VA - VE
VAGIENNI
Antichi popoli d'Italia stabiliti nella Liguria dei quali si trovano specialmente nozioni presso lo storico Plinio. Il territorio da essi occupato si esendeva tra i fiumi Stura e Tanaro, al nord delle Alpi Marittime e fino al Monviso. Augusta Vagiennorum la loro principale città, sorgeva sul luogo dell'odierna Bene Vagienna e godette di una certa floridezza e rinomanza sotto l'Impero Romano. Certamente i Vagienni furono sottoposti al dominio di Roma, ma non si ha alcuna notizia intorno all'epoca della loro conquista.
VALENTE
- Aburnio od Alburnio
- VALENTE Aurelio Valerio
- VALENTE Flavio
- VALENTE Publio Valerio
Giurista, nato nella Sabina, contemporaneo di Traiano. Lasciò molte opere delle quali furono prese diverse parti per la Compilazione del Digesto. Si citano inoltre di lui: Ex costitutioni divi Trajano; Fidecommissa; De actionibus; ecc.
Fu associato all'Impero da Licinio, che lo fece perire dopo alcuni mesi (a. 314), quando si riconciliò con Costantino.
Imperatore romano nato nel 328 a.C., a Cibalis in Pannonia. Ebbe dal fratello Valentiniano l'impero d'Oriente, ma la sua indole violenta e crudele lo rese odioso al popolo ed ai soldati e fu sul punto di fargli perdere la corona quando un tal Procopio, profit tando della sua assenza indossò la porpora e minacciò di conquistare l'impero. Ristabilito il potere dopo la sconfitta dell'usurpa tore, Valente respinse oltre il Danubio i Goti comandati da Alarico e mosse ontro i Persiani. Ma avendo saputo che i Goti avevano riprese le armi e battuto i Romani presso Marcianopoli, marciò nuovamente conro di loro e li affrontò ad Adrianopoli. In quella memorabile giornata l'esrcito romano venne interamente distrutto (9 agosto 378 e Valente stesso ferito. Si vuole che venisse trasportato in una capanna poco discosta dove i Goti non potendo entrare appiccarono il fuoco causando così la morte dell'Imperatore.
Uno dei Trenta Tiranni citati da Pollione. I suoi servigi lo avevano fatto nominare da Gallieno, proconsole dall'Acaja, ma quando una parte dell'Oriente si ribellò in favore di Macriano, questi, che temeva in Valente un rivale e lo odiava personalmente, incaricò Pisone di toglierli la vita (260). Valente però sventò il colpo rivestendo la porpora egli stesso; marciò contro Pisone che s'era ritirato in Tessaglia proclamandosi a sua volta imperatore, lo sconfisse e lo fece mettere a morte. Questa uccisione fu ben presto seguita dalla sua. nel giugno del 261 dopo Cristo. Valente venne massacrato dalle truppe appena dopo sei settimane di regno.
VALENTINIANO
- Valentiniano Flavio I°
- Valentiniano II° (Flavio Juniore).
- Valentiniano III° (Flavio Placidio)
- « Gli imperatori delle età precedenti..., hanno concesso tali privilegi a persone di illustre rango nell'opulenza di un'era d'abbondanza, senza che ciò comportasse il disastro per altri possidenti... Nelle presenti difficoltà, invece, tale pratica diventa non solo ingiusta ma anche ... impossibile. »
- « Non dubitiamo affatto che tutti abbiano ben presente la necessità assoluta di predisporre la forza di un numeroso esercito per ... ovviare alla triste situazione in cui versa lo stato. Ma a causa delle molte voci di spesa non è stato possibile provvedere adeguatamente a una questione ... sulla quale si fonda la piena sicurezza di tutti; ... né per coloro che con nuovi giuramenti si vincolano al servizio militare o per i veterani dell'esercito possono bastare quelle provvigioni che pure i contribuenti, sfiniti, versano solo con la più grande difficoltà; e sembra proprio che da quella fonte non si potranno avere i soldi necessari per acquistare cibo e indumenti. »
- « Nel frattempo i poveri vengono derubati, le vedove gemono..., facendo sì che molti, persino persone di buona nascita e di educazione liberale, cercarono riparo presso il nemico per sfuggire alla ... persecuzione generale. Essi cercano presso i barbari la pietà romana, perché non potevano sopportare la barbara mancanza di pietà che trovavano presso i Romani. ... Il risultato è che quelli che non si sono rifugiati presso i barbari sono ora costretti ad essere essi stessi barbari; e questo e il caso della gran parte degli ispanici, di non piccola proporzione della Gallia e ... tutti coloro nel mondo romano la cui cittadinanza romana è stata portata al nulla dall'estorsione romana. 6. Devo ora parlare dei Bagaudi, che, spogliati, afflitti, e assassinati da magistrati malvagi e assetati di sangue, dopo aver perso i diritti di romani, cittadini, persero anche l'onore del nome romano. Noi trasformiamo le loro sventure in crimine, ... chiamiamo questi uomini ribelli..., i quali noi stessi li abbiamo costretti al crimine. Per quali altre cause loro vennero resi Bagaudi se non per i nostri atti ingiusti, le malvagie decisioni dei magistrati, la proscrizione e l'estorsione di coloro che ...hanno reso le indizioni fiscali la propria opportunità per saccheggiare? Come belve selvagge, invece di governare coloro posti sotto la loro autorità, gli ufficiali li hanno divorati, nutrendosi non solo dei loro possedimenti come farebbero ordinari briganti, ma persino della loro carne e del loro sangue... Coloro che non avevano già prima raggiunto i Bagaudi sono ora costretti a raggiungerli. Le incredibili disgrazie che cadono sui poveri li spingono a diventare Bagaudi, ma la loro debolezza glielo impedisce... »
- (Salviano, Il governo di Dio, V, 5-6.)
Imperatore romano nato nel 321 a Cibalis (Pannonia), morto il 17 novembre 375 a Bregetto presso Pretsbourg. era figlio di Gra ziano conte d'Africa e fratello di Valente. Giovanissimo entrò nell'esercito e vi occupò l' ufficio di tribuno nella guardia di Giulia no. che accompagnò in tal qualità in Antiochia. Colà, avendogli l'imperatore comandato di sacrificare agli idoli , Valentiniano che era stato allevato nella fede cristiana, rifiutò di obbedire e venne esiliato. Nel 364, alla morte di Gioviano,i soldati che accam pavano presso Nicea, lo proclamarono unanimi imperatore romano. Egli si associò al trono il fratello Valente lasciandogli l'impero d'Oriente e ssi recò di persona a combattere gli Alemanni nelle Gallie, dove fece costruire una linea di fortezza lungo la Senna lasciandovi stabili presidi. Represse anche una ribellione scoppiata nell'Illiria e mandò Teodosio a liberare la Gran Bretagna dai Pitti e gli Scoti che l'avevano invasa. Quindi, avendo respinto nuovamente gli Alemanni da Magonza,dopo averli definitivamente a Solicino, fortificò le linee di difesa lungo il Reno, battè i Sassoni che depredavano le coste della Callia e come fu assicurata la tranquillità dell'Impero, celebrò a Treveri uno splendido trionfo. Ma la pace non durò a lungo. Pochi anni dopo i Quadi e i Sormazi invasero la Pannonia. Valentiniano li respimse oltre il Danubio., li inseguìfin nell'Illiria ed arse le loro cittè, venendo quindi a stabioirsi a Bregesio. Colà i quadi gli mandarono ambasciatori per chiedere la pace. Durante quella interbista, come egli rispondeva loro, fu colpito da apoplessia e morì poco dopo in etò di cinquantaquattro anni. Valentiniano fu principe valoroso e giuto ma cceessivamente severo, severità che spinse e non di rado sino alla ferocia.
Valentiniano nacque nel 371, figlio dell'imperatore Valentiniano I e di sua moglie Giustina; era il secondo figlio maschio di Valentiniano, che aveva avuto Graziano da un precedente matrimonio, e uno dei quattro figli della coppia, insieme alle sorelle Galla, Grata e Giusta.
Nel 375 Valentiniano, che aveva nominato Graziano co-imperatore qualche anno prima, portò con sé la moglie e il giovane figlio minore in una campagna ai confini settentrionali della parte occidentale dell'Impero. Il 17 novembre di quell'anno, però, l'imperatore morì, lasciando Graziano, che era a Treviri, al comando. Con l'imperatore lontano, giovane (aveva circa sedici anni) e inesperto, l'esercito romano tentennò, valutando la possibilità di proclamare imperatore un proprio generale, Sebastiano; altri alti funzionari imperiali - tra cui Merobaude, Massimino, Romano e Petronio Probo - decisero allora di porre sul trono Valentiniano, che da una parte era un membro della dinastia valentiniana, e dall'altra era un bambino di quattro anni, facilmente manipolabile.[1]
Valentiniano divise l'impero col fratellastro: al primo andò il governo di Italia, Africa ed Illirico, mentre Graziano ottenne il comando sulla restante parte dell'impero d'occidente, Gallia, Spagna e Britannia. Avendo Valentiniano all'epoca solo quattro anni, la reggenza venne assunta dalla madre Giustina e quindi, di fatto, dal potente generale Merobaude.
Giustina e Graziano spostarono la corte imperiale a Milano dove subito si aprì lo scontro con i cristiani della città guidati dal vescovo Ambrogio, essendo Giustina ariana. Nel 378 i Goti sconfissero e uccisero ad Adrianopoli l'imperatore Valente, zio di Graziano e di Valentiniano II; Graziano allora associò al trono come augusto Teodosio I, affidandogli il governo della parte orientale dell'impero. Nel 383 Graziano morì assassinato mentre si apprestava a combattere contro Magno Massimo, proclamato imperatore dalle legioni di Britannia. Nel 387 Magno Massimo, attraversò le Alpi arrivando a minacciare Milano. L'imperatore e la madre cercarono rifugio in oriente alla corte di Teodosio I°, che ottenne in sposa Galla, sorella di Valentiniano. L'anno seguente Magno Massimo venne sconfitto da Teodosio quando era ormai sul punto di conquistare l'Italia.
Raffigurazione di Valentiniano II°
dal Missorio di Teodosio .
Dopo la caduta dell'usurpatore, Teodosio restaurò sul trono d'occidente Valentiniano, che nel frattempo, sotto l'influenza dell'augusto d'oriente, aveva lasciato l'arianesimo e aveva aderito alla fede nicena. Valentiniano II° si ritrovò allora imperatore di tutto l'occidente, almeno nominalmente, in quanto era in realtà sotto la tutela del magister equitum Arbogaste, essendo nel frattempo morta la madre. I rapporti tra l'imperatore ed il suo tutore furono tesi. Il 15 maggio 392 Valentiniano II° morì a Vienne, in Gallia, in circostanze misteriose: il suo corpo venne trovato impiccato ad un albero. Arbogaste spedì il corpo di Valentiniano a Milano e Teodosio scrisse ad Ambrogio, vescovo di Milano, di organizzare il funerale; Ambrogio compose per l'occasione l'orazione De obitu Valentiniani consolatio. Il cadavere di Valentiniano fu pianto dalle sorelle Giusta e Grata e fu disposto in un sarcofago di porfido vicino a quello del fratello Graziano, molto probabilmente nella cappella di Sant'Aquilino della basilica di San Lorenzo.[2]
Teodosio rimase signore di tutto l'impero. Arbogaste, che da più parti era ritenuto coinvolto nella morte di Valentiniano, fece nominare augustus dalle legioni di Gallia l'usurpatore Flavio Eugenio, con l'appoggio del Senato di Roma, che vide in lui la possibilità di opporsi al crescente potere della chiesa cattolica. Flavio Eugenio venne però sconfitto da Teodosio nella battaglia del Frigido del 394, e l'impero ebbe nuovamente un unico padrone.
(da wikipedia)
Flavio Placido Valentiniano, meglio noto come Valentiniano III (latino: Flavius Placidus Valentinianus; Ravenna, 2 luglio 419 – Roma, 16 marzo 455), è stato imperatore romano d'Occidente dal 425 alla sua morte.
Come imperatore appartenente alla dinastia teodosiana e a quella valentiniana, Valentiniano III° fu il simbolo dell'unità dell'impero, la figura attorno alla quale si coagula la lealtà dei sudditi; in realtà, però, il potere fu esercitato da Flavio Ezio, il magister militum (comandante in capo dell'esercito), al quale va ascritta la politica che tenne unito l'impero malgrado le forze centrifughe che lo sconquassavano.
Il padre di Valentiniano, Costanzo III°, patricius e generale romano, salito al trono dell'impero romano d'Occidente nel 421, quando Valentiniano aveva due anni, morì dopo pochi mesi di regno. La madre di Valentiniano era Galla Placidia, sorellastra dell'imperatore Onorio (393-423), figlia dell'imperatore Teodosio I° e nipote dell'imperatore Valentiniano I°. Placido Valentiniano era il secondo figlio della coppia, essendo Giusta Grata Onoria sua sorella maggiore.
Lo zio Onorio, non avendo figli, tentò di risolvere il problema della successione, associando al trono Costanzo III°. Quando Valentiniano nacque, fu immediatamente un forte candidato alla successione, come indicato dall'attenta scelta dei nomi, che lo legavano sia alla casata di Teodosio che alla dinastia valentiniana. Dietro insistenza della sorella Placidia, Onorio stesso rafforzò la successione al trono di Valentiniano, nominandolo tra il 421 e il 423, nobilissimus puer, titolo che non fu riconosciuto dalla corte orientale.[1] Placidia, però, entrò in contrasto con Onorio, e insieme ai figli, si trasferì a Costantinopoli presso il nipote Teodosio II (422/423).
Giovanni Primicerio assunse la porpora (423-425) contro il volere di Teodosio II, che nominò allora Valentiniano augusto d'Occidente, inviandolo a riconquistare il trono di Roma.
Il 15 agosto 423 Onorio morì; Teodosio II° ritardò la scelta del successore. Nel frattempo, uno dei patricii di Onorio, Castino, ottenne dal Senato romano la proclamazione del primicerius notariorum (decano dei funzionari civili) Giovanni Primicerio. Il nuovo imperatore cercò il riconoscimento della corte orientale, ma il tentativo fallì quando Teodosio, dietro pressione della zia Galla Placidia, decise di porre Valentiniano sul trono d'Occidente.
Dopo essere stato fidanzato alla figlia di Teodosio, Licinia Eudossia, Valentiniano fu inviato in Occidente con un forte esercito, al comando del magister militum Ardaburio e di suo figlio Aspare, e sotto la tutela della madre Placidia, che agiva da reggente per il figlio di cinque anni;[2] mentre era in viaggio, a Tessalonica, fu nominato cesare da Elione,[3] il 23 ottobre 424.[4] Dopo aver svernato acquartierandosi ad Aquileia, l'esercito romano d'Oriente si mosse verso Ravenna, dove si trovava Giovanni; la città cadde dopo quattro mesi di assedio, per il tradimento della guarnigione, e Giovanni fu catturato, deposto e ucciso (giugno o luglio 425).
Tre giorni dopo la morte di Giovanni, il suo generale Flavio Ezio, allontanatosi a cercare rinforzi, arrivò con un grosso contingente di 60.000 Unni. Dopo alcune schermaglie, Galla Placidia ed Ezio giunsero a un accordo: gli Unni avrebbero ricevuto la propria paga e sarebbero tornati ai propri territori, e in cambio Ezio avrebbe ricevuto il titolo di magister militum per Gallias ("comandante dell'esercito delle Gallie"). Questo accordo segnò l'intero regno di Valentiniano, influenzando la scena politica dell'impero d'Occidente per i successivi trenta anni.
Il 23 ottobre 425, a Roma, Valentiniano fu proclamato augusto da Elione, all'età di sei anni.
Regno
I primi anni di regno di Valentiniano si svolsero sotto la tutela della madre, a causa della giovane età; lo stesso Teodosio mantenne una posizione di dominio sul giovanissimo collega, sebbene formalmente i due augusti fossero di pari dignità e potere, e le leggi erano promulgate a nome di entrambi in entrambe le parti dell'impero. Nel 426, ad esempio, Teodosio e Valentiniano promulgarono la cosiddetta Legge delle citazioni, con la quale regolamentarono le fonti giuridiche del tempo: la legge infatti sanciva che il giudice era vincolato dal parere dei giuristi se riguardo al caso e alla materia vi era una communis opinio, cioè la convergenza del maggior numero di giuristi su un'unica interpretazione (la constitutio è anche celebre per aver concesso alle Istituzioni di Gaio il valore di fonte normativa). Inoltre la legge delle citazioni permetteva ai giuristi di citare solamente le opere di Paolo, Ulpiano, Papiniano, Modestino e lo stesso Gaio.
Lotta intestina per il potere
Tra il 427 e il 433 i tre maggiori esponenti dell'esercito romano – Costanzo Felice, magister militum praesentialis senior e comandante delle truppe italiane, Bonifacio, comes Africae, e Ezio, magister militum per Gallias, poi elevato al rango di magister militum praesentialis iunior in Italia – si scontrarono per determinare chi dovesse detenere il potere in Occidente: alla fine prevalse Ezio, che eliminò i propri avversari, si fece nominare magister militum praesentialis senior (il massimo grado dell'esercito) e, nel 435, assunse il rango di patricius. In tutto questo periodo Valentiniano rimase equidistante dalle parti, sebbene la madre, Galla Placidia, sostenesse prima Ezio, per poi avversarlo.[5]
Valentiniano rimase sotto la reggenza della madre fino al 437; il 29 ottobre di quell'anno, sposò a Costantinopoli la figlia di Teodosio II°, Licinia Eudossia, da cui ebbe due figlie, Eudocia e Placidia.[6] Il potere effettivo rimase, però, nelle mani di Ezio, che si destreggiò abilmente con le varie popolazioni germaniche e con gli Unni, riuscendo così a salvare quanto ancora rimaneva dell'Impero romano d'Occidente, dopo che anche l'Africa fu conquistata dai Vandali.
Invasioni barbariche e declino dell'Impero
La conquista vandalica dell'Africa e le campagne di Ezio
All'inizio del regno di Valentiniano, l'Impero romano d'Occidente era sottoposto a forze che ne minavano l'unità: dall'esterno, alcune popolazioni barbare premevano sulla frontiera (gli Unni in Pannonia, i Burgundi e gli Alemanni sull'alto corso del Reno, i Franchi e i Sassoni sul basso corso del Reno); altre popolazioni si erano insediate, più o meno col consenso dei Romani, in Aquitania (i Visigoti), Gallaecia (i Suebi) e in Hispania Carthaginensis e Baetica (i Vandali e gli Alani); alcune popolazioni locali si erano poi separate dall'Impero, come quelle della Britannia romana (separatasi intorno al 410) e l'Armorica (nello stesso periodo), mentre la Gallia nord-occidentale era sede di movimenti separatisti.[7]
Le migrazioni dei Vandali, dal 400 a.C. al 439 d.C.
