. In questa città essa imperversava, mandata da Era per punire Laio di una colpa amorosa. Si era nsediata su una collina prossima a Tebe. e da lì muovevasi per far preda. Poteva essere vinta ed uccisa da chi affrontandola, risolvesse un enigma proposto da lei. Impresa che riuscì a Edipo, che seppe dire qual era l’animale che al mattino camminava con quattro gambe, durante il giorno con due e la sera con tre. La risposta di Edipo fu: l’uomo, che da bambino cammina con 4 gambe (mani e piedi), da adulto con due, e da vecchio con tre (due gambe più il bastone).
La Sfinge dunque, Essere ibrido creato dagli egiziani, per simboleggiare la potenza del faraone. L’immagine più nota è quella creata nella piana di Giza, a 325 metri dalla grande piramide di Cheope presso il Cairo. Lunga 37 metri e alta diciassette dal ven tre alla testa, tutta dipinta in rosso con le sembianze del faraone Chefren. Si credette scolpita in un grande masso ma, recenti indagini mostrano che è invece costruita con grandi pietre calcaree. I viali che conducevano ai grandi templi egizi, erano, per un certo tratto fiancheggiati da sfingi accovacciate sopra piedestalli. Più tardi essa venne interpretata come un’immane Harmahkis, immagine del faraone vittorioso sui suoi nemici; è spesso rappresentata in atto di calpestare i caduti.
La tipologia subì delle variazioni col passare del tempo; in età antica era un essere di sesso maschile, spesso riproducente i tratti dei faraoni. A partire dal nuovo regno, per influsso della iconografia affermatasi nel vicino Oriente, diventò di sesso femminile, ed acquistò le ali; inoltre, invece di essere rappresentata accovacciata, apparve in piedi e gradiente. Tal è l'iconografia classica che passò nell'era culturale greca. Secondo altra visione mitica, simboleggiava le inonandazioni del Nilo, che avvengono in Luglio ed Agosto quando il Sole entra nei segni del Leone e della Vergine, e questo spiegherebbe la riunione delle forme che compongono questo mostro. Secondo altri invece, la Sfinge sarebbe la rappresentazione simbolica della prudenza, della saviezza e della forza, riunite insieme.
(ritorna a Ucalegonte)
(ritorna a Ortro)
SIBARI
o SYBARIS
La più celebre città fondata dagli Elleni nella Magna Grecia. Sorgeva alla con fluenza del fiume omonimo col Crati, a poca distanza dal mare. Divenne ricchissima per commerci e potente per esteso dominio, poi, celebre per la dovizia, il lusso e la mollezza dei suoi abitanti. Retta prima a forma aristocratica, assunse poi un regime democratico. Finì per essere assediata, vinta, presa e distrutta da quelli di Crotone.
SIBARITIDE
o SIBARITIS o TURIATIDE
Vasta regione della Magna Grecia, fra la punta di Fiumenico e il capo del Trionfo, e da questo al capo di Roscio o Spilico. Ricevette il suo secondo nome dopo che fu distrutta Sibari, la sua capitale.
SIBILLE
Nome di una categoria di profetesse, indovine, dell’antico mondo mediterraneo; sacerdotesse dotate di facoltà profetiche, che davano responsi negli antri o presso le fonti sacre, inserite nel culto oracolare di Apollo, e il loro ricordo veniva tramandato da varie figure mitiche a cui si attribuiva il nome personale. Una era troiana, figlia di Dardano; una libica, figlia di Zeus; una Lidia, esercitante ad Eritre ed infine la Sibilla Cumana (Eneide), che, secondo la leggenda, vendette a Tarquinio il Superbo, re di Ro ma, i cosiddetti libri sibillini (raccolta di oracoli attribuiti alla Sibilla Cumana, che, secondo la tradizione, risiedeva in un antro presso il lago Averno e che si consultavano nei momenti più gravi per la vita dello Stato Romano (raccolta andata distrutta durante gli incendi sul Campidoglio del 82 e 76 a.C., e ricostruita più tardi sotto Augusto con oracoli analoghi di provenienza gre ca), dai quali i romani facevano trarre responsi a certi loro sacerdoti appositamente creati (i quindecimviri sacris faciundis).
Sibilla è dal greco; la consigliata da Dio, indovina, profetessa. E' essenzialmente mitica, ma, come dimostrò bene il Bouchè Le Clerq, nella sua "Histoire de la divination dans l'antiquitè", il mito della Sibilla è nella Grecia di natura ondeggiante, incerta ed ibrida. Dà manifesti sensi di influenza orientali; persiste al decadere delle altre forme più originali, e pure della mantica o divinazione greca, come l'oracolo di Giove o di Apollo. Il Trezza, così si esprime in proposito: "Nella tetraggine", ardente e cupa, nell'entusiasmo faticoso, nel pessimismo ascetico della Sibilla, da una parte si trovano le reminiscenze di elementi bacchici e apollinei, dall'altra la libertà profetica indipendente dagli oracoli e da ogni collegio ieratico. E' una voce vagabonda che si moltiplica a guisa d'eco fuggente per tutti i seni della terra e par che pianga sui crepuscoli degli Dei, tramontati per sempre. La mantica sibillina su cui si concentrò il misticismo pagano, era segno di decadenza imminente. Quantunque alcuni scrittori, come Pausania abbiano considerate come sibille, delle vergini appartenenti ai tempi storici, credute in possesso di profetica sapienza, noi dobbiamo restringere il loro numero a quelle sole che appartengono alla mitologia. Queste sarebbero, secondo la testimonianza di Varrone, dieci; cioè. la Delfica, la Cumea, la Cumana, l'Eritrea, la Persica, la Libica, la Ellespontica, la Frigia., la Samia, la Tiburtina.
La più importante di queste è la Cumea, ossia di Cuma, città della Campania a meno che non vogliano accettare la opinione del Nebbur, il quale sostiene che i libri sibillini, della storia romana, debbono piuttosto attribuirsi, alla Sibilla Cumana, nella Jonia, ossia nella leggenda della sibilla campana s'intende questa come trasmettitrice di libri di un'altra Sibilla. La Sibilla Cumea, è quella di cui parla Virgilio nel III dell' Eneide e a cui accenna Dante sulla fine del Paradiso:
- ..." Così al vento nelle foglie lievi si perdea la sentenza di Sibilla ".
Dei libri sibillini, diremo fra poco, intanto è importante notare che col prevalere del cristianesimo, non cessò la venerazione per le Sibille a cui anzi furono attribuite profezie sulla nascita del Redentore e il trionfo della nuova fede. Il cenno che Virgilio fa alla profezia della sibilla cumea in quell'egloga IV°, in cui i primi versi furono per tanto tempo annunziatori dell'era cristiana, ha accompagnato nello stesso vaticinio il poeta mantovano e la profetessa. Nel pavimento del Duomo di Siena, sono meravigliosamente ritratte a graffite le figure delle dieci sibille, e accanto a ciascuna sono scolpite le profezie cristiane ad esse attribuite. La Sibilla Cumea sacerdotessa di Apollo è rappresentata in atto di far cenno ai noti versi di Virgilio;
-
..." Ultima Cumasi venit iam, carmis aetas;
Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo,
Iam redit et virgo; redeunt Saturnia regna;
Iam nova progenies coelo demittitur alto".
Della sibilla Tiburtina dicesi che predicesse ad Ottaviano Augusto la venuta di Gesù Cristo. Ciò formò oggetto di un famoso affresco di Baldassarre Peruzzi.
Note - Fig.: I loro oracoli?,... sibillini!
SIBILLINI
(Libri)
La leggenda dei libri sibillini è riferita da Virgilio nel libro III° dell'Eneide. Al re Tarquinio (molto probabilmente il primo, o il Superbo), una donna si presentò offrendogli nove libri; ricusando il re, essa ne bruciò tre, e tornò ad offrire i sei rimasti allo stesso prezzo: a nuovo rifiuto del re, essa ancora ne bruciò tre e al prezzo medesimo offrì nuovamente a Tarquinio i tre rimanenti. Questi furono acquistati. Essi contenevano, secondo la leggenda, i destini della città di Roma (Fata urbis Romae). Essi furono poi custoditi nel tempio di Giove Capitolino. da magistrati appositi appartenenti al "Collegio" dei "Quindicinviri sacri faciundis"; da prima erano soltanto due (duum-viri).
Della funzione di questo collegio e del modo di consutare i libri sibillini, così parla il Bonghi nel suo libro sulle "Antichità romane": Nel principio solo di patrizi fu il primo collegio, che ammise plebei quando fu portato a dieci, anzi divisi a metà fra i due ordini.
Essi rimanevano in ufficio vita durante, ed erano esenti dal servire in guerra. Si componeva sopratutto di - consulares o praetori - . Sinchè fu di dieci, lo presiedevano due magistri; divenuto diquindici ne ebbe cinque. Poi l'imperatore fu il solo magister e nominava per fare le sue veci un promagister. Rispetto la custodia dei libri sibillini e alla loro interpretazione, l'obbligo era di tenerli segreti, di copiarli con le mani loro, quando occoresse di rinnovarli, di giudicare della legittimità dei nuovi libri che bisognasse accogliere, adire, inspicere, dietro ordini del Senato di interpretare la sentemza che ritrovavano, la quale inter pretazione soltanto era nota al pubblico. Come procedessero nel consultarli, non si sa.
Gli antichi oracoli si crede fossero scritti sopra foglie di palma, più tardi sopra lino, - libri lintei, in greco, sicchè il collegio sin da principio ebbe addetti due interpreti greci, ed in versi esametri.
SICANI
Popolazioni che abitavano anticamente la Sicilia, a cui imposero il loro nome. Si credono passati dalla Spagna in Etruria e di lì nell'isola.
SICANIA
Nome antico della Sicilia.
SICCA
VENERIA
Antica citta della Numidia, situata sopra un monte presso il Bagradas. Era colonia romana e venerava specialmente la dea Vene re. Mario vi sconfisse Giugurta nel 109 a.C. Corrisponde all'attuale El Kef della Tunisia.
SICHEO
o Acerbas
Eroe della mitologia Cartaginese, marito di Didone (Elissa); fu ucciso dal cognato Pigmalione, desideroso di impadronirsi delle sue ricchezze.
Dante Alighieri lo cita all'interno dell'Inferno, con il nome di Sicheo.
(Vedi Pigmalione)
SICILIA
STORIA ANTICA
- La colonizzazione dell’isola ha inizio intorno all’VIII° s.a.C., ad opera dei Fenici, ai quali seguirono ben presto i Greci. Secondo la tradizione tudicidea, la prima colonia greca fu Nasso, fondata dai Calcinesi dell’Eubea nel 735 a.C., seguita quindi da Leontini, Catania e Zancle, mentre i Corinzi fondarono Siracusa, i Megaresi; Megara Iblea; i Cretesi Rodi e Gela.
Poco dopo queste città istituivano a loro volta altre colonie e ben presto tutta la fascia costiera sud orientale fu nelle mani dei Greci, che riprodussero nell’isola le istituzioni politiche della madrepatria, già ripetute nella Magna Grecia.
I secoli VI° e V° a. C., videro fiorire una grande civiltà di cui Stesinoro, Epicarmo, Sofrone, Teocrito, Gorgia, Empedocle, Archimede, sono solo alcuni degli esponenti. Agli inizi del V° secolo, caduta Siracusa nelle mani del tiranno di Gela, Gelone, ebbe inizio un lungo periodo di dominazione dei Siracusani, su tutta la Silcilia sud orientale, che sembrava addirittura avviata ad un’unificazione sotto l’egida di quest’ultimi.
La crisi di Siracusa, causa la caduta dei Dinomenidi, verso la metà del V° secolo, compromise tuttavia quel risultato; ma Siracusa conservò una posizione egemone nell’isola e principalmente contro di lei fu inviata la disastrosa spedizione ateniese del 415 – 413 a.C., conclusasi con la disfatta degli aggressori.
Agli Atenisesi, seguirono i Cartaginesi che conquistarono Selinunte, Imera. Agrigento, Gela, Camarina, minacciando la stessa Siracusa. Dionisio I°, bloccò l’invasione e dette inizio ad un nuovo periodo di prosperità e di splendore, durato, con qualche parentesi, fino alla morte di Agatocle nel 289 a.C. Subito dopo ricominciò l’offensiva di Cartagine, contro la quale intervenne questa volta Pirro, re dell’Epiro. Ma oramai sulla Sicilia si appuntavano gli interessati sguardi di Roma, che raccolse l'occasione da uno scontro tra Siracusani e Mamertini, per inserirsi nelle vicende dell’isola.
Nel 242, con la battaglia navale delle Egadi, gran parte della Sicilia fu ridotta a provincia Romana. Solo Siracusa conservò una parvenza di indipendenza, cancellata pur essa dopo la seconda guerra punica, durante la quale la città fu distrutta (212 a.C.), per aver osato schierarsi a fianco dei Cartagi nesi contro Roma. Ridotta a provincia, divenne una tra le più prosperose regioni governate da Roma.
Dopo gli Antonini inizià la sua decadenza.
Superata un’incursione di Franchi nel 280 d.C., nella metà del V° secolo, la città fu conquistata dai Vandali, stablitisi in Africa, che si impossessarono della Sicilia e della Sardegna. Odoacre ne ottenne la restituzione mezzo il pagamento di un tributo, ma Teodorico ne conservò il possesso senza più pagarlo.
Nel 535, l’isola fu conquistata dal generale bizantino Belisario, ed ebbe inizio un periodo durato tre secoli di dominazione bizantina, sotto la quale le condizioni dell’isola si aggravarono ulteriormente.
SICILIA GENTE
Patrizia e plebea
. Il solo membro patrizio che si sia distinto T.Sicinio Sabino, console nel 487 a.C., I Sicinii plebei si distinsero per promuovere i diritti del loro ceto.
Sicinio L.Dentato, detto anche Siccio, l'Achille Romanosi vuole combattesse in centoventi battaglie e ricevesse quarantacinque ferite. Fu tribuno della plebe nel 454 a.C., nel qual anno fece condannare dal popolo il console Romilio. Dopo la sconfitta sof ferta dai romani nel 450 combattendo contro i sanniti, tentò indurre i soldati a ritirarsi sul Monte Sacro. Per questi fatti era odia tissimo dai patrizi che lo fecero assassinare.
SICIONE
o SIKYON
Luogo di rovine dell'antica città Greca, nel Peloponneso, in provincia di Argolide e Corinto. Di origine Jonica, a due miglia dal golfo di Corinto godè di un grande sviluppo divenendo fiorente centro religioso e artistico sotto la tirannia degli Ortagoridi nel VII °/ VI° sec.a.C. Fu patria degli scultori Policleto e Lisippo.
SICULI
o SICELI
Antico popolo dell'Italia Media; era di razza pelasgica, emigrò nella Sicania, e si fuse con gli aborigeni, dando a quell'isola il nome di Sicilia.
SIDE
Antica città marittima della Pamfilia, con buon porto, divenne il covo principale dei pirati di quella regione. Sotto l'impero romano fu la capitale di quella regione.
SIDONE
Antica e celebre città della Fenicia. Sorgeva sopra un piccolo promontorio, e fu rinomata per i suoi lavori in metallo, per le sue vesti ricamate, per le sue tinte e per le sue vetrerie. Dovette cedere alla crescente popolarità di Tiro. Oggi è detta Saida.
SIDONIO
C. (Solio Apollinare)
Nacque l'anno 431 in Lione; fu chiamato, secondo alcuni anche, Modesto. Dotato d'ingegno perspicace, studiò lettere, ed ancor giovane riuscì a conquistarsi reputazione di uno fra i più dotti ed eloquenti dell'epoca sua. Recatosi a Roma nel 456, per accompagnarvi Flavio Avito, suo suocero innalzato allora alla dignità imperiale, conseguì dal principe il grado di Senatore e la carica di Prefetto della città, grazie ad una poesia da lui composta e declamata in quell'occasione. Ritiratosi a Lione, quando questa città venne assediata e presa da Maiorano, Sidonio compose un panegirico poetico in lode del primo, che gli valse anche al lora simpatie ed onori dal vincitore. Nel 467 fu inviato ambasciatore a Roma dagli Arverni d'Antoni, dove colse, col suo genio nuovi allori. Finalmente gli fu affidata la Sede Vescovile di Clermont nell'Auvergne, dove attese con zelo a combattere i progressi, che in quei dì faceva l'arianesimo. L'invasione dei Goti lo costrinse a lasciare la sua sede, dove ritormò indi a poco, e vi mori nell'anno 482. Di lui si conoscono le opere seguenti:
"Carmina", consistono in 24 poesie, composte in vari metri e sopra soggetti diversi:
" Epistolarum libri IX° ", contenenti 147 lettere molte delle quali con poesie.
Le opere di Sidonio, sebbene tal volta oscure, per le frequenti metafore, portano lo stampo di un intelletto acuto, vigoroso e colto.
SIFANTO
o SIFNOS
Isola greca dell'Arcipelago delle Cicladi. Ha una superfide di 74 kmq. Il suo aspetto è molto montuoso. La cimà più alta è Elius mt.698. Sulla costa orientale che è la meno accidentata, sorge Apollonia il centro principale.
SIGEO
o SIGEUM
Antica città della Misia, era colonia eolica e fu disputata a lungo fra Atene e Mitilene. Cadde da ultimo in potere della prima e di venne la residenza dei Pisistratidi.
Il mare davanti a Troia era detto mare Sigeo (Eneide). Sigeo è promontorio dell' Anatolia, nel territorio di Troia, all' ingresso dell' Ellesponto; oggi Yenisceri.
SIGNA
Antica città dei Volsci nel Lazio fondata da Tarquinio il Superbo. Sorgeva sopra un alto monte ed era nota per il suo vino astringente, per le sue pere e per una specie di cemento detto, opus signium. Ne restano le mura cickopiche presso l'attuale Segni.
SIKYNOS
Isola dell'arcipelago delle Cicladi, lunga 13,5 Km e larga da 0.5 a 4,5, essa ha una superfice di 42 kmq. Vanta un piccolo tem pio ad Apollo rimasto intatto e trasformato in chiesa L'isola continua a NO, coi due isolotti Kalogeros e le isolette Kardiolissa e Adelfia.
SILANIONE
Ateniese, che visse al tempo di Alessandro. Era riputato eccellente fra gli artisti contemporanei per esprimere le passioni vivaci. Scolpì la statua di Demarato e quella dell'atleta Satiro, vincitore due volte in Olimpia al pugilato. Una statua di Corinna, un Teseo, un Achille, furono le opere che primamente affermarano e diffusero la sua reputazione. Fu molto applaudita la scultura di Apollodoro, ma più celebrata ancora la statua di Saffo, che ornava il * Pritaneo di Siracusa. Del pari fu assai ammirata la sua statua in bronzo di Platone, dalla quale credesi imitato il busto di quel filosofo, che si conserva nella galleria di Firenze, e che fu rinvenuto vicino ad Atene. Fu artista dotato di gusto squisito e perciò tanto incontentabile che, a quanto dicesi, spezzò alcu ni lavori ch'egli giudicava lontani da quel grado di bellezza ch'era nelle sue aspirazioni.
* Pritanèo - Edificio pubblico in Atene, dove avevano dimora i Pritani, cioè quei cittadini che durante un limitato spazio di tempo, dirigevano lo Stato e dove si nutrivano a pubbliche spese i benemeriti della Patria.
SILENI
Si dava questo nome ai satiri, quando erano invecchiati, (chiamati anche papposileni) e dipingevansi quasi sempre ubbriachi. Bacco, quando partì per la conquista delle Indie, lasciò i più attempati in Italia, affinche coltivassero la vite, con che spiegasi la gran quantità di statue, che vi si trovano erette in loro onore. Si credeva che i Sileni fossero mortali essendovi molte loro tombe nelle vicinanze di Pergamo Più naturale è il collocarli nella classe dei Fauni, dei Satiri, dei Pani, dei Titiri, ecc.
SILENO
Nome del pedagogo e maestro di Bacco, il principale fra i Sileni, figlio di Mercurio o di Pane e di una ninfa. Secondo un'antica tradizione, regnante in un'isola formata dal fiume Tritone nella Libia, era carissimo agli dèi, nel cui consesso lo si ammetteva sovente, per il che gli fu affidata l'educazione di Bacco, ch'egli accompagnò nei suoi viaggi. Reduce dall'India, stabilì il suo soggiorno nelle campagne dell'Arcadia e vi si fece sommamente amare da quei pastori e quelle pastorelle. Questo dio il quale aveva in Grecia molti templi, ove gli si tributavano grandi onori, è rappresentato con testa calva, naso grosso e rincagnato e colle corna; ha statura breve e tozza, ora cammina lentamente ed a stento appoggiandosi ad un bastone od a un tirso, ora sta seduto a fatica su un asino. Coronato d'edera tiene in mano una tazza in atteggiamento di persona ebbra.
Un bel ritratto d'esso si trova nella VI° egloga di Virgilio, che lo descrive pure Luciano, ed Euripide lo introduce nel suo "Ciclone" a raccontarvi le proprie gesta.
Vecchio il satiro Sileno facente parte del corteo di Dioniso, di cui si riteneva fosse stato l’educatore; obeso, dall’aspetto grot tesco, era spesso raffigurato a cavalcioni di un asino. Era detto sì figlio di Ermete o di Pan, ma pure nato da gocce del sangue di Urano, e lo si riteneva provvisto di qualità mantiche (arte della divinazione) e di grande saggezza.
SILENZIO
Gli antichi fecero del silenzio una divinità, che rappresentavano sotto l'effige di un bambino che tiene un dito appoggiato sulle labbra, come per raccomandare di tacere.
Nella mitologia romana Tacita Muta o Dea Tacita è la dea degli inferi che personifica il silenzio. Veniva onorata durante le Parentalia, il 18 febbraio o il 21 febbraio.
Il suo culto era stato raccomandato dal re Numa Pompilio che aveva giudicato questa divinità necessaria all'istituzione del suo nuovo Stato.
