La religione degli antichi Greci era fantastica e affascinante come una fiaba. Tutto essi personificavano: il sole, il cielo, le stelle, la luna, i mari, i venti, i fulmini, i monti, i boschi, gli alberi, i fiumi, i fiori, i vulcani, gli animali; tutto per loro aveva un origine fantastica e strana, o esisteva per virtù di qualche uomo di straordinaria potenza.
Uomini sopranaturali senza dubbio, ma in fin di conti, fatti di carne e d’ossa come noi, con le nostre stesse passioni, con i nostri medesimi sentimenti e bisogni, ingigantiti e portati alla massima espressione delle loro possibilità.
Giove stesso, l’Iddio supremo, era quasi un uomo, e avea la sua dimora su di un monte di questo mondo, l’Olimpo, che tutti i Greci potevano vedere, in una splendida reggia, immaginaria sì, ma che la fervida fantasia di quel popolo, indubbiamente collocava e vedeva, più in su delle nubi.
Anche gli altri dèi, erano pressoché degli uomini come noi; buoni, cattivi, generosi, puntigliosi, arroganti, magnanimi, at taccabrighe, da noi diversi, perché provvisti di poteri soprana turali e perché si nutrivano di celeste Ambrosia e di un néttare, che doveva mantenerli eternamente giovani e immortali. Con tutto ciò, ora…non son più in vita!
Perché l’Etna fuma e romba a volte, tanto forte da far tremare la terra? Chi conduce a zonzo pel cielo il carro del sole? Perchè stormiscono agitandosi, le lunghe foglie delle canne? Perché tremano sempre le fronde del pioppo? Chi parla, quando risponde la voce dell’eco? Chi fa precipitare i navigli tra Scilla e Cariddi? Chi frena i venti? Chi i nembi accumula e fa scoppiare i tuoni? Chi suscita e placa le onde del mare? Com’è sorta la terra? E chi v’ha innalzato le montagne? Chi vi sparse le isole e gli arcipelaghi? Chi sorregge tutte le cose create?
A tutte queste domande, a tutti questi problemi, rispondevano immaginosamente i Greci. A tutte le forze della natura, a tutti i fenomeni, a tutte le cose, avevano dato una spiegazione, una finalità, una causa, non ricercandole certo scientificamente, poi ché allora la scienza, come la intendiamo oggi, non esisteva, e neppure per mezzo del raziocinio, ma fantasticamente tutto attribuendo a qualche Essere portentoso, del quale descrivevano minutamente i caratteri, le fattezze e la storia; sì che i vari Giove, Ercole, gli Dèi, le Ninfe, i Mostri, gli Eroi, le Muse, erano personaggi reali, veri, esistenti o esistiti.
(ritorna a Saturnali)
La Mitologia, era la loro religione!
Vediamo di conoscerli questi Eroi, per cercar di comprendere, partecipando con spirito di curiosa creatività alle loro fantastiche imprese.
MITI E LEGGENDE
Una capatina sull’Olimpo.
Beata vita quella che conducevano sull’Olimpo i celesti!
Il mattino, la bella Aurora, apriva con le sue rosee dita le porte della reggia, si radunavano gli dèi o si disperdevano per accudire ciascuno alle proprie incombenze. Nei solenni conviti mangiavano lietamente, bevevano l’ambrosia che Ebe, la vergine dèa della Giovinezza, loro dispensava nei nappi lucenti, da anfore d’oro. Poi le tre Grazie, la splendente Aglaia, la gioiosa Eufrosine. e la florida Talia intrecciavano balli, intonavan il canto o davan saggi dell’arte loro.
Le Nove Muse;
- Tersicore,
- Euterpe
- Calliope
- Erato
- Talia
- Polinnia
- Melpòmene
- Clio
- Urania
dèa della danza
della poesia lirica e della musica,
della poesia epica e dell’eloquenza
della poesia idilliaca
della commedia
della retorica, della mimica, protettrice della danza e del canto
della tragedia
della storia
dell’astronomia e della geometria.