Secondo alcuni studiosi, i dissidi interni tra i tre generali più importanti dell'Impero - Bonifacio, Felice ed Ezio - per ottenere il comando supremo dell'esercito d'Occidente e il controllo sul piccolo Valentiniano, agevolarono nel periodo 423-434 un ulteriore deterioramento della situazione a tutto vantaggio per i gruppi migranti barbari.[8] Ad esempio i Vandali, dopo il 423, anno della sconfitta di Castino, furono liberi di saccheggiare la Spagna meridionale e le Isole Baleari tra il 426 e il 428. La situazione si aggravò ulteriormente con l'invasione vandalica dell'Africa romana del 429: né il comes Africae Bonifacio né il generale dell'Impero d'Oriente Aspar riuscirono a spingere al ritiro dall'Africa i Vandali, ma Aspar riuscì perlomeno ad impedire loro temporaneamente la conquista di Cartagine, costringendoli a negoziare una tregua nel 435: secondo tale tregua, i Vandali avrebbero mantenuto le terre da essi occupate in Mauritania e Numidia, ma Cartagine e le province di Proconsolare e Byzacena, oltre a una parte della Numidia, sarebbero rimaste in mani romane.[9]
I conflitti interni terminarono solo nel 433-435, con la vittoria di Ezio, che - uccisi i suoi due rivali - ottenne nel 435 il rango di patrizio e il comando supremo dell'esercito d'Occidente. Ezio si concentrò sulla difesa della Gallia e, a tal fine, ottenne il sostegno militare degli Unni, ai quali, tuttavia, dovette cedere in cambio la Pannonia.[10] Con il sostegno degli Unni, Ezio e il suo subordinato Litorio riuscirono ad annientare nel triennio 436-439 Burgundi e Bagaudi (i gruppi locali secessionisti nella Gallia nord-occidentale) e a costringere ad accontentarsi dell'Aquitania i Visigoti, che furono costretti ad accettare le stesse condizioni del 418 dopo aver tentato invano di strappare ai Romani le città di Narbona e Arelate. L'impiego degli Unni come mercenari generò però lo sdegno di taluni scrittori cristiani, scandalizzati che taluni di essi saccheggiarono in talune circostanze gli stessi territori romani che essi erano tenuti a difendere, oltre al fatto che avessero ottenuto dal generale Litorio il permesso di compiere sacrifici alle proprie divinità pagane e di predire il futuro tramite la scapulomanzia.[11]
Mentre però Ezio otteneva questi successi in Gallia, nel 439 i Vandali ruppero la tregua e conquistarono Cartagine, da cui partirono incursioni navali che saccheggiarono la Sicilia e il Mediterraneo occidentale (440); l'Imperatore d'Oriente Teodosio II, cugino e suocero di Valentiniano, inviò una poderosa flotta romano-orientale per recuperare ai Vandali Cartagine, ma dopo una pericolosissima incursione degli Unni di Attila, Teodosio fu costretto giocoforza a richiamarla, costringendo l'Impero d'Occidente a negoziare una pace sfavorevole con i Vandali.[12] Nel 442, in base alla pace con i Vandali, Genserico otteneva il riconoscimento del possesso di Cartagine e della Proconsolare e Byzacena, oltre che di parte della Numidia; in cambio Valentiniano III° riotteneva il possesso delle Mauritanie e del resto della Numidia, province però infestate dai nativi Mauri. Nel frattempo, nella Spagna romana il re degli Svevi Rechila riuscì a sottomettere Lusitania, Betica e Cartaginense riducendo la Spagna romana alla sola provincia di Tarraconense, anch'essa sotto precario controllo romano, poiché infestata dai ribelli separatisti Bagaudi.[13] Nel 446 la Britannia, già abbandonata dalle truppe romane nel 410, fu invasa dai Sassoni e altre popolazioni; nel frattempo Ezio permise ad Alani e Burgundi di insediarsi come foederati in alcune regioni della Gallia, per tenere sotto controllo i Bagaudi.
Il problema fiscale
L'Impero romano d'Occidente nel 450 ca.
Un problema fondamentale che si acuì in questo periodo fu quello fiscale. Le finanze dell'Impero si basavano sulle rendite delle grandi proprietà terriere, cui era fornita, in cambio, la protezione garantita dall'esercito. La perdita di grosse porzioni di territorio, prima fra tutte la fertile provincia d'Africa, riduceva la base imponibile, obbligando lo Stato ad aumentare la pressione fiscale: il risultato era che la lealtà delle province al governo centrale era messa a dura prova.
La perdita del Nord Africa aveva causato una forte contrazione del gettito fiscale. Infatti, non solo l'Impero aveva perso le più floride province del Nord Africa, ma le province restituite ai Romani secondo il trattato del 442, cioè le Mauritanie e una parte della Numidia, erano divenute estremamente improduttive a causa dei saccheggi dei Vandali: infatti, secondo l'editto fiscale del 21 giugno 445, il gettito di Numidia e di Mauritania Sitifense si era ridotto a 1/8 della quota normale.[14] Per colmare queste perdite di entrate, Valentiniano III° e i suoi consiglieri presero i seguenti provvedimenti: il 24 gennaio del 440 vennero annullati tutti i precedenti decreti di esenzione o riduzione fiscale, mentre nel 441 vennero annullati tutti i privilegi fiscali dei ceti più abbienti, con tale giustificazione:[15]
Nonostante il tentativo di massimalizzare le entrate attuato con questi provvedimenti, non fu più possibile, a causa della riduzione delle entrate conseguente alla perdita del Nord Africa, mantenere un grosso esercito. Nel 444 un decreto imperiale, introducente una nuova tassa, ammise:
Lo Stato fu così costretto ad aumentare la pressione fiscale, con il risultato che la lealtà delle province al governo centrale fu messa a dura prova. Il vescovo di Marsiglia Salviano, scrivendo intorno al 440, attribuisce le sollevazioni dei Bagaudi nella Gallia e nella Tarraconense all'oppressione fiscale:
L'invasione di Attila
Intorno al 450, Valentiniano aveva scoperto che sua sorella, Giusta Grata Onoria, aveva una relazione segreta con Eugenio, l'amministratore responsabile dei propri beni, allorché Onoria era rimasta incinta. Furioso, l'Imperatore fece giustiziare Eugenio e inviò la sorella a Costantinopoli, affinché ella terminasse in quel luogo l'inopportuna gravidanza.[16] Nato il piccolo, fu dato via in quanto illegittimo, e la madre non poté mai vederlo. Valentiniano III° costrinse poi la sorella a sposare un senatore di nome Flavio Basso Ercolano, ma Onoria, volendo sfuggire ad un matrimonio imposto e non desiderato, inviò un eunuco di sua fiducia, Giacinto, come ambasciatore presso la corte di Attila, chiedendogli di intervenire in suo favore.[17] Attila interpretò la richiesta di Onoria come una proposta di matrimonio e richiese all'Imperatore d'Occidente, come dote per il matrimonio, metà dell'Impero d'Occidente. All'ovvio rifiuto di Valentiniano III°, Attila ebbe il pretesto per invadere l'Impero d'Occidente, anche se chiaramente i motivi che lo spinsero realmente all'invasione erano ben altri dalla volontà di sposarsi con Onoria.[18] Nel frattempo, Onoria fu punita dal fratello per aver scritto ad Attila affidandola alla custodia della madre.
Valentiniano III°, con la madre Galla Placidia e la sorella Giusta Grata Onoria (Brescia, Museo di Santa Giulia). Onoria ebbe una tresca con un cortigiano e rimase incinta, cosa che mandò su tutte le furie suo fratello che la punì severamente, al punto che ella giunse a chiedere aiuto al re degli Unni, Attila, che colse il pretesto per invadere l'Impero.
Nel 451 Attila invase la Gallia, distruggendo diverse città. L'invasione fu però fermata dall'intervento dei Romani di Ezio e dei loro alleati barbari (Visigoti, Burgundi) che lo affrontarono e riportarono una grande vittoria su di essi nella battaglia dei Campi Catalaunici (451). Per nulla demoralizzati dall'insuccesso dell'anno precedente, l'anno successivo gli Unni invasero l'Italia: dopo aver distrutto Aquileia ed espugnato diverse città dell'Italia transpadana, tra cui Milano, gli Unni decisero però di ritirarsi dopo un incontro presso il fiume Mincio con un'ambasceria imperiale costituita da papa Leone I, Gennadio Avieno e Trigezio. A differenza di quanto narrato dalla tradizione cristiana, non fu però il semplice incontro con il pontefice a spingerlo al ritiro: l'esercito unno era stato decimato da pestilenze e carestie e i territori unni erano stati attaccati nell'Illirico dalle truppe dell'Imperatore d'Oriente Marciano, che non aveva mancato di inviare rinforzi ad Ezio, per cui Attila ebbe buone ragioni per ritirarsi.[19] Poco tempo dopo l'invasione fallita dell'Italia Attila perì e il suo impero, disintegrandosi entro poco tempo, smise di essere una minaccia per Roma, che però si trovò privata anche di un possibile valido alleato (non va dimenticato infatti il decisivo contributo degli Unni nelle campagne di Ezio in Gallia negli anni 430).
Morte di Ezio e Valentiniano
Con la fine della minaccia degli Unni, la posizione di Ezio si indebolì, in quanto l'Impero, e soprattutto Valentiniano, non aveva più bisogno di un uomo forte. Probabilmente il magister militum si rese conto della situazione e, nel 454, cercò di convincere Valentiniano a concedere la mano di Placidia a Gaudenzio, figlio di Ezio: considerato il fatto che Valentiniano non aveva figli maschi che gli potessero succedere, Gaudenzio sarebbe divenuto, con le nozze, il più forte candidato alla successione imperiale, rafforzando la posizione di Ezio. Il lungo e totale predominio politico di Ezio, però, gli aveva procurato molti nemici a corte, oltre a Valentiniano; fondamentali per la sua caduta furono il senatore Petronio Massimo e il primicerius sacri cubiculi Eraclio.[20]
Secondo lo storico Giovanni di Antiochia,[21] Valentiniano vinse al gioco una somma che Massimo non aveva, e ottenne come pegno l'anello di questi, che l'imperatore utilizzò per convocare a corte la moglie di Massimo; la donna si recò a corte credendo di essere stata chiamata dal marito, in quanto un inserviente dell'imperatore le aveva mostrato l'anello di Massimo, ma si ritrovò a cena con Valentiniano, che la sedusse. Tornata a casa e incontrando Massimo, lo accusò di averla tradita e consegnata all'imperatore, e così Massimo venne a sapere dell'inganno, decidendo di vendicarsi contro Valentiniano: secondo Giovanni, però, Massimo era cosciente che non avrebbe potuto nuocere all'imperatore se prima non si fosse sbarazzato di Ezio. Si accordò allora con un eunuco di Valentiniano, il primicerius sacri cubiculi Eraclio, che osteggiava il generale sperando di poterne ottenere il potere: i due convinsero Valentiniano che Ezio lo voleva uccidere, così l'imperatore decise di uccidere il proprio magister militum.[22]
Il 21 settembre 454, Ezio dopo aver fatto rapporto a Valentiniano nel palazzo imperiale riguardo all'esazione delle tasse, propose di nuovo il matrimonio tra il figlio Gaudenzio e la figlia minore di Valentiniano, Placidia, quando l'imperatore si alzò improvvisamente dal trono accusando il generale di tradimento (forse lo sospettava di progettare l'elevazione al trono del figlio Gaudenzio); prima che Ezio potesse difendersi dalle accuse, Valentiniano sguainò la propria spada e si gettò sul generale, che nel frattempo era stato attaccato anche da Eraclio, uccidendolo. Secondo una tradizione, qualcuno disse nell'occasione all'imperatore «hai tagliato la tua mano destra con la sinistra».[23]
A seguito della caduta di Ezio, Valentiniano fece uccidere anche il suo amico Manlio Boezio e, secondo Idazio, anche altri notabili; fece poi esporre i cadaveri nel foro, e accusò i senatori di tramare un tradimento: tutto ciò lo fece per scongiurare una rivolta dopo la morte di Ezio. Petronio Massimo chiese a Valentiniano di prenderne il posto come magister militum, forse la vera molla che lo aveva spinto a complottare per la caduta di Ezio, ma l'imperatore rifiutò: Eraclio, infatti, consigliò all'imperatore di non rimettere nuovamente nelle mani di un sol uomo il potere che era riuscito a recuperare uccidendo Ezio.[24] Sempre secondo Giovanni di Antiochia, Massimo fu così irritato dal rifiuto di Valentiniano da decidere di farlo assassinare. Come complici scelse Optila e Thraustila, due coraggiosi sciti che avevano combattuto sotto il comando di Ezio e che erano stati successivamente assegnati alla scorta di Valentiniano: Massimo li convinse che Valentiniano era il solo responsabile della morte di Ezio, e che i due soldati avrebbero dovuto e potuto vendicare il loro antico comandante; promise loro, inoltre, una ricompensa per il tradimento dell'imperatore.
Il 16 marzo 455, Valentiniano, che si trovava a Roma,[25] si recò al Campo Marzio con alcune guardie del corpo, accompagnato anche da Optila e Thraustila e dagli uomini di questi. Appena l'imperatore scese da cavallo per esercitarsi con l'arco, Optilia gli si avvicinò con i propri uomini e lo colpì alla tempia, mentre l'esercito rimase schierato, immobile ad assistere: Valentiniano, sorpreso, si volse a guardare il proprio aggressore, e Optila gli inferse il colpo mortale; contemporaneamente, Thraustila uccise Eraclio. I due sciti presero poi il diadema e la veste imperiale e li portarono a Massimo, mentre la testa del defunto imperatore fu posta sopra una lancia e fu portata per le strade della Capitale per annunciare la sua fine.[22][26]
Valentiniano morì a quasi trentasei anni, dopo ventinove anni e mezzo di regno: con lui si estinse la dinastia imperiale di Valentiniano in Occidente. La morte di Ezio aveva eliminato l'uomo forte che avrebbe potuto difendere l'impero dai pericoli esterni (pochi mesi dopo i Vandali avrebbero messo a sacco Roma); quella di Valentiniano eliminò il simbolo attorno al quale si coagulava la lealtà delle province romane, che si sfaldò in breve tempo.[26]
(da wikipedia)
VALERIA
- VALERIA
- VALERIA (Gente - Gens)
- - P. Valerio (detto Publicola)
- Marco Valerio.
- Manlio Valerio.
- Valerio Lucio.
- VALERIA GALERIA
- VALERIANO PUBLIO LICINIO
- VALERIO Corvo Marco
- Gaio Valerio Flacco (poeta)
- VALERIO Massimo
Antica provincia dell'Italia, la quale estendevasi fra l'Umbria, il Piceno e la Campania. Venne istituita da Diocleziano.
Famiglia d'origine sabina discendente da Valeso, fu tra le più cospicue genti di Roma, dai primi tempi della Repubblica, fino alla fine dell'Impero. e diede un gran numero di uomini illustri tra i quali Massimino, Massimiano, Diocleziano, Costamzo e Costantino il Grande.
Liberò Roma con la cacciata di Tarquinio, e fu console nel primo anno della Repubblica
Fratello del precedente, fu anch'egli console e combattè contro Tarquinio.
Altro loro fratello, fu dittatore, sconfisse i Sabimi ottenendo il trionfo ed un posto distinto tra gli spettatori del circo, onore mai più concesso ad altri.
Console nel 305, liberò Roma dai Decemviri, sconfisse gli Equi e i Volsci e conseguì il trionfo per volere unanime dei cittadini.
Imperatrice, figlia di Diocleziano moglie (292) a Massimiano Galerio eletto Cesare. Spogliata dei suoi averi,alla morte del marito, da Massimino II°, fu da Licinia presa ed uccisa insieme con la madre, Valeria Messalina
Imperatore romano morto nel 269 in Persia. Di nobile famiglia percorse tutti i gradi della gerarchia militare finchè aala morte di Treboniano nel 253, fu salutato come imperatore dai soldati. Il suo regno fu turbato dalle incessanti guerre contro i barbari che non permisero a Valeriano di consacrare lungo tempo le sue cure all'amministrazione interna. Fu costretto anzi a confidare ai figlioli Galliano e Gallo.. Postumio la difesa dell'Occidente contro i Franchi eed incaricarsi lui stesso della difesa del'Oriente. contro i Persiani. Riuscì infatti a riprendere Antiochia; ma battuto in seguito ad Edessa, si vide costretto ad entrare in negoziati con il re Sapore I° che profittando dell'intervista, a dispetto del diritto delle genti, s'impadronì di lui (259). Il disgraziato imperatore passò quindi gli ultimi dieci anni della sua vita nella più orribile ed umiliante prigionia.
Umiliazione di Valeriano,
Hans Holbein il Giovane, 1521.- Kunstmuseum Basel
(da wikipedia)
Tribuno dei soldati sotto Camillo combattè contro un Gallo di statura gigantesca e l'atterrò con l'iuto di un corvo sceso sul suo elmo. Fu console, dittatore, edile, parecchie volte; sconfisse Sanniti ed Rtruschi.
Poche sono le notizie circa la sua vita: Flacco è stato identificato come amico del poeta Marziale, nativo di Padova; ma, dal prologo alla sua opera, si sa che fu anche membro del collegio dei quindici, guardiani dei libri sibillini: era quindi membro della gens patrizia dei Valerii e l'ultimo membro noto del ramo dei Valerii Flacci.
In uno dei manoscritti vaticani è identificato anche come Setino Balbo, il che farebbe dedurre le sue origini presso Setia nel Lazio. Il solo scrittore antico che lo cita è Quintiliano, che lamenta la sua prematura e recente scomparsa come una grande perdita; poiché Quintiliano terminò la sua Institutio oratoria nel 96 dopo Cristo, si deduce che la sua morte debba essere avvenuta poco tempo prima.
Argonautica
.
L'unica opera che abbiamo, gli Argonautica, dedicata a Vespasiano per le sue conquiste in Britannia, fu scritta in parte durante la vittoria sui Giudei, o poco più tardi la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito avvenuta nel 70. Pare, dai cenni nel testo sull'eruzione del Vesuvio (79), e dai riferimenti ad altri avvenimenti successivi, che la stesura del poema abbia tenuto occupato l'autore molto a lungo; alcuni studiosi parlano di due decenni.
Gli Argonautica sono un poema epico in otto libri sulla conquista del Vello d'oro. Il poema ci è stato tramandato molto frammentato, e finisce bruscamente con la richiesta di Medea di accompagnare Giasone nel suo viaggio verso casa. Non si sa esattamente se l'ultima parte dell'opera è andata perduta o se non fu scritta affatto. Le Argonautiche sono una libera imitazione e in parte rielaborazione del lavoro omonimo (gr. Ἀργοναυτικά) di Apollonio Rodio, già famoso presso i Romani nella versione e adattamento di Publio Terenzio Varrone Atacino. L'oggetto dell'opera è la glorificazione di Vespasiano per aver reso più sicuro l'impero romano alla frontiera britannica e per avere favorito i viaggi nell'Oceano (allo stesso modo in cui l'Eusino fu aperto dalla nave Argo).