Il mito è narrato da Ovidio nei Fasti: Naiade, figlia del fiumiciattolo Almone, che si getta nel Tevere sotto Roma, in origine si chiamava Lara o Lala, nome che deriva dal greco λαλέω, "parlare, chiacchierare".
Proprio per il suo troppo parlare, fu punita da Giove, irritato perché aveva rivelato alla sorella Giuturna e a Giunone le mire che il dio nutriva su di lei. Giove le fece mozzare la lingua e l'affidò a Mercurio perché la conducesse agli Inferi.
Durante il percorso, Mercurio se ne innamorò ed ebbe con lei rapporti carnali. Da quest'atto nacquero due gemelli, i Lares compitales, ai quali, nella religione dell'antica Roma, era affidato il compito di vigilare le strade della città.[1] Come dea del silenzio, Lala assunse così il nome di Tacita Muta e, come madre dei Lari, venne anche chiamata Acca, proprio perché la lettera h è muta.
I riti annuali tenuti in suo onore prevedevano, tra l'altro, di cospargere di pece la testa di un pesce menola, animale evidentemente muto, di arrostirla nel vino e di bere la bevanda così ottenuta. Attraverso questo rito propiziatorio si intendeva evitare che nella città si diffondessero maldicenze.
I Romani unirono a questa festività quella dei Morti (i Feralia), sia perché Lara era accreditata come la madre dei Lari, sia perché, avendo la lingua mozzata, la dea era simbolo della morte, caratterizzata tra l'altro dall'eterno silenzio.
(da Wikipedia)
SILIO
Tiberio Cazio Asconio Silio Italico
Poeta epico latino mediocre (25-101 d.C.) di buona nominanza, fu anche valente oratore. Console nel 68; delatore cortigiano dei Flavi; collezionista d’opere d’arte, adoratore di Virgilio, lo imitò. Si lasciò morire d'inazione all'età di 75 anni essendo travagliato da un tubercolo insanabile (insanabili clavus). L'opera di Silio, a noi pervenuta è il grande poema epico "Punica"; esso venne edito dall' umanista Poggio, che lo rinvenne fra altri preziosi codici dell' Abbazia di San Gallo in Isvizzera, dov' erasi recato per prendere parte al Concilio di Costanza. I materiali del poema sono derivati in gran parte da Livio e Polibio. Esso è per noi prezioso, non solo per il merito letterario, ma anche per le notizie e dipinture storiche che ci fornisce sopra un'epoca non molto chiara della storia romana. Plinio però, giudicava molto severamente Silio Italico, infatti diceva di lui: "scrbebat carmina maiori cura quam industria".Di questo poeta abbiamo un'ottima versione italiana del prof. Onorato Occioni, accompagnata dal testo latino in più luoghi notevolmente emendato. Tommaso Ross nel 1661 ne pubblicò una traduzione in inglese. Nel suo poema “Punica”, in 17 libri, contaminando Tito Livio nell’Eneide, mise in esametri la narrazione della seconda guerra punica, ten tando di animarla con incerti ”maravigliosi”; seguitò dunque la maniera virgiliana.
SILLA
Nome di una famiglia patrizia della gente Cornelia, la quale chiamavasi in origine Rufino:
- P. Cornelio Rufino:
- P. Cornelio,
- Cornelio
- S.Cornelio
- L. Cornelio
- L.Cornelio Felice
- LUCIO CORNELIO
fu due volte console nelle guerre sannitiche.
il di lui nipote portò il nome di Silla, fu flamine diale e pretore nel 212 a.C.
figlio del precedente fu pretore nel 186 a.C., ed ebbe per sua provincia la Sicilia.
il di lui fratello fu uno dei dieci commissari mandati dal Senato in Macedonia nel 167, dopo vinto Perseo, per dare assetto alle faccende di quel paese.
nipote del precedente, padre del celebre dittatore, visse nell'oscurità e lasciò al figlio uno scarso avere.
figlio del precedente, nacque nel 138 a.C., visse per lungo tempo in ristrettezze, fu però educato come i giovani più distinti della nobiltà. Passò la gioventù fra gli stravizi, e fino alla più tarda età amò la compagnia, le donne, mimi e buffoni. Tuttavia il vivere scioperato nulla tolse all'energia del suo carattere, ed alla prontezza dell'ingegno, perchè quanto avido di piaceri, altrettanto era ambizioso e pronto a sacrificare quelli alle circostanze, e a mascherare l'ambizione e l'egoismo per salire. Dalla matrigna e da una sua amante, ereditò largo censo, che gli permise di aspirare alle più alte cariche dello Stato, riservate ai ricchi patrizi. Nel 107 fu nominato questore nell'esercito di Mario, contro Giugurta e diede ben presto tali prove di sè da venir considerato tra i più distinti ufficiali dell'esercito. Mario ebbe nelle mani Giugurta per merito di Silla, al quale i patrizi attribuirono la gloria di aver terminata la guerra. Fu in quella campagna che cominciò a palesarsi l'odio fra Scilla e Mario, già nemici, per nascita, per educazione, aderenze ed aspirazioni. Allorchè Mario al suo secondo consolato condusse la guerra contro i Cimbri, fece suo legato Scilla, il quale l'anno appresso passo nell'eserxcito di Catulo ove la sua ambizione trovava miglior campo che non fra i soldati del console plebeo, e dove infatti fu tutto. Dopo la vittoria sui cimbri nell'anno 101 a.C., Silla tornò a Roma, ed anche allora i patrizi cercarono di diminuire la fama di Mario, esaltando Catulo e Silla, e l'odio fra i due crebbe a dismisura. Nel 93 Silla fu pretore e l'anno appresso propretore per la Cilicia, con l'ordine di riporre Ariobarzane sul trono di Cappadocia, la quale impresa fu mandata ad effetto con molta fortuna. Durante la guerra sociale (91), mentre Mario teneva una condotta in certa, Silla si segnalò per energia nel soffocare l'insurrezione. Egli sconfisse L. Cluenzio presso Pompei e costrinse gli irpini a sottomettersi; in seguito sorprese e ruppe nel Sannio l'wesercito di Mutilo, e prese Boviano d'assalto. Le legioni si resero de vote permettendo rapine e violenze d'ogni genere. Le sue vittorie e l'affetto dei soldati, lo resero popolare così da ottenere esso nell'anno 88 il consolato e la guerra contro Mitridate, ambita da Mario. Costui mosse in Roma gravi turbolenze a mezzo del tribuno Sulpicio, il quale propose alcune leggi per allargare il diritto elettorale a favore degli italiani. Sila accorse da Nola, ove trovavai a terminare la guerra sociale, per impedirgli di far passare la legge: ma Sulpicio, armati i suoi satelliti, entrò nel tempio , dove stava raccolto il Senato, e lo disperse. Silla non si salvò che rifugiatosi in casa di Mario, il quale ottenne il comando della guerra mitridatica. Silla, cieco di rabbia, eccitato l'esercito con la speranza di ricche prede in Oriente, mosse contro Roma, e presala, dopo breve resistenza d'assalto, fece dichiarare traditore della patria il vincitore dei cimbri e uccidere o scacciare dalla città i capi dell'avverso partito. Fece poi passare varie leggi contrarie ai diritti del popolo, partendo quindi senz'altro per l'Asia. Distruggessero pure i suoi nemici quant'egli avesse fatto, li prescrivessero pure e minacciassero a loro talento; coi tesori dell'Asia ed alla testa di un esercito sperimentato in guerra, e a lui devoto, avrebbe al ritorno, con tutta facilità ripristinato le cose a modo suo. Sbarcato in Epiro, dopo qualche fatto di minore importanza, il generale romano assediò Atene, e l'ebbe se non dopo parecchi mesi e grande spargimento di sangue. Si avanzò poscia in Beozia, ed a Cheronea sbaragliò Mitridate tre volte superiore. Pertanto prevalso in Roma di nuovo il partito di Mario, il Senato aveva spedito il console Valerio per dare lo scambio a Silla. Costui naturalmente non ubbidì, anzi accampatosi di contro a quello disamato dai soldati, e poco dopo il Flacco fu ucciso dai suoi. Mitrridate battuto a Orcomeno e stretta fra due eserciti romani, e sconfitto ripetutamente sul mare, da Lucullo, accettò nel 84 la pace. Silla per continuare la guerra aveva tolto i tesori dai templi, concesso ai soldati il saccheggio di più città, tra cui Atene, ed esattò da molte altre le imposte degli ultimi cinque anni. Gli eccessi a cui si abbandonatrono i suoi soldati non curava, purchè fosssero pronti a seguirlo nella guerra civile. Morto Mario, Cinna era in Roma a capo del partito democratico. Egli mandò ad incontrare Silla, sbarcato a Brindisi con 40.000 uomini, centomila soldati comandati da quindici generali, che il patrizio sconfisse in parte senza alcuna difficoltà (così Norbano a Canusio e Mario, il Giovane, a Sacriporto e a Preneste), in parte trasse a sè. Allora i demagoghi si unirono agli italici tuttora in armi , sotto Ponzio da Telesiam e si spinsero fin sotto Ro ma; lasciarono però il tempo a Silla di raggiungerli e furono sconfitti (82). Prima cura del vincitore, creato dittatore, fu di scan nare i prigionieri, indi abbandonò la città ai sicari, che la corsero, mettendo tutto a sangue ed a ruba. Silla per troncare d'un trat to e per sempre la questione politica, volle condurre lo Stato alla sottomissione del patriziato, senza riguardo alla lotta secolare combattutasi fra le due classi della società romana, e tale reazione copmpiè colle stragi e cogli assassii; laonde rese eternamente infame il suo nome. Si conceda pur molto al diritto, che Silla credeva di avere di vendicare le stragi dei democratici; la vendetta passò ogni limite, e confuse rei con innocenti, estendendosi perfino ai discendenti di coloro ch'erano già stati colpiti dall'ira di Silla; tutta l'italia venne ridotta a termini miserissimi. Alcune città perdettero i loro diritti, altre furono addirittura distrutte, il territorio distribuito a centocinquantamila soldati che tennero la penisola devota al vincitore, ed abbandonandosi ad ogni sorta di eccessi. Dodicimila schiavi dei proscritti ottennero libertà e cittadinanza ed assunsero il nome di Cornelii, valido appoggio del l'aristocrazia, guardie del dittatore. Tolti di mezzo gli ostacoli, Silla ordinò lo Stato a modo suo. Ridiè al Senato, reintegrato, con elementi suoi, molti privilegi, limitò l'autorità dei tribuni e dei comizi tributi
Uomo politico e generale romano (138 – 78 a.C.). Di famiglia patrizia finanziariamente decaduta, passò la giovinezza e la virilità in maniera oziosa, e dissipata. Benchè il suo nome appaia come questore nella guerra giugurtiana sotto Mario, al quale facilitò il successo riuscendo a catturare il re Giugurta con uno stratagemma (107 a.C.), e nonostante altre cariche pubbliche (pretore in Cilicia nel 93 a.C.), soltanto raggiunti i cinquan’anni mostrò un certo interesse per la vita politica, dimostrando una decisa pre disposizione ad essa. Nel 88 a.C., ottenne il Consolato e nel divampare della lotta tra le fazioni, si trovò a capo del partito aristocratico, contrapposto dal Senato a Mario, capo del partito democratico. I due generali si trovarono in lotta aperta tra loro, quando Silla nella guerra contro Mitridate, ottenne il comando supremo, e Mario cercò di sottrarglielo rivolgendosi con successo all’assenblea del popolo, Fu l’origine della prima guerra civile, che vide la prevalenza di Silla, il quale, dapprima occupò Roma con l’esercito e mise al bando i suoi avversari (88 a.C.), poi, dopo aver condotto una campagna vittoriosa contro Mitridate ed avere momentaneamente lasciato che in Roma spadroneggiasse il partito di Mario, rientrò nel 83 e si vendicò terribilmente degli avversari. Furono proscritti 4700 cittadini, i loro beni confiscati e messi all’asta; intere popolazioni alleate di Mario vennero annientate, mentre le legioni si dividevano le terre, e Silla veniva nominato dittatore perpetuo. Con una precisa legislazione accentrò nel senato tutti i poteri senza tener conto delle rivendicazioni popolari e, a scapito delle forze nuove costituite dai ca valieri del l’esercito e dei provinciali. L’opera e la vittoria politica non sopravvisse al loro ideatore, perché, essendo state effet tuate con metodi non costituzionali, poterono reggersi soltanto per la sua enorme autorità personale, e sulla sua instancabile at tività. Silla si ritirò a vita privata nel 79 a.C., e morì di malattia l’anno successivo, avendo dimostrato nel decennio di dominio della vita pubblica romana che, l’enorme espansione territoriale e la signoria del mondo cui Roma si avvicinava a grandi passi, portavano ad una trasformaione in senso monarchico del regime repubblicano. I posteri furono molto divisi nel giudizio su Silla, definito da alcuni, un mostro sanguinario, ma elogiato da altri per le sue doti di accorto politico, anche se non disconoscono che il suo governo fu chiuso ad ogni istanza sociale.
SILVANO
Divinità latina preposta alla tutela dei campi e degli agricoltori. Secondo Igino, ogni possesso aveva tre Silvani; il domesticus, l'agrestis e il sylvestris. Silvano presiedeva altresì alla cistodia degli armenti e delle piantagioni; era amante della musica,ed eragli perciò consacrata la Siringa che i Tirreni Pelasgi lo rappresentavano sotto la fugura di un vecchio allegro, portante in mano un grosso di cipresso e solevano offrirgli sull'ara grappoli, carne, latte, vino e maiali.
Per proteggere i neonati dalle aggressioni notturne del dio gli antichi romani invocavano tre dei protettori: Pilunno , Intercidona e Deverra.
SIMBOLISMO
PAGANO
Considerandolo nella religione, a noi si presenta la questione riguardante il carattere simbolico della mitologia. Questa questione si può ora dire avviata ad una soluzione soddisfacente, specialmente dopo gli studi che filologi e mitologi hanno dedicato alle lingue ed alle religioni antiche, non disgiuntamente l'una dall'altra queste due produzioni tanto connesse del pensiero e del sentimento unano. L'interpretazione simbolica dei miti, comincia assai presto nella grecità; si può ben dire che essa rappresenta il movimento del pensiero riflesso nel mondo ellenico. La scuola ionica accenna certamente a tale interpretazione o almento costruisce le sue spiegazioni fisiche sulla formazione delle cose, secondo le tendenze precipue della mitologia. Ma quegli che tra i pensatori greci può veramente dirsi iniziatore del simbolismo nell'interpretazione mitologica, fu Anassagora, il quale ne ebbe accusa di ateismo, condanna ed esilio. Dopo Anassagora, però se non si vuole designare col nome di simbolismo l'idea che Socrate aveva degli dèi, trionfa nella Grecia una filosofia indipendente, i cultori della quale onorano gli dèi come cittadini, poichè la religione è istituzione dello Stato, ma la dimenticano generalmente come filosofichè. Sorto nel mondo greco-romano, nuovo ordine di idee e prima e dopo il Cristianesimo, il simbolismo risorge per forza di cose; infatti tutto il lavoro della filsofia da Socrate a Platone, aveva costruito un mondo di concezioni affatto differenti dalle mitologiche; d'altra parte il mondo antico si trovava di fronte ad un cumolo di dottrine morali; diffuse poi largamente o nuovamente bandite dal Cristianesimo, le quali avevano tanta efficacia di persuasione che pareva stolto credere che gli avi, strettamente pagani, non le avessero intravvedute; era quindi naturale che si tentasse di spiegare le antiche credenze come simboli delle verità ultimamente apprese, che si tentasse di discernere attraverso le forme del paganesimo le idee spirituali e morali, di cui il nuovo tempo aveva bisogno. Da ciò, un duplice simbolismo nella interpretazione mitica: quello dei cristiani, che nelle divinità pagane vollero riconoscere simboli annunziatori di ciò, a cui essi ora credevano; quello dei neo pagani, che, persuasi delle nuove verità morali, ma avversari del Cristianesimo, vollero dimostrare che l'antica religione avrebbe abbondantemente bastato ai nuovi bisogni, contenendo essa, sotto forma simbolica, ciò che il rinnovato pensiero aveva scoperti e il rinnovato sentimento imponeva.
Alla prima forma di interpretazione simbolica appartenevano i gnostici paganizzanti, alla seconda, gran parte dei neopitagorici, come Plutarco di Cheronea, i neo-platonici, specie in Proclo e Porfirio, più di essi importante, perchè rappresentante della reazione più energica contro il Cristianesimo, Giuliano l'Apostata, che sosteneva la causa di un rinnovamento del paganesimo, non solo per il miraggio vano della civiltà trascorsa e umpossibile a risuscitarsi, ma in nome di idee morali ch'egli credeva potersi meglio desimere dal paganesimo che dal cristianesimo. I saggi più importanti di simbolismo in questo senso, furono dati da Plotino,da Perfirio nella "Lettera ad Anebone" e da Giamblico nello scritto sui misteri degli egiziani. L'età di questo simbolismo cessa colla proibizione ordinata da Giustiniano nel 529, delle scuole dei filosofi pagani e col trionfo del dogma di Nicea; bisogna notare però che una buona parte del simbolismo mitologico era perdurata nella cabbalistica orientale e nel neo-pitagorismo.
Il problema dell'interpretazione dei miti è quasi dimenticato nel Medioevo; torna in fiore nel Rinascimento insieme al rifiorimento del platonismo e del neo-platonismo; si mescola anche qui, col simbolismo cabbalistico e colle dottrine mistiche. Ma con maggior forza di ragione, con tutt'altro intento più razionale e benefico,
l'interpretazione simbolica rifiorisce con G. Battista Vico, il quale, precursore anche in ciò della scienza del XIX° secolo, vi cerca il significato morale delle favole dell'antichità, tenendo di mira il linguaggio che le esprime, la formazione dei nomi.
Conviene osservare però che G.B.Vico non sostenne apertamente la dottrina che gli antichi volessero significare, per mezzo di quelle favole, le dottrine ch'egli vi scopre, sostiene invece che noi possiamo trovare attraverso quelle favole l'intuizione prima delle dottrine medesime, quale si svolse, non in teoria, ma in fatti. E' piuttosto più una critica che giunge a porre per proprio conto, le favole mitologiche come simboli di fatti storici, attraverso i quali, il filosofo moderno può desumere dottrine, che un 'interpretazione simbolica vera e propria. Il Vico pone infatti chiaramente come condotta principale nel suo pensiero filosofico, il principio che: "Devono le favole unicamente contenere narrazioni storiche di antichissimi costumi, ordini, leggi delle prime gentili nazioni".
SIMBOLO
In architettura è un'immagine quaunque, figura umana, d'animale ecc., che serve a significare alcune cose, sia per una certa relazione fra l'oggetto e la cosa che si vuol simboleggiare. Sorse quindi il simbolo come decorazione , e fu usato anticamente. Presso i greci il serpente era il simbolo della salute; presso i cristiani l'agnello è il simbolo del Redentore, il leone alato, l'acquila, il toro e l'angelo sono simboli degli evangelisti
SIMICON
Chiamavasi con questo nome lo strumento musicale a corde usato dagli antichi greci; dicesi che avesse 35 corde.
SIMMIA
- Simmia di Rodi
- Simmia di Tebe
Poeta greco della scuola di Alessandria, vissuto verso il 300 a.C., scrisse libri di grammatica, poemi, epigrammi con versi in vari metri disposti in modo da rappresentare un aggetto.
Amico e discepolo di Socrate, alla cui morte era presente. Il filosofo suo maestro lo introduce insieme al fratello Cebete nel dialogo intitolato "Il Fedone". Socrate allude a lui anche nel "Fedro".
SIMOENTA
Antico fiume dell'Asia Minore, già tributario dello Scamandro. Ora si getta nel Mar di Marmora col nome di Dumba-chai.
SIMONE
- Simone d'Atene
- Simone d'Egina
Cuoiaio, discepolo di Socrate, soleva tenere con lui lunghe conversazioni filosofiche, che registrò in un volume sotto il titolo di "Diakloghi di Socrate".
Statuario greco figlio d'Epelam, nativo dell'isola d'Egina. Sebbene siano assai scarse le notizio intorno a questo artista, devesi ritenere che dal suo scalpello siano uscite opere ragguardevoli, se il suo nome ci fu ricordato da Plinio e da Junio.
SIMONIDE
- Simonide Poeta
- Simonide di CEO
giambico greco, nato nell'isola di Amorgo, secondo alcuni, secondo altri di Samo, fu (al dire di Suida), contemporaneo d'Archiloco e la data assegnatagli dai biografi è l'olimpiade 29, o 666 anni a.C. Le sue opere constavano al dire di Suida, di un' elegia in due libri e di poesie giambiche; o, secondo un'altra notizia, nello stesso Suida, di giambi e di poesie miste e di una "Archeologia dei Sami". Furono i versi giambici di Simonide quelli che ne fecero precipuamente la fama; essi erano di due spe cie; gnomici e satirici. I satirici somigliano a quelli di Archiloco. I suoi versi gnomici invece dipingono affetti e sentimenti umani, riguardano gli usi e i costumi della vita, e vanno distinti per una gran giustezza di espressioni, per una rara eleganza,e perchè avvivati qua e la da un'ironia pungentissima, che non degenera in personalità.Tanto i grammatici antichi quanto i dotti moderni, confusero spesso questo Simonide con quello di Ceo ed i loro frammenti furono pubblicati frammisti quasi senza distinguerli nelle principali collezioni dei poeti greci antichi. E di Simonide: lirico greco del VII° s.a.C., nato a Samo, ma detto Amorgino per aver partecipato alla colonizzazione dell’isola di Amorgo. Autore di Giambi, è noto soprattutto per una prolissa "Satira contro le donne”, che fu tradotta dal Leopardi, dove, i vari caratteri femminili sono riportati a prototipo animalesco; l’unica donna accettabile è la massaia, operosa discendente dall’ape. La visione pessimistica simonidea che irride alla speranza con truce consapevolezza dell’assurdo, appare anche in altri frammenti di singolare attualità.