Talvolta anche Apollo, accordandosi sulla sua lira, le accompagnava.
Per non avere tristi visioni, tenevano relegate in un palazzo di bronzo, in disparte, le tre Parche; Cloto, che traeva dalla cannocchia i diversi fili della vita degli uomini, Làchesi , che li avvolgeva e Atropo, che li troncava.
A sera le vergini Ore richiudevano le porte; gli dèi tranquillamente se ne andavano a letto e il giorno dopo si ricominciava d’accapo.
(ritorna a FENICE)
Ma la vita sull’ Olimpo non era sempre olimpica.
Con tutto questo, gli alterchi, le baruffe, le risse, i litigi fra gli dèi, erano frequenti. Si azzuffavano, specialmente per futili motivi, Marte e Vulcano; di Venere erano invidiosissime Giunone e Minerva; Giunone poi, sospettava di tutto e di tutti e faceva dispetti a Mercurio….
Lo sapete il racconto del «Pomo della discordia? »
Un giorno, mentre gli dèi stavano a pranzo, una mela d’oro cadde sulla tavola. L’aveva gettata la Discordia, una brutta megera introdottasi in quel sereno luogo di soppiatto.
Sul pomo v’era scritto : “alla più bella!”
- E’ mia,! – Saltò a dire prontamente Giunone.
- Mia! – Rispose Minerva.
- La più bella sono io! Affermò Venere.
- Basta! Tonò Giove.
E perché non s’accappigliassero decise che della contesa dovea essere arbitro un uomo di questo mondo, un pastore che sul monte Ida governava le sue pecore e che era un ignoto figlio del re Priamo di Troia; Paride, quello stesso che poi doveva rapire la bella Elena, moglie al re di Sparta Menelao, provocando così la guerra più terribile dei tempi antichi.
- Scesero dunque travestite sul monte Ida e Mercurio sconosciuto, consegnò a Paride la mela d’oro.
- A te, disse! Perché la offra alla più bella.
- Il pastore la donò a Venere e Giunone e Minerva ritornarono all’Olimpo deluse e gonfie di collera.
Come se le loro questioni non bastassero a tenere vive le loro contese, gli dèi si prendevano spesso la briga di introfulasui nelle faccende degli uomini, interessandosi delle loro beghe, partecipando ai loro affari, immischiandosi nelle loro guerre e nelle loro battaglie, dando botte, e qualche volta anche riceven dole!
Marte, una volta, fu fatto prigioniero dai giganti, che lo incatenarono e lo rinchiusero per più di un mese in un carcere di ferro. Giunone poi s’ebbe da Ercole un colpo al petto.
Plutone una volta fu raggiunto da una freccia di Ercole sulla soglia del suo inferno e Venere si buscò una ferita alla mano dall’eroe greco Diomede,
il quale ferì anche il dio Marte al ventre.
Mugolò,il ferito nume, –racconta Omero– e ruppe in un tuono pari al grido di nove o diecimila combattenti quando appiccan la zuffa, sì forte fu il suo ruggito.
(Ritorna a Proserpina)
E Giove allora usciva dai gangheri e ammoniva e minacciava la sua prole inquieta, con quei discorsi tremendi che Omero riporta nei suoi libri immortali
- M’udite tutti!
Li radunava a consiglio il procelloso nume, e nessuno di voi, ne dio ne dèa, s’ardisca d’infrangere il mio decreto!
- Qualunque degli dèi furtivamente vedrò partir dal cielo, lo farò tornare offeso di turpe piaga all’Olimpo e afferrandolo di mia mano, io stesso lo getterò nel Tartaro remoto e tenebroso.
I tremebondi numi, prosegue Omero, chinarono il ciglio e ammutolivano, tutti percossi dal minaccioso ragionar del padre; poi,…. facevano peggio!