Molti hanno stimato positivamente lo stile di Flacco, e alcuni critici hanno sottolineato la sua vivacità nelle descrizioni e la sua sensibilità e intuito psicologico nella resa dei personaggi con i loro caratteri e affetti, ad esempio di Medea. La sua espressione è pura, il suo stile corretto, i suoi versi sono lineari, sebbene monotoni. D'altro canto, egli manca di originalità, e la sua poetica, sebbene libera da grandi difetti, appare artificiosa e troppo elaborata. Il suo modello, anche per quanto riguarda la concezione dell'esistenza, fu Virgilio, a cui egli fu molto inferiore in gusto e lucidità. Le sue esagerazioni retoriche lo rendono difficile da leggere, il che fa comprendere la sua impopolarità nei tempi antichi. Nel Medioevo l'opera, non più letta, fu dimenticata.
Giasone e Medea,
protagonisti degli Argonautica di Flacco.
Dipinto di Gustave Moreau - Musée d'Orsay Paris
Storico latino che visse sotto il regno di Tiberio. Vogliono alcuni ch'egli fosse discendente da quel Valerio Massimo che fu cen sore verso l'anno 646 dalla fondazione di Roma ; altri, che appartenendo egli, dal lato paterno, alla famiglia dei Valeri e per parte materna alla discendenza di Fabio Massimo, avesse riunito in sè i due nomi ; altri ancora trovano poco accettabile quesr'ultima versione. optando come non si usasse prsso i romani comporre in tal guisa i nomi, e, d'altra parte, che Valerio non occupò tali cariche da far credere ad un origine tanto elevata. Più probabile ch'egli uscì d'un ramo secondario delle anzidette famiglie. Occupata parte della giovinezza nella propria educazione, si portò poi in Asia dove servì sotto Sesto Pompeo. Console nell'anno 14 dell'Era nostra, anno della morte di Augusto. Tornato quindi a Roma, occupato nello studio della Storia non prendendo parte alcuna ai pubblici affari, godette il favore di Tiberio che lo ammise alla sua Corte e gli procurò un'esistenza agiata e tranquilla. I frutti dei suoi studi Valerio li raccolse uin un'opera intitolata: De dictis actisque memorabilitus, libri IX° at Tiberium Caesarem Augustum; la qual opera è nn insieme di aneddoti, fatti, massime, difettosa nello stile, priva di ogni altro pregio letterario, ma utile come raccolta di fatti, di particolari taciuti da altri autori. L'opera in nove libri, è suddivisa in capitoli . Sulla religione; sulla religione simulata; sulla religione straniera rigettata; sugli àuguri, sui prodigi ecc., bella trattazione dei quali argomenti l'autore difetta di conoscenze critiche sulla storia e d'illuminato giudizio. Valerio, avendo manifestata l'intenzione di abbreviare l'opera sua, trovandola troppo diffusa di primo getto, si è voluto credere che ciò che noi abbiamo di lui, non sia altro che un compendio dell'Opera. Manca però qualsiasi prova che convalidi questa ipotesi. Si hanno bensì dei compendi; uno fatto da Jannuario o Gianuario Nepoziano; un'altro da Giulio Paris; un terzo da G.Onorio nel XV° secolo. L'opera di Valerio Massimo fu ristampata più di cento volte e tradotta nelle principali lingue europee
VALLO
- Vallo
- VALLUM ROMANUM
Sì detto il parapetto della cinta di terra rivestito da una palizzata colla quale i romani rafforzavano i loro campi. Era appunto così chiamato da vallus che significa ramo o palo, già che la palizzata predetta talvolta era sostituita da un intreccio di rami. Se ne allargò di poi il significato e si chiamò vallo il campo stesso fortificato. In seguito così si chiamò pure dagli italiani ogni riparo fatto tutto all'interno dei villaggi, conventi, abbazie ecc., e più tardi per difenderli,vallo siognificò la cinta primaria di una fortezza-.
Grande muro innalzato dai Romani a difesa della Britannia fra il Mar del Nord e l'Irlanda (dal Firth alla Clyde)
Il Firth of Clyde è una profonda insenatura situata nella costa occidentale della Scozia e separata dall'Oceano Atlantico dalla penisola di Kintyre.
All'imbocco l'insenatura è larga circa 42 km.
VARO
PUBLIO QUINTILIO
Proconsole romano, tristemente celebre, secondo l'espressione di un suo contemporaneo. il quale disse ch'egli era entrato povero nella Siria ed uscito ricco dalla Siria. Tornato da quelle regioni fu mandato a capo d'un agguerrito esercito a tenere in soggezione le popolazioni al di là del Reno. Quivi egli volle imporre alle genti usi romani, violentare le loro povere abitudini ma fierissime; ciò che il Senato aveva saggiamente indicato di non fare. Per questo e per le concussioni degli ufficiali di Varo, gli animi si disposero a scuotere il giogo romano. Trovato il momento opportuno Arminio celebre capo dei Cherusci, collegatosi con i capi delle altre tribù germaniche stanziate tra il Reno e l'Elba, preparò una grande insurrezione. Scoperta questa nell'anno 9 d.C., estesasi fino in Pannonia, e sui confini della Dalmazia, facendosi più attiva quando le legioni romane furono sparpagliate e quando Arminio, che si fingeva alleato di Varo, teneva accordo segreto con le milizie allemanne ausiliarie dei Romani. Varo fu avvisato della trama ma non volle prestarvi fede e disprezzò il pericolo. Così, cercando di soffocare le parziali insurrezioni fatte appositamente nascere in regioni tra loro discoste, egli divise l'esercito e si ridusse ad avere con sè appena tre legioni. con le quali, allontanandosi dal Reno, venne a trovarsi in un vallone presso la sorgente della Lippe, nel paese dei Brutteri, dove si vide circondato dalle armi germaniche. Le legioni di Varo resistettero per tre giorni, con quel valore, con quella forza, che valsero a Roma la conquista del mondo, ma invano, poichè, sopraffatto dal numero dei nemici, vennero tagliate a pezzi.
E lo stesso Varo soccombette in quella strage. Si ha per certo ch'egli fosse soltanto ferito e si abbandonasse sulla propria spada per non sopravvivere all'onta della sua irreparbile sconfitta. Credesi che tale avvenimento si compisse non lontano dalle sorgenti della Lippe e dell'Ems ai piedi del Tentenberg nel campo di Winfeld, che significa appunto Campo della vittoria.
E' fama che Augusto imperatore, udita l'infausta notizia, si abbandonò ad atti di violenta disperazione e che anche dopo alcuni mesi sovente gridasse: Ah Varo, Varo, rendimi le mie Legioni.
I Romani poi furono vendicati dalle vittorie di Druso e di Germanico.
VARRONE
MARCO TERENZIO
Marco Terenzio Varrone, in latino Marcus Terentius Varro (Rieti, 116 a.C. – Roma, 27 a.C.), è stato un letterato, scrittore e militare romano.
- « Tu ci hai fatto luce su ogni epoca della patria, sulle fasi della sua cronologia, sulle norme dei suoi rituali, sulle sue cariche sacerdotali, sugli istituti civili e militari, sulla dislocazione dei suoi quartieri e vari punti, su nomi, generi, su doveri e cause dei nostri afferi, sia divini che umani. »
- (Marco Tullio Cicerone, Academica Posteriora, I 9 - trad. A. D'Andria)
Statua del letterato romano Marco Terenzio Varrone nella sua città natale, Rieti (Lazio)
Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti (o in alta Sabina) nel 116 a.C.: per tale motivo è detto Reatino (attributo che lo distingue da Varrone Atacino, vissuto nello stesso periodo)[1].
Nato da una famiglia di nobili origini, aveva rilevanti proprietà terriere in Sabina[2] - dove fu educato con disciplina e severità dai familiari -, integrate dall'acquisto di lussuose ville a Baia e fondi terrieri a Tusculum e Cassino.
A Roma compì studi avanzati presso i migliori maestri del tempo: tra gli altri, studi di grammatica presso Lucio Elio Stilone Preconino, che lo fece appassionare anche agli studi etimologici e retorici[3] e di linguistica e filologia con Lucio Accio, a cui dedicò la sua prima opera grammaticale De antiquitate litterarum.
Come molti giovani romani, compì un viaggio in Grecia fra l'84 a.C. e l'82 a.C., dove ascoltò filosofi accademici come Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, da cui dedusse una posizione filosofica di tipo eclettico[4].
A differenza di molti altri eruditi del tempo, Varrone non si ritirò dalla vita politica ma, anzi, vi prese parte attivamente accostandosi agli optimates, forse anche influenzato dall'estrazione sociale. Dopo aver, infatti, percorso le prime tappe del cursus honorum (triumviro capitale nel 97 a.C., questore lo stesso anno, legato in Illiria nel 78 a.C.) fu vicino a Pompeo, per il quale ricoprì incarichi di grande importanza: fu legato e proquestore in Spagna fra il 76 a.C. e il 72 a.C. e combatté nella guerra contro i pirati difendendo la zona navale tra la Sicilia e Delo.[5]
Allo scoppio della guerra civile nel 49 a.C. fu propretore in Spagna: in una guerra che vedeva i romani contro i romani, tentò un'incerta difesa del suo territorio che si concluse in una resa che Gaio Giulio Cesare, nei Commentarii de bello civili, definì poco gloriosa[6].
Dopo la disfatta dei pompeiani, si avvicinò, comunque, a Cesare, che apprezzò il Reatino soprattutto sul piano culturale, affidandogli la costituzione di due biblioteche, una di testi latini l'altra di testi greci, ma che, dopo le idi di Marzo, furono sospese[7].
Dopo la morte del dittatore, anzi, fu inserito nelle liste di proscrizione sia di Antonio che di Ottaviano (interessati più alle sue ricchezze che a punire i congiuranti), da cui si salvò grazie all'intervento di Fufio Caleno per poi avvicinarsi a Ottaviano a cui dedicò il De vita populi Romani volto alla divinizzazione della figura di Giulio Cesare.[8].
Morì quasi novantenne nel 27 a.C. dopo aver scritto una produzione di oltre 620 libri, suddivisi in circa settanta opere[9]. De re rustica (Varrone) e De lingua Latina.
Marco Terenzio Varrone
Produzione e trasmissione
La vasta produzione di Varrone fu suddivisa da San Gerolamo in un catalogo (incompleto, poiché sono elencati circa la metà degli scritti del reatino)[10]: in totale, le opere varroniane sono verosimilmente 74, suddivise in 620 volumi, sebbene Varrone stesso, a 77 anni, abbia riferito di aver scritto 490 libri[11].
Le opere varroniane, secondo l'argomento, possono essere suddivise in vari gruppi, dalle opere di erudizione, filologia e storia a quelle giuridiche e burocratiche, dalle opere di filosofia e agricoltura alle opere di poesia, di linguistica e letteratura; di retorica e diritto, con ben 15 libri De iure civili; di filosofia.
Di questa enorme produzione è pervenuta (quasi integra) solo un'opera, il De re rustica, mentre del De lingua Latina sono pervenuti solo 6 libri su 25.
Probabilmente, causa del quasi completo naufragio della immane bibliografia varroniana è che, avendo compulsato tanta parte della cultura grecoromana precedente, divenne la fonte indispensabile per gli autori successivi, perdendosi, per così dire, per assimilazione.
Il filologo ed erudito
Dell'attività filologica varroniana fa testimonianza il cosiddetto "canone varroniano", elaborato a partire da due opere, le Quaestiones Plautinae e il De comoediis Plautinis, in cui Varrone ripartì il corpus plautino, che includeva 130 fabulae: di queste, 21 vengono definite autentiche, 19 di origine incerta, dette "pseudo-varroniane" e le restanti spurie[12].
Si occupò soprattutto di antiquaria, con i 41 libri di Antiquitates, il suo capolavoro, divisi in 25 di res humanae e 16 di res divinae[13], fonte precipua di Agostino nel De civitate Dei: proprio da Agostino si evidenzia l'attenzione di Varrone sulla religione "civile", con una compiuta disamina su culti e tradizioni, pur con acute critiche alla teologia mitica dei poeti in nome di una theologia naturalis.
La produzione a sfondo filosofico
Nell'ambito filosofico, notevoli dovevano essere i Logistorici (dal greco “discorsi di storia”)[14] un'opera in 76 libri, composta in forma di dialogo in prosa, di argomento morale e antiquario, in cui ogni libro prendeva il nome di un personaggio storico e un tema di cui il personaggio costituiva un modello, come il Marius, de fortuna o il Catus, de liberis educandis[15]: probabilmente questi dialoghi storico-filosofici furono tra i modelli espositivi del Laelius de amicitia e del Cato Maior de senectute di Cicerone[16].
All'interesse filosofico e divulgativo di Varrone, probabilmente scritte lungo tutto il corso della sua parabola culturale, riconducevano le Saturae Menippeae[17], che prendevano come modello Menippo di Gadara, esponente della filosofia cinica (da cui il nome). Esse, scritte tra l'80 a.C. e il 46 a.C., si componevano di 150 libri, in prosa e in versi, di cui però ci rimangono circa 600 frammenti e novanta titoli, di argomento soprattutto filosofico, ma anche di critica dei costumi, morale, con rimpianti sui tempi antichi in contrasto con la corruzione del presente. Ciascuna satira recava un titolo, desunto da proverbi (Cave canem con allusione alla mordacità dei filosofi cinici) o dalla mitologia (Eumenides contro la tesi stoico-cinica per cui gli uomini sono folli, Trikàranos, il mostro a tre teste, con un mordace riferimento al primo triumvirato) ed era caratterizzata da lessico popolaresco, polimetria e, come in Menippo, uno stile tragicomico[18].
(da wikipedia)
VASATES
Antico popolo della Novempopulonia (Gallia), che aveva per capitale Varante o Cassis, ora Bazas.
VASCONI
Popolo dell'antica Spagna che abitava tra l'Ebro e i Pirenei. Sotttomesso prima ai Romani. poi ai Visigoti, si stabilì a nord delle montane (VII° s.d.C.) e diede all'antica Novempopulonia il nome di Vasconia, poi Guasconia.
VASI
Recipienti di varia forma e grandezza, secondo l'uso cui sono destinati, comunemente in terra cotta, ma ve ne sono di marmo, di metallo ecc. Nei giardini si usano vari grandi ornamentali, per lo più rialzati da un piedestallo e decorati con una certa ricercatezza. Di questi ne fecero grande uso i Romani. Molti sono giunti sino a noi e sono ammirabili per la loro bellezza orna mentale spesso figutiva, e l'eleganza della forma. Si usavano pure come lacrimatori nei riti funebri e preziosi nelle urne degli antichi, non già riceventi le lacrime dei congiunti dell'estinto e delle prefiche, bensì unguentori, ossia per gli unguenti e i profumi; e questi mettevano i superstiti nelle tombe, quali oggetti che in vita gli erano stati cari.
VASTI
Regina di Persia e moglie di Assuero III°. E' ricordata nel libro di Ester dove si narra che venne esiliata perchè, banchettando ella in disparte con le sue donne, secondo il costume orientale, rifiutò di comparire davanti al re, che, circondato dalla sua Corte, voleva che fosse introdotta nella sala cinta di diamanti.
VATICANO
Chiamasi con questo nome uno dei sette colli su cui sorge la città di Roma e vien detto Vaticano dagli oracoli che vi si rendevano a detto vaticiniis, cioè dal dio Vaticano che ad essi presiedeva. Codesto colle che sorgeva presso al Tevere,ed al Gianicolo, dove oggi è sistuato il palazzo dei pontefici, era in orrore agli antichi romani, a cagione dell'aria malsana che vi si respirava. Per questo Tacito chiamò questo colle - infamia Vaticani loca e Marziale chiamando velenoso il vino che vi si raccoglieva dice; Vaticana bibis, libis venenum. Fu in seguito Eliogabalo che cominciò a rendere quei luoghi abitabili togliendone tutte le tombe che vi si trovavano. Oggi sul colle Vaticano sorgono la Chiesa di San Pietro e il palazzo dei Pontefici.
VATINIO
Publio
Demagogo di Roma di fama trista; questore, tribuno del popolo (58 a.C.), dichiaratosi per Cesare, sconfisse il pompejano Ottavio nell'Illiria, fu console e trionfò (434 a.C.).
VAZIA
- Vazia P. Servilio detto Isaurico,
- Vazia P. Servilio Isaurico,
Nome di una famiglia della gente Servilia di cui meritano menzione i seguenti membri;
primieramente ricordato nell'anno 100 a.C. Combattè i pirati, e, dopo aver organizzato in provin cia romana la Cilicia, tornò a Roma dove ottenne slpendido trionfo. Aiutò Cicerone a reprimere la congiura di Catilina.
figlio del prcedente,eletto console con Giulio Cesare. Appoggiò Cicerone e la parte aristocratica contro Antonio. Era a Roma al tempo della guerra perugina (41 a-C.)
VECTIS
Nome antico di un'isola della Britannia che fu conquistata da Vespasiano sotto l'impero di Claudio. Oggi detta Wight.
VEGEZIO
Renato Flavio
Scrittore in cose militari; latino, vissuto all' epoca di Valentiniano II, cioè verso la fine del secolo IV°, stato già in fama di come il più celebre di quanti scrivessero in quella materia; poi, venendo al secolo XVI°, fatto segno alla riprovazione dei critici, ai commenti di Giusto Lipsio e di Stewechio. Scrisse un trattato in 5 Libri ai quali si danno questi tre titoli; - De re militari - Rei milita risinstituta - ed - Epitome rei militaris -. Questo trattato è, come dice l'autore stesso, un sunto di quanto è contenuto di più importante sulla disciplina militare dei Romani, nelle opere di Catone il censore, di Cornelio Celso, di Frontino, di Paterno e nelle ordinanze di Augusto, di Traiano e di Adriano. La critica e le confutazioni dei dotti sono venute a dimostrare come Vegezio abbia confuso nel suo - Trattato - gli usi dei periodi più lontani, l'uno dall'altro, senza le opportune distinzioni, per quanto potesse riferirsi ai tempi della repubblica, all'epoca di Cesare, o a quella degl'imperatori. I cinque libri del Trattato si svolgono su argomenti distinti: il primo tratta delle operazioni di reclutamento, e della fortificazione di un campo; il secondo dell'addestramento delle milizie, cioè delle varie classi in cui si dividono i soldati; il terzo, delle manovre d'un esercito e difesa del campo; il quarto, dell'oppugnazione e della difesa delle fortezze; il quinto, dei combattimenti navali. Sebbene per le anzidette ragioni, la fama di Vegezio scemasse di molto, tuttavia l'opera di lui, per alcune notizie storiche, assai pregevole, non avendosi altro trat tato dal quale poter conoscere gli usi di guerra dell'Impero d'Occidente e del Basso Impero, Poche sono le notizie biografiche intorno a Vegezio; dovette egli appartenere ad una distinta famiglia, poichè nei manoscritti suoi, si trova aggunto il titolo di Vir illustris, altre volte quello di comes. Si crede che dimorasse in Costantinopoli; dedica la sua opera a Valentiniano II° e lascia presumere che fosse cristiano, dal modo dal quale parla del giuramento militare. Il trattato - De re militaris - ebbe numerosissime edizioni e fu tradotto in quasi tutte le lingue moderne. Si citano due edizioni senza data, l'una in folio ed impressa con caratteri che furono usati da Gerardo Ketelaer e da De Lempt in Utrecht, nel 1473; l'altra creduta più antica e stmpata a Parigi coi caratteri di Caesaris e Stall; nonchè queste altre nella raccolta del - Veteres de re militaris scriptores: Roma, 1487; Bologna 1496; Leida, 1607; Wesel 1570. La più recente, e una delle migliori, è l'edizione di Schwebel (Strasburgo, 1806). L'opera di Vegezio fu tradotta in italiano da Gaetano Tizzone di Poli, nel secolo XVI; da Francesco Ferrara di Cortona (Ed. Giolita; Firenze, 1551; Bono Gianboni (Ed. Marenight; Firenze, 1815).