Uno dei prìncipi della poesia lirica ellenica. Nacque a Tulis, nell'isola di Ceo, nel 556 a.C., e morì nel 466 o 467. Fu zio del po eta Bacchilide, e sembra che nella sua famiglia fosse ereditario il culto dionisiaco. Dall'isola natale si portò ad Atene probabilmente su invito del tiranno Ipparco, e vi conobbe il poeta Anacreonte, per cui compose poi un epitaffio, e Laso, scrittore diti rambico. Lo troviamo in seguito in Tessaglia, ospite degli Alenadi e degli Scopadi dei quali celebrò le vittorie equestri nei gio chi sacri. In quest'epoca della sua vita, vennero composti " l'Ode epinicia " sulla vittoria di Scopa col carro a quattro cavalli, preservata in gran parte e commentata da Platone nel "Protagora"; i frammenti dei "Trevi" silla rovina degli Scopadi e su Alenade Antioco e probabilmente il "Lamento di Danae" ch'è forse una trenodia compposta per uno degli Alenadi.Tornò poi ad Atene, dove su richiesta di Milziade, compose un epigramma da iscriversi a piedi della statua di Pan, che gli ateniesi, dopo la battaglia di Maratona eressero al dio in segno di gratitudine e vinse Eschilo nella gara poetica indetta dagli stessi ateniesi per la migliore elegia in onore dei caduti in quella memorabile pugna. Più tardi, su invito degli anfizioni, compose gli epigrammi in scritti sulla tomba degli spartani caduti alle Termopili ed un elogio commemorativo degli stessi. Celebrò in versi le battaglie di Artemisio e di Salamina. compose un epigramma per il suo amico Temistocle, restauratore del santuario dei Sicomedi, una ele gia sulla battaglia di Platea ed un epigramma in lode di Pausania, duce dei greci in quella pugna, che venne da questi fatto inse rire sul tripode offerto ad Apollo di Delfo, insieme alle spoglie persiane, e fatto cancellare dagli spartani, sostituendovi i nomi degli stati che presero parte a quella battaglia. Già ottantenne, riportò una nuova vittoria in un concorso poetico con il coro diti rambico nell'Arcontato di Ademanto; indi su invito del tiranno Gerone, si portò a Siracusa dove ebbe fine, non molto dopo la sua lunga e gloriosa carriera poetica. I pregi per cui Simonide ebbesì grande fama presso gli antichi, consistono principalmente nella purità della morale, nella savi ezza dei precetti politici, nell'abbondanza dell'ispirazione, ed in quella dolcezza di versificazione che gli guadagnò il sopranno me di Melicerto. Simponide scrisse in una lingua simile a quella di Pindaro, che è il dialetto epico con mescolanze di voci dori che ed eoliche. I commentatori antichi di Camaleone e di Palafato sulle sue poesie, andarono sventuratamente perdute, come gran parte dei carmi originali. Di alcuni suoi frammenti diedero già una versione italiana il Torrigliani, il Lamberti e il Leopardi e più largamente e fedelmente il Michelangelo nei suoi "Melici greci".
SINCRETISMO
Sincretismo - Sistema filosofico o religioso che tende a fondere insieme dottrine diverse. In origine usata da Plutarco e i cretesi, sempre in lotta tra di loro, ma uniti contro gli stranieri o contro un comune nemico. La parola riprese durante le polemiche che accompagnarono i primi tempi della Riforma, da Erasmo da Rotterdam, riferentesi agli umanisti quale possibile intesa parziale fra luterani, calvinisti e cattolici. Fu in seguito usata per indicare o definire le correnti filosofiche o religiose costituite da elementi ideologici propri di culti o filosofie differenti.
Notevolissimo esempio di sincretismo, è quello dell’età imperiale romana, che tra le varie religioni misteriosofiche dell’Oriente, giunse il ad essere sinonimo di fusione o anche ibridismo.
Il senso filosofico appartiene propriamente ai primi quattro secoli dopo Cristo.
Tipici di questo fenomeno sono i tentativi di varie sette agnostiche di fondere il l’irfismo o il complesso delle dottrine Platoniche con il cristianesimo. Il cristianesimo fu sempre, ed in modo intransigente, contrario a qualsiasi sincretismo
In senso di “ibridismo” ed è oggi adoperato nella fenomenologia religiosa, per designare forme di religioni sorte dalla fusione di ideologie e culti eterogenei. Per esempio, oggi si parla di sincretismo afro-cattolico, per indicare una grande varietà di movi menti religiosi sorti tra i negri del sud America e delle Antille, che hanno interpretato la religione cattolica negli schemi delle singole religioni, originarie dell’Africa, da dove provennero i loro pro genitori importati come schiavi. Tra i più noti di questi movimenti è il culto vodu, sorto in Haiti. Importanti movimenti sincretistici qualificarono la religiosità dell’antichità classica, nel periodo ellenistico - romano, come si è già sottolineato. Divinità quali, Iside, Zeus, Mitra, ecc., erano al centro di tali movimenti che in esse proiettavano i caratteri di tutte le altre. Un atteggiamento religioso antitetico al sincretismo è costituito dal proselitismo, che tende a convertire ripudiando, ogni compromesso con le altre religioni.
(ritorna a Serapi)
SINGITICO
Antico nome di un golfo dell'Egeo nella Macedonia, uno dei tre che tramezzano la penisola Calcidica, detto anche del Monte Santo.
SINONE
Figliuolo di Sisifo, nipote del famoso ladro Antolico. Fu spergiuro, e giudicato il più astuto di tutti gli uomini. Quando i greci finsero di levare l'assedio da Troia, Sinone si lasciò far prigione dai troiani e disse loro che i greci avevano voluto farlo morire e ch'egli trovavasi costretto a rifugiarsi presso i suoi nemici; li convinse così a far introdurre nella città il famoso cavallo lascia to dai greci sotto le mura della città e poscia con astuzia ottenne la sua libertà. Quando il cavallo di legno fu entrato in Troia, egli andò di nottetempo ad aprirlo, sì che tutti i guerrieri teucri che vi stavano nascosti nel ventre uscirono mentr'egli aperse le porte della città da cui entrarono tutti i greci che la misero la città a ferro e fuoco, distruggendola.
SIPILO
o SIPYLUS
Antico nome di un monte della Lidia settentrionale,presso Magnesia, teatro favoloso della trasformazione di Niobe in lacrime in un blocco di marmo dal quale scaturì una fonte.
(Vedi Niobe)
SIPONTUM
Antica città sell'Apulia immediatamente a sud del Gargano. Volevasi fondata da Diomede, Fu presa da Alessandro d'Epiro nel 330 a.C. Divenne colonia romana nel 194. Era luogo di gran produzione di cereali. L'aere pestifero delle vicine paludi indusse Manfredi a rimuoverne gli abitanti nel 1261, costruendo la nuova città di Manfredonia a circa tre Kilometri di distanza dalle paludi Sipontine.
SIRA
Una delle isole Cicladi dell'Arcipelago greco subito a nord di Paros. Ha circa 142 kmq. di superficie. D'aspetto montuoso è però fertile in alcune sue parti.. Sotto l'aspetto commerciale corrisponmde a ciò che ch'era Delo nell'alveo religioso pagano; il capoluogo Ermopoli è il secondo porto della Grecia.
SIRACUSA
(CENNI STORICI)
Fondata, secondo la tradizione nel 734 a.C., da coloni Greci di Corinto, giunti in Sicilia sotto la guida di Archias precisamente in quell'isola Ortigia che è occupata dalla città attuale. Bentosto essa si dilatò e divenne così forte da sottomettere la metà della Sicilia. e da resistere alla potenza nascente di Cartagine. La città acquistò ben presto, anche per la sua ottima posizione sul mare, grande potenza commerciale e politica. Tra il VII° e il VI° secolo era in piena espansione nell’interno dell’isola dove fondava le colonie di Acre, Enna, Casmene, Camarina. Gli ateniesi avendo voluto impadronirsene, vi subirono nel 414 una completa disfatta. Agli inizi del V°, travagliata da continue lotte interne, cadde nelle mani di Gelone, tiranno di Gela, della famiglia dei Dio menidi, che trasferì in Siracusa la capitale del suo dominio. e sotto di lui e del successore, il fratello Gerone, ebbe una stagione di grande prosperità. Sottomessa la ribelle Camarina, Gerone vinse a Imera nel 480 a.C., insieme al tiranno di Agrigento Te rone i Cartaginesi, esccludendoli così dalle coste sud orientali della Sicilia. Negli anni a seguire, Gerone sottomise Catania, e nel 474 riportò una grande vittoria navale sugli etruschi di fronte a Cuma, instaurando così il dominio commerciale dei Siracu sani su tutto il basso Tirreno. Sulla fine del V°s.a.C., succeduto alla tirannide dei Diomenidi un nuovo governo, di tipo demo cratico, la potenza di Siracusa s’era sviluppata a tal punto da minare quella della stessa Atene, impegnata in quel periodo nella guerra del Peloponneso. Ne consegue (416), un tentativo di Atene, per distruggere la pericolosa concorrente inviando una for te spedizone al comando di Alcibiade, e di Nicia; ma la spedizione punitiva finì in un disastro.
Agli inizi del IVsecolo, mentre i Cartaginesi si estendevano conquistando Selinunte, Imera e Agrigento, a Siracusa fu eletto stra tega autocrate Dionisio, col quale si inziò un nuovo e non meno splendido periodo di tirannide che portò al culmine della sua potena la città. Col figlio Dionisio V° e il suo successore Dione, cominciò la decadenza, aggravata negli anni seguenti da una lunga serie di tiranni, spesso inetti e in lotta fra loro.
La tirannide di Agatocle dal 317 al 289 a.C.,ridette prosperità e potenza alla città, che potè riprendere la lotta tradizionale con tro Cartagine. E Siracusa raggiunse l'apogeo sotto l'avventurioero Agatocle, che osò attaccare Cartagine nella stessa Africa, dove morì (289 a.C.) Più tardi la città si dichiarò per Cartagine contro i romani, e, malgrado gli sforzi di Archimede, Marcello se ne impadronì nel 212. Ma ormai agli inizi del III° secolo cominciava ad affacciarsi sull’Italia meridionale la potenza romana, con la quale Siracusa venne in urto sotto Gerone II°, che lottò contro i Mamertini, alleati di Roma, scontro conclusosi senza gravi conseguenze, Di poi Siracusa si alleò con Roma e riuscì a tenersi fuori dalla prima guerra punica, mentre i nativi poeti co me Teocrito e scienziati come Archimede rendevano universale la fama della città.
ll successore di Gerone, Geronino, ruppe l’allenza con Roma, alleandosi con i Cartaginesi e nel 212, assediata dal generale ro mano Marco Claudio Marcello, invano difesa dalle famose macchine da guerra di Archimede, fu presa e saccheggiata. Dopo la sua conquista, conservò una posizione di rilievo nella provincia di Sicilia, ma durante l’impero cominciò una lunga ed inarresta bile decadenza; d'allora seguì la fortuna di Roma. Nel 535 fu presa da Belisario, e passò all'impero bizantino. Nel IX° secolo i saraceni invasero la Sicilia, ma Siracusa fu l'ultima città che cadde sotto il loro dominio nell' 878, dopo un assedio di dieci mesi Gli abitanti vennero passati a fil di spada, le fortificazioni distrutte, e la città incenerita; non potè più rialzarsi completamente
dopo quel disastro. Passò in potere di normanni, vandali, goti, tedeschi, francesi e spagnuoli. Carlo V° ne ingrandì le fortifica zioni con materiali tolti al prezioso teatro e da altri monumenti dell'antichità. Aggravò molto negli anni del Medio Evo ma seguì in generale le sorti dell'isola.
SIRENA
Nella mitologia greca, nome che davansi a mostri o dèmoni marini, figli dell'Oceano e di Anfitrite, ovvero del fiume Acheloo e della musa Calliope. Cantavano con tanta soavità d'attrarre a sè i passeggeri, per poi divorarli. Si provarono ad ammagliare gli Argonauti, ma furono vinte dal canto di Orfeo. Tentarono anche di attirare Ulisse, ma vedendo riuscire inutile ogni loro sforzo, si precipitarono nel mare. Vi erano altre Sirene, abitatrici delle Sfere, le quali col loro canto invitavano i mortali alla virtù; esse si giravano con le Parche intorno alla dèa Necessità (Vedi Ananke). e cantavano le sorti della vita.
Nelle arti grafiche mostri favolosi col tronco, le braccia e la testa bellissima donna e colla parte inferiore del corpo in forma di pesce. Si trovano spesso rappresentate nella decorazione, tanto dipinte che scolpite negli edifici romani e greci, pur anche, e strano, in decorazioni antiche cristiane. per metà donne e per metà uccelli: un esempio si ha nella chiesa di Aglate in Lombardia, ove una sirena a due code, è rappresentata scolpita sopra un capitello. Comunemente le Sirene erano credute tre: Leucosia, Ligea e Partenope, e loro sedi erano ritenute la Sicilia, Capri, Sorrento e presso Napoli, dove si venerava la tomba di Partenope.
Venivano connesse con le Muse, e forse originariamente avevano le stesse funzioni mitiche; poi, soprattutto per l’influen za dell’Odissea, dove sono menzionate per la prima volta, assunsero la parte di incantatrici anziché di ispiratrici del genere umano; noto è l’episodio di Ulisse che sfugge al loro canto insidioso. Nella sfera dell’orfismo erano riguardate come angeli, che, nell’aldilà, allettavano con i canti gli abitanti dei Campi Elisi. La raffigurazione delle Sirene con la parte del corpo inferiore a forma di pesce appare solo in età medioevale, e da allora, largamente utilizzata nell’iconografia.
SIRIANO
Figlio di Filosseno alessandrino, fu discepolo di Plutarco, che lo iniziò alla scuola neo - platonica, e lo fece suo successore. Poco o nulla si conosce della sua storia personale, e regna non poca incertezza sulle sue opere. Tra queste citeremo i " Commentarii " su varie parti degli scritti di Aristotele, e specialmente sulla metafisica.
SIRINGA
Strumento di legno, composto da canne di varia grandezza usato specialmente "ab antico" dai greci e dai romani, chiamato anche fistolo di Pan, o cinfolo, oppur zampogna.
SIRIS
o SERRHAE
Antica città della Macedonia. Fu visitata da Serse nella sua ritirata, e da Lucio Emilio Paolo, dopo la vittoria di Pidna.
SISIFO
Sisifo (in greco: Σίσυφος; in latino: Sisyphus) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Eolo e di Enarete. È, almeno nella versione più comune, il fondatore e il primo re di Corinto[1], che al tempo della sua nascita aveva assunto il nome di Efira.
Sisifo era fratello di Deioneo, Salmoneo, Macareo, Creteo e Canace, ovvero gli Eoliani, e apparteneva, attraverso i genitori, alla stirpe di Deucalione, nato da Prometeo e dalla moglie Celeno. Era sposo di Merope dalla quale aveva avuto due figli, Glauco e Almo. Per mezzo di tali progenie, Sisifo era anche il nonno di Bellerofonte. Ebbe anche un terzo figlio non riconosciuto, a cui diede il nome di Protos, il primo.[senza fonte]
In tutti i miti che lo riguardano, Sisifo appare come il più scaltro dei mortali e il meno scrupoloso. La sua leggenda infatti comprende numerosissimi episodi, ognuno dei quali è la storia di una sua astuzia.
Mitico eroe greco, figlio di Eolo, e re della Colchide. Fu uomo prudente e saggio, ma per aver rivelati i misteri degli dèi, venne condannato nell' Erebo a volgere incessantemente un enorme masso, spingendolo all'alto di una montagna donde poi precipitava. Alcuni lo vogliono fare conduttore d'assassini, punito da Teseo; altro mito gli attribuiva una grande astuzia, sì che una versione ne faceva il padre naturale di Ulisse, l’astuto per antonomasia; un’altra invece lo faceva figlio, signore di Efiza e fondato re di Corinto. Due racconti narrano come fosse riuscito ad ingannare Tanato (Thànatos - Morte), e lo stesso Ade (dio dell’ol tre tomba), riuscendo ogni volta a sfuggire alla morte. Per queste due trasgressioni dei limiti di un mortale, o per aver tradito Zeus, fu condannato nell’al di là, a far rotolare eternamente una pietra su per un’altura, in cima alla quale poi la pietra ricadeva.
Sisifo doveva essere culturalmente legato ai Giochi Istmici, che si volevano fondati da lui. Secondo altra versione sarebbe sì fi glio di Eolo, che non si sa per quale colpa, condannato nel Tartaro a spingere col petto su per un pendio un masso che, giunto in cima, rotola di nuovo in basso.
SISTALTICO
Una delle divisioni dei vari stili della melopea greca diastaltica (che produce un atto di volontà), sistaltica (che paralizza la volontà) ed esicastica (che produce uno stato di ebbrezza).
SISTASI
- La Sistasi
- Sistasi
era un piccolo discorso, con cui l' oratore si raccomandava a un protettore
Presso gli eserciti della Grecia antica, così chiamavasi una squadra di Veliti composta da 32 uomini armati.
SISTILO
Così viene chiamato il Vitruvio, l'intercolonnio di due diametri, ed anche si estendeva a denominare un edificio decorato da colonne con degli intercolonni sistili.
SISTO
Presso i greci antichi indicavasi con questo nome un portico coperto in modo da essere ben riparato d'inverno. Esso era unito alle palestre ed era il luogo dove d'inverno si esercitavano gli atleti; invece presso i romani un luogo allo scoperto, che serviva al passeggio.
SISTREMA
Un corpo di milizia leggera greca, di 1024 uomini però formata da 4 sintagmarchie .
SITALCE
Figlio di Tere, erede al trono della Tracia, e della potente tribù degli Odisi, portò i confini del suo regno fino al Danubio ed all' Eusino. Era tanta la sua potenza, che allo scoppio della guerra peloponnesica, ateniesi e lacedemoni gareggiavano per ottenere la sua alleanza. Collegatosi infatti ai primi nel 413 a.C.,.sopra loro istanza, mosse guerra a Perdicca II, re di Macedonia, invadendo i di lui territori con un esercuti di 15.000 uomini. spingendosi nei pressi di Calcidica, Antemo, Crestonia, e Migdonia. Giunto però l'inverno e mancando le provviste, e, o sussidi d'Atene, dovette ritirarsi. Nel 422 a.C., guerreggiò coi Triballi , Ma ne ebbe la peggio, e perì in battaglia.
SITIA
Borgo marittimo della costa settentrionale dell'isola di Candia nel distretto di Lassiti. Giace alla foce di un piccolo fiume costiero in fondo alla baia di Sitia. Sembra occupi il posto dell'antica Elcia.
SITICINES
Così erano chiamati gli antichi romani suonatori di strumenti a fiato alle cerimonie funebri.
SITIFIS
Antica città della Mauritania Cesariense, presso la frontiera della Numidia. Corrisponde all'attuale Setif.
SITONIA
Antico nome di una delle tre penisole calcidiche della Macedonia; quella di mezzo.
SIWAH
o SIUAH
Corrisponde all'oasi antica di Giove Ammone, ed appartiene all'Egitto. Si stende a 550 km.a SO dal Cairo, ed occupa una depressione del suolo fra l'altipiano di Libia al N. ed il deserto libico a S. Il suo livello è a circa 25 mt. disotto quello del Mediterraneo, dal quale dista in linea retta 260 km. La sua superficie e di 15 kmq. Ha l'aspetto di una magnifica campagna aperta d'o gni lato, coperta da foreste dattifere, di olivi, di alberi fruttiferi. che la terra inesauribile ne produce due e persino tre volte l'anno. La natura sembra avervi prodigato tutti i suoi favori. La pianura nel centro dell'oasi, è tagliata in ogni senso da una folla di canali o di stagni. Le case che tempo addietro componevano il villaggio di Siuah, si addossavano al fianco d'una collina irregolare, presentano da lungi un aspetto leggero e grazioso. Nei dintorni abbondano il salgemma e il nitrato di soda che venivano adoperati, talvolta in blocchi come materiale da costruzione. Vi sgorgano molte sorgenti minerali. La curiosità principale dell'oasi sono gli ipogei scavati nella montagna di Caratel Mutsabarin e costituiti da grotte innumerevoli chiuse all'entrata da un macigno sul quale sono scolpiti i nomi dei morti ivi racchiusi. Gli ammoniani o antichi abitanti sono i discendenti di una colonia egiziana o etiope. L'oracolo di Ammone, nome a cui gli egiziani designavano la principale divinità di Tebe, era uno dei più celebri dell'antichità. Lo consultavano Alessandro in persona, e Creso per mezzo dei suoi delegati. Cambise, all'epoca della conquista egiziana, spedì da Tebe un'armata di 50.000 uomini con l'ordine di occupare l'oasi e di preparare le strade alla conquista di Cartagine, che i fenici per affinità di razza si erano rifiutati di assalire per mare. La poderosa armata scomparve senza lasciare di sè alcuna traccia sicura. Pare che il famoso tempio di Ammone, sorgesse a due o tre chilometri ad est di Siuah nelle vicinanze della celebre, Fontana nel sole, menzionata da Erodoto e Quinto Curzio, e della quale il Robecchi ha cercato invano le tracce. Gli abitanti erano rispettosi, selvaggi indocili, gelosi, ostinati, importuni e superstiziosi. Il villaggio di Menscieh, situato ai piedi della città, non era popolato che da vedovi, e da celibi. Questi potevano circolare di giorno, ma, al tramonto del sole, dovevano ritirarsi nei loro villaggi, sotto pena di ammenda. I datteri sono la grande ricchezza dell'oasi, Si è calcolato che le 100.000 palme di Siuah fornisce 30.000 quintali di datteri e quelle di Aghermi, pressapoco altrettante. Inoltre i palmeti pubblici, che erano poco curati, fornivano frutto di qualità inferiore, e dati in pasto agli animali. Il sale di Siuah di qualità superiore, era riservato un tempo a certi culti, e mandato fino in Persia per l'uso del re. L'oasi è frequentata annualmente dalle carovane indigene; è di difficile accesso per gli eruropei.