Quando, per esempio, quaggiù vi fosse un preclaro eroe o un’in clita donna, famosi per virtù e bellezza, calavano in terra tra vestiti o, come si direbbe oggi, in incognito, e li sposavano.
E il mal esempio in questo, lo dava lo stesso Giove!
Già egli, s’era convertito in cuculo per conquistar Giunone, si trasformò in cigno per guadagnarsi la figlia del re d’Etolia, chiamata Leda; in aquila, per rapir Ganimede, un giovinetto che diventò suo coppiere; in pioggia d’oro, passando per le sconnessure del tetto tra l’infuriar d’un temporale e arrivare fino a Danae, una principessa che il padre Acrisio teneva vigilata in una bronzea rocca.
C’era, in quei lontani tempi, un’altra fanciulla: Europa, figlia d’un re fenicio di nome Agènore. Era così bella che si diceva che’lla per la sua carnagione usasse un unguento rubato a Giunone e Giove la voleva per il suo Olimpo, così che assunse le sembianze di un bue, e un giorno che la fanciulla se ne stava con le sue amiche sulla riva del mare, cogliendo fiori e can tando, ben bello si avvicinò. Seppe far così bene che Europa, fiduciosa le si sedette in groppa. Spiccò allora in volo il divino animale, e la trasportò lungi dalla sua patria, a Creta!
In quell’isola Giove si rivelò e l’albero sotto cui si posarono, un platano, ebbe per sempre le fronde verdi.
Figuratevi Giunone, ch’era così gelosa di suo marito.
Una volta ch’egli s’era innamorato delIa, figlia di Inaco, ebbe il coraggio di trasformargliela in vacca, affidandola alla stretta sorveglianza di Argo, un tale che aveva ben cento occhi, dei quali non più di cinquanta si chiudevano contemporanea mente. Ma, Mercurio incaricato da Giove, con il suo flauto riusci ad incantarlo addormentandolo, i cento occhi si chiusero tutti e Argo ci rimise la testa. Mercurio sta per impadronirsi della vacca, ma Giunone la fa pungere da un tàfano, si ch‘essa corre, corre, corre passando a nuoto il Bosforo, galoppando come impazzita attraverso l’Asia Minore, fino alle rive del Nilo, dove finalmente Giove può liberarla del terribile insetto. e farla ritornare donna.
A Giunone non resta altro conforto che onorare la memoria del fedelissimo Argo. abbellendo la coda smagliante del pavone, uccello da lei preferito, coi suoi cento occhi.
Le collere di Giove erano tremende.
Un giorno che sua moglie tentò di tramare una congiura contro di lui, egli, avvertito da Briareo, il gigante da cinquanta teste e dalle cento mani, la prese e l’appiccò fra cielo e terra,con una catena d’oro e con due pesanti incudini, legate ai piedi.
Vulcano ardì difenderla e Giove agguantò anche lui per un piede e lo sbalzò giù dalle nuvole.
. Un giorno intero, racconta egli stesso nell’Iliade, rovinai per l’immenso e rifinito, caddi in Lemno la sera, al calar del sole.
Il disgraziato che già da prima zoppicava, immaginatevi come rimase dopo quel salto. Giunone, non potendone più, decise di abbandonare l’Olimpo, e si ritirò nell’isola di Eubea.
Come fare perché gli ritornasse? In fondo le voleva bene!
Va da Citerone, re della Beozia, persona astutissima, e lo supplica di aiutarlo.
- Sarà fatto, promise Citerone!
Ed ecco sbozza un pezzo di legno, lo veste stupendamente e meravigliosamente lo adorna, quindi lo porta in giro velato su un superbo carro tirato maestosamente da una pariglia di buoi bianchi.
Che è, che non è s’affolla curiosa la gente.
- E’ la novella sposa di Giove! Risponde Citerone!
A questa notizia, Giunone inviperita esce dalla folla, s’avventa sul carro, caccia le unghie in quel pezzo di legno e… s’accorge ch’è….un pezzo di legno!