Suoi sono pure i Digesta artis mulomedicinalis (o Mulomedicina), un trattato in tre libri di veterinaria tratto da scritti precedenti: la cosiddetta Mulomedicina Chironis e l'Ars veterinaria di Pelagonio, del principio del IV° secolo. Vegezio scrisse anche una De curis boum epitoma (in un unico libro, a torto considerato dai più come il quarto libro della Mulomedicina) desunta quasi interamente dal VI° libro del De re rustica di Lucio Giunio Moderato Columella.
VEIO
Città antichissima degli Etruschi situata a 15 km.a Nord Ovest di Roma. a destra del Tevere,presso l’odierna Isola Farnese ove sono visibili avanzi delle antiche mura già sede di villaggi villanoviani dell’età del ferro, divenne successivamente assai importante, fino a raggiungere il massimo del suo splendore nel VI° - V° s.a.C.
La sua potenza la portò a contrastare con Roma, fino alla presa e alla distruzione da parte di Camillo dopo un lungo assedio durato dieci anni, nel 396 a.C. Da allora decadde soprattutto come centro urbano, Dopo il V° s.a.C., in seguito alle guerre con Roma, l’acropoli venne cinta di mura, L’edificio meglio conosciuto e scavato è il San Mario di Portonaccio , già in rovina nel IV° s.a.C., dopo la conquista romana. Sotto Augusto divenne Municipio, ma sparì nel IV° s.d.C. Da questo tempio provengono le famose sculture fondamentali per l’arte etrusca;
l’Apollo di Veio, l’Ercole e la cerva, un Hermes e forse una Latona con Apollo bambino, In età romana vi furono edificati diversi edifici; terme, templi e foro.
VEJORIS
Dio dei Romani, appartenente al vecchio culto italico.
VELABRI
Quartieri dell'antica Roma che andavano dalla sponda sinistra del Tevere al Foro. Erano un antico Marese in cui si andava in barca a vela durante i periodi della piena del fiume.
VELITE
Soldato romano, legionario armato alla leggera, il quale combatteva fuori degli ordini della legione. I veliti corrispondevano ai cacciatori dei tempi nostri, cioè i primi ad attaccare alla spicciolata in ordine sparso il nemico per iscoprirne le forze. Essi venivano scelti fra gli iscritti più poveri e più giovani. I veliti erano addestrati a saltare in groppa ai cavalli, a scendere ed a combattere fra essi, Alcuni scrittori italiani li chiamarano «Veloci». Al principio del XIX° secolo, un tal nome venne restituito in onore, avendo Napoleone aggiunto alla fanteria della sua guardia sìa francese che italiana, alcuni battaglioni di Veliti.
VELLAVI
o VELLAUNI
Popolo dell'antica Gallia nella Lionese, detto in seguito Velay
VELLEDA
o VELEDA
Profetessa o Sibilla della Germania appartenente alla popolazione dei Brutteri; fu una delle più celebri fra quante esercitassero una magica influenza sulle orde dei barbari sparsi sule due rive del Reno. Presso i Germani specialmente, i quali stimavano la donna dotata di una natura e di una intelligenza superiore, le profetesse, le feggenti erano in gran numero e venivano ascoltate come oracoli. Velleda visse verso la prima metà del primo secolo dell'era nostra; consultata quando scoppiò l'insurrezione di quasi tutta la Gallia, della Batavia e della Germania, ella vaticinò che i Romani sarebbero stati sconfitti, con ciò inspirando ai barbari maggior coraggio e sicurezza. E infatti pare che i vaticini si dovessero avverare poichè gli insorti riportarono alcune vittorie, ebbero la dedizione di Classico, di Entore, e con Civile, loro capo, fecero un ingresso trionfale a Vetera Castra, ottenendo poi che altri popoli , i Caninefati, e gli Ubi, già antichi e fedeli ai Romani, prendessero parte alla Lega. Velleda ebbe in dono le più ricche spoglie tolte ai vinti. Parecchi ufficiali romani di alto grado fatti prigionieri e la trireme pretoriale conquistata con gli altri navigli della flotta di Publio Cereale. Inoltre nelle memorie di quella guerra, il nome di Velleda trovasi sempre associato a quelo di Civile, il che prova che ella stessa era considerata come a capo dell'impresa. Poi le vicende mutarono, i Romani diretti dall'autorità del nuovo imperatore Vespasiano ebbero il sopravvento costringendo i Galli, i Germani e loro alleati a deporre le armi. A questo effetto contribuì ancora la stessa Velleda, facendo parlare i Numi in favore della pace, come prima aveva promesso il loro aiuto in guerra. Credesi che a ciò venisse indotta da Cereale. Più tardi probabilmente ella dovette una seconda volta ripetere i suoi vaticini di libertà e di nuovo eccitare i popoli ala riscossa, perchè Rutilio Gallico la fece prigioniera e la trascinò a Roma in trionfo. Da questo punto la storia non fa più menzione di lei. In Germania essa viveva sola chiusa in una torre dalla quale faceva sapere i suoi oracoli per mezzo di speciali ministri, non mostrandosi mai di persona. Dopo la sua morte i Germani la venerarono come una divinità e diedero il nome di lei alle migliori fra le profetesse che le succedettero.
Sulla figura di Velleda scrissero anche Vincenzo Monti, nel primo canto de Il bardo della selva nera, e Giosuè Carducci nella poesia dedicata Alla Louisa Grace Bartolini.
- (Vincenzo Monti, Il bardo della selva nera, Canto I)
- « [...] dell'indovina vergine Velleda, cui l'antica paura incensi offrìa nelle selve Brutere, ove implorata l'aspra donzella con responsi orrendi del temuto avvenire aprìa l'arcano »
- (Giosuè Carducci, Alla Louisa Grace Bartolini,)
- « [...]Ma ben, come da súbita procella esercitate, le selve atre germaniche suonár, se a l' adunate plebi i cruenti oracoli apria Velleda e de le pugne il dì »
VENERE
- Venere dea
- - Note -
- Gli antichi distinguevano due Veneri: una terrestre e sensuale, l'altra celeste e spirituale ed avendo riti e sacerdoti diversi.
- - In Catullo; " Coma Berenices ";
- ...este Veneris casto conlocat in gremio":
- Dal Foscolo il Carme " Le Grazie"
- >
Una mattina di primavera il cielo fulgeva azzurro sulla terra, lieta di fiori variopinti e di novella verzura. Il mare appena icrespato dallo zeffiro soave, le piccole onde, rifrangendosi in lieve spuma sembravano formare anch’esse bianche corolle.
Ad un tratto emerse alla superfice dai flutti, una grande conchiglia di madreperla, che venne dolcemente a posarsi sul lido arenoso.
Le sue valve si schiusero e apparve una bellissima fanciulla dorminete. Era la dèa Venere, l’Afrodite dei Greci. La brezza le accaressava le membra, il Sole le baciò soavemente le palpebre chiuse ed ella si destò! Levandosi diritta, rifulse di grazia divina; la sua pelle era morbida e chiara come un petalo di rosa, i suoi lunghi capelli ancora stillandi di goccioline iridate, formavano intorno a lei un manto d’oro ondeggiante.
Meravigliarono il cielo e la terra. La stupenda creatura fece qualche passo e sulle orme impresse dai piedini delicati, sbocciarono fiori odorosi, e le Ore la circondarono e rasciugando il suo corpo umido, l’avvolsero in veli pro fumati ravviando le sue chiome bionde, le posarono al sommo del capo una corona d’oro, le adornarono le orecchie e il collo di preziosi gioielli.
Giove la vide dall’Olimpo e pensò:« Ella sarà la dèa della Bellezza e dell’Amore.»
Le mandò un cocchio leggero tirato da candide colombe e Venere fu trasportata a volo tra gli Immortali che l’accolsero con gioia, salutandola regina.
Ella sedette su un’aureo trono e raggiò intorno la letizia del sorriso, l’armonia dei gesti, la dolcezza dello sguardo. Ben presto molti furono gli dèi che aspirarono alla sua mano; Bacco, Marte, Apollo, Mercurio, e felici di poterla sposare. Ma a Giove soltanto, spettava decidere. - Astronomia
E' una delle principali e più note divinità pagane. Dèa della bellezza, madre d'Amore, regina del riso, delle grazie e dei piaceri, protettrice delle madri e delle cortigiane; era adorata col nome severo di Natura. Platone ricorda una Venere Urania, figlia di Urano e una Popularia, figlia di Giove e di Dionea.
Cicerone ne ricorda quattro; la più nota è la Venere nata dalla schiuma del mare presso l'isola di Cipro, da cui l'epiteto Cipria e che secondo la tradizione pagana, ricevuta dalle Stagioni, figlie di Giove e di Tauride, sarebbe stata sollevata all'Olimpo, dove tutti ne ammirarono la bellezza, sì che le dèe ne ingelosirono.
Avendo resistito a Giove, questi, per punirla, la diede in moglie allo zoppo Vulcano, ma avendo Ella amoreggiato con Marte, fu esposta al ridicolo di tutto l'Olimpo.
Ebbe da Marte i figli: Anteo, Cupido, Ermione; da Mercurio, Ermafrodito; da Bacco, Priapo; da Nettuno, Erice (da cui l'epiteto di Ericina). Concesse le sue grazie anche ai mortali Adone ed Anchise il padre di Enea. Il prestigio della sua bellezza era raddoppiato dal famoso cinto o cesto, (in cui sono raccolti tutti i vezzi atti a sedurre - lat.cintum) che dava bellezza, grazia ed eleganza a chi lo portasse. Nella gara della bellezza, la vinse su ogni altra dèa (giudizio di Paride). A lei fu tributato sempre dai Pagani un culto universale, ma le feste in suo onore erano deturpate da raffinate lascivie. Le erano sacri il mirto, la rosa, il pomo, la colomba, il passero, il cigno, il licostomo. Raffiguravasi poi seduta su un capro con ai piè la testuggine, o armata come la Minerva, o in atto di sorgere dal mare, affatto ignuda. Portò i nomi di; Acrea, Afrodite, Amatusia, Cipria o Ciprigna (epiteti in quanto venerata nell'isola di Cipro) - Citerea (perchè nascendo dalla schiuma del mare in prima giunse all'isola di Citera; Doride, Dionea (figlia di Dione); Ericina (da Erice in Sicilia in prov. di Trapani per un tempio a lei dedicato), Euplea, (isola italiana poco conosciuta in cui eranvi un tempio a Venere - protettrice dei naviganti), Pafia.
Al tempo della seconda guerra punica fu identificata con la greca Afrodite, di cui assunse gli attributi ed il mito.
E’dunque antica divinità italica della bellezza e della natura primaverile.
Era annessa con la viticoltura (e forse, il suo nome deriva dalla radice stessa della parola vinum, le due feste romane che si intitolavano al vino: i - Vinalia - del 23 aprile e del 19 agosto, riservavano a Venere onoranze in comunanza a Giove.
Era anche connessa con l’orticoltura e veniva invocata nella preparazione di filtri magici e amorosi. Ebbe da parte della plebe, un particolare culto, che salì a grande fortuna negli ultimi anni della repubblica.
Assuse importanza statale dopo l’avvento al potere con Giulio Cesare, della « Gens Iulia », la quale la considerava progenitrice della stessa Roma; ciò in base al mito che faceva di Venere, (Afrodite) la madre di Enea e del figlio di questi, Iulo, capostipite della « Gens Iulia » di cui, Romolo, fondatore di Roma è discendente. Ebbe inoltre quale figlio, anche Pigmalione.
Raffiguravasi poi seduta su un capro, con a piè una testuggine, o armata come Minerva. In principio, credevano gli antichi, non v’era che il Caos, dal quale nacquero, Urano e Gea (il cielo e la terra) che si sposarono dando origine a esseri mostruosi e terribili, i Titani, Esseri grandi quanto le montagne, e i Ciclopi, Esseri non meno formidabili e spaventosi, che avevano un occhio solo in mezzo alla fronte. Questi ultimi furono acciuffati da Urano e scaraventati all' Inferno.
Gea, allora, suscitò contro il terriibile suo marito i Titani; costoro, guidati dal più giovane e più forte Crono (Saturno), assalirono il padre, lo vinsero, lo mutilarono e dal suo sangue sorse un’altra gènia di mostri: i Giganti, (Continenti).
perchè tutto ciò ch'era palpato e tocco dalla dèa acquistava l'immortalità.
- Il Petrarca, avendo cantato con purezza di sentimento la passione amorosa, consegnò i suoi versi all'immortalità.
- Il Foscolo spiega più largamente le due Veneri nel - Saggio sopra l'amore del Petrarca -
In antico credevasi che Venere prima della sua deificazione fosse donna mortale, regina dell'isola di Cipro e delle isole Ionie. La pianta sacra sua; il Mirto, simbolo della bellezza dell'Universo, ha per distintivo la bella natura apparente.
MITO E LEGGENDA
La più bella (Venere) e il più brutto (Vulcano)
La nascita di Venere, detta Citerea perchè nascendo dalla spuma del mare in prima giunse all'isola di Citèra.
La nascita di Venere
Sandro Botticelli - 1482–1485 circa
Galleria degli Uffizi, Firenze
Venere Anadiomene di Tiziano (1520 circa)
National Gallery of Scotland Edimburgo
(Venere Anadiomene (in greco antico: Ἀφροδίτη Ἀναδυομένη; Afrodite anadyomenē, cioè nascente [dal mare]) è un dipinto perduto del pittore greco Apelle. Più in generale indica anche un modo di rappresentare la dea Afrodite nascente)
Nascita di Venere
William-Adolphe Bouguereau 1879
Musée d'Orsay, Parigi
Venere e Amore spiati da un satiro
Correggio - 1527-1528 circa
Museo del Louvre, Parigi
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La Toilette di Venere
François Boucher -1751
Metropolitan Museum of Art NY
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Venere chiede a Vulcano armi per Enea, 1732
François Boucher - Museo del Louvre Parigi
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Venere e Cupido (La Venere Rokeby) )
Diego Velázquez - 1648 ca. - National Gallery, Londra
(da wikipedia)
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La nascita di venere
François Boucher - 1754
Wallace Collection - Londra
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- "Venere nella fucina di Vulcano"
Franceso Boucher - 1757
Museo del Louvre, Parigi.
(da settemuse.it)
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Venere nella fucina di Vulcano 1626
Anthony Van Dyck -
Kunsthistorisches Museum Vienna
(Ritorna a Doride)
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Venere nella fucina di Vulcano
Giorgio Vasari
1564 circa - olio su rame 38×28 cm
Galleria degli Uffizi, Firenze
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Venere offre le armi a Enea
Gerard de Lairesse
Museum Mayer van den Bergh Anversa
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Venere Vulcano e Marte_1550
Tintoretto -
Monaco di Baviera, Alte Pinakothek
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"Venere e Marte"- Pittura murale rinvenuta a Pompei
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
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"Venere e Cupido"
Jacopo Palma Il Vecchio
Norton Simon Museum
Pasadena, California 91105
(Ritorna a Doride)
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Venere Italica
A. Canova
Firenze, Palazzo Pitti
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Venere Medicea
Cleomene di Apollodoro - fine del I secolo a.C.
Galleria degli Uffizi - Firenze
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- "Sala di Venere"
Affreschi sulla volta (1641 - 42)
Di Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona
Palazzo Pitti - Galleria Palatina - Roma.
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Afrodite detta "del Fréjus" o Genitrice
Museo del Louvre Parigi
(Ritorna a Doride)
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Venere[N 1] è il secondo pianeta del Sistema solare in ordine di distanza dal Sole con un'orbita quasi circolare che lo porta a compiere una rivoluzione in 224,7 giorni terrestri. Prende il nome dalla dea romana dell'amore e della bellezza e il suo simbolo astronomico è la rappresentazione stilizzata della mano di Venere che sorregge uno specchio (Venus symbol.svg; Unicode: ♀).
È l'oggetto naturale più luminoso nel cielo notturno, dopo la Luna, con una massima magnitudine apparente di -4,6, e per questo motivo è conosciuto fin dall'antichità. Venere è visibile soltanto poco prima dell'alba o poco dopo il tramonto e per questa ragione è spesso stato chiamato da popoli antichi la "Stella del Mattino" o la "Stella della Sera", fino a quando Pitagora identificò in Venere il responsabile di entrambe le apparizioni.[2]
Classificato come un pianeta terrestre, a volte è definito il "pianeta gemello" della Terra, cui è molto simile per dimensioni e massa. Per altri aspetti, tuttavia, è piuttosto differente dal nostro pianeta. Venere infatti possiede un'atmosfera costituita principalmente da anidride carbonica, molto più densa di quella terrestre, con una pressione al livello del suolo pari a 92 atmosfere. La densità e la composizione dell'atmosfera creano un imponente effetto serra, che rende Venere il pianeta più caldo del sistema solare.
Venere è avvolto da uno spesso strato di nubi altamente riflettenti, composte principalmente da acido solforico, che impediscono la visione in luce visibile della superficie dallo spazio. Il pianeta non è dotato di satelliti o anelli e ha un campo magnetico debole, rispetto a quello terrestre.
(da wikipedia)
Nuvole nell'atmosfera di Venere, rivelate dall'osservazione ai raggi ultravioletti (missione Pioneer Venus, 1979)
(Ritorna a Doride)
VENTI
Numero cardinale. Deità degli antichi sotto il comando di Eolo. Collocavasi verso la Tracia o nelle isole Jonie. I principali erano: Aquilone, Africo, Austro, Borea, Euro, Favo, Noto, Zeffiro.