SIZIGIA
Due carri da guerra accoppiati insieme formavano la Zigarchia.
Due Zigarchie insieme, per combattere secondo l'ordinanza d'Eliano, si chiamavano Sizigia.
SIZIO
Abile avventuriero, coetaneo ed amico di Catilina, passato nel 64 a.C., in Africa, pugnò or dell'uno or dell'altro re di quelle regioni, sempre con successo fortunato; per tal modo acquistadosi fama di valoroso capitano, attrasse numerose soldatesche sotto le sue insegne. Quando Cesare sbarcò in Africa, trovò in Sizio un validissimo alleato. Costui infatti alla testa di ragguardevoli forze, invase la Numidia e penetrò nei domini di Giuba, che costrinse a far ritorno dalla già intrapresa spedizione, in soccorso di Scipione, sul quale fu così più facile a Cesare di riportare piena vittoria nella battaglia di Tapso. Cesare, prima di far ritorno a Roma compensò i servizi di Sizio e Bocco re di Mauritania, suoi alleati, concedendo ai medesimi la Numidia, occidentale, tolta al re Massimissa. Morto Cesare, Arbione, figlio del re spdestato, scacciò Bocca, uccise Sizio a tradimento, e riconquistò il trono dei suoi avi.
SKIATHOS
Isola dell'Arcipelago greco nelle Sporadi settentrionali. Appartiene alla nomarchia di Eubea, e si stende fra l'isola di Skopelo e la penisola di Magnesia, da cui la separa il canale di Skiathos. Ha una superfice di 42 kmq. Il capoluogo è Skiathos o Khora sulla baia della costa a SE, al posto dell'antica città rovinata da Filippo III°, per non poterla difendere contro i romani. Al NE, le rovine della città che l'aveva allora sostituita sono occupate dal convento Panagia Evangelistria
SKOPELOS
Isola greca dell'Arcipelago delle Sporadi del Nord. Appartiene alla nomarchia di Eubea e ha una superficie di 85 kmq., Ha pressapoco la forma di un triangolo isochele che termina a N. col Kabostés Gloss. Uno stretto canale nel quale sorge l'isola Hagios Georgius, la separa ad E. dall'isola Khiliodromia, con cui essa forma come una mezzaluna. L'isola è percorsa nel senso della lunghezza da una piccola catena alta al massimo 655 mt. Ai tempi di Demostenes, l'isola era detta Holonnésos. Il capoluogo è Skopelos, che giace sopra una rupe, dominante la baria omonima. Ha un buon porto commerciale. Altro centro è Glossa che comprende i due villaggi di Platana e Klima.
SM - SU
SMERDI
Figlio di Ciro, fratello di Cambise; questi lo fece uccidere, poichè aveva fatto un sogno che presagiva la grandezza del fratello raffigurato sul trono seduto, e toccante col capo il cielo. Un mago, preso allora il nome di Smerdi. (225 a,C,), regnò, ma, scoperta la sua impostura, fu ucciso a furia di popolo. e Dario fu nominato re.
SMIRNE
Provincia turca dell'Anatolia, corrispondente alle antiche Lidia e Caria. Ha una superfice di 45.000 mkq.
SOCRATE
Uno dei più grandi filosofi greci (Atene 470 o 469–399 a.C.) - Figlio di uno scultore e di una levatrice di Atene, nella giovinezza lavorò con suo padre e combattè. Dovette godere di una certa agiatezza economica, com’è provato che passò tutta la vita trascurando ogni intersse economico (onde tanta parte degli aneddoti sulla moglie Santippe) e dal fatto che combattè valorosamente come oplita, (poteva dunque procurarsi l’armatura costosa propria di questi combattenti) partecipando alle battaglie di Poti dea (429) dove salvò Alcibiade di Delio (424) e dove si caricò Senofonte sulle spalle, e di Anfipoli (422), nella prima fase della guerra del Peloponneso. Reduce dalle patrie battaglie, sposò ed ebbe tre figli dalla moglie Santippe: Lamprocle, Sofronisco e Menesseno. Furono queste tre guerre sembra, le uniche occasioni in cui abbandonò la città, passando tutto il resto della vita ad esercitare i suoi concittadini in quell’arte “maieutica”, che la madre esercitava sui corpi. Questa attività lo assorbì completamente, ne egli volle mai, per proprie convinzioni filosofiche, partecipare alla vita politica del suo tempo (si giustificava dicendo che gli era proibito dal suo “dèmone“; personificazione in parte ironica, in parte seria della voce della sua coscienza). Solo in due circostanze si trovò nella condizione di assumere responsabilità pubbliche; una prima volta, in regime democratico, quando, come pritano si oppose alla condanna sommaria dei generali vittoriosi delle Arginuse (306 a.C.), incolpati di non aver raccolto i naufraghi. La seconda volta sotto i Trenta Tiranni, quando rifiutò di rendersi corresponsabile dell’assassnio politico di un certo Leonzio di Salamina. In entrambi i casi corse grave pericolo, e si salvò solo per i rivolgimenti politici che intervennero. Questa frattura tra Socrate e la vita politica della città, indipendentemente dal regime politico, si approfondì e divenne definitiva sotto il regime democratico; fu presentata contro di lui l’accusa di non credere negli dèi della città e di corrompere i giovani. Ricono sciuto colpevole fu condannato a bere la *cicuta. Platone, nell’ “Apologia”, nel “Critone“ e nel “Fedone”, ha immortalato le fasi del processo, il rifiuto di Socrate di sottrarsi alla condanna, e i suoi ultimi istanti, facendone il paradigma con cui il filo sofocleo affronta la morte per amore della giustizia e della propria coscienza. Un fatto così clamoroso a prima vista, così ingiusto da ap parire assurdo, deve poter trovare la sua spiegazione, se non una vera e propria giustificazione nei rapporti di Socrate con la sua città, cioè nelle sue convinzioni etico politiche; in una parola, nella sua filosofia. Ma proprio qui sta il problema; Socrate non ha scritto nulla, e tutto quello che sappiamo di lui, lo sappiamo da altri, soprattutto da Platone, che ha fatto di lui il protagonista di quasi tutti i suoi dialoghi filosofici; da Senofonte che gli ha dedicato alcune opere per esaltare le virtù private, pubbliche e religio se; da Aristotele che in alcune indicazioni desumibili dai suoi scritti tende a presentarlo come lo scopritore dei ragionamenti in duttivi e della teoria della definizione, cioè della logica; e da Aristofane che nella “Nuvole”, ancora vivente Socrate, ne ha fatto una sferzante e radicale caricatura, accompagnandolo ai teorici della nuova scienza, ed ai sofisti; presentazioni spesso divertenti o comunque non perfettamente conciliabili, aggravate dalla diversità di tendenza riscontrabile tra gli immediati discepoli, i cosi detti – socratici minori. Si capisce allora come il problema “socratico”,abbia affascinato le menti e suscitato le discussioni di storici e filosofi dai tempi di Aristotele; ogni età si è fatta una raffigurazione di Socrate a propria immagine e somiglianza e passando dalle esaltazioni più accese alle svalutazioni più radicali; oscillazioni rese di fatto possibili dal criterio di sottolineare le di vergenze tra le fonti, e di scegliere una contro le altre. Onde si comprende come qualcuno sia giunto alla conclusione che è impossibile raggiungere Socrate storico e che ci è dato di conoscere solo la molteplicità delle “leggende socratiche". Tuttavia un simile scetticismo è da scartare con ogni probabilità in quanto la critica storico filosofica e storica è riuscita ad acquisire. La testimonianza di Aristotele, dipende sostanzialmente da una interpretazione di quel che dice Platone e dalle discussioni in segno all’Accademia; la testimonianza di Senofonte, ad eccezione dei primi due capitoli del “Memorabili”, risale probabilemente ad un trentennio dopo la morte di, Socrate, e il suo autore non si fà certo apprezzare per intelligenza di problemi filsofici; nella testimo nianza di Aristofane infine, Socrate è un simbolo anche se certi tratti dovevano renderlo riconoscibile. Non resta quindi che Pla tone, e più precisamente i dialoghi del Platone giovanile, o “socratici”; certo si tratta ancora una volta di un Socrate interpretato, ma una interpretazione che implica anche una adesione e una difesa, ed è perciò attendibile storicamente. I discorsi che Platone mette in bocca a Socrate in tribunale e in prigione, non possono essere invenzioni (molte persone le ebbero udite e mai ebbero smentita) e in questi discorsi è possibile rintracciare la filosofia e la professione di fede di Socrate.
Socrate partecipa di quello stesso soggettivismo che è tipico dei sofisti. Ognuno ritiene vero solo ciò che appare tale alla sua riflessione. Egli stesso affermava di lasciarsi persuadere soltanto da quel ragionamento che gli apparisse il migliore, dopo un ade guato esame critico. Tuttavia è proprio in questa esigenza di un esame critico, che Socrate, supera l’atteggiamento sofistico, giacchè esso esclude che le opinioni altrui siano considerate come difficoltà da superare in qualsiasi modo, e che coloro che le sos tengono siano valutati solo come avversari a vincere in una gara oratoria, o come inetti da affascinare con bei discorsi. Non si può, in altri termini.essere certi della propria verità finchè non la si sia confrontata con le verita altrui; ecco così che accanto al diritto di affermare il proprio punto di vista, nasce il dovere di capire il punto di vista altrui; quel dovere di esaminare, di discute re, di dialogare, che Socrate attuò per tutta la vita e che riteneva il dovere supremo per l’uomo e al tempo stesso il massimo bene. Discutere vuol dire collaborare ad una comune ricerca della verità; Socrate è convinto che solo da un vero dialogo filosofico possono scaturirne valori e verità comuni, cioè universali; allo stesso tempo egli non ha la presunzione dogmatica di possedere già questi valori e verità. Egli sà, soltanto, in questo senso, di non sapere, e proprio per questo vuole ricercare, esaminare, discu tere e, difronte alla sapienza apparente, ma non reale dei suoi interlocutori, il sapere di non sapere, diventa la forma più efficace dell’ironia socratica che è dissimulatrice, né scherzosa, né ingannatrice, bensì maieutica della propria ignoranza. Attorno a questo atteggiamento fondamentale si dispongono e prendono significato le altre dottrine che possiamo con maggiore certezza attri buirgli. Innanzitutto quella per cui «nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di farlo; ognuno agisce in funzione dei propri convincimenti, e fà ciò che ritiene per lui bene. Se fà il male, ciò è dovuto al fatto che egli ignora quale sia il vero bene per lui, giacchè se lo conoscesse, la sua volontà e il suo desiderio ne sarebbero irresistibilmente attratti, non potendo il bene non pre sentarsi che come ciò che è massimamente preferibile. Questo motivo dell'attraenza del bene, da un lato non è altro che l’affermazione del dovere di comprendere e dall’altro, è il fondamento della dottrina socratica dell’identità di scienza e virtù, di con sapevolezza e azione e della riduzione di tutte le virtù particolari, a scienza del bene e del male in generale». Di qui anche quella tesi per cui è meglio subire che commettere ingiustizia, con cui confermò il suo fermo rifiuto a sottrarsi al processo e alla con danna.
Per queste sue idee, per la coerenza con cui le tradusse in pratica, è stato una delle figure centrali della storia del pensiero o, un ideale di saggezza e di spirito critico, a cui la coscienza umana mai ha cessato di richiamarsi.
Note - In quel tempo,ossia nel V s.a.C., Atene e la Grecia erano infestate dai cosiddetti filosofi sofisti; persone che presumeva no di saper tutto, e pretendevano d’insegnar tutto, e che sostenevano con falsi ragionamenti e con artifici di parole; oggi una verità e domani un’altra, che traviavano il pensiero, dimostrando che nulla è vero e che nulla è certo. Insegnavano che tutto dipende dalla parola, dalla dialettica, dalla grammatica, che più ha ragione chi meglio sa parlare; che la stessa ragione dipende dalla bontà dei ragionamenti e dal saper ragionare. Che poi si ragioni a proposito o a sproposito, non importa, purchè giovi a confondere l’avversario nell’ingarbugliar negli altri le idee per il proprio profitto e per il tornaconto personale, qualunque esso sia.
Campioni di tali teorie e di tale scuola erano: Gorgia di Leontini, che si presentava in teatro dichiarando d’essere pronto a competere dialetticamente con qualunque e su qualsiasi argomento.
Ippia d’Elide, che si vantava di poter parlare anche su qualsiasi mestiere, sugli attrezzi, sui vestiti, sulle scarpe.
Cleone, che alle demagogiche parole univa drammatici gesti, scapigliandosi la chioma, scoprendosi il petto e battendosi la coscia.
Protagora, e altri.
Contro tutti costoro e per ristabilire la dignità e la semplicità, il puro, il buono, il santo, il vero, si levò Socrate.
Il vero è uno solo proclamava, una sola è la bellezza, la purezza, la giustizia, la bontà, all’infuori di ogni sorta di sofisticheria. Bisogna guardare a ciò che ha un valore costante e universale, non a ciò che è transitorio, apparente e individuale. Bisogna guardar in sè, e investigare nella propria coscienza e interrogarla, non derivare dal cervello la giustificazione alle azioni che si sono compiute o che si vogliono compiere. “Conosci te stesso”; ecco la massima di Socrate, e diceva inoltre che ”Sapere è virtù”. Esortava i discepoli a non rendersi schiavi delle passioni, di professar la vir tù, cercar il bene e farlo, che qui è la suprema felicità: ciò, può rendere buoni e beati. Procura sempre di migliorarti, poni le scienze al servizio della ragione, occupati dei problemi della vita, più che dei fenomeni della vita. Non curar le ricchezze e i beni del corpo a preferenza di quelli dell’anima, cerca la verità ed affermala e difendila contro chiunque, a ogni costo e sempre. Non abbandonar mai la causa della giustizia, ne cedere a forza o ad autorità di popolo o di tiranni, al di là di questo mondo v’è un “Essere Supremo”.
Queste cose insegnava Socrate per le vie, per le piazze, per le botteghe, e persino fermandosi a sedere sugli sgabelli dei ciabattini. Lo attorniavano, tra gli altri, i discepoli che poi divennero famosi. Otre ad Alcibiade e Senofonte, da lui salvati sui campi di battaglia, Platone, Euclide di Megara, Eschilo, Aristippo, Antistene, Simone, Fedone, Critone, Cebele e Crizia, che fu il capo dei “Trenta Tiranni”, che allora governavano dispoticamente in Atene, contro i quali predicava: -Se un pastore, diceva, vedesse giorno dopo giorno peggiorare o diminuire il suo gregge e non volesse confessare d'essere un cattivo pastore, mancherebbe di sincerità. Più ne mancherebbe un governatore che vedesse peggiorare o diminuire i cittadini e pur negasse d’essere cattivo governatore. Gli imposero di tacere ed egli: io non posso, per ubbidire a voi disobbedire agli dei. Se anche io tacessi, il mio silenzio sarebbe anche più eloquente delle mie parole.
- Non temi dunque alcun male? Lo supplicavano gli amici.
E Socrate: mille mali anzi m’aspetto, ma nessuno sarebbe più grave di quello che commetterei macchiandomi di viltà o di un’in giustizia.
Soprattutto lo odiavano i Sofisti.
Socrate li accostava umilmente, con l’aria di chi vuol essere illunuininato.
- Scusatemi, io non so nulla o meglio, una cosa sola so, ed è proprio questa; di non saper nulla. Sono davvero un misero uomo, e un povero ignorante!
- Ma sento che voi dite delle cose veramente straordinarie; debbo ammirare la vostra abilità, la vostra eloquenza e il vostro ingegno…e…,dopo averli rabboniti con simili elogi: ditemi un po, e avanzava sull’argomento una domanda apparentemente semplice e ingenua. Sorridevano di compassione i sofisti, e si degnavano di rispondergli, ma lo facevano con sì arruffati paroloni, che Socrate:
un momento, vi prego; ciò è troppo difficile per me,
non potreste spiegarvi con parole più semplici, con degli argomenti più facili? Più addatti alla mia poca capacità? E li tirava ad una risposta chiara, breve e concisa.
Allora Socrate insisteva con un’altra domanda, e li trascinava ad un’altra risposta, contrastante con la prima, oppure dalla risposta, ricavava una conseguenza.
- Non è vero che ne consegue questo?
- Certo!
- Ma ne consegue anche quest’altro.
- Si!.
- Com’è possibile, se una cosa è in contrasto con l’altra, e con tutte le vostre premesse?
I sofisti s’inquietavano, s’irritavano, inveivano, s’infuriavano e s’impappinavano;
Socrate, sempre accusando la sua crassa ignoranza e allontanandosi come mortificato, li lasciava esposti alle risate del pubblico.
Questo metodo, che fu poi detto socratico, lo usava anche con i suoi discepoli, inducendoli a scoprire in sé la verità. Egli ragionava sempre di cose umane, scrisse Senofonte, cercando che cosa sia la pietà, e che cosa l’empietà, che cosa è il bello, e che cos'è il brutto, che cosa sia il giusto e che cosa l’ingiusto, che cosa è la saggezza e che cosa l’insania, e così via altre cose, di cui giudicava che chi abbia cognizione sia da considerare valente uomo, e chi ne sia privo, debba stimarsi a ragione in condizione di servitù.
Una volta, racconta Alcibiade, il nostro Socrate si fermò in fondo a una strada assorto e quasi estatico, incurante di chi l’attorniava e gli passava accanto.
Trascorsero così molte ore, fino a mezzogiorno, arrivò anche la sera, calarono le tenebre e Socrate era sempre là, assorto e in piedi.
Tutti lo avevano abbandonato, alcuni soldati trasportavano vicino a lui alcuni pagliericci per vedere come andava a finire quella vicenda.
Giunse il mattino, sorse il sole, allora soltanto Socrate si scosse. Disse le sue preghiere, rivolse un saluto all’astro nascente e si partì.
La moglie Santippe, in tanti anni di matrimonio, assicurava di non averlo mai visto rientrare in casa diverso da quel che ne fosse uscito; sempre calmo, imperturbabile e sereno.
Una volta, un tale, gli affibbiò uno schiaffo.
- E Socrate: peccato disse che l’uomo non sappia quando debba uscire con la visiera.
La stessa Santippe, un giorno, dopo aver gridato in casa contro di lui, gli tirò dalla finestra una catinella d’acqua.
- E Socrate: dopo tanto tuonare doveva ben piovere!
L’oracolo di Delfo lo defini “l’uomo più libero, più giusto, più sapiente di tutta la Grecia ”.
Eppure i nemici l’accusarono di empietà verso la religione, di meditar novità contro lo Stato, e di corrompere i giovani.
Citato dai tribunali a difendersi:
- Io ho passato tutta la vita a difendermi, rispose Socrate, non facendo mai cosa degna di castigo.
- Ho ora sett’antanni ed è la prima volta che mi trovo in questo luogo; perciò io non so nulla dell’artificioso linguaggio dei miei avverari. Ma badate: condannando un innocente di non peccar contro Dio, in cui io credo più di qualunque dei miei accusatori, è a Dio e a voi che io rimetto il mio giudizio.
Di quale pena ti credi degno? Gli domandarono i giudici.
- Servii la patria a Potidea, a Delio e ad Anfiboli; seguitai a servirla e l'ho sempre servita cercando di formar buoni cittadini, per ciò mi credo degno d’essere alloggiato al Pritaneo e mantenuto a spese dello Stato.
Con 281 votti contro 275, fu condannato a morte. Avrebbe potuto riscattarsi a denaro e il suo allievo Critone gli offrì tutto il suo avere; ma Socrate:
- Mai! Indicatemi, del resto, un luogo dove non si possa morire mai!
Venne anche sua moglie, la povera Santippe, lamentandosi ch’egli fosse condannato innocente.
- E Socrate:
- Che! Preferiresti che fossi condannato colpevole?
Rimase trenta giorni in carcere, e in tutto questo tempo egli non fece altro che ragionare serenamente con i suoi diletti discepoli, sulle più sublimi questioni filosofiche, sulla vita futura e sull’immortalità dell’anima.
- Qual momento! Aveva detto ai giudici; ritrovarmi al di là, con gli antichi savi unirmi, a tanti altri colpiti come me, da inique sentenze, e, uscito dalle vostre mani presentarmi davanti a quelli che a buon diritto si chiamano Giudici!
Giunta la sua ultima ora, intrepidamente bevve la cicuta . Tutti piangevano.
Tranquillamente egli ragionava ancora. E così, sereno e calmo, si spense.
Desiderate Voi nulla Maestro? Gli chiesero gli allievi, prima dell’ultimo aneliito?
Si! rispose.
Sacrificate per me un gallo al dio Esculapio.
Era il voto che offrivano gli scampati da una malattia mortale!
Correva l’anno 399 prima della nascita di Gesù Cristo.
Note - Socratici minori: Con questa denominazione vengono indicati tutti coloro che in vario modo pretesero di rifarsi al magistero socratico, ma che rimasero di gran lunga al di sotto del maggiore fra tutti i socratici: Platone. A parte talune personalità come Senofonte o Eschine di Sfetto, tanto devote al maestro quanto irrilevanti per originalità di pensiero, e a parte taluni amici fedeli (p.es. Critone), con la denominazione di “socratici minori” si fa riferimento essenzialmente a Fetone di Elide, ad Euclide di Megara, ad Antistene di Atene e ad Aristippo di Cirene, fondatori rispettivamente delle scuole di Elide, megatica, cinica e cirenaica.
Il comune riferimento di tutte queste scuole al magistero socratico è molto tenue; si tratta in sostanza di una ripresa parziale e unilaterale di taluni motivi caratteristici di Socrate, ecletticamente fusi con altre filosofie, soprattutto l’eleatismo e la sofistica. Il che non toglie che alcune di queste scuole, come quella cinica, ebbero una rilevante importanza storica e una fortuna vasta e duratura.