Allora ella rise…;rise anche Giove; e conobbero quanto essi erano cari l’uno, al cuore dell’altro …e si rappacificarono.
(ritorna a FETONTE)
MITO
Racconto tradizionale di un dato popolo, al quale vengono attribuite particolari valenze d’ordine sacro. Il termine, che la letteratura filosofica greca usava per indicare i racconti favolosi, sottintende tuttora la favolosità e l’inattendibilità obiettiva dei miti, ma non si deve dimenticare che un mito, è vero, se oggetti vamente per tale è raccontato presso quel popolo, dove ha una sua funzione sacrale.
Ogni popolo, anche il più primitivo, distingue a suo modo tra racconti falsi e miti veri, a prescindere dalla verosimiglianza, fondandosi esclusivamente sulla realtà religiosa che investo no. Per una effettiva comprensione dei miti dei diversi popoli, non si deve vedere in essi la trasformazione fantastica di fatti storici portati sul piano della leggenda (evemerismo), l’espressione in forma allegorica di verità religiose o naturali (allegorismo), né gli ingenti tentativi di spiegare i fatti della natura e della vita umana (teorie intellettualistiche e razionalistiche), né infine le folgorazioni poetiche ispirate da una mistica partecipazione alle vicende naturali (teorie irrazionalistiche). Il mito è in origine una tradizione orale, non può essere narrato da chiunque, in qualsiasi momento.
Vi sono narratori specializzati che presso alcuni popoli passano addirittura per proprietari dei miti che raccontano; in genere tale funzione è riservata a coloro che hanno già altre responsabilità d’ordine sacrale. Così sono pure sacre le occasioni in cui vengono narrati (in un rito, durante una festa), o è la narrazione stessa che costituisce un mito di per sé quando è volta ad ottenere determinati scopi.
I protagonisti dei miti possono essere anche figure divine, ma in genere sono esseri predeistici con tratti caotici,come lo è il tempo del mito.
Urano e Gea
In principio,credevano gli antichi,non v’era che il Caos, dal quale nacquero, Urano e Gea (il cielo e la terra), che si sposaro no dando origine a esseri mostruosi e terribili, i Titani, Esseri grandi quanto le montagne e i Ciclopi, Esseri non meno formi dabili e spaventosi,che avevano un solo occhio in mezzo alla fronte. Questi ultimi furono acciuffati da Urano e scaraventati all’Inferno. Gea, allora, suscitò contro il terribile suo compagno i Titani; costoro, guidati dal più giovane e più forte Crono (Saturno), assalirono il padre, lo vinsero, lo mutilarono e dal suo sangue sorse un’altra gènia di mostri: i Giganti (Continenti).
Saturno e Giove
Come s’è visto Saturno detronizzò Urano, sposò Rèa (nella mitologia cretese, divinità femminile, simbolo della Terra Madre) analoga a Cibele e poi identificata con questa, e imperò solo nell’ Universo.
Ma essendogli stato predetto, che a sua volta sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli, a mano a mano che questi nascevano, li divorava.
Questi suoi pasti durarono finchè venne al mondo Zeus (Giove).
Quando nacque, la madre decise di salvarlo ad ogni costo; avvolse una pietra nelle fasce e la diede a divorare a Saturno. Poi scappò col bambino e lo trafugò in una grotta dell’isola di Creta, raccomandando le Ninfe che l’abitavano, di custodirglielo, alla capra Amaltea di lattarlo, e alle colombe di nutrirlo con l’ambrosia.
Chiamò un’aquila e le affidò l’incarico di dissettarlo col nettare degli Immortali, e incaricò la Ninfa Adrastea di trastullarlo con una palla d’oro.
Cibele previde anche il caso che il bimbo avesse qualche volta levato al cielo i suoi strilli, e pregò i Coribanti (sacerdoti dell’isola,a lei devoti), di coprire la sua voce con suoni e canti, perché Saturno non l’udisse.