VENTIDIO
Publio Basso
Generale romano, nato nel Piceno, nel primo secolo avanti Cristo. Abbandonò la professione di mulattiere che professò in gio ventù, per arruolarsi nelle schiere di Cesare col quale combattè nelle Gallie, e rese segnalati servigi con la sua intelligenza ed
energia. Designato pretore nel 44 a.C., si unì ad Antonio per combattere gli uccisori di Cesare e partcipò alla guerra di Perugia, tenendosi sulla difensiva, combattè inoltre i Parti e Labreno, e a lui si deve la sottomissione di Antioco, re di Camagene. Ma queste sue vittorie gli eccitarono contro la gelosia di Antonio. Scoppiata la guerra civile, Ventidio fu ridotto in schiavitù da Pompeo Strabone.
Dagli scritti di Cassio Dione si apprende che il console visse nella città di Roma in un elegante palazzo che ristrutturò dopo la devastazione di un incendio. Ne arricchì il pregio sistemandovi molte statue avute in prestito da Cesare. Dione precisa che Ventidio non le rese indietro quando Cesare stesso ne chiese la restituzione adducendo di non avere schiavi sufficienti per il trasporto e lo invitò a provvedere con i suoi servitori. Cesare lasciò che Ventidio le trattenesse e rinunciò a riaverle per il timore di essere accusato di peculato.[14]
- (Aulo Gellio, Le notti attiche, XV 4[15])
- « Questo successo fu così inviso al popolo romano, memore del fatto che un tempo Ventidio Basso tirava avanti occupandosi di muli, che dappertutto per le strade della città si trovavano scritti questi versi: Accorrete, àuguri tutti e aruspici! È avvenuto proprio adesso un prodigio straordinario: quello che strigliava i muli è stato eletto console! »
VERGINIA
Verginia, o Virginia, è un leggendario personaggio femminile romano, vissuta nel V° secolo a.C., e uccisa dal padre nel 449 a.C..
Il racconto di Livio
- Il racconto di Tito Livio, inizia così:
- « A questo orribile episodio ne seguì in città un altro, nato dalla libidine. Le conseguenze non furono tuttavia meno disastrose di quelle che, a causa dello stupro e del suicidio di Lucrezia, avevano in passato portato alla cacciata dei Tarquini dal trono e da Roma. »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 44)
Virginia era una bella giovane di famiglia plebea, già fidanzata al tribuno della plebe Lucio Icilio.
Il decemviro Appio Claudio, durante il secondo decemvirato, s'invaghì di lei. Dapprima tentò con denaro e lusinghe di corrompere la giovane, che però resistette; poi, approfittando dell'assenza del padre di lei, Lucio Verginio, impegnato nella campagna contro gli Equi sul monte Algido, convinse un suo cliente, Marco Claudio, a sostenere che Virginia fosse una sua schiava.
Trovandosi la ragazza nel foro, Marco cercò di rapirla, sostenendo davanti alla folla che fosse una sua schiava, ma la gente, che conosceva il padre di lei per fama, non gli credette e mise in salvo la giovane. Allora Marco portò la causa in tribunale, presieduto dal proprio mandante Appio Claudio. I difensori della ragazza testimoniarono la paternità romana di Virginia e chiesero che ogni decisione fosse sospesa fino al ritorno del padre.
In un primo tempo Appio Claudio acconsentì, stabilendo però che la ragazza seguisse Marco Claudio fino a sentenza definitiva; poi, temendo la reazione della folla in subbuglio per l'ingiustizia della decisione, e per l'intervento del fidanzato Icilio, pronto a venire allo scontro con i Littori, e dello zio Publio Numitorio, permise alla ragazza di tornare a casa, aggiornando l'udienza al giorno successivo, quando avrebbe emesso la sentenza definitiva.[1]
Il fratello di Icilio e il figlio di Numitorio furono inviati ad avvertire il padre di Virginia di tornare a Roma entro il giorno successivo. I due furono così veloci, che Virginio ottenne dal proprio comandante il permesso di tornare a Roma a difendere la figlia, prima che lo stesso comandante fosse raggiunto dall'ordine di Appio Claudio di trattenerlo sul campo.[1]
Il giorno dopo, mentre la folla si radunava per assistere al processo e il padre vi si aggirava sollecitandone l'aiuto, la giovane arrivò nel foro, accompagnata dalle matrone.
- « Ma il pianto silenzioso delle donne che li accompagnavano commuoveva più di qualsiasi discorso. »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 47)
Il processo iniziò con le dichiarazioni del padre, ma Appio Claudio lo interruppe, confermando la sentenza del giorno precedente e accordando la schiavitù provvisoria a Marco. Appio Claudio rese tanto evidente il proprio scopo da indurre Verginio a minacciare un'azione di forza:
- « Mia figlia, Appio, l'ho promessa a Icilio e non a te, e l'ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!. »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 47)
Appio Claudio reagì, intimando ai Littori di intervenire per sedare la rivolta: la folla si disperse dal foro, lasciando sola la ragazza. Verginio, ottenuto con uno stratagemma il permesso di appartarsi nel tempio di Venere Cloacina con la figlia, la uccise:
- « «Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell'unico modo a mia disposizione! »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 47)
Romanino, La morte di Virginia, 1531-32, Castello del Buonconsiglio, Trento
Mentre il padre riusciva a lasciare il foro prima che fosse arrestato dai Littori, richiamati dal decemviro, Icilio e Numitorio sobillarono i presenti, prima di fuggire a loro volta per evitare anch'essi l'arresto:
- «Icilio e Numitorio sollevarono il corpo esanime della ragazza e lo mostrarono al popolo, lamentando la scelleratezza di Appio, la bellezza funesta di Verginia e la necessità che aveva portato il padre a un simile gesto. »
- (Tito Livio, Ab urbe condita, III, 48)
Verginio, accompagnato da altri plebei, raggiunse il campo a cui era stato assegnato e, con le mani e il coltello ancora insanguinati, raccontò gli avvenimenti che lo avevano visto protagonista, riuscendo a convincere i soldati a ritirarsi dal campo di battaglia, prologo alla definitiva cacciata dei decemviri, ottenuta con la minaccia di secessione dei plebei da Roma.
Il personaggio di Virginia verrà ripreso nelle opere di Boccaccio (De mulieribus claris), Vittorio Alfieri (Virginia), Geoffrey Chaucer (Il racconto del medico, in I racconti di Canterbury), Thomas Babington Macaulay (Lays of ancient Rome) e John Webster (Appio e Virginia). Presente anche nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina di Giacomo Leopardi. Gotthold Ephraim Lessing trarrà ispirazione da questo aneddoto nella realizzazione del suo celeberrimo dramma borghese: Emilia Galotti.
( Ritorna a Claudio)
(da wikipedia)
VERTUMNO
Vertumno chiamato anche Vertunno[1], Vortumno, Voltumna, Veltuna o Veitha (latino Vertumnus o Vortumnus), è una divinità romana di origine etrusca (Voltumna o Veltumna).
Vertumno personificava la nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti. Gli si attribuiva il dono di trasformarsi in tutte le forme che voleva. Il suo nome deriva dalla stessa radice indoeuropea del verbo latino vertere (girare, cambiare; sanscrito: vártate) con le sue varie derivazioni in italiano: divertimento, perversione, verso etc.
Viene rappresentato come amante della dea Pomona probabilmente perché Vertumno era, a qualche titolo protettore della vegetazione e, più particolarmente, degli alberi da frutto. Alcuni autori classici riferiscono una versione del mito per cui Vertumno si travestì da donna per poter avvicinare la dea Pomona. Esistono diversi dipinti ottocenteschi che raffigurano Vertumno abbigliato con abiti femminili.
Il Veltumna etrusco fu protettore della città di Volsinii e titolare del vicino santuario federale della Lega delle dodici città etrusche (dodecapoli) (Fanum Voltumnae). Si trattava forse di un epiteto o di un aspetto del dio Tinia (a sua volta corrispondente a Giove).
A Roma ebbe una statua bronzea presso il vicus Tuscus, all'ingresso del Foro Romano, opera di Mamurio Veturio. Dopo la distruzione di Volsinii nel 264 a.C. il dio protettore della città fu "trasferito" (rito dell'evocatio) nel nuovo tempio che gli era stato innalzato sull'Aventino.
Voltumna era il dio supremo della terra e patrono della città.
VERULANIUM
Verulamium fu la terza città più ampia della Britannia romana. È situata nella zona a sud-ovest dell'odierna St Albans, nell'Hertfordshire, ed è stata scavata solo in parte dagli archeologi, come per esempio Mortimer Wheeler, e Kathleen Kenyon. Prima dell'arrivo dei Romani, la città era conosciuta come Verlamion ed era la capitale della tribù dei Catuvellauni. Era stata fondata dal capo catuvellauno Tasciovano fra il 25 e il 20 a.C. Dopo l'arrivo degli invasori, la città divenne un municipium (attorno al 50), status che dava ai suoi abitanti tutti i diritti di un cittadino romano. La città fu saccheggiata nel 61 durante la rivolta degli Iceni guidati dalla regina Boudica. Ciononostante la città crebbe d'importanza e in ampiezza, arrivando a coprire un'area di circa 0.5 km². Protetta da un vallo e da mura, la città aveva un foro, una basilica e un teatro. L'odierno nome della città viene proprio da un suo cittadino romano, Albano, ucciso nel III secolo, che fu il primo martire cristiano della Britannia.
Francesco Bacone ottenne il titolo di barone di Verulamio e visconte di Sant'Albano.
L'asteroide 4206 Verulamium prende il suo nome da questa città.
(da wikipedia)
VESONTUO
Anticamente capitale dei Sequani nella Gallia, oggi Besancon
VESPASIANO
TITO FLAVIO SABINO
Decimo imperatore romano. Nato in una borgata presso Rieti, nel paese dei Sabini, il 17 novembre dell'anno 760 di Roma, cinque anni prima della morte di Augusto. Fino a quel tempo la « gens Flavia » non s'era ancora distinta nella storia di Roma, quantunque sul finire della repubblica e sul principio dell'impero, sia fatto cenno di alcuni dei membri suoi. Figlio di T. Flavio Sabino, pubblicano in Asia, il quale s'era acquistato per tale ufficio fama grande di probità, ed a Vespalia Polla, donna ambiziosissima, che spinse il figlio nell'arringo dei pubblici impieghi, sebbene egli si sentisse inclinato ad una vita seplice e tranquilla. Passò i primi anni in una villa presso Cosa in Etruria, educato da un avola paterna chiamata Tertulla alla quale serbò sempre grata me moria. Entrato nella carriera delle armi. guerreggiò in Tracia, in qualità di tribuno militare, e nel 809 ottenne l'edilità. Fu nominato questore in Creta e a Cirene, quindi divenne pretore, nel terzo anno del regno di Caligola, e, secondo l'opinione di alcuni storici, per opera di quell' Imperatore. In quell'epoca sposò Claudia Domitilla, dalla quale ebbe due figli, Tito e Domiziano, entrambi saliti al trono imperiale, ed una figlia, che portò il nome della madre. Durante il regno di Claudio ebbe il comando di una legio ne e si distinse per valore militare in Germania ove ebbe il grado di legato, e, nella Granbretagna, godendo per le sue gesta gli onori del trionfo. Ricevette in breve pazio di tempo due uffici sacerdotali, e fu quindi promosso al consolato, ch'egli esercitò durante i due ultime mesi dell'anno 51 dell'era volgare. Nei primi anni di Nerone visse ritirato; divenne tuttavia proconsole per l'Africa, nella qual carica, secondo Tito Livio, egli si sarebbe fatto detestare dal popolo, mentre invece Svetonio fa l'elogio delle sue gesta. Nell'anno 67 accompagnò Nerone in Grecia, e poco dopo da lui ottenne il comando supremo dell'esercito, destinato a reprimere la rivolta degli Ebrei, nella qual guerra accrebbe la sua fama di valente generale, conquistando in meno di due anni la Giudea. Restavagli ancora d'impadronirsi di Gerusalemme, allorchè l'improvvisa morte di Nerone lo costrinse a rallentare i suoi progressi. Avvenuta in quel medesimo tempo la morte di Galba, e per la lotta insorta tra Ottone e Vitellio, le legioni d'Oriente ebbero l'ispirazione di nominarlo imperatore. Vespasiano si mostrò alla prima, renitente ad accettare la corona; poi, consigliato dal proprio figliolo Tito, e da Muciano proconsole della Siria, ad accettare il potere imperiale, che già gli era stato predetto da ripetuti àuguri, cedette, e fu proclamato imperatore in Alessandria l'anno 820 di Roma, 67 dell'era volgare, ed in Roma fu piena mente stabilita l'autorità sua. Poco appresso il Senato gli conferì tutti i titoli del potere supremo con un decreto divenuto famoso col nome du legge reale. Per un anno intero dopo la sua esaltazione Vespasiano rimase in Alessandria e dall' Oriente ordinò la ricotruzione del Campidoglio, ch'erasi incendiato in quel frattempo, ed il ristabilimento delle tavole di bronzo su cuii erano incise le leggi. Si dispose finalmente a tornare a Roma, lasciando al figlio Tito la cura di conquistgare Gerusalemme; ma la cattiva con dotta di Domiziano turbava intanto la sua felicità. Giunse in Italia sul finire dell'estate dell'anno 79, facendosi precedere da una flotta carica di frumento d'Egitto. Fu salutato da tutte le città con trasporti di gioia e seppe subito cattivarsi gli animi delle popola zioni con semplicità del suo tratto e con la facilià nell' ammettere i sudditi alla sua presenza. Al suo governo furono tributate le più alte lodi; e la sua fermezza, la sua attività, la sua economia riuscirono rimedio ai mali dello Stato. Operò molte riforme, e quella ch'egli operò nelle finanze, gli procurò l'imputazione di avarizia, perchè, come narra Svetonio, tutti i mezzi erano buoni puchè forniissero denaro. Si vuole ch'egli facesse vergognose speculazioni o rendesse venali le magistrature. Comunque è certo che sotto il suo governo l'impero prosperò, e la considferazione che accordò al Senato dimostrò quanto egli fosse alieno dal dispotismo. Abolì le accuse di lesa maestà; restaurò i privilegi del Senato; nella sua qualità di censore riformò i tribunali di gistizia; restituì la disciplina all'esercito e riparò le devastazioni che aveva sofferto Roma nelle recenti guerre civili. Abellì la città di molti nuovi edifici, tra i quali sono degni di menzione: i templi della Pace e di Claudio, e soprattutto il grande anfiteatro, divenuto celebre sotto il nome di Còliseo (Colosseo), che si conservò sfidando i secoli e la cui mole resta ancor oggi quale simulacro dell'antica romana grandezza. Si mostrò avido di danaro, ma, temperato nei suoi costumi e modestissimo nelle sue spese personali; ciò che riscoteva dai sudditi, lo destinava ad opere di pubblica utilità. Accordava soccorsi a famiglie ed aiuti a città desolate dai disastri; promuoveva l'istruzione della gioventù, istituendo precettori pagati dallo Stato e fu pure illustre protettore delle scienze e delle arti. Egli regnò sul trono dei Cesari con tutta la semplicità d'un soldato e dallo spuntare del giorno fino a notte avanzata, non si occupava che dei pubblici affari. Fu di carattere mite e generoso, alieno dall'infliggere supplizi. Cogli amici e coi Senatori dimostrò una famigliarità proverbiale; e la deferenza ch'egli mostrò al vecchio Muciano, aver sempre tollerata l'ingerenza eccessiva di lui al governo, e averlo creato tre volte console, sono fatti della sua vita certamente onorevoli. Tutti gli autori sono d'accordo nel fare l'elogio del suo ingegno e delle sue virtù. Sotto il suo regno accaddero tre guerre; quella di Giudea, terminata da Tito (suo figlio), con la distruzione di Gerusalemme nell'anno 71; quella dei Batavi e dei Galli, suscitata da Civile e terminata da Petilio Cereale, con la sommissione di quei popoli nell'anno 70; e la spedizione di Agricola, nella Bretagna, intrapresa nell'ultimo anno del suo regno, e compiuta nel 85 da Domiziano (suo figlio). In quel medesimo anno fu ordita contro l'Imperato re una congiura per opera di Aulo Cecina e di Epiro Marcello, i quali furono scoperti e processati. Di lì a poco tempo Vespasiano fu colto da malattia mortale che lo condusse al sepolcro il 23 giugno dell'anno 79 dell'era volgare, settantesimo d'età sua e decimo di regno. Quantunque gravemente ammalato e presso a morire egli continuava ad attendere alle cure che esigevano gli affari dell'impero e nel supremo istante pronunciò queste memorande parole:"Un Imperatore deve norire in piedi!"; parole che attestano la grande forza ed attività del suo carattere. Dei dodici cesari egli fu l'unico che morisse di morte naturale, perchè anche quella di Augusto fu sospetta di veleno. Di Vespasiano restano alcuni busti e medaglie.
- "Diem perdidi!"- Ho perduto la giornata.-
- Parole che Svetonio attribuisce a Tito, imperatore romano, che fu detto - delizia del genere umano; il quale, avendo trascorsa una giornata senza trovar l'occasione di largire qualche beneficio, avrebbe profferito la storica frase.
VESSILLARIO
Soldato romano di legione, ma istruito per combattere sotto un vessillo o bandiera propria ed in compagnie separate. Queste compagnie combattevano nelle prime ordinanze e facevano ogni più rapida azione di guerra in quei luoghi ove la legione non poteva arrivare.
VESSILLAZIONE
La vessillazione (dal latino vexillatio, al plurale vexillationes) era un distaccamento della legione romana, utilizzato come una unità temporanea dell'esercito romano durante il Principato . A partire dal Dominato , invece, col termine di "vessillazione" si indicò una unità di cavalleria. Il termine "vexillatio" deriva dal vexillum, l'insegna recante il nome della legione madre portata dai distaccamenti. Era comandata da un praepositus o praefectus, che poteva essere un centurione, un primipilo o un ufficiale superiore.
VESSILLO
L'insegna particolare della centuria nella legione romana negli ultimi tempi dell'impero. Era un'astra ornata in cima di un drappo vario con entrovi scritto il nome della centuria e della coorte cui essa centuria faeva parte.. S'intende anche per Vesillo ll numero dei soldati vessillari raccolti sotto la stessa insegna.Oggi s'intende per Vessillo la Bandiera.
VESTA
Figlia di Saturno, dèa romana, corrispondente alla dèa greca Hestia (Estia), personificante il focolare e il mondo intero, per una simbologia cosmica, che investiva il focolare e gli attribuiva una particolare valenza religiosa. Per la medesima simbologia, l’altare di Vesta su cui ardeva un fuoco perenne, costituiva il fondamento stesso dello stato romano, sì come il focolare domestico era il fondamnto della casa. Nel tempio si conservavano i sacri "pignora imperii", oggetti il cui possesso garantiva sacralmente la potenza romana e le immagini dei Penati pubblici. Il tutto era contenuto nel "Penus Vestae", un luogo interno del tempio, tutto circondato da una zona di terra fertile.