SODOMA
Una delle antiche città che sorgevano ove ora è il mar Morto. E' passata in proverbio per i suoi vizi contro natura, che la fecero distruggere dall'ira divina.
SOEMI
o Soemia
Figlia di Giulio Mesa, e madre di Eliogabalo, visse alla Corte romana sotto la protezione di sua zia Giulia Domna, verso l'anno 294 d.C. Salito al trono Eliogabale ancor giovane ella gli fu consigliera e condivise le di lui follie ed enormità. Prese posto in Senato e pubblicò editti. Morì l'11 marzo 222 dell'era nostra, per mano dei Pretoriani.
SOFISTICA
Il nome di sofista, non ebbe da principio significato di biasimo, se non in quanto era cosa estranea al costume Ateniese far professione della sapienza; il sofista fu per Atene, uno straniero che veniva in quella città come un altro ad insegnare per mercede agli Ateniesi. A Socrate, ad esempio non piaceva mettere a prezzo il proprio sapere; ma non isdegnava che gli stranieri lo faces sero. Bisogna però notare che essi ne avevano anche bisogno, non perchè fossero meno progrediti degli altri greci nella civiltà e nella coltura; ma perchè al sapere propriamente filosofico essi erano stati fino ad allora quasi affatto estranei. La filosofia, come investigazione delle leggi della natura, e delle ragioni supreme dell' essere, si era elaborata specialmente nelle colonie joniche; dell'Asia Minore e in Elea; Anassagora e Diogene di Apollonia avevano cominciato a stabilirsi in Atene, e più volte erano quivi venu ti e vi avevamo professato le dottrine loro, Parmenide e Zenone. In epoca immediatamente posteriore a questi, avevano iniziato le loro peregrinazioni per le città greche, con ispeziale attrazione verso Atene, uomini che del compiuto ciclo della filosofia ante socratica, avevano inteso la inevitabile conseguenza scettica; avevano inteso cioè che nessuna opinione intorno alla realtà intima e fondamentale delle cose, poteva avere maggiore autorità delle altre; era l'inevitabile scetticismo che già così evidente risulta dal la dottrina della conoscenza abbozzata da Democrito. Senonchè, tanto la conoscenza della filosofia, quanto lo scetticismo che spingeva i nuovi filosofi a ritenere tutto il sapere essere costituito da opinioni, aveva per esso un vantaggio pratico; chè, per una parte il movimento di idee impresso al pensiero greco della filosofia ionica e dall'eleatica, ai sofisti più affine, poteva efficace mente aprire nuovi orizzonti all'uomo di Stato e all'oratore; e d'altra parte l'assenza di un sapere certo, offriva libero campo al l'esercitazione oratoria in difesa di uno e d'un altro argomento, a piacere. Così la filosofia perdeva il suo valore teoretico, cessva per un momento di vivere del proprio contenuto, per vivere della propria forma, ossia delle idee che poteva offrire e suggerire nella difesa di cause di Stato, o private. La sofistica adunque fu dovuta più all'evoluzione della filosofia medesima che aveva fat to capo allo scetticismo e all'opinionismo, più all'evoluzione degli Stati, che, perduta la semplicità antica, cominciarono a vivere di dibattiti oratori, nelle assemblee, cioè alla privata iniziativa dei sofisti. Essi svilupparono quella filosofia che trovarono, al loro apparire, come unica possibile, e la esercitarono, in quanto essa, perduta la certezza di un'unico vero, poteva ancora avere di buono il moto delle idee, come arte di parola, di vita e di governo. Quando l'esercizio dell'arte sofistica divenne una funzione importante della vita ateniese, la parte conservativa della città, di cui si facevano interpreti gli autori comici, cominciò ad avvertirli, e, dal canto suo, con molta ragione, perchè il dubbio sistematico e lo scetticismo sofistico, convolgendo il criterio antico, per cui la vita civile era sacrificio alla patria, ne faceva invece base, all'orgoglio individuale, lotta di ambizioni, passione egoistica, La sofistica, sapienza pratica adoperata agli accorgimenti della parola, e per questo mezzo anche dell'azione, si rivelava incitatri ce della demagogia, fautrice della tirannide demagogica illuminata ed astuta. Tale era appunto la sapienza di Pericle ch'egli aveva coltivato come arte di Stato, apprendendola da Damone e da Protagora. Così parlando dei sofisti, noi abbiamo accordato le due opinioni che la storia ha manifestato sul conto loro. Secondo l'antica opinione, essi segnerebbero un decadimento del pensiero e della morale della Grecia; decadimento di cui avrebbe fatto argine Socrate. Secondo la nuova opinione, sostenuta special mente da Giorgio Hegel e dagli storici Grote e Lewes, essi rappresenterebbero per la storia della vita greca, l'alba di un nuovo tempo. Che un decadimento ci fosse, è innegabile; i sofisti infatti non hanno una dottrina originale, non fanno che ricavare con seguenze scettiche dalle scuole precedenti. Parmenide di Elea, aveva detto, essere unico reale l'Uno, assoluto e immutabile; il mutamento essere pura apparenza. Gorgia ne trae la conseguenza che, siccome ogni opinione umana si fonda sul mutabile e vario, oltre il quale è impossibile discernere alcunchè, ogni opinione umana deve essere falsa, onde quel suo caratteristico ragionamen to, avente per tesi quelle tre famose proposizioni: " Nulla è; se qualche cosa fosse, non si potrebbe conoscere; se si potesse conoscere, non si potrebbe comunicare". Eraclito aveva detto che la realtà è nel discorrimento delle cose, nel divenire, che il reale immutabile non c'è, che il vero è il mutabile, Protagora di Abdera ne deduce, che tutte le opinioni sono egualmente vere; conclusione scettica anche questa, al pari di quella di Gorgia, benchè ricavata da opposto principio. Ciò non toglie che, anche al deca dimento medesimo, siano discordi assai le opinioni degli storici, specialmente dopo che Hegel trovò nuovi punti di veduta da cui considerare il pensiero sofistico; ciò che si intende assai bene, perchè, per esempio, il pensiero fondamentale di Gorgia Leontino, contenuto nel suo trattato "Del non essere, ossia della Natura", era a quello dell'idealismo assoluto, la Natura essere una posizione dell'io, o dell'idea, rispetto a cui è un non essere . E poi senza dubbio, assai ragionevole, l'opinione del Grote, che i sofisti siano i rappresentanti veri della loro età, di quell'età cioè in cui la Grecia uscita dalle guerre persiane, intraprende la rifor ma di sè medesima, rapida, multiforme, profonda, farraginosa. I sofisti, dice il Fiorentino, impresero a coltivare lo spirito greco, ad addestrarlo a lotte civili, ad insegnargli il modo come tirar le ragioni dalla loro, come cavar partito dallo stringente discorso dallo stile elegante e forbito; furono maestri di dialettica, di eloquenza, di morale, di politica, e i greci, li cercavano a gara, ne pagavano a caro prezzo le lezioni, li colmavano di lodi e di onori; i sofisti erano il caso loro, dei sofisti si aguzzò l'ingegno e l'intelletto greco e si ingagliardì nell'uso del ragionare; si perfezionò la prosa attica; nè la poesia risentì meno del loro influsso nel teatro di Euripide, segnatamente. I sofisti principali sono: Protagora di Abdera e Gorgia di Leonzi; l'uno dedito di preferenza all'etica, l'altro alla retorica e alla politica. Bisognò infatti notare che i sofisti eccellevano ciascuno in un arte speciale; la filosofia era mezzo no fine; così Prodico, maestro di Socrate si occupa di linguistica e scrive un trattato sulla sinonimia: Ippio di Elide di cui si narra che alle feste di Olimpia vantasse scienza universale ed abilità in ogni arte era dedito specialmente alla storia; Eutide mo e Dionisidoro di Chio si occupavano di arte militare; Antifone ed Isocrate erano oratori; Licofrone era retore, come pure Eveno di Paros, ricordato da Platone nell'Apologia di Socrate, Crizia fu capo dei trenta tiranni di Atene; Diagora di Melos, poe ta ditirambico, condannato a morte per empietà; a causa d' aver rivelato cose appartenenti ai misteri. Sofisti furono pure: Trasi maco di Calcedone, Polo di Agrigento, Xeniade di Corinto, Antimero macedone, Calliche, Ippodamo di Mileto, Falea di Calcedone, La Sofistica fiorì specialmente nella seconda metà del V° secolo av.Cristo; comincia la sua decadenza.col crescere dell'autorità di Platone.
SOFOCLE
Nacque a Colono, demo dell'Attica nel 406 o 405 a.c. Egli può considerarsi come il più grande dei tragici greci: giacchè se Eschilo creò la tragedia sviluppandola dai cori delle feste dionisiache, Sofocle le diede la perfezione massima, il carattere immortale. A differenza di Eschilo, che discendeva da una famiglia nobilissima, Sofocle era figlio di un armaiolo agiato, che fece educare il figliolo in guisa da svolgere in lui l'artistica tendenza; si sa, per esempio, che fu suo maestro nella musica e nella danza, in quelle arti reputatissime allora in Atene. Ma più che l'educazione artistica, giovò a Sofocle, nella prima giovinezza, la libera vita ispiratrice in un lembo dell'Attica, più d'ogni altro adatto alle sacre meditazioni poetiche del suo genio. Crebbe infatti, come dice il Curtiuz "fra le campestri delizie della vallata" del Celiso, all'ombra dei sacri ulivi, testimonio dell'antichissima storia di quella contrada, ma vicino anche alla città capitale, piena di movimento, vicino al mare, ch'egli dominava collo sguardo dalle alture di Colono, dalle quali, durante la sua giovinezza, vide crescere sotto i suoi occhi la città del porto. Sua lettura assidua fu Omero, la cui poesia contiene in potenza moltitudine di tragedie. Dicono di lui, come di molti altri grandi gli storici, che l'esempio di Eschilo è l'aspirazione ad emularlo, non gli lasciò requie fin dal primo entrare di giovinezza. A quindici anni, egli, assieme per amabilità e per bellezza è scelto a guidare il coro nelle feste dionisiache in occasione delle vittorie di Salamina (480). Dodici anni dopo egli si presentò alla gara dionisiaca della tragedia, contro Eschilo.
Non potè recitare le sue poesie per l'esilità della voce.
Era una gara di grande importanza che i greci sapevano dover rimanere memoranda. Cimone tornava allora dalle imprese di Tracia e salendo dal Pireo, offeriva nel teatro sacrifici agli dèi in rendimento di grazia. Cimone medesimo cogli altri due furono eletti giudici della gara; e contro Eschilo vinceva il giovane Sofocle, colla tragedia "Trittolemo".
Fu detto che Eschilo indignato, abbandonò l'Attica partendo per la Sicilia, ma questa tradizione fu smentita dal Franz il quale scoperse una didascalia attestante che Eschilo, rappresentò l'anno dopo della patita sconfitta, una tragedia in Atene.
D'altra parte non pare che Sofocle fosse d'animo da nutrire odio, livore ed invidia, egli era mite e sereno nella coscienza del suo valore. E questo carattere risulta anche dalla natura della sua poesia, riuscendo a perfezionare artisticamente la tragedia.
Il temperamento impetuoso e fanatico di Eschilo, dava allo stile di questo un'intonazione quasi sempre tempestosa nella sua solennità spesso esagerata e soverchiamente impetuosa. Sofocle moderò la violenza del linguaggio passionato, si astenne da ogni gonfiezza, fu eloquente senza sovrabbondanza.
e accostò maggiormente alla vita vera i caratteri dei suoi personaggi, senza toglier loro l'impronta solenne della tragedia.
La vittoria ottenuta col "Trittolemo", iniziò Sofocle nella carriera tragica, ma il definitivo trionfo non venne che con "l'Antigone" presentata nel 440, che diede al poeta l'incontrastato primato fra gli altri poeti.
Come s'è già detto nel 468 riportò la sua prima vittoria nelle gare drammatiche battendo Eschilo; ma nel 441 fu vinto a sua volta da Euripide. Amico di Pericle e di Erodoto, fu stratega nel 441-40 e nel 428-27, e probulo nel 413.
Scrisse 120 tragedie, oltre a molti frammenti; ne restano solo sette:
Antigone, Aiace, Edipo re, Elettra, Filottete, Trachinie, Edipo a Colono.
Dai papiri è emersa inoltre una parte di un suo dramma satiresco “I segugi Secondo Aristotele”, Introdusse nella tragedia la figura del terzo attore, portò da 12 a 15 il i coreuti e svincolò le tetralogie dal nesso d’argomento, fra i singoli drammi.
L’Antigone (442 a.C.) rappresenta il conflitto tra la pietas di Antigone che, dopo la mutua uccisione dei due fratelli Eteocle e Polinice, dà sepoltura a quest’ultimo, e le leggi dello stato impersonate da Creonte, che vietano quella sepoltura, stabilendo la pena di morte per i trasgressori. Eroina della coerenza a un'idea enunciata con vigore e anche con tenerezza (sono nata a dividere no l’odio ma l'amore). Antigone impone la sua statura spirituale alla coscienza del pubblico, mentre l’esperienza della vicenda livella gli antagonisti in una sventura irreparabile.
Nell’Aiace, il più valoroso dei guerrieri Greci accecato dalla dèa Atena, compie una dissennata strage di armenti, credendo di uccidere i duci Achei, che gli hanno negato l'eredità delle armi d’Achille, assegnate invece ad Odisseo. Quando rinsavisce, schiacciato dalla vergogna si uccide.
La contesa per la sepoltura del suo cadavere, rifiutata dagli Atridi è risolta da Odisseo, che sente trionfare su gli odi il valore dell’eroe.
La tragedia è priva di unità e la seconda parte è piuttosto fredda, ma la prima parte è dominata dalla figura del protagonista la cui grandezza è l’accettazione eroica della morte.
L’Edipo re fu considerato la tragedia esemplare del teatro greco. Re di Tebe, sposa Giocasta, vedova di Laio, assassinato in un crocicchio, conduce un’indagine per scoprire l'uccisore. Attraverso progressive rivelazioni si scopre che Laio è stato ucciso proprio da Edipo e che costui, esposto da bambino sul monte Citerone e cresciuto a Corinto come figlio di Polibo e di Merope, è in effetti il figlio della sua vittima e il marito inconsapevole incestuoso della propria madre. L’agghiacciante rivelazione provoca il suicidio di Giocasta. Edipo, strappatosi gli occhi, dopo un patetico commiato dalla figlia, s’allontana brancolante dalla città; reo di delitti, innocente (un omicidio per legittima difesa e un incesto inconsapevole) egli approda ad una condizione di impurità mostruosa e tuttavia inimputabile.
L’Elettra, svolge, con variazioni, l’argomento delle Coefere eschilee, cioè la vendetta dell’assassinio di Agamennone compiuta da Oreste e da Elettra che uccidono la madre Clitemnestra e il suo amante Egisto.
La vicenda, priva di uno sfondo religioso ed etico, s’accentua attorno alla protagonista, estrema nella sua foga passionale, feroce nel sarcasmo, tesa con violenza inaudita all’obiettivo della vendetta, ferma nell’alternativa; gloriosamente salvarsi o perire.
Il Filottete è percorso da un pessimismo totale, e da un sarcasmo blasfemo contro gli dèi, ma nella sorte dell’eroe infelicissimo, che, confinato a Lemno da una piaga, è oggetto d’un agguato ordito da Odisseo, lotta fino al massimo col suo tormento, appare ancora una volta l’accettazione coraggiosa della sorte. Nelle Trachinie, Deianira si strugge per la lontananza e il disamore del marito Eracle, al quale invia una tunica, intrisa del sangue del centauro Nesso, che dovrebbe essere un filtro d’amore, ed è invece strumento di morte; scoprendosi vittima di una colpa involontaria Deianira si uccide. I drammi dei due protagonisti sono legati dal filo di uno stesso spasimo ma la tragedia ha piena vita estetica nella prima parte dove Deianira, consapevole dell'ineluttabile passività umana di fronte a l’Eros, incarna il tipico personaggio sofocleo, del vinto incolpevole, tuttavia con sfumature sentimentali euripidee. La somma dell’arte di Sofocle si ravvisa in Edipo a Colono, dove, vecchio e cieco, sorretto da Antigone, giunge in un sobborgo di Atene, ove è accolto ospitalmente da Teseo.
Invano conteso da Creonte e da Polinice il corpo di Edipo, che secondo un oracolo dovrebbe essere pegno della vittoria nella guerra tebana, dilegua prodigiosamente nel bosco delle Eumenidi.
L’innocenza di Edipo è riaffermata risolutamente, tuttavia l’eroe rivela ancora la sua tempra collerica, che si placa solo alla fine, quando, alle figlie piangenti, il vecchio saggio consegna un messagio d’amore quale medicina all’infinita stanchezza del vano esistere. La salvezza di Edipo, apparente soluzione catartica della vicenda, è gratuita come la sua rovina, giacchè i disegni divini e il gioco della sorte, rimangono inesplicati.
"I Segugi":
- Di quest’opera poco è da dirsi; è dramma satirico riprendente la leggenda di Ermes, che ruba le vacche di Apollo, il divino enfant-prodige, e trae dal guscio della testuggine la cetra sprigionandone il conforto della musica.
Sofocle è il tragico dell’uomo eroico nella sua essenza d’infelicità. L’individuo che si crede saggio, potente, padrone della vita altrui e della propria, conduce le file d’una sua azione che a un punto si svela cieca, giacchè un’altra parallela azione degli dèi o del fato si scatena e l’abbatte. Di fronte a questo ignoto, l’eroe, stroncato senza colpa, geme ma accetta.
Ignaro della fede di Eschilo, e lontano dalla macerante e acuta problematica di Euripide, non sfida il cielo e in apparenza si piega a Dio. Ma la sua disperazione non è perciò meno cupa; la divinità è cattiva o incomprensibile. Lo stile di Sofocle, considerato nei secoli modello di perfezione, non è privo di disuguaglianze, e di scarti imprevedibili.
La vittoria ottentuta col "Trittolemo" iniziò Sofocle nella carriera tragica, ma il definitivo trionfo non avvenne che con "l'Antigone", rappresentata nel 440, che diede al poeta l'incontrastato primato su gli altri poeti.
Fu allora che egli, salito in altissima ammirazione presso i suoi concittadini ottenne da questi di essere nominato stratega con Pericle, nella spedizione mandata a sedare la ribellione di Samo. Compì valorosamente il suo dovere, ma colui che ebbe la parte principale in quell'impresa fu Pericle.
Sofocle era devoto cittadino di Atene, a cui apparteneva la sua nativa Colono; in lui come negli altri artisti del suo tempo, batteva cuore di patriota, ma i servizi resi alla patria con l'eccellenza della poesia erano da lui e dai suoi concittadini non stimati inferiori a quelli di uno stratega; ciò spiega che, se dobbiamo credere al poeta Ione, la sua parte in quell'impresa fu, senza suo rammarico quasi completamente passiva.
Coprì poi altre cariche pubbliche, come quella di tesoriere dei tributi degli alleati. Non smise mai l'esercizio dell'arte sua; anzi per tutta la sua lunga vita, continuò a servire progredendo in perfezione. Alle gare della tragedia, egli vinse venti volte il primo premio.
La sua ultima commedia "Edipo Coloneo” è tra le sue, la più perfetta.
Riguardo questa tragedia, Cicerone nella sua De Senectute riferisce un'aneddoto interessante. Unico dei suoi figlioli, lo avrebbe chiamato in giudizio per togliergli l'ammistrazione dei beni, come vecchio oramai fuor di senno.
Egli per tutta difesa, recitò dinanzi ai giudici il coro dell'Edipo, domandando ai giudici se quella era opera di
dissennato; i giudici lo assolsero.
Aneddoto oggi messo in serio dubbio da critici moderni.
LEGGENDE SULLA SUA MORTE
Intorno alla sua morte avvenuta nell'anno 406 a.C., ossia in quell'anno medesimo in cui gli ateniesi ottenevano l'ultima loro vittoria contro Sparta alle Arginuse, corrono tre diverse leggende: una è, che lo soffocasse un acino d'uva, andatogli di traverso e rimastogli in gola; è curioso il fatto che la stessa morte si attribuì anche al poeta Anacreonte; la spiegazione di questa strana coincidenza si troverebbe nell'essere tanto per l'uno, quanto per l'altro poeta, questa leggenda creata dal bizzarro talento della commedia attica.
Altra leggenda è che spirasse nello sforzo di calorosa recitazione dell'Antigone; e la terza, che morisse per effetto della gioia di una vittoria riportata alle gare tragiche. Se noi esaminiamo la storia della letteratura greca, vediamo che per moltissimi degli scrittori è narrata una maniera di morte evidentemente favolosa; secondo un dotto studio del prof. Piccolomini, dell' Università di Roma, alle tre leggende sulla morte di Sofocle, è da attribuirsi l'origine nella commedia attica.
Tutte e tre avrebbero per significato comune l'aver durato Sofocle nello scrivere tragedie sino all'estremo della sua vita.
Anche sulla sua serpoltura corre una graziosa leggenda, così esposta dal Curtius (Storia greca III pg.62: "A ragione Frinico nella commedia "Le Muse" rappresentata contemporaneamente alle "Rane") d'Aristofane, lo decantava come un essere privilegiato dalla fortuna poichè era morto dopo una lunga vita, ricca d'operosità feconda, prima che lo cogliesse la sventura. E come la sua poesia, è lo specchio fedele, nel quale si riflette nella forma più perfetta la grandezza di Atene, così la vita di lui è anche la misura più marcata della breve durata di quel periodo.
Il poeta cantò il poema della vittoria, quando sorgeva l'astro raggiante della fortuna e morì prima che questa fosse tutta volta al traguardo. La guerra non doveva neppure invidiare l'onore delle funebri pompe; furono queste celebrate a Colono senza essere turbate dalle schiere nemiche che scorazzavano per la contrada, Seguendo la tradizione di un antico biografo e le abbellì la fantasia popolare con sinbolo leggiadro, dicendo che, Dionisio stesso, il nume del teatro ateniese, s'era preso cura del suo allunno diletto, ordinando per mezzo di un sogno, che s'avvesse ad onorare l'altissimo poeta.