E voi, udite, disse infine alle piante che si abbarbicavano sulla bocca dell’antro allungate i vostri rami e tenetelo ben celato. Tornò quindi da Saturno, che se ne stava tranquillo e ignaro a digerire la sua pietra. Il piccolo Giove crebbe sano, bello, robusto e gagliardo.
Divenuto grande, accadde quello che i fati avevano predetto. Assalta suo padre, lo sbalza dal trono, lo costringe a rigettare i figli che aveva mangiato: Plutone, Nettuno, Giunone, Cerere e Vesta, lo scaccia dal cielo,divenendo così, Signore del Mondo!
Ma ciò evidentemente non dovette garbare ai Titani, i quali,non contenti di tale cambiamento di cose, mossero guerra a Giove, guerra nella quale le montagne diventano proiettili. Questi scatenò contro di loro i Ciclopi e i Giganti. La lotta fu tremenda, volavano i massi, i macigni, le rupi e gli scogli. I Titani avevano accatastato monti su monti, per dare la scalata all’Olimpo.
Altri monti ancora, scagliati per l’aria e paurosa mente roteando per lo spazio, ricadevano con immenso fragore nel mare, sollevandovi colonne d’acqua spumeggiante, s’infiggevano nel fondo e con le cime emerse, rimasero a formare le isole e gli arcipelaghi.
La battaglia durava indecisa, quando, intervenne coi fulmini lo stesso Giove, s’oscurò tutta l’aria, le nubi balenarono, rombarono i tuoni, e le folgori micidiali scrosciarono.
(Ritorna a PROSERPINA)
La famiglia degli dei cresce a vista d’occhio.
Giove stabilì la sua dimora sull’Olimpo, in una splendida reggia di marmo e d’oro, e lassù, fra praterie sempre verd i,fra giardini odorosi e boschi incantati, tra fiori e ruscelli, viveva con gli altri dèi. Aveva sposato Giunone, e da lei ebbe Marte, Vulcano ed Ebe. Ma da altre mogli ebbe Mercurio, Apollo e Diana, le nove Muse e le Grazie : Aglaia–Talia-Eufrosine (Beltà-Ingegno-Virtù; allegrezza-splendore-floridezza);ebbe inoltre Bacco, Proserpina, Castore, Polluce,e altri figlioli.
Un giorno, sente che la sua testa gli pesa e gli impedisce di accudire efficacemente alle faccende celesti.
Chiama Vulcano, il dio del fuoco e dei metalli;
- Vulcano! Gli dice: vibra con un colpo maestro qui!
- Dove? Domanda esterrefatto suo figlio.
- Qui! Comanda Giove, accennando col dito in mezzo alla testa.
–Obbedisci!
E Vulcano,atterrito, impugna un’accetta, vibra un gran colpo, spacca la testa a Giove e ne balza fuori una donna armata di tutto punto, con elmo, scudo, corazza e lancia: era la Minerva!
Un’altra volta, le acque del mare di Cipro, divenute più lucenti del solito sussultarono, e sulla bianca schiuma apparve una gran conchiglia galleggiante che si schiuse, recando sulla madreperla iridata una meravigliosa fanciulla addormentata, Accorsero gli alati zeffiri, e con dolce soffio la sospinsero alla riva,e le ninfe della terra e del mare, cinsero la fanciulla dei più bei veli, l’adornarono di gioie, di perle, di coralli.
L’accarezzava il sole, tra il tripudo dell’erbe, dei fiori e delle piante.
Il padre Giove guarda ammirato dall’alto dell’Olimpo,e le mandò un cocchio d’argento e d’alabastro tirato da uno stormo di colombe candide. In tal modo Venere, la dèa nata dalla candida spuma del mare, è assunta nel regno dei celesti: l’Olimpo.
La corte di Giove può dirsi al completo, o quasi..
(Ritorna a PROSERPINA)
NOTE