Dal 9 giugno, giorno dei "Vestalia" la festa dedicata a Venere fino al 15 giungo il "penus" rimaneva aperto, e veniva ritualmente spazzato e le immondizie gettate nel Tevere.
Tutto ciò aveva carattere di un rito purificante.
Il culto di Vesta si protrasse sino alla fine della religione pagana (304).
Molti autori danno il nome di Vesta a Cibele figliola al Sole ed moglie a Saturno, perchè essa era pure la dea del fuoco. Secondo altri le divinità onorate dagli antichi sotto il nome di Vesta furono le due chiamate Vesta Prisca e Vesta Virgo. Circa l'etimologia del vocabolo, abbiamo la voce greca che significa focolare e la derivazione stabilita da Ovidio sulla frase: "sua vistat"(si regge con la sua forza).
Vesta Prisca o Antica era moglie a Urano e madre a Saturno; fu sovente dai poeti presa per la stessa Terra e la si rappresentava con un tamburo in mano per indicare che la terra tiene i venti chiusi nelle suo grembo. Fu considerata come l'origine da cui uscirono i mondi e i tempi.
Diodoro Siculo le attribuì l'invenzione dell'agricoltura.
Vesta Virgo era figlia a Saturno e Cibele o Rea e fu pure dea del fuoco, o il fuoco stesso. Dice la favola ch'ella ottenesse da Giove di mantenere sempre la propria verginità e che perciò ai riti del culto che le fu consacrto presiedessero
soltanto sacerdotesse vergini.
I più antichi mitologi narrano che Vesta insegnò agli uomini l'arte di edificare le case, per il che ne fu considerata come la dea protettrice, specialmente per la parte più familiare, che per quella del focolare domestico. Considerasi come una delle deità più antiche del Paganesimo, e si vuole che una statua di questa dea fosse fra i penati che Enea portò con se in Italia.
Greci e Romani professarono il culto di Vesta con onori solenni e continui.
Nella Grecia le si faceva una invocazione al principio ed alla fine di ogni sacrificio.
Fu a questa dea, per opera di Numa Pompilio, innalzato un tempio a guisa di globo, ad indicare la Terra, secondo alcuni, o l'Universo, secondo Plutarco, nel cui centro arde il fuoco. In questo Tempio, i Romani mantennero religiosamente il fuoco sempre acceso mediante l'uffizio delle Vestali, ritenendo ciò come impegno del loro impero sul mondo. e considerando il suo estinguersi come pronostico di grande calamità. Nondimeno qualche volta il fuoco fu lasciato spegnere; in tal caso ritenuto cone sacrilegio il tentare di riccenderlo con altro fuoco, si ricorreva al mezzo di esporre del combustibile al Sole o allo strofina mento di due pezzi di legno, l'uno contro l'altro. Anche non esringuendosi il fuoco veniva tuttavia rinnovato ogni anno nel mese di marzo.
Le statue e le medaglie antiche rappresentano Vesta in parecchi modi, ma per lo più in abito matrimoniale, con una face e una lampada nella mano destra e talvolta con un palladio od una statuetta della Vittoria. Pure nelle statue e nelle medaglie, al suo nome si aggiunsero gli appellativi di Santa, Eterna, Felice, Antica, Madre, ecc. In Roma al Tempio di Vesta avevano tutti accesso di giorno; gli uomini non potevano entrare di notte. Nei giorni cinque, sei e quindici giugno, sacri alla dèa, non era lecito contrarre matrimonio; alle processioni fatte in nome di lei, le donne intervenivano a piedi scalzi. Il fuoco sacro di Vesta fu tenuto acceso non solo nei templi ma anche sul limitare delle case private; a questo fatto viene attribuito verosimilmente il termine vestibolo.>br/>
Il fuoco sacro, custodito nel tempio di Vesta a Roma, venne spento nel 391 d.C. per ordine dell'imperatore Teodosio.
Il culto del fuoco fu in uso anche presso i Persiani e, secondo il Creutzer, il loro dio Mitra è la stessa cosa che Vesta dei Greci e Romani.
VESTALE
- VESTALI
Le vestali erano sacerdotesse consacrate alla dea Vesta. A Romolo, primo re di Roma, o al suo successore, Numa Pompilio, è attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate vestali.[1][2]
La leggenda delle origini
L'antichità del culto e dell'ordine sacerdotale è attestata dalla leggenda della fondazione di Roma, secondo la quale la madre di Romolo e Remo, Rea Silvia, era una vestale di Albalonga.[3][4] E secondo Tito Livio[5] le Vestali, esplicitamente derivate dall'analogo culto di Albalonga, furono tra i primi ordini sacerdotali creati da Numa Pompilio: subito dopo i Flàmini, e prima dei Salii e dei Pontefici.
Il loro compito era di mantenere sempre acceso il sacro fuoco alla dea Vesta, che rappresentava la vita della città, e compierne il culto a nome, appunto, della città. Erano inoltre incaricate di preparare gli ingredienti per qualsiasi sacrificio pubblico o privato, come la mola salsa, una focaccia di farina di farro tostata mista a sale, con cui si cospargeva la vittima (da qui il termine immolare).
Svetonio racconta che Augusto:
« Aumentò il numero, il prestigio, ma anche i privilegi dei sacerdoti, in particolare delle Vestali. Quando era necessario scegliere una vestale in sostituzione di una morta, vedendo che molti non volevano dare le loro figlie in sorte, giurò che se le sue nipoti avessero avuto l'età adatta, egli stesso le avrebbe offerte. »
(Svetonio, Augustus, 31.)
In principio le vestali erano quattro (o tre) fanciulle vergini[6], in seguito il loro numero fu portato a sei fanciulle che erano sorteggiate all'interno di un gruppo di 20 bambine di età compresa fra i 6 e i 10 anni appartenenti a famiglie patrizie. La consacrazione al culto, officiata dal Pontefice massimo avveniva tramite la captio o cattura (un rito paranuziale che ricalca il matrimonio per rapimento). Dopo che il Pontefice aveva pronunciato la frase di rito "Ego te amata capio" (io ti prendo, amata) le fanciulle erano consacrate a Vesta. Al Pontefice massimo erano sottoposte come ad un marito e a lui dovevano rispondere in caso di eventuali mancanze. Dovevano portare sempre un'elaborata acconciatura a trecce, i "seni crines", attorcigliati e sormontati da un'infula (benda sacra) che girava in più spire sul capo, e terminava in due bende finali, che ricadevano sulle spalle. Il tutto era coperto da un velo fissato da un spilla. Il servizio aveva una durata di 30 anni: nei primi dieci erano considerate novizie, nel secondo decennio erano addette al culto mentre gli ultimi dieci anni erano dedicati all'istruzione delle novizie. In seguito erano libere di abbandonare il servizio e sposarsi. La vestale più anziana aveva il titolo di "Virgo Vestalis maxima".[7]
Resti della Casa delle Vestali nel Foro Romano
La loro vita si svolgeva nell'Atrium Vestae, accanto al tempio di Vesta, dove dovevano mantenere acceso il fuoco sacro e preparare la "mola salsa", una focaccia che veniva offerta agli dei nelle cerimonie solenni. Potevano però uscire liberamente e godevano di privilegi superiori a quelli delle donne romane, nonché di diritti e onori civili: mantenute a spese dello Stato, affrancate dalla patria potestà al momento di entrare nel Collegio, erano le uniche donne romane che potevano fare testamento (e custodi a loro volta, grazie all'inviolabilità del tempio e della loro persona, di testamenti e trattati[8]), potevano testimoniare senza giuramento e i magistrati cedevano loro il passo e facevano abbassare i fasci consolari al loro passaggio. Questo per quanto attiene al loro status sociale.
Atteneva invece piuttosto al loro ruolo sacerdotale il diritto di chiedere la grazia per il condannato a morte che avessero incontrato casualmente (perché il nefas rappresentato da questo incontro fosse immediatamente compensato) e quello di essere sepolte entro il pomerio, a significare che la loro esistenza era così sacra che neppure le loro ceneri erano nefas (Nel diritto romano, atto sacrilego e osceno)..
Le uniche colpe che potevano sovvertire questo statuto di assoluta inviolabilità erano lo spegnimento del fuoco sacro e le relazioni sessuali, che venivano considerate sacrilegio imperdonabile (incestus), in quanto la loro verginità doveva durare per tutto il tempo del servizio nell'ordine.
In questi casi la vestale non poteva essere perdonata, ma neppure uccisa da mani umane, in quanto sacra alla dea. Se perdeva la verginità o lasciava spegnere il fuoco sacro, la Vestale veniva dunque frustata e poi vestita di abiti funebri e portata in una lettiga chiusa, come un cadavere, al Campus sceleratus, che era situato presso la Porta Collina ma ancora dentro le mura (sul Quirinale)[9]. Là veniva lasciata in una sepoltura con una lampada e una piccola provvista di pane, acqua, latte e olio, il sepolcro veniva chiuso e la sua memoria cancellata[10]. Il complice dell'incestus subiva invece la pena degli schiavi: fustigazione a morte, la stessa cui era soggetta la Vestale in Albalonga.[11]
In realtà, almeno fino alla fine della repubblica, la condanna a morte di una Vestale pare assai simile ad un sacrificio umano mascherato, destinato a placare gli dèi che sembrano corrucciati e inviano catastrofi pubbliche (come l'assedio di Brenno o la disfatta di Canne), o segni funesti in periodi di irrequietezza sociale – come la condanna della vestale Oppia, attesta nel 483 a.C., non negando l'accusa di incesto, ma sottolineando molto le lotte interne ed esterne e i prodigi mostruosi che si erano verificati in quel periodo[12][13].
Dionigi di Alicarnasso narra della vestale Orbilia che nel 472 a.C., quando a Roma si cercavano i motivi che avevano portato la pestilenza in città, fu trovata colpevole di aver mancato al proprio voto di castità, e per questo delitto, mandata a morte. A seguito della condanna, uno dei suoi due amanti si suicidò, mentre l'altro fu giustiziato nel foro[14].
Livio narra[15] di una vestale, Minucia, condannata ad esser sepolta viva per un abbigliamento non adeguato alla posizione occupata (337 a.C.), ma anche dello scagionamento miracoloso (attribuito a Vesta stessa) di una vestale, Tuccia, nel 230 a.C., accusata di non aver conservato la sua verginità.[16]
Ovidio nei Fasti narra che la vestale Claudia, accusata di infedeltà, dimostrò la sua innocenza disincagliando alla foce del Tevere la nave che portava dalla Frigia la statua di Cibele; in questa era la pietra nera (lapis niger), propiziatrice della sorte di Roma nella seconda guerra punica contro Annibale. La vestale chiese a Cibele di aiutarla e riuscì a trainare la nave fuori dalla secca, solo tirandola con la sua cintura.
Nel tardo impero, sappiamo da una lettera che Quinto Aurelio Simmaco chiese al praefectus urbi e successivamente al vicario di Roma di condannare la Vestale di Alba, Primigenia, per aver violato il voto di castità, assieme al suo amante Maximus.
- Aquilia Severa, la vestale imperatrice.
- Cossinia, la vestale fedele
- Claudia, la vestale convertita
- Celia Concordia, l'ultima vestale
L'imperatore Eliogabalo, che si identificava con il dio sole, sposò in seconde nozze la vestale Aquilia Severa nel 220, in un matrimonio che simulava quello delle due divinità.[17] Tale matrimonio fu di scandalo per la popolazione romana, poiché si trattava della rottura di una antichissima e onorata tradizione romana, tanto che, per legge, una vestale che avesse perso la propria verginità veniva seppellita viva.[18] Non diede eredi all'imperatore, il quale divorziò da Aquilia nel 221 per sposare Annia Faustina.[19] Quando questo matrimonio naufragò, Eliogabalo riprese con sé Aquilia, affermando che il loro divorzio non era valido.[17] Non si hanno notizie di Aquilia dopo l'uccisione di Eliogabalo nel 222.
Nel 1929 fu scoperta,tra il fiume Aniene e la via Valeria,in un luogo destinato a pubblico cimitero, l'unica tomba (così supposta) di Vestale che si conosca.
Il ritrovamento è documentato da un filmato dell'Istituto Luce.
Si tratta della Vestale Cossinia, morta a circa 75 anni. Databile tra la fine del II e l’inizio del III secolo, il monumento si compone di due basamenti, uno con cinque gradini - su cui poggia il cippo funerario - e l’altro di tre gradini, sotto il quale giaceva il corpo inumato di una giovane donna. Sulla parte anteriore del cippo, in un’elegante corona di quercia con nastro, si legge
"V. V. COSSINIAE L. F.": "alla Vergine Vestale Cossinia figlia di Lucio". Sotto è inciso:
"Lucio Cossinio Eletto", forse un suo parente.
Sul lato posteriore del cippo un'iscrizione metrica informa:
"Qui giace e riposa la Vergine, trasportata per mano del popolo, poiché per sessantasei anni fu fedele al culto di Vesta. Luogo concesso per decreto del Senato".
Nella tomba della ragazza, morta prima del matrimonio fu rinvenuta una preziosa bambolina d’avorio, adorna di monili e con una elegante acconciatura, ora conservata nel Museo Nazionale Romano, ed un cofanetto porta-gioie, che la pietà dei parenti depose nel sarcofago. Sotto il cippo della Vestale Cossinia, il cui corpo dovette essere cremato, perché deceduta non dopo l'età claudia, non fu trovata l'urna con i resti mortali.
Cossinia non porta il suo nome personale (cognomen) perché alla sua epoca era inusuale e questo elemento spinge a datare il cippo di Cossinia non oltre la metà del I secolo d.C. Circa un secolo e mezzo dopo, a fianco del cippo di Cossinia (che si elevava su cinque gradini) fu sepolta la giovane morta prima del matrimonio (che conservava ancora denti bianchissimi), il cui sarcofago fu coperto con un basamento di tre gradini, il primo dei quali poggiante sul terzo (partendo dal basso) dei cinque di Cossinia.
La confusione delle tombe ha fatto attribuire a Cossinia una bamboletta che non le apparteneva. In questo errore sono caduti moltissimi studiosi, finché un lavoro della Bordenache Battaglia, "Corredi funebri di età imperiale e barbarica nel Museo Nazionale Romano" (ed. Quasar, 1983, pp. 124–138) ha chiarito l'equivoco. Il libro di Franco Sciarretta "Il complesso monumentale detto già di Cossinia a Tivoli" nei Quaderni di archeologia e di Cultura classica n.6, 2017, fa luce sull'intera vicenda. Il volume comprende, oltre ad un'antologia di testimonianze sulle Vestali, un allegato costituito da una importante relazione geologica sul sito dei due monumenti, a cura dei proff. M.Riccio e F. De Angelis.
Prudenzio nella sua raccolta di inni, il cd. Liber Peristephanon parla di una Vestale, Claudia, che si era convertita al cristianesimo nel tardo IV sec.
Nell'inno dedicato alla passione di S. Lorenzo Claudia viene descritta entrare nel santuario del martire:
"aedemque, Laurenti, tuam Vestalis intrat Claudia".
Si è voluta identificare questa Claudia con una Vestale di cui parla Quinto Aurelio Simmaco, in qualità di pontifex maior in una lettera, dove auspica la smentita da parte di una Vestale delle voci secondo cui lei voleva lasciare, prima dei limiti previsti, la clausura. Il motivo poteva essere proprio il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, ma l'epistola di Simmaco non lo spiega.
Sarebbe l'unico caso certo di abbandono del sacerdozio pagano per conversione ad altra religione ma, se è molto dubbio che questa Claudia possa essere la Vestale Massima a cui fu dedicata una statua nel 364 - e la cui dedica è stata erasa - è invece probabile sia la stessa Claudia che è sepolta nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura.
L'affermazione del Cristianesimo nell'Impero non causò, per i primi secoli, la fine dell'ordine. Al contrario le Vestali, ministre di un culto millenario caro alle donne e alla città, continuarono ad essere amate ed onorate dal popolo romano fino al IV secolo. L'ultima gran sacerdotessa fu Celia Concordia (384).
Divenuto il credo niceno religione di Stato nel 380 con l'editto di Tessalonica, a partire dal 391 Teodosio I, con una serie di decreti, proibì il mantenimento di qualunque culto pagano e il sacro fuoco nel tempio di Vesta venne spento, decretando la fine dell'ordine delle Vestali. Ferdinand Gregorovius descrive così la scena finale, all'ingresso di Teodosio in Roma:
« I cristiani di Roma trionfavano. La loro tracotanza arrivò al punto, lamenta Zosimo, che Serena, sposa di Stilicone, entrata nel tempio di Rea, prese dal collo della dea la preziosa collana e se la cinse. Assistendo a questa profanazione, l'ultima vestale versò lacrime disperate e lanciò su Serena e su tutta la sua discendenza una maledizione che non andò perduta. »
(da wikipedia)
VESTALIA
Festa popolare che si celebrava a Roma l'8 e il 9 giugno. Si facevano passeggiare per le vie degli asini coronati di fiori.
VETULONIUM
Una delle dodici città confederate dell' Etruria, oggi Magliano in Toscana.
VETURIA
GENTE
Nella tradizione si trovano tracce d'essa risalendo alla persona di Manurio Veturio, il quale sarebbe vissuto ai tempi di Numa Pompilio e avrebbe fatto gli scudi ancili. Parecchi Veturi si trovano citati dagli storici nei primi tempi della repubblica.
VI - VU
VICAPOTA
Vica Pota era una dea romana che simboleggiava la vittoria e la conquista (dal latino Vincere - Potiri).
La sua festa veniva celebrata il 5 gennaio.