Seguendo la tradizione di un antico biografo di Sofocle, riportato anche da Plinio, il re spartano che si sarebbe arrestato nella sua incursione contro Atene, dinanzi alla sepoltura di Sofocle sarebbe Lisandro.
Il Curtius nega che fosse questi , limitandosi ad ammettere che gli spartani, dopo la battaglia delle Arginuse, in cui la loro flotta era stata distrutta, stringessero per terra da vicino Atene e che ciò potesse accadere sulla via di Decelea, dove fu posto il sepolcro di Sofocle. La fama di Sofocle presso i greci e soprattutto presso gli ateniesi, fu grandissima; le sue tragedie, ricordate con venerazione; il suo nome onoratissimo. L'ultima sua tragedia "Edipo Coloneo", fu fatta rappresentare dopo la sua morte dal figlio Iofonyte nell'anno 401 a.C.
LE TRAGEDIE
Sofocle fu scrittore fecondissimo; si calcolano a più di cento i suoi drammi, di cui diciotto sembra fossero satirici. Ci giunsero sette tragedie e un migliaio di frammenti raccolti dal Welcher, che dà pure i titoli di tragedie sofoclee perdutesi. Il Berg riferisce di lui un frammento di elegia e di un suo scritto teorico; sul coro si ha menzione in Suida.
Importanti furono le innovazioni portate da Sofocle; anzitutto, mentre nelle tragedie Eschilee, salvo le ultime, gli attori erano due soli, Sofocle introdusse un terzo attore; innovazione importantissima perchè la tragedia greca, con solo due attori, era poco più che altro un'azione scenica attinente ancora all'origine dionisiaca, con prevalenza del coro; il terzo attore rende prevalente la parte del dialogo e dà rilievo ai personaggi, rendendo possibile uno svolgimento drammatico più indipendente dal coro; ossia sviluppando la parte veramente drammatica dal fondo lirico primitivo.
Anche gli espedienti scenici necessari all'azione, furono maggiormente curati da Sofocle coll'aiuto di Agatarco, artefice di Samo, dimodochè la nudità della scena primitiva cominciò a mutarsi in vero spettacolo accompagnante solennemente l'azione.
Un'altra innovazione importante fu la liberazione del dramma dalle trilogie o tetralogie, se vi aggiungiamo come compimento il dramma satirico, corrispondente alla nostra odierna farsa. dramaEschilo, se non fu l'inventore della trilogia tragica, ne fu però scrittore caratteristico, riuniva in quelle trilogie il completo sviluppo di una leggenda, nota alla mente dei greci e che essi amavano veder sviluppata artisticamente sulla scena.
Ma ciò doveva sempre meno accordarsi col gusto progredito specialmente in Atene.
Sofocle comprese che maggior interesse avrebbe destato e maggiore perfezione artistica, ottenuto un dramma in cui l'azione si compisse tutta senza bisogno di collegamento con altri; che se potevasi ottenere di svolgere, come dice il Curtius, una corrente di vita più forte nel giro delle singole tragedie, che avrebbero guadagnato i caratteri, il cui rilievo sarebbe stato più spiccato, e l'azione che avrebbe potuto svolgersi, più completa e più piena.
Egli non dismise l'uso della trilogia ma rese indipendente dagli altri due ciscun drama di essa rendendolo tale da poter essere giudicato come opera d'arte da sè.
Diremo ora qualche cosa delle tragedie che ci rimangono:
L'Aiace ha per soggetto la furia dissennata dell'eroe, a cui non furono aggiudicate le armi di Achille; egli è privato del senno da Minerva perchè minacciava vendette sugli Atridi; l'uscire di senno ed il furore, uno degli effetti della Nemesi divina ed ora secondo il concetto degli antichi e secondo anche l'origine dionisiaca della tragedia, sommamente tragico lo spettacolo dell'uomo fuor di senno; dell'uomo a cui è stato tolto tutto ciò che per i greci era supremo prestigio della personalità; l'armonia intelligente della condotta.
Una lunghissima descrizione è dedicata allo spettacolo della strage che Aiace compie intorno a sè di capri, bovini, agnelli e montoni, scambiandoli nella pazzia per nemici propri.
Rinsavito, accade il suicidio, cioè il sacrificio di sè a placare gli dèi; ed è patetico l'addio ch'egli dà alla terra e ai luoghi, in cui visse.
L'argomento principale di questa tragedia era pure stato svolto da Eschilo in una tragedia perduta. I critici non attribuiscono tutta a Sofocle questa tragedia perchè le ultime scene sembrano scritte da altra mano, e probabilmente sono dovute ad un continuatore, che potrebbe anche essere Jofonte, figlio del poeta. L'argomento dell'Elettra è comune pure ad Euripide ed affine a quello trattato da Eschilo nelle Coefore.
Non si può dire che sia il personaggio di Elettra quello che maggiormente campeggia in questa tragedia; è piuttosto Clitemnestra che raccoglie sul suo capo il fato tragico per il turpe amore che la legò ad Egisto (amore fatale paragonabile alla furia demente dell'Aiace, perchè l'uno e l'altra sono punizione divina), e per l'odio di cui la perseguitano i figli suoi essendo ella stata la causa dell'uccisione di Agamennone.
La reggia degli Atridi risuona tragicamente dei pianti suoi, all'annuncio della morte di Oreste, oltre al fatto di cui ella è colpita; è tragico l'odio di cui la persegue Elettra pure insigne di fraterno amore per Oreste, e la potenza del suo materno affetto, che, forte anche contro l'odio dei figli e la nefandezza della sua colpa, la tortura, e ne prevede le grida dolorose.
La più bella tragedia che l'antichità possa vantare è l'Edipo Re; appartiene al ciclo tebano e può considerarsi come legata in trilogia con l'Antigone e con l'Edipo Coloneo.
Aristotele la preferisce ad ogni altra e la cita spesso come esemplare nella sua "Poetica". Ne riferiamo l'argomento come lo espose il prof. Satti nel suo ottimo "Disegno Storico della Letteratura Greca".
La scena mostra il palazzo reale di Tebe. Una folla di popolo supplice ai piedi del re invoca la cessazione della pestilenza che affligge la città.
Edipo manda il cognato Creonte a Delfo per oracoli e questi ritorna con la risposta, poco dopo.
Per placare il dio, occorreva il bando o l'uccisione dell'assassino di Laio. E' chiamato Tiresia l'indovino, che non volendo svelare la tragica verità, è insultato dal re ed accusato di tradimento insieme a Creonte, in fama di aspirare al trono di Tebe.
Vivace diverbio tra Edipo e Creonte, con l'intervento di Giocasta, moglie del re, che, senza volere mette Edipo nel caso di intravvedere la terribile verità. E un messo giunto da Corinto con la nuova della morte di Polipo, conferma gli angosciosi dubbi del misero Edipo; sia, nel fatto, egli l'uccisore inconscio di Laio e l'inconscio sposo della propria madre.
L'ultima scena è straziante ed altamente patetica, Giocasta precipita nella reggia e si impicca da sè, Edipo disperato, si cava gli occhi e, nella suprema angoscia fisica e morale, abbraccia le figlie, poi, si apparta sul Citerone ad espiare le fatali sue colpe. Nell'Antigone, Sofocle tratta col medesimo titolo un argomento già trattato da Eschilo, ma Sofocle eleva il fatto tragico a insegnamento morale e civile giacchè la soave figura di Antigone, che, nel lutto tragico della famiglia sua su cui grava la vendetta del fato rappresenta la opposizione e la vittoria dell'affetto figliale e fraterno alla Nemesi divina è pure una protesta contro quelle leggi dello Stato che vietano l'adempimento della legge naturale e dei santi affetti.
Le Trachide
(donne tessaliche di Trachis), sono fra le opere di Sofocle le meno perfette tanto che fu dubbiò che veramente potessero essere di Sofocle.
De la morte di Eracle;
il soggetto ne è altamente tragico; anche qui il fatto principale è l'adempimento del volere degli dèi manifestato per mezzo di una predizione fatta ad Eracle dal padre suo, che nessun vivente avrebbe potuto farlo morire, ma che egli sarebbe morto per opera di un estinto.
Questi è Nesso, Centauro, la cui camicia infuocata Ercole indossa per guarire dai mali e dagli affanni che lo travagliano, secondo il consiglio di Deiamira.
L'amore di Deiamira e l'affetto predominante in questa trageda è la figura morente di Ercole, vi è illuminata di un raggio di poesia serena, perch’ egli perdona e riconosce la onnipotenza del destino che lo colpisce.
Il Filottete,
è fra le tragedie sofoclèe, quella che presenta la maggiore complicazione psicologica dei personaggi e l'azione drammatica più viva per effetto stesso del contrasto che i personaggi hanno fra loro, e del dialogo da cui il contrasto medesimo appare. Anche qui il fondo tragico è costituito dalla volontà del fato che trae Filottete relegato in Lemno dai greci, a partire riluttante per l'impresa troiana oltre il carattere di Filottete tutto ira e rancore contro i greci e spiccatissimo quello di Neottolemo rappresentante la gioventù generosa, pronta, leale, fida all'amicizia; egli si offre a Filottete come aiuto per ricondurlo alla sua nativa Tessaglia, sfuggendo così all'impresa troiana quello di Ulisse, di cui è posta in rilievo l'astuzia leggendaria. Ma nel Filottete accade che l'azione del fato, si fà sentire di per sè stessa nel corso degli avvenimenti; ma, come dichiarata e personificata nell'apparizione del dio Eracle che rivelando i decreti del Destino induce Filottete e Neottolemo a recarsi sotto le mura di Troia; l'apparizione del dio non è che un espediente per concludere l'importanza del drama che consiste nella determinazione dei caratteri.
L'Edipo di Colono o Coloneo,
fu chiamato da Cicerone mollissimo carme ed è infatti il poema della pace e del perdono in cui spira la senile speranza dopo una vita travagliata, in una vita di quiete e di oblio. Le allusioni sull'oltre tomba vi abbondano, ed anche l'azione è più varia, più poetica, più colorita. La scena è Colono, patria del poeta, ch'egli celebra in versi affettuosissimi, pieni di dolcezza e di calore.
Edipo giunge a Colono e trova riposo nel bosco sacro a quello stesso Erinni che l'avevano perseguitato e colpito di sciagure, egli vi è entrato senza av vedersene; il popolo leva meraviglia per la tremenda audacia di lui che ha osato violare il bosco sacro; ma Teseo, l'eroe di Atene promette ad Edipo protezione nell'Attica.
Edipo respinge la domanda di aiuto di Eteocle e Polinice, i quali prima lo avevano oltraggiato; e si innalza sopra di essi, come sopra tutti gli altri suoi nemici.
Egli, protetto oramai dalla divinità ha espiato la sua colpa; egli scende all'Eliso, scomparendo alla vista degli astanti, circonfuso di viva luce, e Teseo fa cessare il pianto delle figlie sue ricordando la santità dei voleri degli eterni dèi.
Sforzando l'interpretazione si potrebbe forse vedere simboleggiata la vecchiezza del poeta, il suo ritorno col pensiero all'antico demo, l'onore in cui era stato tenuto in Atene; le stanche sue speranze sull'oltretomba pagano.
Però anche senza ammettere questo simbolismo, vi è certamente nell'ultimo drama di Sofocle un'ineffabile poesia, che fa pensare alla serenità del vecchio che vede oramai dall'alto le umane vicende e le miserie e si rallegra nel pensiero di un'altra vita di eterne gioie, ove avvenga il riposo dai travagli e dalle passioni della terra.
Considerando ora nell'insieme queste tragedie sofoclee, e evidendone la tessitura sulla leggenda eroica dei cicli troiani, tebano, eracleo, comune anche ad Eschilo, credere che affinità di argomento costituisce affinità fra poeti che le trattarono, perchè l'argomento delle tragedie è il dato forse, il meno importante che l'opera di Sofocle presenti.
Sofocle fa progredire la tragedia perchè hà posto in essa quella varia genuina espressione degli affetti da cui riescano scolpiti e plasmati i caratteri, e perchè ne avvicinò il dialogo a quello. L'entusiasmo, l'impeto quasi severo della vera vita greca di allora.
L'entusiasmo, l'impeto quasi sacro, cedono il posto ad una riflessione più severa, più complessa di idee e più ricca di sintetica struttura; si sente in lui l'uomo della nuova Atene, dell'Atene di Pericle che disputava e maturava i concetti morali da cui imparò tutto il mondo.
Lo stile di Sofocle è da alcuni tacciato di difficoltà soverchia che talora è uscita e sembra voluta; gli è ch'egli non s'abbandona all'impeto degli affetti, ma addatta il suo pensiero al pensiero avido di sentenza e di disputa, dei suoi spettatori. E a proposito di sentenze, è bene notare, come il contenuto morale dell'opera di Sofocle, è assai più ampio e vario che in Eschilo; non è una morale indipendente dalla religione, giacchè a dirigere gli umani eventi resta pur sempre il volere degli dèi; ma nella vita dell'uomo, pur diretta dal fato, hanno il loro peso i moventi morali e questi prendono origine come Antigone dichiara, dai più sacri affetti dell'uomo, non dalle mutevoli leggi dello Stato.
La morale di Sofocle si esplica in forma meditata, razionale, adatta allo spirito equanime e ragionatore dei greci. Ed era anche una morale assai più vicina di quella di Eschilo, alla pratica della vita giacchè ne ha gran parte l'effetto patrio; non solo riposto nella scelta dell'argomento di leggenda nazionale, proprio di tutta la grecità; ma meglio determinato dalle frequenti allusioni ad Atene e all'Attica e al suo luogo natio.
D'altra parte la nobiltà della persona umana non riceve tanto detrimento come nelle tragedie precedenti dall'immobilità del fato, perchè al personaggio sofocleo, è riservata una manifestazione sua propria, sia nella spontaneità come nella razionalità dell'azione ch'egli compie. Dal punto di vista letterario è specialmente notevole in Sofocle una dolce idealità che compenetra i caratteri, li penetra nel mondo giovane dell'arte. La lingua è loda, e lodata per dolcezza e varietà.
Di Sofocle la lode più bella la fece lo Schlegel con queste parole: "In ogni maniera di sviluppo intellettuale, vi ha, come nel graduato procedimento della natura un istante di fiore, e un punto di perfezione superiore ad ogni altro, il quale si fa manifesto per una bella eccellenza nella forma e nella lingua. Questo punto ce lo segna Sofocle, non solamente rispetto all'arte tragica, ma sibbene rispetto a tutta la greca poesia e coltura".
Note - Il paragone di Winckelmann, della serenità del fondo marino intatto alla furia dei marosi alla superfice, fu accettato o capovolto per mostrarlo aderente al doppio volto del poeta; chiarezza espressiva e torbido pathos dei personaggi.
Ma quella similitudine, come ogni altra formula definitoria di quest’arte, resta generica e incongrua. Sofocle, il poeta più ammirato dal classicismo, è forse dei tre classici greci, il meno afferrabile. La fortuna del suo teatro è stata immensa, dall’Umanesimo all’Alfieri, dal l’Ottocento ad oggi. Fra le tante elaborazioni del 900, si ricordano solo l’Elettra di Hofmannstahl, che offrì il testo all’opera di Richard Strauss, e l’Oratorio Oedipus Rex di Stravinskij; ma Cocteau, Gide, Anouilh, Giraudoux, Pound, hanno variamente riproposto la tematica del poeta.
Dopo la morte fu venerato come eroe.
SOFONIA
E'nome d'un monaco greco, scrittore di alcuni Commentari, delle opere di Aristotele e che visse verso la fine del secolo XVI°.
SOFONISBA
Figlia di Asdrubale, nacque in Cartagine verso l'anno 235 a.C., e fu regina della Numidia Cresciuta nell'odio contro Roma, doveva passare sposa a Massimissa, principe numida, ma il padre la impalmò al re Siface, alleato dei romani, Sofonisba riuscì a fargli mutar animo, e rompere in armi contro Roma. Espugnata Ceuta, capitale e residenza di Siface, per opera di Massimissa, alleato dei romani, Sofonisba cadde in mano di lui che sentì rinascere in cuore le antiche fiamme per la bella prigioniera. Ma Scipione l'Africano, temendo ch'essa lo inimicasse con i romani, la reclamò inesorabilmente; ed essa, donna d'alto animo, per non ornare il trionfo del vincitore a Roma, ove sarebbe stata tratta captiva, prese il veleno fornitogli dallo stesso Massimissa
SOFRONE
Scrittore greco del V° secolo a.c., nato a Siracusa fu il principale autore e forse l'inventore dei pezzi drammatici chiamati mimi. Parecchie delle sue opere non furono ammirate da Platone, ma imitate da Teocrito. I pochi frammenti che si conservano, dei suoi lavori e nei quali non si trova alcun metro conosciuto, sono stati raccolti da Bloomfield nel "Giornale Classico", da Ahrens nel "De Dialecto dorico" e nel "Musem criticum" pubblicato a Cambridge
SOLE
Questo pianeta è stato il primo oggetto che diede origine all'idolatria. I caldei lo adorarono sotto il nome di Bel o Baal, i cananei di Moloh, i Moabiti di Baaelfegor.
Egli fu chiamato Adone dai fenici; Saturno dai cartaginesi; Osiride dagli egiziani, Mitra dai per si, Dionisio dagli indiani, Apollo o Febo dai greci e dai romani. Un culto così multiforme e diffuso trova la sua origine nella su perstizione e nell'ignoranza degli uomini d'allora, che al sole attribuivano ogni loro ricchezza, ogni loro felicità.
Alcuni dotti, e tra gli altri Macrobio, che dice chiaramente "Deus omnes ad solem referri", osservarono che tutti gli dèi del paganesimo si riducessero al Sole, e tutte le dèe alla Luna. Il Sole è stato anche adorato sotto il proprio nome, sebbene gli antichi poeti abbiano distinto comunemente Apollo dal Sole.
Omero, infatti, là dove descrive l'adulterio di Marte e Venere, dice che Apollo assistette allo spettacolo come signore del fatto, e che il Sole, consapevole di tutto l'intrigo, ne avea reso accorto il marito.
Secondo i Greci, egli era figliolo di Ipperione e Apollo di Giove. I marmi, le medaglie e tutti gli antichi monumenti, generalmente li distinguono l'uno dall'altro.
In Luciano si ha che il Sole era uno dei Titani.
I Greci personificarono il Sole sotto la figura di un giovinetto montato su un carro tirato da quattro cavalli di meravigliosa bellezza recante seco un arco e delle penne, simbolizzanti i raggi ch'egli ri volge verso la terra. Qualche volta, invece dell'arco e le frecce, tiene in mano un frustino per stimolare alla corsa i suoi cavalli.
I nomi di essi, secondo Fulgenzio, sono i seguenti: Erythreus, ossia il rosso; Acteon, ossia il luminoso; Lampas il risplendente; Philogens, amante della terra. Il primo nome di Erythreus si toglie dal sorgere del Sole, ora in cui i suoi raggi sono rossastri; da ciò viene che Omero dice: che l'Aurora ha le dita color di rosa, prendendo le dita per i raggi. Il secondo, Acteon, prende il suo nome dalla chiarezza del Sole, allorchè ha fatto una parte del suo corso, verso le nove o le dieci, e, diradate le nebbie, egli spande la sua pura luce. Il terzo Lampas, o il risplendente, trae il suo nome dal Sole al tramonto; il quarto, Phylogeus, dal fatto che più d'ogni altro egli sembra volgere verso la terra. Ovidio, dà ai cavalli del Sole dei nomi diversi, chiamandoli Pireide o Piroo, Eto, Eoo, e Flegonte. Allorchè il Sole ha posto termine al suo quotidiano corso, si tuffa nel mare, e la vezzosa Teti lo accoglie al proprio palazzo.
Le Nereidi vanno a gara al suo servizio e a somministrargli tutto ciò che può farlo rimettere dalle subite fatiche, e con ambrosia vengono rinfrescati i divini cavalli.
Gloriandosi d'essere stato sacerdote del Sole in Siria, l'imperatore Eliogabalo gli innalzò un magnifico tempio in Roma, e si fece collocare trasportato da Emesa, la statua del dio.
Erodiano, descrive questo tempio ed il culto a cui dava luogo. "Il suntuoso tempio che l'imperatore Eliogabalo innalzò al Sole, aveva degli altari, intorno ai quali ogni mattina egli sacrificava delle ecatombe di tori e grande quantità di castrati; e, facendo poi porre sugli altari dei mucchi di aromati, vi faceva versare sopra del vino, il più vecchio, ed il più squisito che ritrovarsi potesse, dimodochè vedevasi da ogni parte, come ruscelli, scorrere il vino mischiato al sangue. Voleva altresì che fossero dìintorno dei cori musicali d'ogni sorta di strumenti, sì come delle femmine danzanti in cerchio, tenenti nelle mani degli cimbali e dei timpani, ed unendo a tutti questi la presenza del Senato, venendosi a formare una specie di spettacolo teatrale.
Le viscere delle vittime, con gli aromati, venivano portati sopra grandi bacili d'oro sulla testa, non già dagli schiavi ma dai generali dell' armata e dai magistrati di primo grado, tutti in lunga veste, cinti d'una fascia di color purpureo.
Egli fece fabbricare nel sobborgo, dice lo stesso Erodiano, un vastissimo tempio, ove, al principio dell'estate, conduceva il suo dio con tutta la maggiore solennità, e, per divertire il popolo che a quella cerimonia in gran folla interveniva; dava dei giuochi di varie sorti, degli spettacoli e dei conviti, i quali tutti succedevano nella medesima notte.
L'inumazione di Eliogabalo (il dio), era per il di lui ordine, esposta sopra un carro tirato da sei bellissimi cavalli brunelli riccamente bardati. Nessun mortale ebbe mai in sorte di salire sopra quel carro, ma ognuno stavagli d'intorno come se il dio medesimo l'avesse condotto".
Sopra una medaglia dell'imperatore Eliogabalo, si vede il Sole coronato di raggi, colla seguente iscrizione "Sancto Dèo Soli". Sopra un'altra medaglia si legge: "Invicto Soli".
Rabaud di St. Etienne, a proposito delle credenze intorno al Sole, così ne parla:
"In tutti i tempi si è sempre osservato che nelle storie primitive, un certo linguaggio metaforico ed animato, è loro comune, ma da sempre trascuratane la causa. Quel linguaggio brilla specialmente nelle greche origini. Tutto vi è, per così dire, personificato, tutto vi trova vita ed azione. Il Sole che illunina il mondo è dio, pieno di gioventù e di vigore, portato sul suo carro è trascinato da cavalli che mandano fiamme dalle narici, spande egli dei fiumi di luce sull'Universo. I suoi raggi sono frecce con cui egli trafigge i suoi nemici. Porta un arco in mano, e sulle spalle gli risuona la faretra. Quando questo dio appare sul, mattino, per illuminare la terra, esce dal suo palazzo, le porte si aprono, una giovane dèa lo precede, le cui dita di rose seminano dei fiori, e i cui begli occhi versano delle lagrime; dodici donzelle che facilmente si riconsce essere sorelle, accompagnano il suo cammino; sono esse le Ore che, seco lui correndo, i suoi passi misureranno e divideranno in giornata. Giunto al fine del suo corso, dinanzi a lui si apre il palazzo di un'altra dèa, e Teti lo accoglie nel suo seno. Allora, altre due divinità prendono il suo posto in cielo; la Notte dalle nere ali del lugubre carro seminato di zefiri; e Febea amabile luna del biondo Febo come esso di arco e frecce arnmato e che inseguita dagli astri amanti di lui, sempre coll'incerto suo corso, da loro si sottrae".
Questo metaforico linguaggio di cui servirono gli antichi popoli, per parlare dei grandi fenomeni della natura, venne altresì impiegato per spiegare i fenomeni più piccoli. Ogni popolo fece pur uso di una diversa metafora per esprimere gli oggetti medesimi. Qui il Sole fu fratello della Luna; là fu egli il suo sposo che coì i suoi raggi la fecondava. Il giornaliero suo corso presso i greci, era descritto in modo un pò diverso; vedeasi il Sole tirato sul suo carro, preceduto da un giovinetto portante un'accesa face, se guito da un'altro con face spenta; chiamavasi Mitras, come Venere era chiamata Mitra. Il sospetto è che quel metaforico linguag gio dovesse essere quello di un'epoca in cui era parlato, ma ne rimarremo pienamente convinti allorchè vedremo che quello stile era stato a tutti gli oggetti applicato. Infatti non si erano limitati a dipingere in tal guisa il giornaliero corso del Sole; tutti i suoi passi, tutte le sue apparizioni, anche i suoi cambiamenti sono segni al Nord, i suoi passi retrogadi,verso il Mezzogiorno. Tutto fu notato sotto differenti figure.
Anche i cambiamenti cui egli andava soggetto, d'ora in ora, dipingevasi sotto altri tratti. Notavansi, dipingevansi, o contavansi i viaggi del re celeste dall'Oriente all'Occidente, quelli del Nord a Mezzogiorno, la sua di scesa all'inferno, il suo ritorno alla terra. Aereo navigatore, s'intanava egli in Oriente e tutti i popoli nel suo corso sottomettendo, giungeva in Oriente che ne era il termine; ivi piantava delle colonne, limiti ch'erano impossibili d'oltrepassare; invitto eroe percorreva lo Zodiaco (penoso cammino), dove dodici fatiche successivamente lo trattenevano e ch'egli, vittorioso conquistatore superava.
Ora fanciullo, ora giovane, ora uomo maturo ed ora vegliardo, vedevansi le pitture che lo indicavano portatore la forma e gli attributi di quelle diverse età. Ogni stagione egli cambiava di nome e di attributi.
Infatti diceva un antico oracolo: il più grande degli dèi è Iao, che si chiama Aves nell'inverno, Jupiter Helios in tempo d'estate e, Iao nell'autunno; dal che noi vediamo che, in tempi posteriori di un solo e medesimo personaggio vennero fatti quattro dèi, che Plutone, Giove, Elio e Bacco sono i quattro. Soli delle quattro stagioni. Presso gli egiziani, il Sole, era l'immagine della divinità. Essi davano a questa immagine, diverse qualità per differenziare le diverse perfezioni della Provvidenza. Così, onde far comprendere come la Provvidenza sia larga agli uomini ed agli animali di abbondante nutrimento, accompagnavano il cerchio simbolico del Sole, con le piante le più fruttifere. Due lingue di fuoco stavano a significare che l'Essere supremo è l'autore della nostra vita; due serpenti, ch'Egli è colui che ci conser va la salute. Gli egiziani tenevano in gran considerazione lo sparviero perchè rappresentava il Sole o il loro gran dio Osiride. Se taluno avesse ucciso qualcuno di questi volatili volontariamente o per sbaglio era irrisibilmente punito con la morte, come per l'ibi.
Presso i Solci, lo sparviero era consacrato al sole, di cui era il pronto e fedele messaggero. I Mesasageti, secondo Erodo to, e gli antichi Germani, secondo Giulio Cesare adoravano il Sole nominatamente, e gli sacrificavano dei cavalli per indicare con la leggerezza di questi animali, la velocità del corso del Sole. Sopra un monte vicino a Corinto, narra Pausania, v'erano parecchie are dedicate al dio Sole. Gli abitanti di Tregene, gli consacrarono un' ara dopo che furono liberati dal timore di cadere in schiavitù dei Persi.
Che Osiride, Ammone, Serapi, Oro, non sieno stati presso gli egiziani che il Sole, lo prova Macrobio nella sua opera Saturnaliorum, precisamente al capitole XXII del libro I che s'intitola
"Adonin, Attinem, Osirin, et Horum, aliud non esse quam Solem, Praeterea et duadecim signa Zodiaci ad naturam Solis referri".
E' noto, dice Macrobio, nel medesimo capitolo, che Osiride non è altra cosa fuorchè il Sole, e Iside, la Terra. Per questa ragione gli egizi con un geroglifico, dipingono un scettro sormontato da un occhio; volevano con ciò dimostrare che quel dio è il Sole, il quale guarda tutto l'Universo, perchè l'antichità ha sempre dato al Sole il nome d'occhio di Giove.
L'anno degli egizi era solare, e Osiride ne era l'emblema.
Giulio Cesare, diffatti, da questo popolo prese l'anno che egli sostituì a quello di Numa, di modo che il Sole stesso, fu adorato nel tempo che sopra il suo corso gli egiziani avevano regolato il loro anno, specialmente nella città di Etiopoli.
SOLI
- SOLI o SOLOE
- SOLI
Antica città dell'isola di Cipro, che, porto principale della costa settentrionale aveva in vicinanza ricche miniere.
Antica città floridissima della Cilicia campestre. Fu distrutta da Tigrane, re d'Armenia. Riedificata da Pompeo, per cui si disse anche Pompeiopoli. Fu patria del filosofo Crisippo e dei poeti Filomone e Arato. Divenne celebre per le sgrammaticature dei suoi abitanti, per cui quelle scorrezioni del linguaggio presero il nome di solicismi.
SOLONE
Legislatore ateniese(n. 639 a.C. m. 559 ). Appartenente alla piu nobile stirpe dell'Attica la famiglia dei Codridi, discendente da Neleo e dal re Codro. Suo padre era Esecestide, e si narrò che desse fondo ai suoi averi riducando il figlilo alla povertà. Sulla veritò di questo dato biografico bisogna fare ampie riserve, perchè la tradizione greca fecondissima di leggende, più che mai ne creava intorno ai personaggi suoi più illustri, quale appunto era Solone, anche all'infuori delle sue leggi, per la sua dignità di Eupatride per essere annoverato fra i sette savi.
La povertà di Solone si ricollega però ad una leggenda assai notevole quantunque ben difficile sia scoprirne la verità; ch' egli cioè dovesse darsi alla mercatura, e come mercante visitare l'Oriente e abboccarsi nell'Egitto coi sapienti di quella regione; per i greci fascinatrice e fatidica altrice superba di recondito sapere.
In questi viaggi di Solone, si riflette appunto la tendenza del popolo greco a collegare la propria sapienza a quella dei popoli orieentali.
Viaggiò quindi molto in gioventù studiando le istituzioni politiche degli altri popoli del mediterraneo orientale, e ritornato ad Atene, fu eletto arconte nel 594 - 593, e nel 592 - 591. Il suo primo atto politico in Atene riguarda la guerra contro i magaresi per il recupero di Salamina; bisogna però che prima brevemente riguardiamo le condizioni di Atene in quel tempo per intendere qual parte era chiamato a rappresentare nella sua patria Solone. Atene era allora in un periodo di crisi determinato dal graduale affermarsi del popolo come forza di governo; l'avvenire democratico della città si annunciava con torpidi e disagio. I nuovi bisogni di Atene avevano costretto gli Eupatridi a più saldi apparati di difesa militare, da opporsi alla potenza degli Stati finitimi allora formatisi. I gravami economici di questo nuovo assetto militare caddero sopra il popolo, e ne nacque un'ostilità viva di questo contro i governanti, specialmente perchè le dolorose strettezze finanziarie dei popolani erano aggravate dai debiti che essi dovevano incontrare coi nobili. Dtaconte, arconte eponimo nel 621 - 620, era stato incaricato di fare leggi scritte, che si sostituissero alle consuetudinarie, colle quali erano stati fino allora regolati i rapporti fra creditori e debitori e gli affari tutti della città. La costituzione di Dracone non era stata che una correzione delle leggi consuetudinarie, a cui forse, più che all'arconte òegislatore,da imputarsi ala severità divenuta proverbiale. Il popolo non era stato soddisfatto. Approfittando dell'interna discordia, e del malcontento popolare, nel 672 Cilone, genero di Teagene, tiranno di Megara, aveva sorpreso l'Acropoli. La riuscita dell'impresa avrebbe ricondotto la tirannide in Atene; essa era stata sventata dall'arconte Megacle, della famiglia degli Alcmeonidi ; ma dolorosissime erano state le conseguenze di questo fatto; anzitutto perchè Megacle si era macchiato di sacrilegio facendo trucidare i partigiani di Cilone sugli altari delle Erinni e poi perchè Teagene aveva in segreto tolto agli ateniesi l'isola di Salamina. In quest'isola era nato Solone. Noi lo vediamo comparire nella storia di Atene quale propugnatore della guerra di Salamina; se pur precedentemente aveva volto il pensiero alla pacificazione, allo scopo di fondare un'unità politica superiore, ad ogni interesse di parte, e tale, a cui, i vari ordini della cittadinanza potevano sottomettersi senza sacrificio delle naturali prerogative di ciascuno. si volse persuasore dell'esilio degli Alcmeonidi, la nobilissima famiglia, fino ad allora dominatri ce macchiatasi di oltraggio religioso. In Solone oltre il sentimento d'affetto per l'isola sua natia, il sentimento della dignità di Atene era il pensiero che occorreva la prova del valore e l'entusiasmo guerresco a togliere Atene dall'accidia, piena di interne discor die in cui viveva Solone,stando a quanto dice un'antica leggenda riferita da Plutarco, fingendosi pazzo, atteggiato da infermo,si spinse tra la folla della piazza e posesi a recitare un cantico guerriero da lui composto in cui incitava i cittadini a liberare Salamina e a lavare l'onta patita. La guerra fu fatta e con esito favorevole; gli ateniesi ridiventarono padroni delle acque loro, rialzarono i capo dell'ignominia e cominciarono a considerare Solone come loro genio benefico e loro capo.
Ne deriva che se pur aristocratico era molto ben visto anche dai popolari, e in effetti cercò di temperare le opposte posizioni e di conciliare i contrastanti interessi. Anzitutto col provvedimento di abolìre le ipoteche e la schiavitù per debiti, che spesso cos tringendo alla fuga i debitori insolventi, impoveriva le campagne. Vietò l’esportazione dei cereali dall’Attica, lasciando invece libera quella dell’olio, che doveva essere evidentemente un prodotto abbondante nella regione. Introdusse la libertà di testamen to, e l’accusa pubblica, ciò che contribuì a consolidare con le nuove competenze l’autorità e il prestigio dello Stato. Allo scopo di contrastare l’eccessivo accumulo della ricchezza, impose un limite al possesso fondidario, e dette allo Stato ateniese un ordi namento sostanzialmente timocratico, fondato cioè sul censo. I cittadini furono divisi in quattro classi; cavalieri, zeugiti, e dei teti, a seconda che disponessero o di una rendita annua di rispettivamente cinquecento; trecento; duecento medimni. I teti senza particolari beni o rendite. Le cariche pubbliche erano quindi distribuite secondo l’appartenenza alle diverse classi; solo dalle due prime si potevano eleggere gli arconti (nove); soltanto dalle prime tre gli èfeti (i giudici), mentre i teti avevano il solo diritto di par tecipare alle assemble popolari. Come altri governanti del suo tempo, Solone fu anche poeta, prevalentemente didascalico, Notevoli sono specialmente le sue elegie, fra le quali famosa è quella per Salamina composta per incitare i cittadini alla conquista dell’isola. E le molte di cui restano frammenti, anche estesi, scritte per sostenere l’opera legislativa, che, per l’alto concetto mo rale che le ispira, esercitarono una profonda influenza nell’antichità. Scrisse anche giambi e tetrame tritrocaici, quasi interamente perduti.
SONNO
Divinità greca, figlio dell’Erebo e della Notte; è fratello di Thànatos (la morte); infonde il sonno agli uomini agitando sui loro occhi un ramo scelto bagnato nella rugiada del *Lete. Il Sonno è luminoso come un dio.
SOZIONE
I° secolo dopo Cristo; filosofo greco di Alessandria maestro di Seneca fu della scuola dei Sestii.(Quinto Sestio e il figlio fondatori di una scuola filoosofica romana di indirizzo stoico.
Viene citato da Seneca a proposito del vegetarianismo di ispirazione pitagorica, nelle Lettere a Lucilio, 108, 20-21:
« Non credi che le anime siano assegnate successivamente a corpi diversi, e che quella che chiamiamo morte sia soltanto una migrazione? Non credi che negli animali domestici o selvaggi o acquatici dimori un'anima che un tempo è stata di un uomo? Non credi che nulla si distrugge in questo mondo, ma cambia unicamente sede? Che non solo i corpi celesti compiono giri determinati, ma anche gli animali seguono dei cicli, e che le anime percorrono come un circolo? Grandi uomini hanno creduto a queste cose. Perciò, astieniti da un giudizio e lascia tutto in sospeso. Se queste teorie sono vere, l'astenersi dalle carni ci mantiene immuni da colpa; se sono false, ci mantiene frugali. Che danno deriva dal credere in esse? Ti privo degli alimenti dei leoni e degli avvoltoi.
[Traduzione di Monica Natali in Seneca, Tutte le opere, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, 2000, p. 965. ISBN 88-452-9073-5.] »
SPARTA
Antica città della Grecia nella Laconia, all’estremità meridionale del Peloponneso, sulla riva destra del fiume Eurota. La città si formò attor no al X° sec.a.C., probabilmente su un più antico centro abitato dov’era la leggendaria residenza di Menelao, chiamato forse Lacedemone, nome che rimase poi anche alla città, così che gli spartani erano chiamati lace demoni. Intorno all’ottavo secolo maturarono quelli istituti che la tradi zione doveva poi indicare come la “Costituzione di Licurgo”, e rimasti immutati per secoli. Secondo questa costituzione i cittadini erano divisi in tre classi: gli Spartiati (classe dominante), l’unica composta di cittadini di pieno diritto, i Perieci, liberi, ma privi di diritti politici, e gli Iloti, viventi in una dura condizione di schiavitù. L’attività degli Spartiati consisteva esclusivamente nell’educazione militare. Essi appartenevano allo Stato, che ne curava l’educazione fin dalla più giovane età, e ne controllava i costumi, che dovevano essere alieni da ogni forma di lusso o di mollezza. Per contro gli Iloti e i Perieci, avevano il compito di lavorare per il funzionamento di quella formidabile macchina militare e di coltivare la terra, divisa in lotti inalienabili, di proprietà degli Spartiati. A capo dello Stato v’era una diarchia, per cui regnavano contemporaneamente due re, della dinastia degli Agiati e degli Euripontidi con funzioni di sacerdoti supremi, di giudici e di comandanti degli eserciti in guerra, assistiti però da un consiglio di trenta anziani, (gerusia) esponenti sempre della classe dominante. Si spiega dunque come Sparta realizzasse il più forte e temuto organismo militare della grecia, che sin dall’ VIII° s.a.C., diede prova di totale efficienza e aggressività. Conquistata la Laconia con la prima guerra messenica, sulla fine dell’VIII° s.a.C., estese il suo rigido dominio a tutto il Peloponneso meridionale. Ma nel tentativo di espandersi verso settentrione, nella prima metà del V° sec. a.C., urtò contro la preponderante potenza argiva, e dovette sostituire la tattica delle alleanze a quella delle conquiste militari; probabilmente proprio in quegli anni nacque il primo nucleo della “Lega del Peloponneso”, come alleanza tra Sparta e Tegea, sotto l’egemonia della prima, potenziatasi poi con l’adesione di Corinto, Epidauro, Elinunte, Trezene, Megara, Egina. Alla metà del V° sec., erano riunite attorno a Sparta tutte le città del Peloponneso tranne Argo e quelle dell’Acaia, costituendo uno strumento militare di tale potenza da poter essere il cuore della resistenza greca all’invasione per siana. L’imperialismo spartano non poteva tuttavia non urtarsi con il predominio ateniese, in fase di espansione, e nel 431 non potette evitarsi lo scoppio della guerra del Pelponneso, che nel volgere di 27 anni doveva fiaccare l’imperialismo ateniese e depauperare tutta la Grecia di energie preziose. La stessa Sparta ne uscì duramtente provata. e invano cercò di mantenere le posizioni conquistate, con una politica dura e tirannica, che le alienò gli stessi alleati della Lega, i quali pure, avevano dato un contri buto determinante alla sua vittoria. La Lega cominciò a sfaldarsi, la Persia le creò a sua volta difficoltà, che furono alla meglio risolte con la pa ce di Antalcida del 386, l’impoverimento demografico, conseguenza inevitabile di tante guerre, e della sua rigida costituzione si aggravò; agli inizi del IV secolo gli Spartiati non erano più di 2.000, e gli eserciti spartani erano costituiti in prevalena da Perieci, e di Iloti. Appena una trenti na d’anni dopo la guerra del Peloponneso, la battaglia di Leuttra. vinta da Epaminonda, nel 471 a.C., trasferì a Tebe la supremazia sulla Grecia. Federata di Roma dopo il 246 a.C., nel I°s.a.C., Sparta era ormai ridotta ad un povero e ignorato villaggio.
- Epistola XVI 149:
- More tuae gentis nitida dum nuda palestra
- ludis et esse nudis femina mixta viris.
- Da il Savioli (Amori) -La solitudine:
- Sparta, severo ospizio
di rigida virtude,
trasse a lottar le vergini
in sull'arena ignude.
Non di rossor si videro
contaminar la gota,
è la vergogna inutile
dove la colpa è ignota.
ARCHEOLOGIA
Scavi condotti dall’inizio del XX° secolo, sul luogo dell’antico abitato, hanno riportato alla luce, poco fuori della città il santuario di Artemide Orthia, che fu centro di culto per oltre dodici secoli, a partire dal X° secolo avanti Cristo, e che in epoca romana fu adornato di un’elegante cavea a gradini, Sull’acropoli che sorgeva sul colle di Paleocastro, s’innalzava il tempio di Atena Chalkioikos, decorato da Gitiada Spartano e nel cui interno era conservata la statua di Zeus Hypatos. attribuita a Clearco di Reggio.
Gli studiosi hanno cercato di definire un aspetto artistico proprio della città da contrapporre allo splendore artistico di Atene, e seppure controversi, si possono citare quali esempi, il rilievo funerario di Chrisapha (Museo di Berlino) e la testa di Hera in Olimpia; è confermata invece con sicurezza l’origine spartana della ceramica laconica, fiorita nel VII° e VI° s.a.C.
SPERANZA
Dèa simile a Cerere. Fu rappresentata vestita di verde con un giglio in mano a denotare che dopo l'erbe e il fiore, viene la raccolta e il frutto. Le frondi d'ulivo essendole sacro possono alludere alla fertilità della terra. Notano gli archeologi che questa dèa, onorata maggiomente dai Romani, che dai Greci, per lo più veniva rappresentata con qualche caratteristica etrusca (es; colonna) o nelle vesti o nei simboli.
SPORADI
(Sporédes)
Isole del Mar Egeo, il cui nome significa “sparse”. Tale termine è dato generalmente a tutte le isole greche dell’Egeo, ad esclusio ne delle Cicladi, dell’Eubea, di Taso, di Lemno, di Samotracia, e di alcune minori poste a settentrione, e viene spesso esteso alle isole di Chio, Lesbo, Psara, e Agiostrati, situate lungo la costa settentrionale dell’Asia Minore Le sporadi si dividono in Settentrionali e Meridionali. Le prime si raggruppano ad Est della Tessaglia, e a Nord dell’Eubea, e comprendono le isole Sciro (Skyros), Sciatto (Skyathos), Scopalo (Skopelos), Alloneso ( Halonnesos), Melissa (Pélagos),Gioura, Piperi, Peristera, ed altre minori. Comprendono: Rodi (Rodos), Scarpanto (Karpathos), Caso (Kasos), Saria (Saros), Calchi (Chalke), Piscopi (Telos), Simi (Syme), Nisiro (Nysiros), Coo (Kos), Stampalia, (Astypalaia), Clino (Kalyimnos), Lero (Léros), Patmo (Patmos),e altre mi nori. (fecero parte del Dodecaneso italiano 1913 - 1945); ed infine,Vicaria (Ikaria),Samo (Samos), Furni (Fournoi), poste più a Nord. Le Meridionali sorgono nel settore Sud orientale dell’Egeo in gran parte sulla piattaforma continentale dell’Asia Minore: sono quindi geograficamente asiatiche.