Il tempio di questa divinità sorgeva sulla Velia uno dei colli su cui sorgeva Roma, sul luogo dove sorgeva la domus che Publio Valerio Publicola fece distruggere quando tra il popolo si diffuse la voce che volesse farsi re.[1]
Secondo Cicerone l'etimologia deriverebbe dal latino vincendi atque potiundi.[2]
Per alcuni sarebbe da identificare con la dea sabina Vacuna
Il letterato romano Quinto Asconio Pediano la identificava con la dea Vittoria, ma probabilmente deriva da una dea italica, precedente alla greca Nike e alla romana Vittoria.[3] Però diversamente dalla dea romana, la Vica Pota non era una personificazione della Vittoria.[4]
Per un'altra interpretazione, che però non trova generale accettazione, Vica Pota si identificherebbe con la divinità etrusca Lasa Vecu.[5]
VINDONIS
Città della Britannia Romana, oggi Windsor
VIRGILIO
Marone Publio
Poeta latino nato ad Andes, oggi Pietole presso Mantova,70 a.C. m. Brindisi 14 a.C.). Di umili origini, presa la toga virile nel 55, si recò a Milano per studiare retorica e quindi a Roma, dove sentì vivo il richiamo della poesia e della filosofia. Si legò d’amicizia con Asinio Pollione e con Cornelio Gallo e conobbe Partenuo di Nicea, il vero mediatore della cultura ellenistica, e dei "poetae novi. A Napoli, alla scuola di Sirone si applicò allo studio della filosofia di Epicuro. A venticinque anni tornò alla sua terra natale dove vide l’espropriazione dell’agro mantovano e la suddivisione delle terre ai veterani di Filippi e tra i poderi espropriati vi fu anche quello del poeta stesso. Dalla biografia virgiliana di Donato si desume che Virgilio fu dapprima indenne, grazie agli interventi di Pollione, Alfeno Vero e Cornelio Gallo, infine di Mecenate che, secondo Servio Asinio Pollione, riuscì a far restituire a Virgilio il podere perduto. Comunque questa vicenda personale, contrapposizione della serenità della vita agreste, al disordinato tunulto della vita politica, e civile, l’identificazione dell’ideale epicureo di vita nella pace dei campi e l’esperienza letteraria degli idillii teocritei sono alla radice delle "Bucoliche" o "Egloghe", dieci componimenti in esametri scritti tra il 41 e il 39. Gli argomenti sono vari; oltre ai motivi autobiografici, in chiave pastorale (I e IX), si hanno: la serenata di un ricco pastore Cirudibe, al giovane Alessi (II), il contrasto di due giovani cantori (III); la gara di pastori in una rarefatta e stilizzata atmosfera arcaica VII); la morte e la trasfigurazione di Dafni, sotto cui sarebbe adombrata l’apoteosi di Cesare (V); il canto cosmologico di Sileno, di colorito lucreziano (VI); l’esaltazione di una nuova pace e l’avvento di un nuovo - saeculum con la nascita di un misterioso - puer - (forse il figlio di Asinio Pollione), in cui l’interpretazione medievale scorse il presentimento del Cristo (IV); l’imprecazione di Damone contro l’infedeltà della sua donna (VIII); la desolazione di Cornelio Gallo per il tradimento della sua donna (X): la genuinità dell’ispirazione bucolica e la purezza dell’espressione che evoca nella patina melodiosa e malinconica, un acuto senso dei dissidi dell’esistenza, sono i componenti di questa prima virgiliana.
Come risarcimento dell’espropriazione subita, Mecenate assicurò a Virgilio un podere in Campania. Nel 37 con Vario Rufo, Orazio ed altri, Virgilio lo accompagnò a Brindisi dove egli si recava per ristabilire la pace assai minacciata. E a Mecenate Virgilio dedica i quattro libri in esametri: "Le Georgiche", in cui è ricordato un perentorio invito dello stesso Mecenate alla composizione: i biografi antichi hanno perciò parlato ma senza fondamento di una vera e propria imposizione del tema da parte del potente amico, che avrebbe visto nell’opera un efficace strumento per l’attuazione del piano di riforma agraria impostasta da Ottaviano. Le Gerorgiche, la cui lenta composizione durò dal 37 al 31, hanno vari modelli letterari, tra cui: "Le opere e i Giorni" di Esiodo, ma trovano il loro vero antecedente, sia per la forma di poema didascalico, che per l’afflato cosmico che le pervade, nel "De rerumn natura" di Lucrezio, mentre motivi storici e pitagorici ed elementi della religiosità tradizionale romana e italica s’intrecciano nell’orditura del poema.
I quattro libri trattano delle culture dei cereali, degli alberi e delle viti, del l’allevamento del bestiame, e del l’apicultura. Nel primo libro all’argomento vero e proprio s’innesta il mito esiodeo delle età, col rimpianto dell’età del l’oro e l’esaltazione del lavoro come riscatto. Il secondo ha i suoi momenti lirici nelle commosse lodi della primavera e in quelle dell’ Italia. Nel terzo la visione serenatrice dei pascoli montani è turbata dalla follia del quadro amoroso che rapisce uomini e animali. Allucinante è la descrizione della peste che un tempo, nel Norico, colpì ogni spece di animali. Nel quarto libro, l’allevamento delle api è inteso come lieve incombenza rispetto al duro lavoro dei campi, e si accenna con sottili notazioni alla vita operosa degli insetti, che elaborano il miele. All’elogio di Cornelio Gallo con cui, secondo Servio, si chiudeva il poema, fu sostituita la favola di Aristeo, nella quale Virgilio inserì il mito di Orfeo e Euridice. Nel 29 ad Atella, Mecenate e Virgilio fecero conoscere l’opera ad Augusto, il quale esortò Virgilio a cantare in un poema epico la storia della sua " gens " e delle sue imprese. Fu la sollecitazione alla nascita del
l’Eneide, (perenigrazioni di Enea) un’epopea in 12 libri. Secondo il Donato, il poeta stracciò una stesura in prosa che in un secondo tempo trascrisse in versi, disordinatamente e in vari episodi. Nel 22 lesse al principe e ai suoi familiari i libri I- II- e VI.
In quanto ai modelli letterari si valse di Nevio e di Ennio, risalendo tramite loro fino ad Omero. I primi sei libri dell’Eneide sono infatti modellati sull’Odissea, e gli altri sei (le vicende belliche per la conquista dell’Italia), sull’Iliade.
IL POEMA DI ENEA
Mentre Troia cadeva tra le fiamme, Enea con la famiglia e con uno stuolo di fuggiaschi salpava verso l'ignoto. Gli dèi gli vevano comandato di abbandonare la città morente, perchè egli era destinato a fondare un nuovo regno che sarebbe divenuto potentis simo. Enea, rispettoso degli dèi obbedisce. Ma non sa quale terra gli sia destinata. Gli dèi lo guidano oscuramente. Egli erra, e lungo sul mare per anni. Infine approda alle foci del Tevere; qui nel Lazio è la terra destinata; qui dalla sua stirpe discenderanno i romani che estenderanno sul mondo il loro dominio. Ma le sventure di Enea non sono finite. Egli deve ora sostenere una guer ra lunga e sanguinosa contro i popoli che abitano il Lazio. L'eroe troiano vincerà, con l'aiuto degli dei, e la sua gente si stabilirà nel Lazio, finalmente in pace.
- "Agnosco veteris vestigia flammae" (Eneide, IV, 23)
- (Conosco i segni dell'amore antico)- Virgilio mette in bocca a Didone, vedova di Sicheo, questa espressione che confe3ssa alla sorella il suo amore per Enea, afferma di provare per lui la stessa passione che aveva nutrito per il marito defunto.
-
"Age quod agis"- Fa bene) quello che stai facendo. E' un richiamo al presente, che solo è in nostro possesso e dal quale dipende l'avvenire.
Questa sentenza è stata quasi parafrasata nei notissimi versi: - " Il passato non è, ma se lo finge
La vana rimembranza;
Il futuro non è, ma se lo pinge
La credula speranza;
Il presente sol è, ma in un baleno
Fugge del nulla in seno:
Tal che la vita è appunto
Una memoria , una speranza, un punto". - ....Rossetti
Queste sono le vicende narrate nell' "Eneide" poema scritto in latino, Comprende dodici libri o canti. Il lungo errare di Enea è cantato nei primi sei. come nell' "Odissea" sono narrate le peregrinazioni di Uluisse. La guerra nel Lazio è narrata negli altri sei canti; e c'è fragore di battaglie, comre nell'"Ilade".
ENEA EROE SENZA PATRIA
La sua Troia è bruciata, ridotta in cenere e macerie. il destino lo getta su mari difficili e insidiosi, verso una meta incerta,, una nuova patria ignota; egli è destinato a portare gli dèi della scomparsa Troia sulle rive del Tirreno, ma la sua gente avrà una nuova patria e avrà una discendenza che culminerà in Roma. Ma Enea non godrà di questa gloria futura, il figlio Julo formerà un regno e di lì dopo secoli, usciranno Romolo e Remo, i discendenti gloriosi fondatori di Roma. Così Enea resta tra una patria perduta e scomparsa tra le fiamme, e una patria nuova, la marmorea Roma dei Cesari, ch'egli non vedrà mai; figura di esule assoluto, incerto, e fiducioso, triste ed eroico.
L'"Eneide" narra la storia di questo incerto vagare dell'uomo da un termine di sventura a un termine di gloria. Ed è la storia, per estensione, della soffrenza umana.
- Virgilio, il latino poeta dell' "Eneide" visse dal 70 al 19 avanti Cristo. quasi mille anni dopo il greco Omero.
Come Troia. anche la grande civiltà greca è crollata, sul mondo domina ora la potenza di Roma. E' il tempo di Augusto, l'impero romano si estende su tutto il Mediterraneo, ha assorbito la civiltà greca. Virgilio, celebrando questa leggendaria discendenza di Roma dal troiano Enea, vuole insieme celebrare Roma come discendente ed erede della Grecia.
Egli scrive l' "Eneide in un periodo di grande splendore per Roma. Davanti ai suoi occhi stanno templi superbi, fori dai colonna ti stupendi, palazzi marmorei. Ora c'è la pace e la potenza. Ma egli ha visto anche i tristissimi tempi delle feroci guerre civili appena finite. E guarda i templi. i fori, i palazzi marmorei. con orgoglio e tristezza.
Quanti dolori costa questa grande Roma!
Il suo Enea sarà un eroe tenace e triste.
- UDENTES FORTUNA IUVAT
Virgilio (Eneide, X, 284). - "La fortuna aiuta gli audaci" - Nelle citazioni spesso l'audentes, è sostituito con audaces.
- Altrove (Libro VI, 95)
- il Poeta raccomanda di non lasciarsi abbattere dai colpi avversi di fortuna, ma di andare sempre avanti con coraggio e con maggiore audacia:
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- "Tu ne cede malis, sed contra audentior ito,
Qua tua te fortuna sinet". - (Virgilio, Eneide. VI. 853).
- "Debellare superbos"
Abbattere i superbi. Verso che il Poeta mette in bocca ad Anchise, il quale spiega ad Enea la futura missione del popolo romano. - "AURI SACRA FAMES!" Vigilio, Eneide III, 57).
- Esecrabile brama dell'oro
Così il poema narra l'incessante alternarsi delle vicende nella dolorosa storia umana. Nel vasto spazio dei secoli, Virgilio vede la grandezza di Troia e poi la sua rovina, a cui succede la luminosa grandezza della Grecia, vinta a sua volta dalla potenza di Roma. La storia è un'alternarsi di splendore e di rovine in un ciclo senza fine. Ora davanti agli occhi di Virgilio sta Roma superba, ma certo come Troia, come la Grecia anche la grandezza di Roma tramonterà nella storia; ed anche per questo il canto di Virgilio è venato di tristezza.
L' "Eneide" è il poema di Roma antica e del popolo romano. In esso Virgilio intende celebrare la casa di Augusto, sotto l'impero del quale finalmente è tornata la pace, e così gli attriuisce un capostipite illustre e divino, Enea figlio di Anchise e della dèa Venere. Ma sopratutto il mite poeta esalta la pace, condanna la guerra. Nel suoo poema non ci sono eroi vittoriosi e sfolgoranti non c'è l'impeto della vitalità che pervade l'Iliade. Qui cadono tutti, come fiori recisi dall'aratro; vittime, più che eroi; per un amaro destino crolla Troia, muore Anchise, è rapito dalle onde Palinuro; per la deprecata guerra cadono Eurialo e Niso, cadono i giovinetti Pallante e Lauso, cade pietosamente Masenzio, muore Camilla, muore Turno. Restano il vecchio Evandro, che piange la morte del figlio Pallante, il vecchio re Latino barcollante tra le sventure, ed Enea eroe vittorioso, ma stanco di peregrinazioni e di guerre.
ALTER SUNTO
" E così: Giunone che è nemica di Enea, protetto invece da Venere, scatena una tempesta dalla quale Enea in navigazione dalla Sicilia al Tirreno, coi profughi troiani si salva con sette navi, approdando in terra libica. A Venere, Giove predice l’avvenire di Enea e dei suoi discendenti fino ad Augusto, Enea si incontra con la regina Didone e le offre doni per mezzo del figlio Ascanio Julo), al quale Venere ha sostituito Cupido; uno splendido banchetto con un canto cosmologico d’un aedo compie la materia del I°libro. Il secondo libro è il racconto retrospettivo di Enea ai convitati e a Didone, dell’inganno del cavallo, della presa e del l’incendio di Troia da parte dei Greci e la propria fuga. Il racconto prosegue nel terzo libro col lungo vagabondare in cerca di una nuova patria, (la terra promessa dagli oracoli è identificata da Enea con l’Ausonia) l’incontro con le Arpie, quello con Andromaca ed Eleno nell’Epiro, l’approdo in Sicilia, e la fuga sotto l’incalzante pericolo dei ciclopi, e la morte del padre Anchise. Il libro quarto narra l’amore di Didone per Enea, coronato dalle nozze e concluso con il suicidio della regin, quando l’eroe l’abbandona richiamato al suo dovere da Giove. L’imprecazione di Didone morente è la giustificazione dell’odio che dividerà sempre Roma da Cartagine. Il libro quinto è dedicato ai giochi celebrati in Sicilia, in onore di Anchise. Nel sesto libro l’approdo a Cuma, il seppellimento di Miseno, il rapimento d’un ramoscello d’oro necessario all’ingresso nel mondo dei morti, precedono la discesa agl’Inferi. Nel settimo libro è narrato l’arrivo di Enea nel Lazio, e la furia guerriera scatenata negli animi ad opera di Giove. Nell’ottavo, Enea risalendo il Tevere giunge a Pallanteo, la futura Roma, dov’è accolto ospitalmente dal re Evandro. Ivi è anche descritto lo scudo di Enea, fatto istoriare da Venere con i principali episodi della storia di Roma, fino alla vittoria navale di Ottaviano ad Azio. I libri seguenti sono frementi d’ira e di guerra, e contengono alcuni celebri episodi (Eurialo e Niso; la vergine Camilla). Il duello tra Enea e Turno nel libro dodicesimo, pone fine alle vicende guerresche e al poema; la vittoria di Enea è stabilita in cielo con l’alleanza di Giove e di Giunone che sancisce la definitiva morte di Troia e la nascita di Roma.
L’Eneide che volle essere il poema nazionale della romanità, ha tuttavia i suoi punti deboli proprio nelle parti celebrative e storiche, mentre tocca il suo vertice nello sviluppo di alcuni elementi leggendari e idillici e soprattutto nel canto degli affetti insidiati dalla morte e dal fato.
Neli’anno 19 a.C.Virgilio volle recarsi in Grecia ed in Asia per verificare alcuni punti particolari del poema. Durante il viaggio di ritorno compiuto con Augusto, reduce dall’Oriente, ammalatosi gravemente, morì a Brindisi il 14 settembre e fu sepolto a Napoli.
Augusto non rispettò le ultime volontà del poeta che aveva chiesto agli amici la distruzione dell’Eneide, e ordinò a Vario e a Plozio Tucca di pubblicarlo senza integrazioni o modifiche; il poema riscosse larghi consensi, apparendo l’opera più alta di tutta la latinità letteraria.
Note - La fortuna di Virgilio toccò la sua punta massima nel Medio Evo, quando egli fu considerato mago - maestro d’ogni sapienza e profeta del cristianesimo. Dante stesso si ispirò a lui per il suo poema immortale. All’età giovanile di Virgilio vanno riportati inoltre parecchi componimenti poetici, alcuni dei quali di attribuzione controversa. Compresi nella cosìdetta - Appendix Virgiliana -. Alcuni, come la Ciris (l’Airone), o il Culex, (la zanzara) sono poemetti alessandrineggianti, nel Catalepton (poesie spicciole), si riscontrano forti influìsi neoterici, e in particolare, catulliani.
- "Ab Jove principium" (Egloghe, III, v.60)
- Nel significato corrente vuol dire che bisogna incominciare da Dio;
"A comiciar le belle imprese
L'arte giova, il senno ha parte,
Ma vaneggia il senno e l'arte
Quando amico il Ciel non è". - "Deus nobis haec otia fecit". Virgilio (Egloghe , I, 6).
- Un dio ci ha donato questi ozi (questa felicità). E' un elogio della vita campestre, ritirata, tranquilla. Si legge anche sul portone d'ingresso di qualche villino signorile. Ma non a tutti la Provvidenza ha seminato di rose il cammino; ci sono invece molte anime agitate, le quali non trovano riposo ne pace che nell'urna sepolcrale.
- "Dì meliora piis " (Virgilio, Georgiche, III, 513)
- Che gli dèi concedano migliori (tempi, destini) agli uomini pii.Virgilio fa questa invocazione dopo la descrizione delle miserie prodotte dalla peste.Nell' uso corrente se ne fa un auspicio per le persone colpite da qualche lutto, e orivate daòòa sventura, per augurar loro tempi migliori.
VITELLIA
Antica città del Lazio che sembra fosse posta nel territorio degli Equi , o nell''immedito loro confine, di guisa ch'è difficile determinare se fosse propriamente città latina od equa. Ma la circostanza che non incontrasi il suo nome nella lista delle città della Lega latina da Dionisio, favorisce di molto la seconda supposizione, cioè ch'essa fosse più propriamente ricordata da Livio nel racconto della celebre campagna di Coriolano, quando narra che questi si impadronì contemporaneamente di Vitellia, Corbione (oggi Rocca Priore), Labico e Gedo (oggi Gallicano); ma nei racconti più particolareggiati della stessa campagna lasciatici da Dionisio, Livio e Plutarco, non vi è più cenno di Vitellia. Nel 393 a.C.,Livio la nomina ancora in occasione della sua caduta in potere degli Equi, che la soppressero con assalto notturno. Egli la chiama Coloia romana.essendo ch'era stata fondatas nel territorio degli Equi. Una tradizione conservataci da Svetonio ricorda che la tutela della Colonia romana fu affidata un dì alla sola famiglia dei Vitellii, ma si deve dubitare che questa sia una mera leggenda.genealiogica. Dopo l'invasione memoranda dei Galli, scompare ogni traccia di Vitellia, come di Talerio e di altre città finitime, e non appare più il nome che nella lista data da Plinio delle città del Lazio spente affatto ai tempi suoi.
VITELLIO
AULO
Imperatore romano nell'anno 69; Galba nel 68 lo nominò comandante delle legioni di Germania, le quali per i suoi ricchi doni lo proclamarono imperatore, mentre Galba finiva ucciso in una congiura capitanata da Silvio Ottone Tiziano, il quale fu pure acclamato imperatore, ma questi, vinto dalle genti di Vitellio, si uccise. Intanto le legioni dell'Egitto avevano eletto imperatore Vespasiano e marciarono contro Vitellio. Presero Roma ed uccisero Vitellio.