STAGIONI
Divinizzate dagli antichi; raffigurate in forma umana sotto i Greci con il nome di Ore (Horai) inizialmente in numero di due, poi di tre e infine di quattro, con gli attributi caratteristici che conservarono nelle raffigurazioni successive.
STAZIO
PUBLIO PAPINIO
Poeta latino (n.Napoli 46 d.C.– m. 96 circa). Figlio di un retore che fu anche poeta, visse a Roma nell’mbito della corte, adulando Domiziano, ed esercitando la poesia come una professione. Sconfitto nel 94 in un certame poetico capitolino, si ritirò a Napoli. E’noto come poeta epico per la “Tebaide”, in 12 libri sulla guerra dei Sette contro Tebe e la rivalità tra Eteocle e Polinice, e per l’incompiuta “Achilleide“, di cui restano due libri, ispirata alla leggenda di Achille a Sciro. Come poeta lirico lasciò cinque libri di “Selve” (32 poesie d’occasione d’argomento vario improvvisate, dove sono impiegati esametri, metri e strofe della melica). Nell’epica seguì il filone mitologico, imitando Virgilio nelle scene patetiche e in qualche squarcio raccappricciante e vigoroso rivela un talento innegabile. Le “Selve” traboccano di adulazioni, ma là dove tocca note d’intimità familiare è poeta schietto e vivo e riesce con grande difficoltà a fondere apporti diversi in componimenti ricchi e fluidi.
STENO
Sorella di Medusa e Euriale, era figlia di Forco (Forcide), una divinità marina, e di Ceto, un mostro oceanico. Rappresentava la perversione morale.
Steno ed Euriale, contrariamente a Medusa, erano immortali (ma per Virgilio erano mortali tutte e tre le sorelle). I mitografi sono discordi nell'indicare il luogo dove vivesse, secondo Esiodo si trovava vicino al giardino delle Esperidi.[1] mentre Erodoto suppone che vivesse nella Libia.[2]
STEROPE
o STERPE
- Sterope
- Sterope
- Sterope
- Sterope
Nome del Ciclope figlio di Urano e Gea; suoi fratelli Bronte e Polifemo
– una delle Pleiadi
– figlia di Cefeo
– figlia di Portaone
STESICORO
Poeta greco (n. Imera, Sicilia 630 a.C. - ? m. 555 circa). Di nome Tisia fu sopranominato Stesicoro propriamente coordinatore di cori, per aver inventato o normalizzato l’uso della triade strofica (strofa - antistrofa - epodo), nella poesia e nella danza. Restò famoso per aver cantato in forma lirica una materia mitica già elaborata dall’epos. Si hanno notizie e pochissimi frammenti dei Poemetti “Elena” e “Palinodia” (ritrattazione delle denigrazioni di Elena contenute nel poemetto precedente), ”La presa di Troia”, (da cui Virgilio trae lo spunto per l’episodio dell’inganno ai danni dei Troiani con la costruzione del cavallo di legno), ”Oreste”, ”Geroneide” (su un’avventura di Eracle), e altri, anche di carattere romanzesco e popolaresco (Ràdine e Càlice). Stesicoro animò la narrazione e amò i particolari pittoreschi, pur conservando un’austera forza.
(Vedi Elena)
STIGE
Uno dei fiumi infernali dell’oltretomba greco e latino; il supremo giuramento degli dèi; “per l’acqua di Stige”. Per altro, palude infernale dalla quale si immaginava che i mostri uscissero dall'inferno.
STOICA
Una delle più importanti tendenze della filosofia ellenistica. Come scuola fu fondata nel III s.a.C.,da Zenone di Cizio in un portico di Atene chiamato Stoà Pecile (onde è derivato il nome della scuola).
La filosofia stoica si presenta sin dall’inizio divisa in tre parti; logica,fisica ed etica. La logica è identificata con la dialettica,cioè con la scienza del discorso conseguente, che solo a certe condizioni possiamo ritenere come vero. Fondamento delle nostre conoscenze sono le rappresentazioni a cui può essere concesso o negato l’assenso. Vi sono però alcune rappresentazioni talmente evidenti che esigono l’assenso; sono le cosiddette“rappresentazioni catalettiche “criteri stabili e certi di verità.
La fisica è tutta in funzione dell’idea centrale, secondo cui il mondo è necessario, razionale e costruito secondo un disegno provvidenziale; esso si identifica con lo stesso Logos (Ragione) divino e scandisce la sua durata attraverso una serie periodica di conflagrazioni, in cui il mondo ri torna in quel fuoco da cui è nato. Nello svolgersi di questi cicli, si attua così una legge fatale, che domina ogni evento, e che se fosse interamente conoscibile dall’uomo, renderebbe del tutto prevedibile il futuro.
L’etica dipende dalla fisica; compito del saggio è quello di inserirsi nei voleri del fato e della provvidenza.
Egli deve’ssere quindi sapiente e vivere secondo natura seguendo la ragione, eliminando tutto ciò che ragione non è (apatia); di qui l’universalismo e il cosmopolismo, onde il sapiente è cittadino del mondo, e chi non è sapiente è pazzo, perché vive contro natura; non ci sono possibilità intermedie.
Successore di Zenone alla guida della scuola fu Cleante di Asso, che badò a mantenere fermo l’insegnamento del maestro contro le deviazioni di quegli scolari come, Aristone di Chio, ed Erillo di Cartagine, che tendevano ad abbandonare gran parte delle dottrine zenoniane per identificare lo stoicismo con la dottrina e le pratiche ciniche. Frattanto lo stoicismo diventava il bersaglio principale della polemica, a tendenza schetticcheggiante dell’Accademia di mezzo; nell’opera di difesa delle dot trine della scuola emerse la figura di Crisippo di Soli, perciò chiamato il secondo fondatore della scuola. Con ciò si conclu de la prima fase della vita della scuola (il cosìdetto stoicismo antico), la seconda (il cosìdetto stoicismo medio), è illustrata nel II°e I°s.a.C., dai nomi di Panezio e Posidonio, con i quali lo stoicismo penetra profondamente nella cultura romana, con cui era già entrato in contatto tramite quel Diiogene di Babilonia che aveva preso pasrte alla famosa ambasceria del 155 a. C. insieme a Carneade accademico e Crisolao peritatetico.
Lo stoicismo di mezzo è caratterizzato da una ripresa eclettica di te si accademiche e peripatetiche e da una attenuazione delle più rigide dottrine etiche dello stoicismo antico.
L’ultima fase del lo stoicismo è rappresentata dal cosiddetto “stoicismo romano“, impersonato da Seneca. Epitteto e Marco Aurelio, rivolto pressoché esclusivamente a meditazioni morali e a un ideale di saggezza fatta di virile sopportazione e serena rassegnazione.
STRABONE
Geografo e storico greco (n. Amasia.Ponto 63 a.C. m. circa 21 d.C.). Viaggiatore instancabile,fu più volte a Roma. Dopo un’opera, per noi perduta,”Memorie Storiche”, in quattro libri, in cui narrava la storia di Roma dal 146 a.C., alla fondazione dell’impero, offrì con la sua “Geografia” in 17 libri, letteralmente mediocre, un prezioso repertorio enciclopedico, delle innumerevoli regioni descritte; dall’Irlanda al Caucaso, presentava un vasto quadro di costumi, arti, attività poliche e militari.
(Vedi in Roma: Una lezione di geografia)
STRENIA
Dèa romana dei boschi; da cui la derivazione di strenna, cioè dono fatto in occasione di festività annuali, come simbolo au gurale di prosperità; usanza molto antica in Roma, Secondo la leggenda, già ai si donavano al re ogni capodanno rami augurali tagliati nel bosco sacro alla dèa Strenia e detti perciò strenne. Anche dopo che la festa fu dedicata al dio Giano, (il dio che presiede agli inizi delle cose), il nome rimase invariato. Con il passare del tempo i doni si arricchirono; datteri, miele, fichi, ecc., e poi rami coperti d’oro e altri oggetti preziosi; doni sempre considerati propiziatori.
SVETONIO
- Gaio Svetonio Tranquillo
- AVE, CAESAR, MORITURI TE SALUTANT"
Svetonio,( Claudio, 21) - "Salve, Cesare, quelli che stanno per morire ti salutano" E' l'addio dei gladiatori romani prima del combattimento, nel passare davanti la tribuna dell'imperatore
- Gaio Svetonio Paolino,
Gaio Svetonio Tranquillo, chiamato talvolta Svetonio[1] (in latino: Gaius Suetonius Tranquillus; 70 – 126), è stato uno scrittore romano dell'età imperiale, fondamentale esponente del genere della biografia.
Svetonio nacque attorno al 70 d.C. in un luogo imprecisato del Latium vetus, forse a Ostia, dove ebbe la carica religiosa locale di pontefice di Vulcano (solitamente conferita a vita).
Non si conosce, tuttavia, con precisione l'anno di nascita: alcuni, facendo riferimento ad una lettera inviata da Plinio il Giovane a Svetonio nel 101[2] collocano la data al 77, anno in cui avrebbe potuto ricevere un tribunato militare, se avesse intrapreso la carriera militare. Altri anticipano la data al 69, altri ancora, esaminando altre lettere indirizzate all'autore del De vita Caesarum, la collocano al 71 o al 75.
Ugualmente incerta è l'origine sociale di Svetonio: non si può stabilire con precisione se la sua famiglia appartenesse al ceto equestre o fosse plebea, anche se l'autore stesso riferisce che il padre, Svetonio Leto, era tribuno angusticlavio della XIII legione, che servì Otone nella prima battaglia di Bedriaco contro Vitellio.[3]
Nonostante le origini non patrizie, Svetonio studiò non solo grammatica e letteratura, ma anche retorica e giurisprudenza, divenendo avvocato e corrispondente di Plinio il Giovane, che lo considerava un suo protetto e che diede un impulso alla carriera di Svetonio. Prima di morire, nel 113 d.C., infatti, lo affidò alla protezione di Setticio Claro, che, divenuto prefetto del pretorio dell'imperatore Adriano, ottenne per lui la carica di segretario dell'imperatore (procurator a studiis e ab epistulis, ovvero sovrintendente degli archivi e curatore della corrispondenza imperiale), ed in tale qualità aveva accesso ai documenti più importanti degli archivi imperiali.
Svetonio ricoprì, dunque, cariche importanti sotto l'imperatore Adriano e forse già sotto Traiano, entrando a far parte del personale a più stretto contatto con l'imperatore: tuttavia, il suo allontanamento da parte dell'imperatore Adriano nel 122 (assieme al prefetto del pretorio Setticio Claro, con la motivazione ufficiale di aver trattato con eccessiva vicinanza l'imperatrice Sabina[4]), per motivi non chiari (nel contesto di una epurazione dei quadri dirigenti voluta forse dall'imperatrice stessa per conferire gli incarichi ai suoi protetti) segnò la fine della sua carriera.
Anche la data di morte non è del tutto sicura, ed è posta da alcuni attorno al 126, da altri una quindicina di anni dopo, intorno al 140 o addirittura al 161, anno della morte dell'imperatore Antonino Pio.
Opere
De viris illustribus
Il De viris illustribus ("I personaggi famosi"),[5] che trova un suo chiaro precedente in Cornelio Nepote, analizza le figure di personalità illustri nel campo culturale, suddividendole in cinque categorie: poeti (De poetis), grammatici e retori (De Grammaticis et rhetoribus), oratori (De oratoribus), storici (De historicis) e filosofi (De philosophis)[6].
Dell'opera si conserva pressoché intatta soltanto la sezione riservata ai grammatici e ai retori (21 grammatici e 5 retori), anche se mancante della parte finale[6]: dopo una diffusa introduzione sull'arrivo della scienza grammaticale a Roma, Svetonio offre dei brevi ritratti (alcuni brevissimi) di coloro che hanno contribuito allo sviluppo dello studio della grammatica a Roma, ponendo l'attenzione, oltre che sulle novità che ciascun grammatico ha apportato, spesso anche su particolari aneddotici.
Delle altre sezioni del De viris illustribus, rimangono soltanto alcune vite, sulla cui reale attribuzione a Svetonio, peraltro, non c'è accordo fra gli studiosi. Si ricordano la Vita Terentii (che costituisce la premessa al commento di Elio Donato alle commedie terenziane), la vita di Orazio e quella di Lucano; deriva dal De poetis anche la vita di Virgilio, premessa al commento delle opere del poeta sempre da Elio Donato.[6]
De vita Caesarum
Le Vite dei dodici Cesari in otto libri[7], sono ben più ampie e sono a noi giunte pressoché complete (manca solo una breve parte iniziale). Comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici Imperatori romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano.
A parte una genealogia introduttiva e un breve riassunto della vita e della morte del personaggio, queste biografie non seguono un modello cronologico, bensì uno schema non rigido, modificabile a seconda delle esigenze dell'autore. Questo schema era composto da moduli biografici di tipo alessandrino: si partiva dalla nascita e dalle origini familiari, per poi passare all'educazione, alla giovinezza, alla carriera politica prima dell'assunzione al potere; qui iniziava la seconda parte (organizzata per species, ovvero per categorie) della narrazione: i principali atti di governo, un ritratto fisico e morale, la descrizione della morte e del funerale, infine il testamento. Tutto ciò a discapito dell'organicità del racconto, con un interesse spesso dispersivo verso il particolare o l'aneddoto[6].
La differenza con il contemporaneo Plutarco è che, mentre quest'ultimo partecipava più emotivamente al racconto, Svetonio dimostra una attenzione più documentaria che appassionata. Svetonio appare più distaccato, astenendosi da un giudizio personale.[8] Emerge anche una caratterizzazione negativa degli imperatori del I secolo, forse incoraggiato dallo stesso Adriano, al fine di contrapporre il suo buon governo a quello dei suoi predecessori, caratterizzato spesso da eccessi (vedi su tutti Caligola, Nerone e Domiziano)[8]. Svetonio sembra concentrarsi soprattutto attorno alla figura del princeps, quasi incurante del mondo imperiale che lo circonda.
La forma, che appare in alcuni casi sciatta, risulta semplice, lineare, con una struttura schematica, anche frammentaria, che non fornisce un discorso articolato da un punto di vista stilistico.[8] In alcuni casi, Svetonio riesce invece ad "ottenere notevoli effetti drammatici ed a mostrare una caratterizzazione psicologica coerente".[8]
Come membro della corte imperiale (del consilium principis) e procurator a studiis e a bibliothecis (sovrintendete degli archivi e delle biblioteche imperiali), Svetonio aveva a disposizione documenti di prima mano (decreti, senatus consulta, verbali del Senato), tutti utili fonti per il suo lavoro, e materiale utile agli storici moderni per la ricostruzione del periodo. Tuttavia egli si servì anche di fonti non ufficiali, quali scritti propagandistici e diffamatori e anche testimonianze orali, al fine di alimentare quel gusto per l'aneddoto e il curioso cui egli dedica ampio spazio e che alcuni gli ascrivono come difetto ed altri come pregio.
(ritorna a Galba)
Opere minori
Sotto il nome di Svetonio sono pervenuti anche alcuni titoli e frammenti di argomento storico-antiquario, grammaticale e scientifico. Di carattere erudito, ad esempio, sono Peri ton par' Hellesi paidion ("Sui giochi in Grecia") e Peri blasphemion ("Sugli insulti"), scritti in greco e che sopravvivono in estratti in tardi glossari greci.
Di altre opere ci informano in parte il lessico Suda e grammatici latini tardi[9]: si, così, dalle Vite dei sovrani alle più piccanti Vite di famose cortigiane, per continuare con opere che erano, forse, sezioni di un trattato spesso citato come Roma e che doveva comprendere, in una sorta di miscellanea, vari aspetti della vita romana. Lo attesterebbero titoli come Su usi e costumi dei Romani, Sull'anno romano, Sulle feste romane, Sui vestiti, Sul De re publica di Cicerone, Sulle magistrature.
Di carattere ancor più vario e meno compatto doveva essere il Pratum, che forse comprendeva titoli come Sui metodi di misurazione del tempo, Problemi grammaticali, Sui difetti fisici, Sulla Natura, Sui segni diacritici usati nei libri. L'insieme dei frammenti, in parte latini e in parte greci, è tuttavia troppo esiguo per consentire un'analisi di tali opere e verificarne la paternità.
Una valutazione di Svetonio
Svetonio fu un erudito, vista la grande mole di opere composte negli ambiti più svariati (in parte scritte in greco), amante della vita ritirata, onde potersi dedicare agli studi che più amò. Fu figura di antiquario, studioso enciclopedico, con grande interesse per le antichità e la cultura romana, accostabile a Marco Terenzio Varrone per le caratteristiche della produzione.[6]. Fu certamente un paziente ricercatore, grazie al cui accesso agli atti imperiali ci sono giunte notizie di prima mano sui Cesari, altrimenti irrimediabilmente perdute. Tuttavia, suo grande difetto è quello di prestare credito, riguardo alle vite di alcuni imperatori alla presenza di fonti storiche del tempo di per sé corrotte e parziali.
Miniatura ritraente Svetonio intento nella lettura,
tratta dal Liber Chronicarum (foglio CXI),
trattato di Hartmann Schedel (1493
(da wikipedia)
o Paollino (fl. 42-69; ... – ...), è stato un console e militare romano, famoso per aver sedato la ribellione della regina Boudica (60/61)[1].
Carriera politica e militare
In Mauretania (42)
Dopo aver ricoperto la pretura, nel 42 si recò in Mauretania come legato di legione per sopprimere una rivolta.[2] Fu il primo romano ad attraversare la catena montuosa dell'Atlante occidentale e Plinio il Vecchio riporta nella sua Naturalis Historia la descrizione che il generale fa della regione. Svetonio Paolino raggiunse le fonti del fiume Niger.
In Britannia (58-62)
Nel 59 fu nominato governatore della Britannia, per sostituire Quinto Veranio Nipote, che era morto mentre era ancora in carica.[1] Sulle orme del suo predecessore continuò la politica di aggressiva sottomissione delle tribù gallesi. La sua fama di ottimo generale cominciò così a rivaleggiare con quella di Gneo Domizio Corbulone. Due dei futuri governatori della provincia di Britannia prestarono servizio presso Paolino: Quinto Petilio Cereale, come legato della Legio VIIII Hispana, e Gneo Giulio Agricola, come tribuno aggregato alla II Augusta, ma comunque agli ordini di Svetonio Paolino.
Nel 61, Svetonio attaccò l'isola di Mona (Anglesey) nel massacro di Menai,[1] rifugio dei fuggitivi britannici e roccaforte della religione druidica. Le tribù del sud-est ne approfittarono per ribellarsi, affidando il comando alla regina icena Boudica. La colonia di Camulodunum (Colchester) fu distrutta e la VIIII Hispana di Quinto Petilio Cereale fu sconfitta. Rientrato da Mona, Paolino marciò lungo la Watling Street verso Londinium (Londra), nuovo obiettivo dei ribelli. Non avendo però truppe sufficienti ad affrontare i ribelli e difendere la città, la abbandonò al suo destino. I rivoltosi la distrussero, riservando poi la stessa sorte a Verulamium (St Albans).
Svetonio radunò le truppe e affrontò i nemici nella Battaglia della Watling Street, in una località non identificata, forse nelle Midlands Occidentali, vicino alla città di Atherstone, nel Warwickshire. Inferiori di numero, i romani riuscirono però a vincere grazie alla loro superiorità tattica, massacrando, secondo Tacito, circa 80.000 nemici. Boudica e Postumo si suicidarono.
In Germania (64?-66)
Arruolate nuove truppe dalla Germania, Paolino condusse delle durissime spedizioni punitive contro ogni residua sacca di resistenza. Il nuovo procurator Augusti, Gaio Giulio Alpino Classiciano, espresse però le sue preoccupazioni a Nerone: secondo lui il comportamento di Paolino non faceva altro che alimentare nuove ostilità. Dopo un'inchiesta condotta dal potente liberto di Nerone, Policlito (che sarà poi messo a morte da Galba), Paolino fu rimpiazzato con il più conciliante Publio Petronio Turpiliano, mentre Svetonio diventava console nel 66.
Nel 69 durante l'Anno dei quattro imperatori
Nel 69, durante le lotte civili seguite alla morte di Nerone (il cosiddetto anno dei quattro imperatori), Paolino si schierò dalla parte di Otone. Insieme ad Aulo Mario Celso, vicino a Cremona sconfisse Aulo Cecina Alieno, uno dei generali di Vitellio. Paolino non volle però che i suoi uomini si gettassero all'inseguimento degli sconfitti e per questo fu accusato di tradimento. Quando Cecina unì le sue forze con quelle di Fabio Valente, Svetonio avvertì Otone di non ingaggiare battaglia, ma non fu ascoltato e Otone fu sconfitto nella prima battaglia di Bedriaco. Svetonio fu catturato da Vitellio e fu perdonato, ma scomparve dalla scena storica.
(da wikipedia)
SULMONE
Guerriero rutulo (Eneide)
Sulmone fu ucciso da Niso che lo colpì con un dardo al petto nel tentativo di liberare Eurialo catturato da Volcente. Era padre di quattro giovani, anche loro guerrieri, che furono presi prigionieri da Enea per essere immolati sulla pira di Pallante.
- L'uccisione del cavaliere è narrata nel libro IX dell'Eneide
- L'asta volando flagella le ombre della notte, e di fronte colpisce lo scudo di Sulmone, e ivi s'infrange, e attraversa i precordi col legno spezzato. Quello rotola gelido vomitando dal petto un caldo fiotto, e batte i fianchi in lunghi singulti. (Virgilio, Eneide, IX)
- la cattura dei suoi figli nel libro X.
- Afferra vivi quattro giovani, figli di Sulmone, e altrettanti che allevò Ufente, da immolare in sacrificio alle ombre e spargere, sangue di prigionieri, sulle fiamme del rogo (Virgilio, Eneide, X)
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