VITRUVIO
MARCO POLLIONE
Architetto la cui vita è poco nota, nè si è potuto averne qualche conoscenza che raccozzandone segni sparsi nei suoi scritti. Fra gli antichi autori, non parola di lui; solo Plinio lo cita fra gli scrittori di cui si è servito, e Frontino lo indica come reputato inventore del modulo quinario negli aequedotti. Ignorasi anche il luogo della sua nascita. Fu impiegato nelle fabbriche dell'impero, e scrisse il suo - Trattato - in Roma, ma non ha in alcun luogo d'essere romanao. Il Maffei si ingegnò di farlo veronese, taluni altri piacetino, ma senza bastevole fondamento; l'opinione più accetta bile lo fa nativo di Formio in Campania, oggi Mola di Gaeta. Visse sotto il regno d'Augusto, e precisamente nel principio d'esso. Strana e del tutto infondata, essendo l'opinione di taluno, che lo vorrebbe vissuto sotto Tito. Scrisse l'opera sua in età avanzata e la presentò all'imperatore poco tempo dopo ch'egli ebbe assunto il nome di Augusto, il che avvenne il 27 d.C. Aveva avuto un'eccellente educazione, e morì assai vecchio. Fu occupato nella costruzione di macchine belliche ed eresse pure la basilica di Fano; lagnasi però in più luoghi che la sua abilità non sia stata convenientemente apprezzata. Nondimeno vediamo ch'era stimato e considerato, avendo ottenuto dall'imperatore una pensione vitalizia, o per lo meno rinumerazioni che gli erano state assegnate da Giulio Cesare, e che per il patrocinio di Ottavia, sorella d'Augusto, gli furono anche sotto di questo continuate. Come scrittore è chiaro che le tante oscurità che gli si oppongono, dovettero provenire dalla natura del suo argomento che esigette gran numero di voci tecniche le quali non si trovano e non possono trovarsi in alcun altro autore e rimangono quindi senza spiegazione. In quanto allo stile vi si cerca invano ciò che costituisce lo spirito di una lingua elaborata dall'arte e dal gusto, e d'altronde non si potrebbe esigere l'eleganza del l'elocuzione in un genere meramente didattico e nel quale non ebbe scrittore che lo precedesse. Avendo militato a lungo sotto Cesare, vide con lui la Gallia, la Spagna ed anche la Grecia, ma l'attività estrema del suo Capitano e le sue occupazioni come ufficiale superiore degli ingegneri,non possono avergli lascitato agio di studiare i monumenti d'architettura. Il suo -Trattato - non può risarcirci della perdita delle numerose opere degli architetti greci e nondimeno è di somma utilità per gli artisti ed anche per chi, nello studio dell'antichità, è avvezzo a dedurre da certi fatti isolati più generali conseguenze. Spiacevolissimo è che si siano persi i disegni a corredo della sua opera. Enormi difficoltà ed oscurità si sasrebbero chiarite con la loro ispezione. Il primo esemplare di detta opera fu scoperto nella Biblioteca di Monte Cassino e la prima edizione è di Venezia (1497) in foglio, e la seconda pure da Vanezia (1511), con figure e commernti di Frà Giocondo dedicaa al papa Giulio II e ristampata a Firenze nel 1513 e nel 1522, Numerosissime edizioni furono fatte in seguito con chiose, commenti ed illustrazioni. La traduzionwe francese di Claudio Perrault dedicata a Luigi XIV è molto stimata. Uno dei pià bei monumenti tipografici della Spagna per la traduzione inglese di Guglielmo Wilkins fu stampata con lusso a Londra nel 1818. La migliore tedesca è quella della Schneider (Lipsia 1808. In italiano ne abbiamo numerosi volgarizzamenti: il più antico è di Gottardo Da Ponte (Como 1521) con figura. Quella che secondo il Poleni, - « prima vere italica havenda est » - è di Daniele Barbaro (Venezia, 1556 in foglio con figure. Salì in fama quella del Galiani (Napoli 1758)- Eccellenti poi sono quelle di Carlo Amati a Milano, del cav. Marini a Roma, e di Quirico Viviani in Udine.
VITTORIA
Vittoria (latino: Victoria), nella mitologia romana è la dea personificante la vittoria in battaglia ed era associata a Bellona.
Identificata con la greca Nike, era raffigurata come una giovane donna alata. A Roma aveva un tempio sul Palatino. Il culto di Victoria crebbe verso la fine della Repubblica, e la Victoria Augusti fu sotto l'impero la costante divinità titolare degli imperatori.
Silla, dopo la vittoria nella Battaglia di Porta Collina, istituì giochi speciali in onore della dea, ed identica cosa fece successivamente Giulio Cesare.
Divinità pagana, figlia di Pallade Athena e dello Stige; secondo la tradizione greca era adorata nell'Acropoli di Atene, ed ebbe poi templi a Roma
sul Palatino ed in Campidoglio. Fu spesso rappresentata con Giove e Minerva, ed ebbe per attributi una palma, una corona d'alloro e le ali.
Note - A Pirro. re degli epiroti, dopo aver vinto i romani in Puglia, subendo però pesantissime perdite, esclamò: - " un'altra vittoria come questa e Pirro rimane senza esercito" - e poco dopo ritornò al suo regno abbandonando i Tarantini, suoi alleati. Presso i Romani la vittoria veniva effigiata sotto l'emblema di una dèa alata, coronata d'alloro, tenente in una mano una palma e nell'altra un ramo d'ulivo.
VOLCENTE
Volcente (chiamato anche Volscente) è un personaggio presente in un episodio del nono libro dell'Eneide, poema del latino Virgilio.
Volcente è uno dei condottieri dei Rutuli, antica popolazione italica, e luogotenente di Turno. Egli partecipa alla guerra contro i Troiani di Enea insieme al giovane figlio Camerte, signore di Amyclae. Da ciò si evince che è uno dei non molti guerrieri virgiliani in età matura.
La comparsa di Volcente avviene nel libro nono dell'Eneide, in cui è alla guida di un drappello di trecento uomini mentre sorveglia l'accampamento rutulo.
Volcente si accorge della presenza nel campo di Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani che vi hanno seminato strage, a causa del vistoso pennacchio e del bagliore dell'elmo trafugato e indossato dal giovane Eurialo.
Inizia così ad inseguirli attraverso i boschi, finché arriva ad uccidere Eurialo trafiggendolo con la spada.
Dopo la morte dell'amico, Niso si scaglia con tutte le sue forze su Volcente, conficcando la spada nella sua bocca spalancata e uccidendolo.
Niso cadrà comunque in combattimento, oppresso dalle armi degli uomini di Volcente.
A Volcente è stato dedicato uno dei crateri di Dione.
(da wikipedia)
VOLO
Antica città della Grecia nella Tessaglia (nomarchia di Larissa). Sorge ai piedi dei contrafforti occidentali del Prlion in fondo alla baria settentrionale del golfo di Volo.
VOLONI
Schiavi, fatti soldati dai Romani, per estrema necessità e dichiarati liberi, prima di essere iscritti nelle legioni. Vennero così chiamati perche offertisi volontariamente a militare per la Repubblica. Due volte ricorsero i Romani a tale espediente; la prima volta, dopo la sconfitta di Canne e la seconda ai tempi di Marco Aurelio.
VOLSCI
Antico popolo dell'Italia centrale, il cui territorio era compreso entro i confini del Lazio; ma è certo che furono in origine distinti affatto dai Latini con i quali erano molto spesso in istato di ostilità. Compaiono invece in istato di alleanza costante con gli Equi. Dagli scarsi avanzi del loro linguaggio si può inferire che fossero ramo della stessa famiglia degli Umbri e degli Oschi formanti la popolazione primitiva dei luoghi montuosi dell'Italia Centrale. Da remotissima età erano stabiliti su tutto il gruppo dei monti oggi detti Lepini, nella valle dei Liri e nell'alpestre regione di Arpino, Sora ed Atina. Furono padroni anche delle pianure che si estendono dagli Apennini Volcisci al mare, incluse le Paludi Pontine e la fertile zona che le circonda, strappata agli Aborigeni che n'erano stati per l'innanzi in possesso. Vengono ricordati per la prima volta nella storia romana sotto Tarquinio il Superbo, il quale, inorgoglito della supremazia che aveva ottenuto sulla Lega Latina, mosse contro i Volsci, e prese d'assalto Suessa Pomezia, loro capitale, traendone ricco bottino; prova non dubbia dell' opulenza e possanza di questo popolo. Caduto Tarquinio, cessata la romana supremazia i Volsci opposero per due secoli la loro più ostinata resistenza ai Romani. Subito dopo la conclusione della pace con gli Anziati, si ode parlare per la prima volta di Priverno impegnato in ostilità coi Romani nel 358 a.C.,ed è notevole che appaia innnanzi isolato, indizio certo ch'erasi sciolta la Lega delle città Volsciche. Gli Anziati ricompaiono ancora più volte a guerreggiare e quando si fece generale la disfatta deei Latini e dei Campani nel 340, furono essi tra i primi ad unirsi ai nemici di Roma e saccheggiarono tutto il litorale del Lazio, fino quasi alle mura di Ostia. Ma parteciparono della scomfitta dell'esercito latino, tanto a Pedo, quanto ad Astura. Anzio dovette allora accogliere tra le sue mura una colonia di Romani ma nello stesso tempo anche i suoi primi abitanti furono ammessi al godimento delle romane franchigie che furono accordate pure a quelli di Fondi e Formia, entrambe probabilmente città volsciche. I soli Privernati osarono provocare ancora una volta le truppe romane (327), ma furono severamnte puniti e la loro città presa dal console Plausia. Ciò non ostante i suoi abitanti ottennero la cittadinanza romana, dapprima senza diritto di voto, ma successivamente con piena franchigia, e furono iscritti nella tribù Fentina, mentre i Volsci appartenevano per la maggior parte alla tribù Pontina. Non si ha riscontri del destino toccato alle città poste sul Trero e sul Liri; ma si può supporre che mentre gli Anziati e i loro vicini erano impigliati nella lotta con Roma, i Volsci dell'interno fossero alle prese con i Sanniti, e non sempre con vantaggio. Si sà, infatti, che Arpino e Fregelle erano state strappate dai Sanniti ai Volsci prima dell'intervento dei Romani ed è probabile che altre città dei Volsci abbiano invocato la protezione di Roma, per porsi al sicuro dal comune nemico. In ogni modo sembra certo che, prima della fine della seconda guerra Sannitica, (304) tutto il popolo Volscico siasi sottoposto all'autorità romana, e sia stato ammesso a godere dei privilegi dei cittadini romani. Dopo quest'epoca scompare quasi del tutto dalla storia il nome Volsci essendone stato compreso il territorio nella denominazione generica del Lazio.
VOLSINII
Antica città etrusca presso cui sorse una città romana, dopo che Roma la prese nel 280. La prima sorgeva sopra un monte, la seconda presso il lago Volsinii. In questa nacque Seiano; oggi è detta Bolsena.
VOLUMNIA
GENTE
Patrizia e plebea. Era di grande antichità, poichè la moglie di Coriolano apparteneva ad essa, ed uno dei suoi membri fu console nel 461 a.C. Però non ebbe mai molta importanza.
VOLUSIANO
Figlio dell'imperatore Triboniano Gallo era intitolato - Cesare e Principe della Gioventu' - Nel 252 fu Console. Morì insieme al padre ad Interamna nel 253.
VOLUSIO
Lucio Meciano
Meciano, Lucio Volusio (lat. L. Volusius Maecianus). - Giurista romano, nato da famiglia di rango equestre forse poco prima del 110 d. C. Fu nel « consilium » di Antonino Pio; maestro di Marco Aurelio, per il quale scrisse un trattatello sull'« assis distributio »; prefetto d'Egitto almeno negli anni 160 e 161, appartenne poi al consilium di Marco Aurelio e Lucio Vero: da non confondersi col Meciano che fu ucciso nel 175 per aver preso parte alla rivolta di Avidio Cassio. Fu autore di « Quaestiones de Fideicommissis » in 16 libri e di un'opera « De iudiciis publicis » in 14 libri.
(da treccani.it)
Nel Digesto si trovano quarantaquattro estratti di Muciano, il quale è pure citato da Papiniano , Ulpiano e Giulio Paolo .
VONONE
- Vonone I
- Vonone II
Re dei Parti, Uno dei figli di Fraate IV, inviato a Roma come ostaggio, divenne Romano d'usi e costumi. Germanico lo fece trasferire a Pompeianopoli in Cilicia. Volle figgire, preso, venne ucciso (19 d.C.).
re dei Parti, regnò alcuni mesi dopo Gotarze, nel 50.
VOPISCO
Flavio
Nacque in Siracusa; probabilmente l'ultimo dei sei - Sriptores Historiae Augustae - e quantunque si trovi in lui mancanza di giudizio nello scegliere e combinare i suoi materiali, non pertanto la sua narrazione acquista autorità dall'inserzione delle lettere originali d'Adriano, Valeriano, Claudio, Aureliano, Zenobia, Tacito, Proba, Caro, nonchè di atti del Senato e di orazioni recitate in occasioni solenni.
VULCANO
(EFESTO)
Ci sono più versioni sulla figura di Vulcano. Qui esposte alcune.
- Vulcano era il dio del fuoco,
- Figlio di Giove e di Giunone;
- Dio del fuoco
il fabbro di Giove ma molto brutto e per di più zoppo. La madre sua era Giunone, che, indispettita per la bruttezza del figlio, non lo voleva vedere, e lo condannava all’esilio. Così egli abitava nell’isola di Lemno, ove aveva la sua fucina, nel cratere di un vulcano, Colà forgiava i fulmini terribili di Giove. Egli sapeva anche fabbricare gioielli di straordinario pregio incastrando le gemme con arte squisita.Un giorno pensò di fabbricare alla madre Giunone un trono tutto d’oro, meravigliosamente cesellato, scintillante di pietre preziose, e Giunone fu subito soddisfatta, e immediatamente vi si accomodò con aria maestosa. Ma, appena seduta si sentì incatenata da un congegnio segreto. Invano gli dèi cercarono di liberarla; nessuno vi riuscì. Allora Giove, mandò Mercurio a cercare Vulcano. Dapprima il divino fabbro rimase sordo ad ogni preghiera, poi, consentì a liberare Giunone a patto di essere ammesso a,vivere nell’Olimpo e di divenire lo sposo della bellissima dèa Venere, poi ch’egli solo conosceva il misterioso congegno che teneva prigioniera Giunone, bisognò accontentarlo. Costruì per la sua bellissima sposa uno splendido palazzo tutto di bronzo, scintillante di stelle. e a fianco trasportò la sua fucina Venti crogiuoli posavano su venti forni e in essi ribollivano stagno e bronzo, oro e argento, mentre venti mantici soffiavano di continuo impetuosamente. La fiamma splendeva e le schintille scoppiettavano, e l’aria all’intorno avvampava di ardore affocato. Vulcano e i suoi aiutanti battevano sull’incudini i pesanti martelli, manovravano i magli e le tenaglie, e fabbricavano ogni giorno nuovi doni per gli dèi. Giove ebbe uno scettro, e un trono incomparabili, Cerere un falcetto d’oro lucente, Apollo e Artemide frecce d’oro. Sulla mensa degli Immortali, le posate, i piatti e le coppe cesellate da Vulcano scintillavano, e la sera il dio del fuoco, dopo aver asciugato il volto gocciolante di sudore, e dopo aver ripulito dalla fuliggine le mani, il collo, e le spalle, indossava una tunica dorata e appoggiandosi sopra un solido scettro, prendeva postro al convito celeste.
dio del fuoco terrestre, artefice abilissimo, protettore dei fabbri. Fu scaraventato da una pedata del padre nell’isola di Lemno, e per la caduta azzoppì. Per la sua abilità nel lavorare i metalli, fu richiamato nell’Olimpo. Fornì i fulmini a Giove e sposò Venere. A Roma il suo culto a cui era addetto il flàmine vulcanale, (vedi Marte) era associato a quello di Maia. Altro mito lo raffigura quale antica divinità romana, identificata e confusa con il dio greco Efesto, e quindi in qualche modo connessa con il fuoco. A parte ciò, niente sappiamo della sua figura e sulle sue funzioni originarie. Il suo culto ebbe rilievo a Ostia; in Roma si intitolava a lui una festa del calendario arcaico, il "Vulcanalia" del 23 agosto. In questo dì, si offrivano a Vulcano pesci, gettati nel fuoco in cambio di vite umane, e forse, in questo sacrificio va scorto un simbolismo fondato sull’antitesi tra acqua (pesci, che vivono nel l’elemento acquatico), e fuoco (lo stesso dio Vulcano). Altra versione lo vuole sposo della Grazia Charis, (alludendo forse alla sua raffinatissima arte nella lavorazione dei metalli).
massime in quanto si manifesta come una delle potenze elementari della natura in distretti vulcanici, e in quanto mezzo indispensabile per lavorare metalli. Secondo Omero, egli era figlio di Giove e di Giunone, ed era fin dal suo nascere, così debole e brutto, che sua madre, volendosene disfare, lo lasciò cadere dall'Olimpo. Ma lo raccolsero due divinità marine; Teti ed Eurinome, presso le quali egli stette nove anni, fabbricando loro begli ornamenti. Tornato in cielo, per aver egli sostenuto, in una contesa fra Giunone e Giove le parti della madre, Giove lo afferrò per un piede, e lo scaraventò gìù dall'Olimpo. Rotolò per un giorno intiero e cadde finalmente nell'isola di Lemno, dove fu benignamente accolto dai Linzi. Fece in seguito ritorno all' Olimpo, dove abitava in un palazzo fabbricato tutto da lui medesimo. Quivi aveva la sua fucina con l'incudine e venti mantici che soffiavano a suo piacimento, e quivi faceva dei squisitissimi lavori per gli dèi e per i mortali privilegiati. Nell' Iliade, sua moglie è detta Carite (Grazia), ma nell'Odissea è detta Afrodite (Venere), la quale però non gli serbava fedeltà coniugale- Ella faceva l'amore con Ariete, (Marte) e Vulcano informatone da Elio (il Sole) tese una rete entro la quale pigliò gli amanti, e chiamò tutti gli dèi a mirare tale spettacolo. Ma a preghiera di Poseidone (Nettuno), mise gli adulteri in libertà. Nella guerra trojana Vulcano aiutava i Greci, quantunque avesse un tempio e sacerdoti anche a Troja e quantunque Venere, sua moglie, stesse per i Trojani. Altre tradizioni mentovate da scrittori meno antichi, dicono ch'egli non avesse padre e nascesse da Giunone, sench'ella avesse avuto a fare con dio o mortale veruno, a quella guisa che da Giove naque Minerva. Pare che il culto di Vulcano appartenesse alle più antiche istituzioni del mondo Orientale, e proveniva senza dubbio dal culto del fuoco, tanto comune nelle nazioni incivilite, e massime nell'Oriente. Nella Samotracia dove continuarono ad esistere avanzi dell'antica religione pelasgica, molto tempo dopo l'introduzione della religione ellenica in Grecia, Vulcano era il primo tra i Cabiri. La sua più celebre statua era quella di Alcamene in Atene, la quale rappresentva il dio ritto in piedi ed indicante alquanto la sua zoppaggine. I suoi attributi erano gli strumenti che si adoperavano nel lavorar metalli, come il martello o simili, il berretto ovale samotracio e la tonaca, che lascia scoperti la spalla ed il braccio destro.
NOTE